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La difesa della vera LIBERTA' DELL'UOMO contro le tesi dei manichei e pelagiani

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2011 09:57
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04/06/2011 09:29
 
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PARTE PRIMA
AGOSTINO FILOSOFO E TEOLOGO DELLA LIBERTA'


Non dispiaccia questo titolo. E' così. Lo vedremo subito. Agostino difese la libertà contro i manichei, contro i fatalisti, nonostante la prescienza divina (contro Cicerone che la negava per salvare la libertà). La difese con le armi della ragione e con quelle della fede, la libertà di scelta e la libertà cristiana (o dal male); sostenne che la libertà non consiste nel posse peccare e lesse la storia umana in chiave di libertà, dall'inizio della creazione al termine escatologico della beatitudine. Ma cominciò male. Cominciò coll'aderire ai manichei, i quali, negando la responsabilità personale dell'uomo nel peccato, negavano la libertà 1. Vediamo anzitutto questo punto di partenza.

CAPITOLO PRIMO

DIFESA DELLA LIBERTÀ CONTRO I MANICHEI


Si sa che la soluzione manichea del problema del male era fondata sulla teoria metafisica dei due princìpi coeterni e contrari. Il dualismo metafisico diventava necessariamente dualismo antropologico.

1. Antropologia manichea

Due i princìpi metafisici, due le anime nell'uomo, una buona e una cattiva, in perpetuo conflitto fra loro. La vittoria dell'una o dell'altra è la vittoria del principio del bene o del principio del male operanti nell'uomo. In questa visione antropologica non poteva esserci posto, e non c'era di fatto, per la responsabilità personale, cioè per la libertà.
Ecco come Agostino riassume questa dottrina recensendo il De duabus animabus: ammettono due anime, " delle quali dicono che una è parte di Dio, l'altra è parte della gente delle tenebre, non creata da Dio e a Dio coeterna. Le due anime, una buona e l'altra cattiva, così asseriscono, appartengono insieme allo stesso uomo: quella cattiva è propria della carne la quale proviene dalla gente delle tenebre; quella buona invece dalla parte avventizia di Dio che ha ingaggiato la lotta contro la gente delle tenebre. Così le due anime si sono mescolate insieme. Di conseguenza tutto il bene che l'uomo compie l'attribuiscono all'anima buona, tutto il male all'anima cattiva " 2.
Nel De haeresibus dopo qualche anno conferma: " L'origine dei peccati non l'attribuiscono al libero arbitrio della volontà ma alla sostanza della gente avversa... La concupiscenza carnale per cui la carne ha desideri contrari allo spirito ( Gal 5,17) non ammettono che sia un'infermità derivante in noi dalla natura viziata nel primo uomo, ma che sia una sostanza contraria che aderisce a noi in modo che quando ne siamo liberati e purificati, venga separata da noi e viva nella sua natura anch'essa immortale. Asseriscono, poi, che queste due anime o due menti, una buona e l'altra cattiva, vengono in conflitto tra loro nell'unico uomo... " 3.
Nel De duabus animabus contra manichaeos concludendo esprime la convinzione che l'opposizione tra l'anima buona e l'anima cattiva rappresenti il nucleo centrale del manicheismo, quello da cui dipende il suo essere, o il buon essere. " Smettano ormai di sostenere e d'insegnare quei due generi di anime, l'uno da cui non procede nulla di male, l'altro da cui non procede nulla di bene ". Il determinismo psicologico non poteva essere espresso più efficacemente: da una solo il bene, dall'altra solo il male. E continua: " Se lo faranno, cesseranno certamente di essere manichei, poiché tutta quella sètta si basa su questa bicipite o piuttosto precipite distinzione di anime " 4.
Si può aggiungere un testo significativo tratto da un discorso al popolo, dove parlando degli eletti manichei dice: " Ma chi sono questi eletti? Sono gente che, se le vai a dire che ha peccato, subito la senti pronunziare, a sua discolpa, parole empie, peggiori e più sacrileghe di quelle che usano gli altri. Dicono: Non ho peccato io, ha peccato il popolo delle tenebre. Ma chi è questo popolo delle tenebre? Un popolo che fece guerra a Dio. E allora? Quando tu pecchi, pecca questo popolo? Certamente, rispondono, e ciò in quanto io sono mescolato con esso " 5.
Non c'è bisogno di esporre più a lungo la dottrina manichea. Basta quanto si è detto per capire l'atteggiamento, che qui interessa, di Agostino, il quale prima accettò e poi, faticosamente, si liberò da un determinismo tanto insidioso; insidioso perché comodo anche se, insieme, distruttivo; comodo per il fatto che liberava l'uomo dalla responsabilità del peccato; distruttivo, per il fatto che, privandolo della parte più profonda e più nobile di sé, la libertà - " lo maggior don che Dio fesse creando " (Dante) -, lo riduceva ad un automa, ad un campo di battaglie non sue, ma che si combattevano in lui.

