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La difesa della vera LIBERTA' DELL'UOMO contro le tesi dei manichei e pelagiani

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2011 09:57
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04/06/2011 09:55
 
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CAPITOLO NONO

TRA IL " VANTO " DEL GIUSTO " E LE SCUSE " DEL PECCATORE:
PEROCCUPAZIONI PASTORALI


Né il giusto deve vantarsi della sua giustizia, né il peccatore scusarsi del suo peccato. Passare incolumi in questa strettoia non era facile, ma era pur necessario; necessario per il teologo, più necessario per il pastore. Si sa che il vescovo d'Ippona, quando fa il teologo, pensa sempre al pastore. Non è mai un teologo da tavolino, mai uno " scolastico ".
Ho detto nelle pagine precedenti e in molte altre come egli abbia tenuto stretti, in forma di binomi, termini che sembravano e sembrano dilemmatici, da quelli più generali - ragione e fede, Dio e l'uomo, libertà e prescienza divina - a quelli più vicini al nostro argomento: natura e grazia, grazia e libertà, dono e mercede. Ci resta di vedere l'ultimo binomio, che sembra un dilemma, forse il più difficile, che tocca il fondo della controversia pelagiana, la quale aveva - occorre ricordarlo - una prospettiva eminentemente pratica, pastorale.
Pelagio infatti era tutto preoccupato di togliere al peccatore ogni scusa. Una preoccupazione dunque da saggio moralista che sferza vizi e promuove le virtù. Per questo scopo aveva scritto il De natura. Di quest'opera dice Agostino nella risposta: " Ho letto di corsa, ma non con scarsa attenzione, e da cima a fondo, il libro che mi avete mandato... Ho visto nel libro un uomo acceso di zelo ardentissimo contro coloro che, invece d'accusare nei propri peccati la volontà umana, cercano piuttosto di scusarla, accusando la natura umana " 1.
Il vescovo d'Ippona invece era tutto preoccupato di togliere al giusto ogni motivo di vanto. Due parallele dunque? Un dialogo in cui ognuno non faceva che ripetere i suoi argomenti? No. E la ragione sta in questo: mentre Pelagio, volendo indurre il peccatore a riconoscere il suo peccato, dimenticava la grazia o la riconduceva alla stessa natura dotata di libero arbitrio - per questo il nostro dottore chiama il suo zelo poco illuminato: non secundum scientiam (Rom 10,2) -, Agostino non dimenticava l'altra parte del problema: toglieva, sì, al giusto ogni motivo di vanto, ma non offriva al peccatore motivi di scusa. In conclusione: la visione di Pelagio, come quella di tutti coloro che hanno suscitato eresie nella Chiesa - Ario, Nestorio, Lutero -, era unilaterale, quella di Agostino no: egli vedeva i due aspetti del problema e li riaffermava e li riconduceva all'unità mediante la sintesi che cerca e trova il veritatis medium. Vediamo come.

