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Rubrica di teologia liturgica di don Mauro Gagliardi, su Zenit, non perdere!

Ultimo Aggiornamento: 09/03/2011 15:48
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Una lezione di liturgia: “Essere immersi in Lui, nella verità

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 29 aprile 2009 (ZENIT.org).

Nel suo contributo, don Nicola Bux, docente di teologia sacramentaria e liturgia a Bari e consultore di diversi dicasteri della Santa Sede, ci offre una meditazione in chiave di teologia liturgica
sull’omelia pronunciata dal Santo Padre durante la Santa Messa crismale di quest’anno. Le riflessioni di don Bux offrono interessanti suggerimenti per comprendere la mens liturgica di Benedetto XVI (Mauro Gagliardi).

* * *

di Don Nicola Bux

Chi legge
l’introduzione del Papa ai suoi scritti sulla liturgia, editi per ora in lingua tedesca, trova questo passaggio: «Non mi interessavano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia nell’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nella nostra intera esistenza umana».
Forse questa schiettezza confermerà taluni liturgisti in quello che già pensano: Joseph Ratzinger non è un vero esperto di liturgia.
Il problema è che la liturgia, dopo il Concilio, è stata da molti studiosi disancorata dal domma; quindi era difficile per un liturgista postconciliare leggere, ad esempio, il libro di Ratzinger Das Fest des Glaubens (tradotto in italiano col titolo
La festa della fede).

Ancora fino all’elezione pontificia, capitava di udire vescovi sconsigliare la lettura di Einführung in den Geist der Liturgie (versione italiana:
Introduzione allo spirito della liturgia).

Alcuni si chiedevano: come poteva un dommatico (sic!) come Ratzinger scrivere di liturgia?

Pian piano, cominciamo ad accorgerci che abbiamo smarrito, nell’approccio alla liturgia, l’essenziale, per perderci dietro tecnicismi estenuanti ed estetismi evanescenti. Non capita spesso di sentir dire, al termine di una liturgia: «È stata una celebrazione riuscita»?
La chiave per capire il pensiero liturgico di Ratzinger sta al contrario nello sguardo orientato alla Croce e a Colui che vi pende: sguardo ad un tempo reale e simbolico, artistico e mistagogico; in una parola, liturgico.

L’omelia della Messa crismale del giovedì santo di quest’anno ci riporta allo «spirito della liturgia» come lo avverte il Santo Padre.
Anche perché tocca quel rapporto essenziale tra Ordinazione sacerdotale e culto – il prete è ordinato essenzialmente al culto, inteso come offerta a Dio – innanzitutto perché rimette in auge il concetto di consacrazione come sacrificio per Gesù Cristo e di conseguenza per chi voglia far altrettanto col suo corpo, quale culto logico (cf. Rm 12,1-2). Direi, anzi, che questo sia proprio dipendente dalla «consacrazione nella verità».

Così, «mi consacro» è uguale a «mi sacrifico», il sacerdote è nello stesso tempo la vittima – «una parola abissale» che permette lo sguardo a Gesù Cristo nel più intimo, perché si raggiunge il mistero della redenzione, del sacerdozio della Chiesa, ovvero ciò che soprattutto essa è chiamata a fare nel mondo e del mondo: una consacrazione.

Altro che dialogo col mondo: «un passaggio di proprietà» dal mondo a Dio è il prete; ma questo è vero in radice per tutti i cristiani. Non è la liturgia un sacrificio, un «privarsi di qualcosa per consegnarla a Dio»? Essa non è in nostra proprietà: è «un essere messi da parte». Di qui segue la funzione di rappresentare gli altri davanti a Lui.
Ma la liturgia è una consacrazione nella verità, perché la parola di Dio è la Verità. Come dice più avanti, è Cristo stesso la Verità. La liturgia della Parola deve essere una consacrazione nella verità, perché ha una vis – forza, vis evangelii – distruttrice del demonio e purificatrice come acqua e fuoco dello Spirito, e infine creatrice perché «trasforma nell’essere di Dio». Saremo capaci di presentare così la prima parte della Santa Messa?

«E allora come stanno le cose nella nostra vita?» – domanda il Papa a se stesso, a noi tutti, ai suoi collaboratori – e indaga con un esame di coscienza a doppio taglio che ci scruta. Seguiamo il mondo con i suoi pensieri e mode, oppure Lui?
Altrimenti non ci si deve stupire del montare della «superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta umiltà – quante volte ricorre tale parola nella liturgia! – che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomette alla verità, alla volontà di Dio?».