2. Agostino accetta l'antropologia manichea

Può sembrare strano, ma è così: Agostino accettò questa dottrina. Ecco le sue parole: " Ero tuttora del parere che non siamo noi a peccare, ma un'altra, chissà poi quale natura pecca in noi. Lusingava la mia superbia l'essere estraneo alla colpa, il non dovermi confessare autore dei miei peccati affinché tu guarissi la mia anima rea di peccato contro di te. Preferivo scusarla accusando un'entità ignota, posta in me stesso senza essere me stesso " 6.
" Ero tuttora del parere... ". Questa dottrina l'aveva accettata sin dall'inizio. L'angosciosa domanda: unde malum? su cui i manichei intessevano il loro insegnamento e la loro propaganda, che l'aveva tormentato molto nella sua adolescenza e che lo gettò, stanco di cercare, nelle loro braccia 7, riguardava non solo il male che l'uomo soffre, ma anche - e forse principalmente - il male che l'uomo fa. Per liberarlo dalla consapevolezza di questo male, la risposta manichea era seducente. Se anche non credeva che fosse vera, Agostino volle che lo fosse. " Finii per approvare qualsiasi cosa dicessero, non perché capissi che era vero, ma perché desideravo che lo fosse " 8. Accettarla fu facile, difficile il liberarsene.

3. Si libera dall'antropologia manichea

Faticosamente, ma se ne libera. Come? Attraverso una constatazione interiore, l'esperienza personale. Egli avverte, prima timidamente e poi con fermezza, che quando vuole o non vuole è lui a volere, non un altro. " Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire o rifiutare; e qui era la causa del mio peccato, lo vedevo sempre meglio " 9.
Siamo agli inizi d'una salutare constatazione. Presto diventerà certezza. Quando, poco dopo, lotterà con se stesso per prendere una difficile decisione (quella di abbandonare ogni speranza terrena, anche la speranza di formarsi una famiglia), e sente in sé un terribile conflitto tra la volontà nuova che vuol sovrastare la volontà vecchia ma non riesce perché non lo vuole completamente, scrive: " Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio del Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a non volere, ero io e io. Né pienamente volevo, né pienamente non volevo. Da questo fatto nasceva la lotta con me stesso, la scissione di me stesso, scissione che, se avveniva contro la mia volontà, non dimostrava però l'esistenza di un'anima estranea, bensì il castigo della mia " 10. La lotta tra la carne e lo spirito ( Gal 5,17) non ha una causa ontologica come volevano i manichei - presenza di due anime o due nature nell'uomo -, ma una causa teologica (peccato originale) e una psicologica (tendenza al male e volontà di bene). Agostino lo ridirà mille volte durante la controversia pelagiana 11.
Dopo questa dura esperienza personale si comprende perché egli, parlando al suo popolo, insista tanto sulla responsabilità personale nei confronti del peccato. Chi pecca non deve cercare scuse, ma deve dire soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo... " 12. E altrove quasi con le stesse parole: " Il peccatore che si converte a Dio e vuol lodarlo dice: Ho peccato io, non la sorte, non il fato, non il popolo delle tenebre " 13.

