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Ultimo Aggiornamento: 10/02/2016 15:01
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25/08/2012 23:03
 
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Un buon pastore si confessa e dice il rosario


«Abbiamo ribadito anche noi non solo che il vescovo deve invitare i preti ad essere dei buoni confessori, ma anche che deve confessarsi lui. Un vescovo che non si confessi ogni settimana puntualmente, non dica il suo rosario e non faccia la sua adorazione eucaristica quotidiana, non potrebbe essere maestro di preghiera e doctor veritatis».

Intervista con Cosmo Francesco Ruppi, arcivescovo di Lecce da 30giorni ottobre 2001


di Gianni Cardinale


Cosmo Francesco Ruppi

Cosmo Francesco Ruppi

Se non si confessa puntualmente ogni settimana, se non recita ogni giorno il rosario e se quotidianamente non si mette in ginocchio davanti al tabernacolo, un vescovo non può essere maestro di preghiera e dottore di verità. Cosmo Francesco Ruppi, arcivescovo di Lecce, ricorda che i vescovi, come i semplici fedeli, sono chiamati anzitutto a vivere i gesti semplici della tradizione cristiana.
Ruppi è uno dei trentadue ecclesiastici chiamati direttamente dal Papa a presenziare al Sinodo dei vescovi. È stato relatore di uno dei gruppi italiani, quello B, presieduto dal cardinale Dionigi Tettamanzi, ed ha svolto un apprezzato intervento in aula sinodale. Pugliese di Alberobello, il paese dei trulli, Ruppi è stato nominato vescovo di Termoli il 13 maggio del 1980 e dal 1988 è arcivescovo di Lecce.
Da anni il suo carico pastorale si è aggravato, in quanto il presule non si risparmia nell’opera di accoglienza degli immigrati che sempre più numerosi sbarcano nella Puglia meridionale, il lembo d’Italia più proteso verso l’Oriente. Incontriamo Ruppi nel chiostro del palazzo dell’ex Sant’Uffizio, a pochi passi dall’aula Paolo VI dove si svolgono i lavori sinodali. Affabile, risponde cordialmente alle nostre domande e ci racconta del Sinodo e della grande preoccupazione con cui i vescovi vivono questi giorni di crisi internazionale.


cl Sinodo si è svolto durante la grande crisi conseguente all’atto terroristico dell’11 settembre…
COSMO FRANCESCO RUPPI: Nel mio intervento ho voluto ricordare che non è la prima volta che si tiene un Sinodo mondiale in presenza di grandi eventi della storia, perché il primo Sinodo, quello del 1966, fu convocato da Paolo VI durante la guerra del Viet Nam. Lo scenario in quell’epoca non era di molto dissimile da quello di oggi. Non c’è dubbio che il Sinodo, aprendosi a due settimane dagli eventi di New York, abbia avuto dinanzi la situazione reale del mondo: il Sinodo non è fuori dal mondo, ma nel mondo. A questo proposito abbiamo visto che il vescovo di Islamabad ha lasciato il Sinodo per raggiungere il suo popolo, seguito, dopo qualche giorno, dal cardinale di New York, tornato negli Stati Uniti per celebrare il trigesimo di tutti quei morti. Sono convinto che lo scenario politico mondiale, e in particolare il problema del terrorismo, ha avuto un suo peso se non nella discussione, certamente nella coscienza dei vescovi, perché ne abbiamo parlato spesso tra di noi. Stando a contatto con i vescovi dell’Oriente e del mondo arabo, mi sono reso conto di quanto sia complessa la situazione e di difficile comprensione, soprattutto per noi europei. Ma è emerso un fatto importante: se non si è uniti nello sconfiggere il terrorismo la situazione si aggraverà sempre di più.