Insomma dalla parola di Dio si schiude l’accesso alla verità di cui bisogna diventare ed essere discepoli sempre di nuovo. Anzi, in Cristo che è la Verità accade il «rendili una sola cosa con me… Lègali a me. Tirali dentro di me» – e qui è il passaggio alla liturgia eucaristica, al sacrificio. Questa è l’unità vera, ecumenica e non; questa è la comunione: unificarsi a Lui. «Sostanzialmente essa ci è stata donata per sempre nel Sacramento». In specie per il sacerdote – a maggior ragione quando celebra – «L’unirsi a Cristo suppone la rinuncia. Comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà: che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo a lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi… Nel “sì” dell’Ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla “autorealizzazione”». Solo così la liturgia diventa servizio di Dio, anzi preghiera! Pregare «è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui». Essere ammessi alla Sua presenza, cioè, a compiere il servizio sacerdotale.

Ed ecco il passaggio dalla preghiera personale a quella pubblica: «Ma affinché questo non diventi un autocontemplarsi – quanta liturgia è così (cf.
meditazione alla IX stazione della Via Crucis 2005) – è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa.

Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l’Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole che la Chiesa ci propone
»: qui c’è tutto il giudizio sulla cosiddetta creatività che è invece un uscire dalle parole della liturgia per preferire le nostre parole. «In essa è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore»: la liturgia appartiene alla Tradizione con la T maiuscola.
«E come sacerdoti siamo nella Celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi». Ed ecco il tocco ascetico: «Se noi siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo veramente “un corpo solo e un’anima sola” con Cristo». E si realizzerà l’unità dei cristiani. Qui la liturgia del Sacrificio diventa Comunione santa al Corpo e al Sangue.

Non è finita: l’immersione nella verità e santità di Dio vuol dire «anche accettare il carattere esigente della verità; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna che in modo così svariato è presente nel mondo… neppure dimenticare che in Gesù Cristo verità e amore sono una cosa sola. Essere immersi in Lui significa essere immersi nella sua bontà, nell’amore vero». E ritorniamo alla caratteristica che fa del culto cristiano un culto logico: essere offerta razionale di se stessi: «Cristo chiede per i discepoli la vera santificazione, che trasforma il loro essere, loro stessi; che non rimanga una forma rituale, ma sia un vero divenire proprietà di Dio stesso. Potremmo anche dire: Cristo ha chiesto per noi il sacramento che ci tocca nella profondità del nostro essere». Questo ogni giorno deve diventare vita. Perciò «la rivelazione diventa liturgia»
(Gesù di Nazaret, p. 356).

Nella liturgia il Signore ci immerge in se stesso e ci fa diventare «uomini di verità, uomini di amore, uomini di Dio».

 Zenit



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L'intimo rapporto fra antico e nuovo testamento nella liturgia cristiana.

Dalla Rubrica di teologia liturgica di Zenit a cura di Don Mauro Gagliardi.


Calaceite - Aragona


ROMA, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org) - Nel suo articolo, originariamente scritto in inglese, padre Paul Gunter, osb, Professore presso il Pontificio Istituto Liturgico di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, presenta il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento nella liturgia cristiana. Consigliamo ai lettori di operare una lettura attenta, frase per frase, di questo contributo, sintetico nell’estensione, ma denso per contenuti e ricco di spunti utili ad ulteriori approfondimenti (Mauro Gagliardi).

* * *

di padre Paul Gunter, osb

La vita di Gesù Cristo era definita ed ordinata dalla preghiera pubblica e privata. Gesù conosceva la liturgia della sinagoga, e il suo costante desiderio di compiere la volontà del Padre era sostenuto dalla liturgia di Israele, mentre la Torah coordinava i sacrifici prescritti per il culto di Dio. Il percorso storico del culto di Israele ci proietta dall’Antico Testamento verso il Nuovo Testamento, mentre la storia della salvezza trova la sua unità nella Croce e nella Resurrezione di Gesù [1]. Senza tenere conto dello stretto rapporto fra l’Antico e il Nuovo Testamento sarebbe impossibile comprendere il dono e il significato della liturgia cristiana.

Nel contesto di queste fondamentali connessioni non si deve dimenticare che le pratiche ebraiche si sono evolute nel corso della storia, soprattutto dopo la distruzione del Tempio, similmente a come si sarebbe poi sviluppata la stessa liturgia cristiana, in contesti diversi, attraverso i secoli. Molti studiosi sostengono che la liturgia della sinagoga è mutata quando i riti che in precedenza si svolgevano nel Tempio furono trasferiti alle sinagoghe. Nel ricercare parallelismi tra cristiani ed ebrei, si potrebbe talvolta anche riconoscere che essi facevano cose opposte gli uni dagli altri, allo scopo di distinguersi. Gli influssi sul Cristianesimo sembrano essere provenuti anche da movimenti giudaici del primo secolo, spesso nascosti alla comparazione a causa della distruzione del Tempio, piuttosto che necessariamente e con la stessa ampiezza da parte di tradizioni rabbiniche, che solo più tardi sarebbero state accettate come Giudaismo ortodosso [2].