4. Combatte l'antropologia manichea

L'azione che Agostino intraprese per chiarire ai manichei, suoi antichi correligionari, le nuove convinzioni che aveva acquisito cominciò molto presto e non durò poco. Cominciò qui a Roma, continuò a Tagaste, terminò ad Ippona verso il 400. Per l'argomento che qui ci riguarda le opere principali sono: il De libero arbitrio e il De duabus animabus contra manichaeos.
1) Il libero arbitrio. Nella prima, cominciata qui a Roma e terminata 14 a Ippona, la tesi di fondo è questa: il male deriva dal libero arbitrio. Si tratta del male che l'uomo fa, non di quello che subisce 15. Anche questo deriva dal libero arbitrio, ma da quello del primo uomo. Il discorso diverrebbe più lungo. Agostino lo farà contro i pelagiani 16. Qui ha in vista il male che l'uomo fa peccando, una questione che lo turbava già prima che incontrasse i manichei 17. Questo dipende dal libero arbitrio, non da una natura contraria, presente nell'uomo. Ragione: altrimenti Dio non potrebbe giudicarlo giustamente. " Le azioni malvagie sono punite dalla giustizia di Dio. Ma non sarebbero punite giustamente se non fossero compiute con un atto di libera volontà " 18, cioè liberamente. Si noti questa ragione: essa tornerà fino al termine della sua vita in tutta la controversia sulla grazia 19. Posta questa ragione, l'opera è tutta intenta a definire la natura della libertà e la natura del peccato, che restano tali nonostante la prescienza di Dio e le passioni dell'uomo.
La libertà è nella volontà come un " cardine " che le permette di volgersi da una parte o dall'altra. Infatti " se il movimento con cui la volontà si volge qua e là non fosse volontario e posto in nostro potere, non si dovrebbe approvare l'uomo quando torce verso l'alto il perno, per così dire, del volere e non si dovrebbe rimproverare, quando lo torce verso il basso " 20.
Nel testo citato c'è un'equazione che va messa in rilievo: se l'atto non fosse volontario e se non fosse in nostra positus potestate. Questo vuol dire che l'atto volontario o libero e atto in nostro potere dicono la stessa cosa. Ora un atto è in nostro potere quando lo poniamo se lo vogliamo, non lo poniamo se non lo vogliamo. Non è in nostro potere nisi quod cum volumus facimus 21. Concetto questo che Agostino ripete in un'importante opera della controversia pelagiana, il De spiritu et littera: " Si dice che ciascuno ha in potere ciò che fa se vuole e non fa se non vuole " 22.
La libertà dunque suppone il dominio dei propri atti, suppone la scelta, la decisione, l'autodeterminazione. Anzi volontà e libertà coincidono. Infatti " nulla è tanto in nostro potere quanto la stessa volontà " 23. " Perciò la nostra volontà non sarebbe volontà se non fosse in nostro potere. Effettivamente perché è in nostro potere, è per noi libera " 24.
Conforme alla nozione della libertà è la nozione del peccato. Non è peccato fare ciò che non si può evitare. Ecco il ragionamento agostiniano: " Non si può ragionevolmente imputare un peccato, se non a chi pecca. Quindi ragionevolmente si imputa soltanto a chi vuole " 25. " Qualunque sia la causa della volontà, se non è possibile resisterle, si cede ad essa senza peccato; se è possibile, non le si ceda e non si peccherà. Ma forse può ingannare un incauto? Dunque si guardi per non essere ingannato. Ma ha tanto potere d'ingannare che proprio non è possibile guardarsene? Se è così, non si danno peccati. Non si pecca in condizioni che è assolutamente impossibile evitare " 26.
Di questi testi si serviranno i pelagiani contro lo stesso Agostino, ma questi risponde e spiega. Qui si tratta del peccato personale, non di quello originale che è insieme peccato e pena del peccato, né, difendendo la libertà, si nega la necessità della grazia 27.
2) Le due anime contro i manichei. L'opera fu scritta, ad Ippona, da Agostino appena sacerdote. Prende in esame, direttamente, la tesi manichea delle due anime. Vi ritroviamo la stessa ragione per la difesa della libertà: il giudizio divino che condannerebbe ingiustamente chi non ha peccato. " Tutti ammettono che le anime cattive vengono condannate giustamente, mentre verrebbero condannate ingiustamente quelle che non hanno peccato " 28. Vi troviamo altresì la stessa nozione della libertà e del peccato.
Ecco la prima: " La volontà è un movimento dell'animo, esente da ogni costrizione, per non perdere o per acquistare qualcosa " 29. Esente da ogni costrizione: è il punto essenziale. Non si può insieme volere e non volere; perciò dove c'è la costrizione non c'è il volere ma il non volere, che è il suo opposto. Volere per costrizione o volere invitus è un non senso, un volere senza volere. Mentre " chiunque agisce volontariamente, agisce senza costrizione, e chiunque è esente da costrizione o agisce volontariamente o non agisce affatto " 30.
Ecco la seconda: " Il peccato è la volontà di ritenere e di conseguire ciò che la giustizia vieta e da cui ci si può liberamente astenere. Benché se non c'è la libertà, non c'è la volontà " 31. Per confermare questa sua definizione si appella al consenso del genere umano. Continua infatti: " Non è questo forse che cantano i pastori sui monti, i poeti nei teatri, gli indotti nei circoli, i dotti nelle biblioteche, i vescovi nei luoghi sacri, il genere umano nell'orbe terrestre? " 32.

Si noti di nuovo l'identificazione tra libertà e volontarietà. Nella definizione riportata Agostino ha voluto inserire il primo termine invece del secondo per offrire un'idea più facile perché meno sottile: malui grossius quam scrupolosius definire 33. Ma questa identificazione pone qualche problema di cui parlerò in seguito 34. Per ora basti ricordare che la nozione della libertà, legata essenzialmente a quella di responsabilità e perciò di giustizia, Agostino la difenderà non solo contro i manichei, ma anche nel bel mezzo della controversia pelagiana. Questa volta con argomenti non più filosofici ma teologici. Lo vedremo. Intanto è utile e importante vedere come l'abbia difesa contro il fatalismo, tanto diffuso negli ambienti culturali del tempo, e non solo allora.