Rispetto a questa crisi internazionale, quali opinioni ha registrato tra i padri sinodali?
RUPPI: Le sensibilità variano da età a età, da situazione a situazione, ma posso dire che nei colloqui privati durante gli intervalli spesso l’accento è caduto sul terrorismo internazionale, e sui bombardamenti dell’Afghanistan. È accaduto spesso che si facesse un po’ in fretta a cenare la sera per andare a vedere la televisione e lì, durante le trasmissioni, coglievo diversi e contrastanti sentimenti: chi sosteneva che gli americani stanno sbagliando tutto, chi pensava che stanno solo perdendo tempo e chi invece riteneva inevitabile quel tipo di reazione. L’unica costante in tutti i nostri discorsi è stata la speranza che questa guerra finisca il più presto possibile e produca meno danni possibile.


Uno dei temi più attesi di questo Sinodo era quello della collegialità.
RUPPI: Non direi. Il tema della collegialità è stato sfiorato come tanti altri, ed è stato inquadrato nel tema più complessivo della comunione. Il tema invece che maggiormente è stato presente nella coscienza e nella discussione dei padri sinodali è stato quello della figura del vescovo e del servizio che questi, oggi, è chiamato a fare. Dall’esame delle “proposizioni” che si sono presentate nei vari circoli minori è emerso come tema dominante quello di individuare i compiti e le responsabilità del vescovo all’inizio del terzo millennio, sulla scia di quello che lo stesso Giovanni Paolo II sta facendo emergere in questi anni.


Tra gli interventi è emerso l’auspicio di recuperare l’importanza delle province ecclesiastiche.
RUPPI: Se ne è parlato, per la verità un po’ meno di quanto mi aspettassi, e si è riconosciuto che una forma di collegialità possa essere raggiunta anche attraverso la valorizzazione di quelle realtà ecclesiali molto antiche quali sono le metropolie ecclesiastiche. Si sa che le conferenze episcopali sono di data recentissima, in quanto le più antiche hanno appena settanta, ottanta anni. Invece le metropolie ecclesiastiche, intese come province ecclesiastiche, hanno millecinquecento, milleseicento anni. Se non che, nella formulazione del nuovo Codice, non si è sottolineato il ruolo e il valore della metropolia ecclesiastica come punto di incontro tra la sede centrale, la Curia romana e i vescovi, perché nel frattempo si sono inserite le conferenze episcopali nazionali e, per l’Italia, le conferenze episcopali regionali, che hanno messo in ombra le province ecclesiastiche. Ma è evidente che una rivalutazione delle province ecclesiastiche, ossia delle metropolie, deve anche comprendere una revisione delle stesse, perché in alcuni Paesi, come ad esempio l’Italia, sono forse in numero eccessivo.


Uno dei punti qualificanti della Relazione “post disceptationem” riguardava il vescovo come maestro di fede. Il cardinale Joseph Ratzinger ha detto che, se il vescovo fa veramente il vescovo, la collegialità è già attuata...
RUPPI: L’intervento del cardinale Ratzinger come al solito è stato illuminante e stimolante, ma la verità è che durante tutto il lavoro del Sinodo è emerso come fondamentale il tema del vescovo quale doctor veritatis e magister veritatis. Abbiamo sottolineato da tutte le parti la responsabilità magisteriale del vescovo di oggi: un vescovo che non si senta custode della verità non può considerarsi membro del collegio apostolico. Se la Chiesa è stata affidata da Gesù agli apostoli e, attraverso gli apostoli, ai loro successori, è naturale che il primo compito del vescovo deve essere quello della tutela e dell’annuncio fedele della verità. Sarebbe però pericoloso vedere nel vescovo soltanto il guardiano dell’ortodossia, bisogna considerarlo anche come l’evangelizzatore della verità, colui che va alla ricerca dei metodi nuovi, dei mezzi nuovi, dei nuovi linguaggi per portare il Vangelo di sempre all’uomo di oggi.