L’esortazione di San Paolo a pregare incessantemente (1 Ts 5,17) trae ispirazione dai vari momenti di preghiera quotidiana nella liturgia di Israele. Il Deuteronomio, ai versetti 6,7 e 11,19, richiede la recita del Shma Israel [Ascolta Israele] ogni mattina e ogni sera. Daniele 6,10 aggiunge altri tre momenti di preghiera da svolgere durante la giornata. Le cinque diverse ore della Liturgia ebraica delle ore ruotano attorno alle preghiere della mattina e della sera. Si ritiene che la Pentecoste sia iniziata al mattino, quando i discepoli erano riuniti in preghiera (Atti 2,15). Pietro si trovava in preghiera a mezzogiorno quando ebbe la visione presso Giaffa (Atti 10,9). Pietro e Giovanni entrarono nel Tempio per la preghiera quotidiana all’ora nona (Atti 3,1). I salmi dell’Hallel, 148-150, caratterizzano le lodi cristiane. Il salmo 141 dà ai vespri un’enfasi sacrificale. La liturgia domestica della luce al Sabato, nel contesto del sacrificio di lode, ha influenzato molti inni e preghiere cristiani che hanno trasferito quella luce a Cristo. La Didachè prescriveva la recita del Padre Nostro tre volte al giorno, al posto della preghiera ebraica delle Diciotto benedizioni [3].

Oltre alla Liturgia delle ore, la primitiva comunità cristiana di Gerusalemme incentrava la sua vita sull’Eucaristia. Nonostante ciò, la comunità prendeva parte anche alle funzioni del Tempio e della sinagoga, considerando che il culto era indirizzato al Padre di Gesù Cristo, che poteva essere lodato attraverso il Figlio. La prima liturgia dei cristiani specificamente ‘cristiana’ era ancora strutturalmente semplice e i primi cristiani appagavano il loro desiderio di solennità liturgica nelle funzioni presso il Tempio.

Le primitive celebrazioni eucaristiche avvenivano nell’ambito di un pasto comune, al cui inizio il capofamiglia aveva spezzato il pane. Nella tradizione ebraica, il significato religioso del pasto era espresso sia nel Kiddush iniziale sia nella Berakah finale, in cui si recitavano tre preghiere di benedizione sul calice d’argento della benedizione: ringraziamento per il pasto che era condiviso, lode per la Terra Promessa, e preghiere per Gerusalemme. Il racconto del calice e della frazione e distribuzione del pane, in Lc 22,17, si pone in linea con la tradizione del Kiddush che iniziava il pasto. Le parole pronunciate sul calice “dopo la cena” (Lc 22,20) si riferiscono al calice della benedizione dopo il pasto [4]. L’Ultima Cena di Gesù, del tutto lontana da qualunque dimensione di fraternità, si pone nel solco della tradizione dei pasti festivi ebraici con i relativi rituali rivolti all’Alleanza con il Dio di Israele. La novità dell’Ultima Cena sta nella nuova ed eterna alleanza istituita nel sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo. Dopo l’Ascensione la comunità degli apostoli spezzava il pane tutti insieme “a casa” (Atti 2,46) e frequentava insieme il tempio.

Alle origini della storia cultuale, la Genesi descriveva l’ingiunzione ad Abramo di sacrificare il suo unico Figlio e discendente in vista di una terra promessa. Il sacrificio offerto consistette in un agnello, sacrificio rappresentativo dato da Dio ad Abramo e che Abramo offrì debitamente. Nella stessa scia, noi offriamo il sacrificio come descritto nel Canone Romano ‘de tuis donis ac datis’. Qui l’agnello viene da Dio non in sostituzione, ma come vero rappresentante [5], come l’Agnus Dei, nel quale noi siamo condotti a Dio. Nell’Esodo, capitolo 12, all’istituzione della liturgia della Pasqua, l’agnello del riscatto è il primogenito, di cui poi si dirà che è “il primogenito della creazione” (Col 1,15).