CAPITOLO SECONDO

DIFESA DELLA LIBERTA' CONTRO IL FATALISMO


Il fatalismo è un'altra forma di negazione della libertà, diversa da quella dei manichei ma non meno grave; anzi, occorre dire, più grave, perché, se quella toglieva la responsabilità al singolo per attribuirla al principio cattivo, questa la toglieva all'universo per sottomettere la totalità dei fatti a una causa inflessibile che tutto determina: l'uomo, il cosmo, gli dèi. Una dottrina ampia e complessa che occupava lo spazio che nell'insegnamento cristiano è occupato dalla Provvidenza.
I trattati De fato sono numerosi nella letteratura greco - romana e non c'è bisogno di ricordarli qui 1. Tra essi quello di Cicerone, più vicino ad Agostino. Questi non poteva non intervenire, e intervenne; non solo per una ragione teorica - egli aveva fatto della Provvidenza, in cui sempre credette 2, il punto focale del suo pensiero -, ma anche per una ragione personale: in gioventù era stato vittima d'una forma di fatalismo, quello astrologico, cui aderì e da cui si liberò. Vediamo dunque per primo questo aspetto.

1. Fatalismo astrologico

Un particolare non molto conosciuto dell'animo del giovane Agostino è la sua fiducia nelle previsioni degli astrologhi o, com'egli dice, dei " matematici ". Questi, studiando gli influssi stellari sul mondo e sull'uomo, predicevano il futuro e negavano di fatto la libertà umana, in particolare la responsabilità nel peccato. " Dicevano: Dal cielo ti viene la causa inevitabile del peccato, e: E' opera di Venere, oppure di Saturno, oppure di Marte; evidentemente per rendere l'uomo senza colpa " 3. La loro dottrina, così spiega Agostino al popolo, altro non è che una difesa del peccato. " Sarai adultero, perché tale hai Venere, sarai omicida perché tale hai Marte. Marte dunque è omicida, non tu; Venere è adultera, non tu " 4.
Nella Città di Dio parla lungamente di questa concezione deterministica, che trasferisce alle stelle le sorti e le responsabilità degli uomini, ne ricorda le diverse espressioni, ne confuta le affermazioni. Quando gli uomini sentono parlare di fato " lo intendono secondo l'accezione comune come l'influsso della posizione degli astri quale si determina al momento della nascita o del concepimento " 5. Osserva poi che, " secondo l'opinione di uomini non mediocremente dotti, le stelle sono segni più che cause degli avvenimenti, quasi un linguaggio che annuncia il futuro, non lo realizza. I 'matematici' però - continua -, non intendono questo, e non dicono: Questa posizione di Marte indica un omicidio, ma: Commette un omicidio " 6. L'opinione qui ricordata era stata di Plotino, il quale, distinguendo tra annunzio e realizzazione, voleva mettere in salvo la libertà umana 7.
Ma da giovane Agostino non conosceva queste sottigliezze filosofiche: la sua adesione alle previsioni degli astrologhi fu piena e tenace. Pur decisamente avverso alle pratiche degli aruspici, i quali con sacrifici di animali proclamavano di assicurare il futuro 8, non desisteva dal consultare gli astrologhi che predicevano il futuro senza praticare sacrifici o pregare spiriti 9.
Da questa fiducia non lo ritrassero né le amabili esortazioni del dotto e nobilissimo Vindiciano che, quale proconsole, a Cartagine gli aveva messa sul capo la corona vinta nelle gare poetiche, né le amichevoli derisioni di Nebridio. Più di tutto valeva per lui l'autorità di quegli autori, né del resto, aggiunge, " avevo trovato ancora una prova certa, quale cercavo, che mi mostrasse senza ambiguità come le predizioni degli astrologhi consultati predicessero il vero per fortuna o sorte, non per l'arte di osservare le stelle " 10.
Questa ragione la troverà a Milano dopo una conversazione con l'amico Firmino, educato nelle arti liberali e buon parlatore, ma anche solerte nel consultare gli astrologhi e ricercatore avido di responsi. Era andato a trovare Agostino perché gli traesse l'oroscopo su certi suoi interessi. Agostino fece qualche previsione e poi disse che ormai era pressoché convinto della ridicola vanità di quelle pratiche. Firmino allora gli raccontò quanto era accaduto a suo padre e ad alcuni suoi amici grandi cultori, anch'essi, di astrologia; cioè degli oroscopi che avevano tratto su due bambini, nati nello stesso istante, uno da una padrona l'altro da una schiava; oroscopi uguali, data la simultaneità della nascita, ma che riuscirono fallaci perché la sorte dei due fu molto diversa.
Questa narrazione, data l'autorità del narrante, fece cadere ogni esitazione in Agostino e lo indusse a tirare questa conclusione: " I responsi veritieri ricavati dall'osservazione delle costellazioni non derivano dall'arte, ma dalla sorte; i falsi non da ignoranza dell'arte, ma da inganno della sorte " 11.
Si confermò nell'avversione a quelle ridicole vanità, cercò di dissuaderne l'amico che ne era ancora impigliato e si diede a studiare tutta la faccenda per essere in grado di rispondere alle obiezioni dei cultori di astrologia che non si davano facilmente per vinti. Studiò in particolare il caso dei gemelli 12, un caso classico per tutti gli oppositori di quella falsa scienza 13. Per il pensatore cristiano c'era l'esempio biblico di Esaù e Giacobbe, due gemelli che ebbero sorte tanto diversa. Agostino vi ricorre ogni volta che deve confutare quest'errore tanto superstizioso e pur tanto diffuso.
Oltre che nelle Confessioni, delle quali si è detto, lo confuta nelle Diverse 83 questioni 14, nella Dottrina cristiana 15, nella Genesi alla lettera 16 e, più a lungo, nella Città di Dio 17 e nella Epistola 246. Dovunque lo bolla come " un grande errore e una grande pazzia " 18, adduce in contrario l'esempio dei gemelli e ne ricorda le disastrose conseguenze per la vita etica dell'uomo. Perciò " quanto concerne i fati e tutte le sottigliezze quasi da documenazioni sperimentali dell'astrologia che chiamano apotelesmata 19, respingiamolo totalmente come alieno dall'integrità della nostra fede " 20. Ed enumera, nella Genesi alla lettera, quattro ragioni: 1) toglie la ragione stessa della nostra preghiera; 2) sopprime la giusta punizione della colpa; 3) afferma che gli uomini soli siano sottomessi agli astri; 4) tira, data l'impossibilità di precisare il momento della nascita, conclusioni senza fondamento 21.