1. Il problema

La difficoltà è ovvia: ognuno la vede. Se i peccati sono dell'uomo, perché i meriti sono di Dio? Eppure abbiamo inteso il nostro dottore riaffermare drasticamente l'uno e l'altro: " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 2. Se è giusto che siano dell'uomo i peccati, perché non attribuire ad esso anche i meriti? Era la conclusione dei pelagiani, i quali, facendo perno sul libero arbitrio, attribuivano appunto all'uomo il merito per potergli attribuire, senza possibilità di replica, anche la responsabilità del peccato. Nessuno vorrà dire che mancassero di logica. Nelle parole di Agostino, ricordate or ora, abbiamo colto la preoccupazione dominante di Pelagio. Nel sinodo di Diospoli gli fu contestata questa proposizione: Tutti sono governati dalla propria volontà. Pelagio si difese con queste parole: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio " 3. La cura e l'attenzione di Pelagio erano tutte raccolte su quest'ultima affermazione. Perciò sosteneva l' impeccantia, negava la necessità della grazia, insegnava - se non lui, certamente i suoi - che la grazia segue non precede i meriti 4. La linea dottrinale era logica e chiara: se è propria dell'uomo la colpa quando pecca, è proprio dell'uomo il merito quando opera il bene.
Al lato opposto la conclusione opposta: se di Dio è il merito, perché non attribuire a Dio anche la colpa, liberando l'uomo dalla scomoda responsabilità del peccato? La conclusione, come si sa, la tiravano i manichei, dei quali il giovane Agostino aveva accettato la dottrina 5.
Egli dunque, ritornato alla fede cattolica e diventatone per dovere di ministero e per impegno pastorale difensore, non si trovò solo di fronte ad insegnamenti diversi della Scrittura che bisognava pur riconoscere e concordare, ma anche di fronte a correnti diverse di pensiero, una apertamente opposta alla Chiesa, un'altra sorta dentro di essa. E' facile immaginare quale fu il suo atteggiamento; duplice: riaffermare i due insegnamenti biblici e mostrare come non fossero inconciliabili tra loro. Questo esigevano le sue convinzioni teologiche e le sue responsabilità pastorali. Infatti, solo accettando insieme i due insegnamenti, quello che esclude il " vanto " del giusto e quello che esclude a sua volta le " scuse " del peccatore, i fedeli possono vivere una vita autenticamente morale e cristiana. Se per assicurare la responsabilità del peccatore nel peccato si dovesse indurre il cristiano a considerare merito proprio l'essere stato giustificato e il vivere nella giustizia, non solo si negherebbe una verità fondamentale della fede ma si fomenterebbe anche il detestable vizio dell'orgoglio, che è la negazione di ogni religione. Se poi, al contrario, per dare a Dio la gloria delle opere buone che l'uomo compie, si dovesse attribuirgli anche i peccati che questi commette, si negherebbe sia la giustizia divina che l'ordine morale.

2. I due termini del problema

Agostino dunque riafferma energicamente i due termini del problema. Lo abbiamo visto sopra sia nella difesa contro i manichei della responsabilità del peccatore nel suo peccato 6, sia nella difesa contro i pelagiani del dono della grazia che impedisce all'uomo di gloriarsi delle opere buone 7. Forse non è inutile ricordare alcune espressioni, tra le più drastiche e le più forti, di questa duplice difesa.
Ecco le parole che suggerisce al peccatore nei riguardi del proprio peccato. Non cerchi scuse, gli dice, ma dica soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io; non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha costretto, ma io ho acconsentito a chi tentava di persuadermi " 8. Queste parole non ricorrono una volta sola nei discorsi agostiniani 9. Non c'è bisogno, poi, ricordare né la dura esperienza personale di Agostino descritta drammaticamente nelle Confessioni 10, né le opere, tra le prime, come Il libero arbitrio e Le due anime contro i manichei.
Per quanto riguarda le opere buone, che sono, sì, frutto del libero arbitrio, ma prima di tutto e soprattutto della grazia, basta ricordare l'insistenza e la compiacenza con le quali ripete le parole di Cipriano: Non dobbiamo gloriarci di nulla, perché nulla è nostro 11.
Per stringere, poi, più da vicino le due affermazioni, oltre le parole citate poco sopra - " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 12 - si possono ricordare queste altre: " Per volontà propria cade chi cade, per volontà di Dio sta in piedi chi sta in piedi: Voluntate sua cadit, qui cadit; et voluntate Dei stat, qui stat " 13, e queste altre ancora, scritte in una lettera a Firmo, scoperta e pubblicata di recente: " Se ubbidisci ai veri e salutari precetti [del Signore] è opera della sua grazia, se non ubbidisci è tua colpa: veris salubribusque praeceptis si obtemperes, eius est gratiae, si non obtemperes tuae culpae " 14.
A questo punto urge sapere quale via di conciliazione indichi il vescovo d'Ippona a queste due affermazioni tanto fra loro contrastanti e tanto spesso ricordate a distanza ravvicinata quasi a metterne in rilievo, con la forza dell'antitesi, il contrasto.