Accanto al sistema sacrificale dell’Antico Testamento vi è anche la profezia. Osea 6,6 auspica l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti. Gesù dice semplicemente: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13). La ragione della limitazione nel culto del tempio è indicata nel Salmo 50: “Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri?”. In Atti 7, Stefano risponde all’accusa di aver detto che Gesù avrebbe distrutto il Tempio e sovvertito i costumi tramandati da Mosé (Atti 6,14). Egli afferma che Mosé aveva costruito la tenda dell’incontro secondo il modello che aveva visto sulla montagna, cosa che dimostra che il tempio terreno era solo il riflesso di un qualcosa che rimanda ad altro da sé. Stefano cita la profezia messianica del Deuteronomio 18,15: “Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me”.

Nella stessa maniera in cui Mosé costruì il tabernacolo [guardando oltre], così il culto, l’insegnamento morale e i successivi profeti si sarebbero mossi verso il Nuovo Mosé. Stefano afferma che il Profeta definitivo avrebbe condotto il popolo al compimento di queste profezie sulla Croce [6] dove la distruzione del corpo terreno di Gesù coincide con la fine del Tempio in Gv 2,19: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Ma mentre non è Gesù che ha demolito il Tempio, il nuovo Tempio inizia nel corpo vivente di Gesù, dalla Resurrezione. Nella Messa, il Cristo vivente comunica se stesso a noi e ci attira verso il Dio dell’Alleanza come punto di incontro a cui arriva tutto ciò che parte dall’antica Alleanza e dall’intera storia religiosa dell’uomo, per la potenza della Croce e della Resurrezione di Gesù.

Sebbene la liturgia della fede cristiana debba molto del suo sviluppo al culto della sinagoga, quest’ultima era sempre ordinata al Tempio, anche dopo la distruzione di esso. Il culto della sinagoga aspettava la restaurazione del Tempio. Nel culto cristiano, invece, il posto del Tempio di Gerusalemme è stato preso dal Tempio universale del Cristo risorto che attrae l’umanità nell’eterno amore della Trinità, attraverso l’Eucaristia che è il Sacrificio della Nuova Alleanza. Sia la sinagoga che il Tempio sono entrati nella liturgia cristiana [7]. La progressione dall’Antico Testamento verso il Nuovo, la ricerca umana e il dialogo fra Dio e l’uomo nella preghiera si fondono nella liturgia cristiana che ci presenta il Redentore mentre ci insegna a desiderare la nostra dimora eterna in Dio.



1) RATZINGER J., The Spirit of the Liturgy, Ignatius Press, San Francisco 1999, 37.
2) LEVINE L.I., The Ancient Synagogue: The First Thousand Years, Yale University Press 1999, 134-159.
3) KUNZLER M., The Church’s Liturgy, Continuum, New York, 2001, 333.
4) KUNZLER M., The Church’s Liturgy, 177.
5) RATZINGER J., The Spirit of the Liturgy, 38.
6) RATZINGER J., The Spirit of the Liturgy, 40-42.
7) RATZINGER J., The Spirit of the Liturgy, 49.


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Gagliardi: il carattere cosmico della liturgia.

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ROMA, mercoledì, 10 giugno 2009 (ZENIT.org).- Trattiamo oggi del «carattere cosmico» della liturgia cristiana, un tema molto rilevante sia degli studi liturgici dell’allora teologo J. Ratzinger, sia del magistero del Sommo Pontefice Benedetto XVI. L’articolo di oggi, tradotto qui dalla lingua inglese, offre una breve esposizione su alcuni aspetti del carattere cosmico della liturgia. Data l’importanza di questo tema, è auspicabile che in futuro possiamo tornarvi di nuovo, per svilupparlo ulteriormente (Mauro Gagliardi).


***

Nella presentazione al primo volume pubblicato delle sue opere complete, dal titolo Teologia della Liturgia, Papa Benedetto XVI richiama la sua importante monografia Introduzione allo spirito della liturgia, pubblicata nell’anno 2000, identificando in essa tre cerchi (Kreise), ossia le tre aree tematiche principali del libro, nel quale vengono trattati numerosi aspetti particolari. I primi due “cerchi” sono stati trattati precedentemente in questa rubrica liturgica. Il terzo “cerchio” riguarda «il carattere cosmico della liturgia, che rappresenta qualcosa che va oltre il semplice riunirsi di un gruppo più o meno grande di persone; piuttosto, la liturgia è celebrata dentro l’ampiezza del cosmo, abbraccia la creazione e la storia allo stesso tempo».