Nella Città di Dio la confutazione diventa più lunga perché la tesi da dimostrare è più impegnativa. Si trattava della causa della grandezza dell'Impero romano. Agostino afferma che questa grandezza non fu " né fortuita né fatale, secondo la terminologia di coloro che consideravano fortuiti gli eventi che non hanno alcuna causa e non provengono da un ordinamento razionale, fatali quegli eventi che per deterministica necessità di un ordinamento si verificano indipendentemente dal volere di Dio e degli uomini. Al contrario gli imperi umani sono determinati direttamente dalla divina Provvidenza " 22. Occorreva perciò respingere tanto l'assoluta contingenza o il caso, quanto l'assoluta necessità o il fato. In quanto al fato, prima di tutto quello di origine stellare. Agostino ne descrive la natura, ricorda alcuni autori che ne hanno parlato - il famoso medico Ippocrate, Posidonio di Apamea, Nigidio il Figulo, Cicerone - ne mostra le vanità e le disastrose conseguenze, ne adduce gli argomenti in contrario - tra questi quello dei gemelli 23 - e ne conclude: " Dopo queste considerazioni si può fondatamente pensare che i molti responsi stranamente veri degli astrologhi sono dovuti all'occulta suggestione di spiriti del male... e non all'arte di leggere e scrutare l'oroscopo, che non esiste " 24.
Questa conclusione, se si prescinde dall'accenno alla suggestione degli spiriti del male - forse ha preferito questa spiegazione perché l'altra, quella della causa fortuita, gli presentava altri problemi -, contiene l'ultimo giudizio di Agostino sull'astrologia come arte divinatoria: non esiste. Vi era peró un altro fatalismo che occorreva prendere in considerazione: non più quello degli astrologhi, ma quello dei filosofi.