3. La soluzione

La soluzione la trova nella creaturalità dell'uomo e nella sua mutabilità. Vale la pena di riportare un testo, anche se un po' lungo, della prima opera scritta contro i pelagiani. " A peccare non veniamo aiutati da Dio, ma senza essere aiutati da Dio non possiamo fare quello che è giusto o adempiere in pieno la legge della giustizia ". E aggiunge un esempio chiarificatore: " Come infatti l'occhio corporale non è aiutato dalla luce perché chiudendosi si distolga e si allontani da lei, ma per vedere viene aiutato dalla luce e non può vedere se la luce non l'aiuta, così Dio, che è la luce dell'uomo interiore, aiuta l'intuito della nostra mente perché operiamo alcunché di buono, non secondo la nostra giustizia, ma secondo la sua. Viceversa allontanarci da Dio dipende da noi: allora seguiamo i desideri della carne, allora acconsentiamo alla concupiscenza della carne per atti illeciti. Dio dunque ci aiuta, se convertiti a lui; ci abbandona, se convertiti ad altro ". Ma aggiunge concludendo e riassumendo gran parte della dottrina della grazia: " Ma ci aiuta pure perché ci convertiamo a lui: un aiuto che certamente questa luce terrena non presta agli occhi del corpo " 15.
Chi poi volesse trovare la radice metafisica della dottrina illustrata qui con un esempio, dovrebbe riferirsi alla Città di Dio. Tutti sanno con quanto impegno filosofico-teologico sia stata scritta quest'opera. In essa ricorda ancora una volta il luminoso principio della salvezza che quando s'incontra nelle opere agostiniane - e si trova moltissime volte 16 - bisogna metterlo in rilievo, perché molti pensano che non sia suo, mentre è suo ed è fondamentale. Il principio è questo: " L'anima non abbandona Dio perché è stata abbandonata da Lui, ma al contrario: è abbandonata perché ha abbandonato; non v'è dubbio che la sua volontà è la prima nei confronti del male mentre è prima nei confronti del bene la volontà del suo creatore, sia nel crearla dal nulla, sia nel rianimarla quando si era perduta nel cadere " 17. Ne segue dunque che quando la volontà pecca, la colpa è sua, quando opera il bene è dono di Dio.