La custodia del deposito della fede è raccomandata nella lettera di Paolo…
RUPPI: …a Timoteo… Sono stato per nove anni custode delle reliquie di Timoteo come vescovo di Termoli. E oggi sono, come tutti i vescovi, un destinatario della parola di Paolo a Timoteo: custodisci la verità, predica opportune ed importune. Il peso del Vangelo, che è stato messo sulle spalle del vescovo al momento dell’ordinazione, è indubbiamente uno dei pesi maggiori, ma anche, vorrei dire, dei più affascinanti. È molto bello insegnare il catechismo oggi, alla gente di oggi, soprattutto aÛ poveri, sebbene impegni molto sotto il profilo dell’aggiornamento sociologico, psicologico e metodologico, pur rimanendo sempre fedeli all’insegnamento del Maestro che non è mai cambiato e mai cambierà nella storia.


Al Sinodo è stata ribadita la centralità della parrocchia.
RUPPI: Si è parlato molto della parrocchia, oltre che delle vocazioni e della formazione dei presbiteri, ed è stato unanimemente riconosciuto che la parrocchia è valida ancora oggi, e bisogna sostenerla. C’è stato anche qualche vescovo che ha lamentato una forte contrazione del numero delle parrocchie in alcune aree europee, soprattutto in Francia, in Belgio e in Italia.


A questo proposito si è parlato delle “aree pastorali”.
RUPPI: Il problema è che, dove diminuiscono i preti e non c’è la possibilità di assicurare un pastore in maniera permanente, si va verso l’unificazione delle parrocchie e verso nuove forme pastorali, chiamate appunto “zone pastorali”, che non annullano la parrocchia, ma ne esaltano la potenzialità in una nuova prospettiva sociale. Penso che la parrocchia vada ribadita ed è stata ribadita dal Sinodo come un fatto importante, ma, allo stesso tempo, essendo una istituzione temporale, deve essere soggetta anche alle varianti storiche e sociali che si presentano in maniera dissimile da regione a regione.


Altro tema oggetto di particolare riflessione è stato quello della povertà.
RUPPI: È stato un tema dominante anche del circolo italiano del quale sono stato relatore. Abbiamo fatto una proposizione molto ampia su quello che è il valore della povertà, lo stile di povertà del vescovo, la povertà delle strutture diocesane e la necessità che il vescovo sia sempre dalla parte dei poveri. Io stesso sono intervenuto, sia in assemblea che nei circoli, per sostenere che la povertà soprattutto nel mondo di oggi non è un fatto accessorio, ma è un fatto sostanziale, determinante per quanto riguarda la credibilità stessa della Chiesa. La cosa importante però, sottolineata da alcuni padri sinodali, è che la povertà non deve essere intesa soltanto in senso sociologico, cioè non dobbiamo preoccuparci soltanto dei poveri di denaro, dei poveri di casa, ma anche dei poveri di spirito, dei poveri di salute, dei poveri di speranza: lo spettro della povertà deve essere quanto più evangelico possibile e tutte le istanze dei poveri devono trovare nel vescovo delle risposte.


Come arcivescovo di Lecce conosce bene anche la povertà legata al fenomeno dell’emigrazione.
RUPPI: Il tema dell’accoglienza e il tema dell’emigrazione sono emersi qua e là e hanno trovato uno sviluppo anche nelle proposizioni finali. Il tema è stato sollevato perché nella situazione di forte mobilità umana (si parla di oltre 150 milioni di uomini che sono in movimento nel mondo) e soprattutto con l’impoverimento di alcune aree, con gli squilibri territoriali sempre più gravi, è da prevedere che l’emigrazione continuerà a tenere banco ancora per molto tempo nella coscienza non soltanto della Chiesa, ma anche dei governi.


Più di un padre sinodale si è soffermato molto sul sacramento della confessione.
RUPPI: Abbiamo ribadito anche noi non solo che il vescovo deve invitare i preti ad essere dei buoni confessori, ma anche che deve confessarsi lui. Un vescovo che non si confessi ogni settimana puntualmente, non dica il suo rosario e non faccia la sua adorazione eucaristica quotidiana, non potrebbe essere maestro di preghiera e doctor veritatis.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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