2. Fatalismo filosofico

E' quello non più legato alla posizione degli astri, ma " alla serie e alla connessione di tutte le cause per cui accade tutto ciò che accade " 25. Non più dunque la dipendenza dagli astri, ma il nesso ordinato di tutti i fenomeni che assoggetta alla necessità e determina tutte le cose. Un fatalismo molto presente nella filosofia antica - e non solo in quella -, che raggiunse la forma coerente e rigida - così si ritiene - nello stoicismo con la dottrina dell'ananke e con l'amor fati di cui la prima rappresenta la connessione necessitante delle cause, il secondo l'atteggiamento dell'uomo sapiente.
Agostino, che conosce gli stoici ed è molto contrario a diverse loro dottrine (alla nozione delle passioni 26, all'uguaglianza dei peccati 27, alla nozione della beatitudine 28 ), su questo argomento dà un'interpretazione benevola. Egli ritiene che essi attribuiscano l'ordine e il nesso delle cause al volere e al potere di Dio; perciò non trova necessario polemizzare su una controversia di parole 29. Poco prima aveva scritto: " se qualcuno chiama fato il volere e il potere di Dio, sententiam teneat, linguam corrigat " 30. Non vuole usare la parola fato, ma vuole discutere sul contenuto. A lui basta che l'ordine delle cause venga attribuito a Dio " del quale si ritiene con fede veracissima ed ottima che conosca tutte le cose prima che avvengano, che nulla lasci fuori dell'ordine e che da lui dipendono tutti i poteri, ma non il volere di tutti " 31. Con quest'ultimo inciso Agostino ribadisce una importante distinzione tra potere, che viene da Dio, e volere che, se ha per oggetto il male, non viene da Dio, ma solo dall'uomo. Tornerò subito sull'argomento, perché vi tornerà lo stesso Agostino.
Per dimostrare che gli stoici ascrivono al sommo Dio la connessione delle cause, cita le parole di Seneca, quelle celebri: ducunt volentem fata, nolentem trahunt, che nel contesto vengono riferite al " sommo padre e dominatore dell'alto cielo " 32. Cita altresì le parole di Omero, ricordate e tradotte da Cicerone: " lo spirito degli uomini è come la luce con cui Giove padre illumina la terra feconda " 33. Citando queste parole i filosofi dichiararono apertamente " la loro dottrina sul destino, perché consideravano Giove come il sommo Dio da cui, secondo loro, dipende la connessione dei destini " 34. Difatti " gli stoici si affaticarono per esimere dalla necessità delle cause alcune realtà. Fra quelle che considerarono libere dalla necessità hanno posto anche le nostre volontà perché non sarebbero libere se fossero soggette alla necessità " 35.
Agostino distingue, poi, le cause fortuite, quelle naturali, quelle volontarie; le prime sono, sì, cause ma nascoste (da qui il nome di caso o fortuna), le seconde sono necessitanti ma non sono sottratte alla volontà di Dio " perché egli è autore e principio di ogni natura ", le ultime - le cause volontarie - " sono o di Dio o degli angeli o degli uomini... ". " Quando parlo della volontà degli angeli, intendo tanto di quelli buoni che chiamiamo semplicemente angeli di Dio, come di quelli cattivi che chiamiamo angeli del diavolo o anche demoni. Altrettanto si dica degli uomini tanto dei buoni come dei cattivi " 36.

Sempre sollecito di salvare il sommo potere di Dio e la libertà dell'uomo (e degli angeli) Agostino conclude: " Nella volontà di Dio è il sommo potere, il quale aiuta le volontà buone degli spiriti creati, giudica le cattive, le ordina tutte - bonas voluntates adiuvat, malas iudicat, omnes ordinat - e ad alcune concede i poteri ad altre no ". Ripete qui, e spiega, il principio ricordato sopra che esime dalla causalità di Dio le volontà cattive. " Dio come è creatore di tutte le nature, così è datore di tutti gli influssi causali, ma non di tutti i voleri. Il volere cattivo infatti non è da lui perché è contro la natura che è da lui " 37. Avremo occasione di ricordare e di illustrare questo fondamentale principio agostiniano che illumina tutta la non facile dottrina della predestinazione e della grazia 38. Intanto vediamo la difesa della libertà contro un'altra forma di fatalismo o determinismo, quello teologico.