La stessa idea viene ribadita e approfondita altrove, là dove raccomanda alla " città celeste, pellegrina sulla terra ", d'imparare a non riporre la sua fiducia nel proprio libero arbitrio che può allontanarsi dal bene, ma nell'invocare il nome del Signore. Ed eccone la ragione metafisica. " La volontà infatti, nella sua natura, creata buona da Dio buono, ma mutabile... in quanto tratta dal nulla, può anche allontanarsi dal bene per fare il male, e ciò lo compie [solo] il libero arbitrio, e può allontanarsi dal male e fare il bene, e questo non è possibile senza l'aiuto di Dio " 18.
Ho sottolineato le parole su cui vorrei richiamare l'attenzione del lettore, perché contengono, a mio giudizio, la radice della soluzione agostiniana. L'uomo ha di suo l'essere creato dal nulla, e quindi la limitazione, la mutabilità, la defettibilità da cui deriva per necessaria conseguenza la possibilità (la possibilità, non la necessità) della defezione dal bene, ché questo è il peccato. Scrive in una delle ultime opere: " Ci si chiede [dai manichei] - Agostino aveva ripetuto ancora una volta che tutte le cose sono buone - allora da dove l'origine del male? Rispondiamo: dal bene, ma non dal sommo, immutabile Bene. Il male è derivato dai beni inferiori e mutevoli... La natura è la stessa sostanza capace di bontà o di malizia. E' capace di bontà per la partecipazione al Bene da cui è stata fatta; è capace invece di malizia non per la partecipazione al male, ma per la privazione di un bene. In altre parole, la natura acquisisce un male non in quanto si mescola ad una natura che è un male - nessuna natura infatti in quanto tale è male -, bensì in quanto deflette dalla natura che è sommo ed immutabile Bene, e questo perché non da essa è stata tratta, ma dal nulla. Se non fosse mutevole, d'altronde, la natura non potrebbe neppure avere la cattiva volontà. La natura, in verità, non avrebbe potuto essere mutevole se fosse derivata direttamente da Dio e non fosse stata tratta dal nulla. Per questo, Dio creatore delle nature è creatore di cose buone; la loro spontanea defezione dal bene indica non da chi sono state create, ma da che cosa sono state tratte. E questo non è un qualche cosa perché è assolutamente nulla " 19.
Peccando dunque la volontà indica non da chi è stata creata, ma da dove è stata creata: questa la ragione perché la volontà può da sola (non senza, si capisce, che Dio la conservi nell'essere) tutto ciò che è negativo, e perché non può compiere il bene, che è positivo, senza l'aiuto di Dio. La metafisica dà conforto all'espressione oratoria: i peccati son tuoi, i meriti sono di Dio 20 e assicura l'unità del pensiero.
Questa stessa filosofia, che gli era sempre presente a causa della controversia manichea, unita ad un testo evangelico che dice: Chi proferisce menzogne parla del suo (Io 8,44) 21, gli suggerirono parole che intese nel vero senso, quello metafisico, sono splendide; prese invece in un senso che non è il loro, quello morale, hanno suscitato timori, distinzioni ed interminabili discussioni 22.
Agostino dunque voleva spiegare al suo popolo che quando l'oratore parla - e si riferiva anche a se stesso -, se dice ciò che viene da Dio, è utile a chi parla e a chi ascolta; le cose invece che vengono dall'uomo non sono che menzogne, perché nessuno ha di suo se non menzogna e peccato.
Ecco quelle parole: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum. E, spiegando, continua: " Quanto l'uomo possiede di verità e di giustizia, proviene da quella fonte, di cui dobbiamo essere assetati in questo deserto, se vogliamo come da alcune gocce di rugiada esserne irrorati e ristorati durante la nostra peregrinazione, e così non venir meno nel cammino, e pervenire là dove la nostra sete sarà placata e saziata. Se dunque chi proferisce menzogne, parla del suo (il testo evangelico lo aveva citato anche poco prima), chi proferisce la verità, parla di ciò che è di Dio: qui loquitur veritatem de Deo loquitur " 23.
A chi legga queste parole senza preoccupazioni estranee, risulta chiaro che hanno un significato metafisico. Lo confermano il principio di partecipazione che viene esplicitamente ricordato e il testo biblico che fece sempre grande impressione ad Agostino, perché in una maniera incisiva e drastica conferma il principio suddetto e ricorda una grande luminosa verità sull'uomo; sull'uomo che deve salutarmente convincersi di avere da Dio tutto ciò che ha - l'essere, la verità, l'amore 24 - e che non ha di suo se non quanto è negativo: il nulla, la menzogna, il peccato.