3. Fatalismo (o determinismo) teologico

Intendo per fatalismo o determinismo teologico quello che deriverebbe secondo alcuni, che poi non sono pochi, dalla prescienza divina, nella quale tutto è presente, anche il futuro delle nostre libere azioni. Come dunque libere se determinate? La difficoltà è ovvia; sa proporla e la propone chiunque, anche l'uomo della strada. Agostino non poteva ignorarla. La propone infatti e la risolve nel Libero arbitrio e nella Città di Dio, ivi in sede teorica, qui in sede storica; ivi dialogando con Evodio che rappresenta, per così dire, l'uomo della strada, qui confutando Cicerone, il quale, per salvare la libertà dell'uomo, non aveva trovato di meglio che negare la prescienza divina.
1) Ecco, nel Libero arbitrio, la difficoltà di Evodio: " Non veggo ancora in che modo non si escludano questi due termini: la prescienza divina dei nostri peccati e il nostro libero arbitrio nel peccare. Dobbiamo infatti innegabilmente ammettere che Dio è giusto e previdente. Ma vorrei sapere con quale giustizia punisca peccati che si commettono per necessità, o come non per necessità si verifichino eventi di cui ha prescienza che avvengano, o come non si debba imputare al Creatore tutto ciò che nella sua creatura avviene per necessità " 39.
La difficoltà di fondo è chiara: libertà e prescienza divina appaiono inconciliabili. Dunque la seconda toglie la prima. Ma se non c'è la libertà, come può esserci la giustizia quando Dio giudica il peccatore? Di nuovo una conclusione che esprime una preoccupazione dominante di Agostino e una tesi di fondo della sua antropologia: se l'uomo non è libero, non può essere giudicato giustamente. Il discorso tornerà a proposito della condanna dei reprobi. Ma per ora ascoltiamo la risposta alla difficoltà di Evodio.
Agostino osserva prima di tutto che prescienza non vuol dire costrizione. Infatti se per ipotesi uno sapesse con certezza ciò che farà un altro nel futuro, questi non sarebbe determinato a farlo dalla prescienza dell'altro. " Come dunque non sono opposti questi due termini, che tu per tua prescienza sai ciò che un altro compirà con la propria volontà, così Dio, sebbene non costringe nessuno a peccare, prevede però coloro che per propria volontà peccheranno " 40.
Ma perché non si pensasse che il ragionamento partiva da un'ipotesi impossibile, porta per esempio la memoria. Dice: " Come tu con la tua memoria non determini che si siano avverati gli avvenimenti passati, così Dio con la sua prescienza non determina che si debbano avverare gli eventi futuri. E come tu ricordi alcune azioni che hai compiute, così Dio ha prescienza di tutte le cose, di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose, di cui ha prescienza " 41.
La conclusione non poteva essere che questa: " Perché dunque Dio non dovrebbe punire con la giustizia le azioni che non ha condizionato con la prescienza? Pertanto quorum non est malus auctor, iustus est ultor: è giusto punitore di tutte le azioni di cui non è ingiusto autore " 42.
Ma prima di passare alla Città di Dio, dove non si tratta più di una difficoltà accademica ma di una difficoltà storica, vale la pena di mettere in rilievo un'espressione su cui bisognerà tornare perché ci ritorna il nostro dottore: Dio ha la prescienza di tutte le cose di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose di cui ha la prescienza. Si tratta, come si vede, della distinzione tra predestinazione e prescienza, per cui la seconda può essere, e di fatto è, quando v'è di mezzo il peccato, senza la prima: distinzione fondamentale per capire la dottrina agostiniana della grazia e che molti critici dimenticano o, peggio ancora, accusano il vescovo d'Ippona di averla ignorata dando occasione ad interpretazioni errate della sua dottrina 43. Ma per ora andiamo avanti e vediamolo difendere insieme libertà e prescienza contro Cicerone.

2) Cicerone è un deciso avversario del fatalismo e combatte contro gli stoici, ma ritiene che nessun argomento è valido contro di loro se non si elimina la divinazione, e con ciò la conoscenza del futuro e la prescienza di Dio. Agostino, che conosce bene le opere di Cicerone, attinge al De fato, al De divinatione e al De natura deorum 44. Ne conclude che egli " combatte apertamente la prescienza del futuro. E, come sembra, tutto il suo impegno consiste nel non ammettere il fato per non negare la libera volontà. Pensa infatti che data la premessa della conoscenza del futuro si ha la conclusione assolutamente innegabile dell'esistenza del fato " 45.
Al filosofo di Arpino premeva difendere la libertà, senza la quale, osserva giustamente: " omnis humana vita subvertitur, tutta la vita umana viene sconvolta, è inutile fare le leggi, è inutile usare punizioni e lodi, rimproveri e consigli e contro ogni giustizia sono stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi " 46.
Agostino è d'accordo nella difesa della libertà, ma non nella negazione della prescienza divina: il dilemma posto da Cicerone non è un dilemma. Negare a Dio la prescienza del futuro è lo stesso che negare l'esistenza di Dio: un Dio senza prescienza non è Dio 47. Ma l'esistenza di Dio non si può ragionevolmente negare, né a Dio si può negare la prescienza del futuro, come pure non si può negare, senza misconoscere un fatto di esperienza ed accettare disastrose conseguenze, la libertà dell'uomo. Cicerone ha voluto rendere gli uomini liberi, bene; ma li ha resi sacrileghi, e qui sta il male: dum vult facere liberos, fecit sacrilegos 48. Resta dunque il dovere di non scegliere, trasformando il falso dilemma ciceroniano in un vero binomio cristiano: libertà e prescienza. " Una coscienza religiosa sceglie l'uno e l'altro, ammette l'uno e l'altro, mediante la pietà fedele afferma l'uno e l'altro. E come? " 49. Agostino risponde dimostrando che le ragioni di Cicerone sono false e che, perciò, libertà e prescienza non sono inconciliabili. " Noi - dice egli - sosteniamo che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano e che noi facciamo con la nostra volontà tutte le azioni che abbiamo coscienza e conoscenza di fare soltanto perché lo vogliamo... Non neghiamo però la serie delle cause in cui la volontà di Dio ha il massimo potere... " 50, ma affermiamo, riassumo le parole agostiniane, che nella serie delle cause ci sono anche quelle della libera decisione dell'uomo. L'ho ricordato sopra. Ecco le parole conclusive del nostro dottore: " Se davanti a Dio è certo l'ordine di tutte le cause, non ne segue che nulla è in potere dell'arbitrio della nostra volontà. Anche le nostre volontà rientrano nell'ordine delle cause che sono certe davanti a Dio e sono contenute nella sua prescienza, perché anche le nostre volontà sono causa di azioni umane. Così egli che ha avuto prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto certamente non conoscere in quelle cause anche la nostra volontà di cui sapeva per prescienza che sarebbe stata causa delle nostre azioni " 51.

Ritroviamo l'Agostino del De libero arbitrio, con l'aggiunta che qui si trattava di combattere con un " uomo eccellente e dotto che molto e con competenza si preoccupava per la vita umana " 52. Anche il vescovo d'Ippona ne era preoccupato, ma non lo era meno di affermare la prescienza di Dio. " Noi cristiani - scrive - accettiamo l'uno e l'altro, affermiamo per fede e ragione l'uno e l'altro, la prescienza per credere bene, l'arbitrio per vivere bene ".
Il dilemma dunque è trasformato in binomio. " Non sia mai che noi, per salvare il libero volere, neghiamo la prescienza di Dio con il cui aiuto siamo o saremo liberi ". Non sono inutili le leggi, i premi e i castighi, non inutili le preghiere per ottenere ciò che Dio ha previsto di concedere; anzi influiscono molto, perché Dio ha previsto che avrebbero influito.
In quanto poi al peccato, che è sempre l'argomento più difficile perché richiama la giustizia di Dio che lo giudica e lo punisce, ecco l'affermazione e la spiegazione di Agostino: " L'uomo non pecca perché Dio ha conosciuto per prescienza che avrebbe peccato. Anzi è innegabile che pecca, quando pecca, perché Dio, la cui prescienza non può fallire, non ha conosciuto per prescienza che il fato o la fortuna o qualcos'altro di simile, ma che proprio l'uomo avrebbe peccato. Se l'uomo non vuole, certamente non pecca, ma se non vorrà peccare, anche questo Dio ha conosciuto per prescienza " 53.
In questo modo il vescovo d'Ippona combatte contro il fatalismo in difesa della libertà e contro la miscredenza in difesa della prescienza divina. Vale la pena di osservare che l'opposizione tra l'una e l'altra non fu solo Cicerone a vederla; la vide nei tempi moderni anche Lutero. E, contrariamente a quanto aveva fatto Agostino, anche Lutero scelse. Ma, da uomo religioso qual era, non scelse la libertà contro la prescienza, ma la prescienza contro la libertà 54, tornando a una forma di fatalismo o determinismo teologico che il vescovo d'Ippona aveva tanto combattuto.

4. Strana sorte di Agostino

La sorte strana è questa: un uomo come lui, che aveva difeso con tanta convinzione e tenacia la libertà umana contro ogni forma di fatalismo, e non solo nella controversia manichea, ma anche nel bel mezzo di quella pelagiana 55, è accusato di fatalismo. Ad accusarlo furono i pelagiani e i semipelagiani, e sono i moderni critici. Perché? Per la sua dottrina della grazia, in particolare per la difesa della gratuità di essa. L'affermazione che la salvezza è un dono di Dio è parsa a molti un ritorno al fatalismo. Così i pelagiani sostennero che Agostino difendeva il fato sotto il nome di grazia: sub nomine gratiae ita fatum asserunt... 56. Enunziarono poi l'affato: si compie per fato ciò che non si compie per merito. " E' vostra, non nostra, la sentenza - scrive Agostino - fato fieri quod merito non fit " 57. La stessa accusa, e in sostanza per la stessa ragione, presso i semipelagiani 58. La stessa presso i moderni critici 59. Altri poi, i predestinaziani, hanno preso per buone queste accuse e le hanno trasformate in lodi.
Ma non è questo il momento d'intrattenerci sul tema indicato. Basta averlo accennato, per offrire al lettore l'opportunità di avere subito un'idea di ciò che è capitato al dottore della grazia. E' utile invece continuare a seguirlo nella difesa della libertà. Fin qui ha difeso una verità, che è insieme di fede e di ragione, con le armi della ragione. Vediamo ora come la difenda con quelle della fede, cioè della Scrittura, trasformandosi da filosofo in teologo della libertà.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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