Agostino torna spesso sul testo biblico 25 e qualche volta con tanta ricchezza di eloquio, con tanta chiarezza e profondità di pensiero da stupire 26. Del resto egli ne è tanto convinto e ne tira profondamente le conseguenze per se stesso, tanto che, terminando la celebre opera su La Trinità, fa a Dio questa umile, commovente preghiera: " Signore, Dio unico, Dio- Trinità, tutto ciò che ho detto in questi libri di tuo, riconoscilo tu e lo riconoscano i tuoi; se ho detto qualcosa di mio, perdonalo tu, lo perdonino i tuoi. Amen. " 27: se ho detto qualcosa di mio, ho bisogno del tuo perdono e di quello dei tuoi figli. Nulla di più bello, nulla di più profondo!
Eppure l'effato ricordato sopra -- Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum -, che il Concilio Arausicano II fece proprio nel can. 22 il quale parla appunto de iis, quae hominum sunt propria 28, ha dato occasione ad accese quanto inutili discussioni e a ingiustificati timori. Questi sono arrivati fino ai nostri giorni 29.
Chi ne volesse sapere la ragione non la cerchi nel testo agostiniano che, preso nel suo significato metafisico, tanto nel Commento a S. Giovanni, da cui il Concilio l'ha tratto, quanto altrove, è limpido e chiaro; ma la cerchi nelle controversie baiane e gianseniste nelle quali il senso del testo fu trasferito dal piano metafisico a quello morale quasi in esso si trattasse delle capacità naturali dell'uomo di operare il bene senza la grazia. Questo spostamento ha falsato il testo e ha dato occasione a discussioni senza fine e senza conclusioni. E' uno dei tanti incidenti capitati all'agostinismo.
Riportare qui quelle discussioni è inutile. Basta dire che non hanno nulla a che fare col nostro testo. Chi volesse conoscere il pensiero di Agostino sulla questione posta dal giansenismo deve ricorrere ad altri testi 30.
E' fuorviante pertanto citare le proposizioni baiane o gianseniste che insistono nel dire che tutte le opere degli infedeli sono peccati o che il libero arbitrio senza la grazia non vale se non a peccare, quasi per ammonire che le parole agostiniane potrebbero ma non debbono essere intese in quel senso; questo vuol dire che si continua su di un filone interpretativo che non è quello agostiniano ed è senza uscita.
La questione dunque è tutt'altra, e precisamente quella che ci tiene occupati: perché l'uomo debba incolpare sé del peccato e lodare Dio del bene che compie. Agostino chiede la soluzione proprio alle parole evangeliche: de suo loquitur. Se l'uomo non ha di suo che la menzogna - e ogni peccato è menzogna - non può non sentirsi in colpa se pecca, non può non lodare Dio se opera il bene.
Ma è forse meglio, concludendo, rileggere un testo agostiniano, anche se lungo. L'ho già ricordato. " Dice il Vangelo: Chi dice menzogna parla del suo. E ogni peccato è menzogna, poiché tutto quanto è contro la legge e contro la verità è menzogna. Che significa allora: Chi dice menzogna parla del suo? Significa: Chi pecca, pecca usando sue risorse. State attenti alla conclusione opposta! Se chi dice menzogna parla del suo, chi dice verità parla per dono di Dio. Per questo altrove è detto: Solo Dio è verace; ogni uomo è menzognero. Con questa sentenza non ti si dice: Avanti pure! Sei uomo, quindi puoi mentire tranquillamente.

Al contrario ti si dice: Se ti riscontri menzognero renditi conto che sei uomo. E se vuoi essere verace bevi alla fonte della verità, e così usciranno dalla tua bocca parole di Dio e non sarai più menzognero. Siccome da te stesso non puoi avere la verità, non ti resta altro che berla alla sua sorgente ". Aggiunge poi due esempi efficacissimi suggeriti e confermati anch'essi dai testi biblici: " Pensa alla luce. Se te ne allontani tu piombi nelle tenebre. Immagina una pietra. Non appena l'allontani dal calore diventa fredda, poiché non ha un calore suo proprio ma è riscaldata dal sole o dal fuoco. E' chiaro, quindi, che non era una sua risorsa innata ciò che la rendeva calda, ma il suo calore proveniva o dal sole o dal fuoco. Così anche tu, se ti allontanerai da Dio ti raffredderai; se ti avvicinerai a Dio ti riscalderai ". Questa infine la conclusione: " E allora, se è vero che non puoi compiere nulla di buono se non sei illuminato dalla luce di Dio e riscaldato dallo Spirito di Dio, tutte le volte che avrai la consapevolezza di compiere il bene, confessalo a Dio e, per non insuperbirti, di' anche tu ciò che diceva l'Apostolo: Che cosa hai tu che non l'abbia ricevuto? (1 Cor 4,7) 31 ".

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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