Il teologo Joseph Ratzinger ha spesso riflettuto su quell’articolo del Credo che professa Dio come Creatore, perché egli lo considera essenziale per la comprensione della fede cristiana nel suo insieme. Dio è il Creatore di tutto il cosmo e mantiene ogni cosa nell’essere. Nella storia del popolo di Israele, l’aver capito che il mondo non è il prodotto di un puro caso, e che tutto ciò che esiste ha la propria origine solo dalla ragione e dall’amore di Dio, ha condotto all’“illuminismo” nel suo senso più profondo. Pertanto, la ragione umana è fondata «stabilmente sulla base originaria della Ragione creatrice di Dio, allo scopo di fondarla sulla verità e sull’amore» [1]. «Dio è il Signore di tutte le cose perché Egli è il loro Creatore e solo in base a ciò noi possiamo pregarlo. Poiché questo significa che la libertà e l’amore non sono idee astratte, ma piuttosto che esse sono forze che sostengono la realtà» [2].

Nel Libro della Genesi, la creazione ed il culto sono intimamente connessi: Dio ha creato il mondo in sei giorni e nel settimo si riposò (cf. Gen 2,2-3), orientando in questo modo la creazione verso il giorno del riposo, il quale è anche il segno dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Commentando il prologo del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo», un’espressione che si rifà all’inizio del Libro della Genesi (cf. Gv 1,1 con Gen 1,1), Benedetto XVI afferma: «All’inizio il cielo parlò. E così la realtà nasce dalla Parola, è “creatura Verbi”. Tutto è creato dalla Parola e tutto è chiamato a servire la Parola. Questo vuol dire che tutta la creazione, alla fine, è pensata per creare il luogo dell’incontro tra Dio e la sua creatura, un luogo dove l’amore della creatura risponda all’amore divino, un luogo in cui si sviluppi la storia dell’amore tra Dio e la sua creatura» [3]. Il nostro incontro privilegiato con Dio è la sacra liturgia, nella quale noi siamo immersi nella comunione con il Signore, che ci benedice con il dono della sua presenza sacramentale.

Non sarebbe esagerato affermare che la teologia di Joseph Ratzinger è animata dalla profonda consapevolezza della bontà e bellezza della creazione di Dio. Nel contesto della dimensione cosmica della liturgia, il Papa si è rivolto ancora una volta al tema della direzione presa dal sacerdote celebrante e dai fedeli durante la liturgia eucaristica. Sin dai tempi più remoti, si è sempre considerata cosa ovvia per i cristiani il pregare insieme, sacerdote e fedeli, nella direzione del sole che sorge, simbolo di Cristo risorto, che tornerà nella gloria per giudicare il mondo e per raccogliere i suoi fedeli nella nuova, celeste Gerusalemme [4]. L’intera assemblea è unita nel «volgersi al Signore», come ci si esprime nelle preghiere spesso usate da sant’Agostino dopo i suoi sermoni, che cominciano con le parole Conversi ad Dominum… La direzione comune della preghiera liturgica divenne poi decisiva per la liturgia cristiana nonché per l’architettura sacra…

Nella sua presentazione al libro Teologia della liturgia, Benedetto XVI considera importante che questo simbolismo cosmico sia stato incorporato all’interno della celebrazione comunitaria: «Questo era ciò che si intendeva volgendosi ad est per la preghiera: che il Redentore che noi preghiamo è anche il Creatore, e per questo rimane sempre nella liturgia l’amore per la creazione e la responsabilità verso di essa».

Quest’ultimo aspetto riflette una preoccupazione che il Papa ha espresso in diverse occasioni, specialmente durante la sua visita in Australia per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2008: Dio ha affidato la sua creazione a noi in quanto custodi, non padroni, e questo implica che noi non dobbiamo sfruttare le sue risorse secondo interessi egoistici, ma piuttosto che dobbiamo utilizzarle responsabilmente. Da una prospettiva cristiana, l’ecologia è radicata nella fede nel Dio creatore [5].

Da ultimo, un bell’esempio della comprensione propria al Santo Padre del carattere cosmico della liturgia è la raccolta di meditazioni «Il significato del Corpus Domini» [6], in cui egli richiama lo splendore della processione del Corpus Domini nella sua terra natale, la Baviera. Nel portare il Signore stesso, il Creatore, attraverso città e villaggi, su prati e su laghi, diviene tangibile che nella liturgia «si stratta di ciò che il cielo e la terra racchiudono, dell’umanità e di tutta la creazione» [7].



Note

[1] Benedict XVI, In the Beginning. A Catholic Understanding of Creation and the Fall, Eerdmans, Grand Rapids 1995, p. 14.
[2] Ibid., p. 18.

[3] Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima congregazione generale della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 6 ottobre 2008.

[4] Cf. Benedetto XVI, Omelia della Veglia pasquale, 22 marzo 2008.
[5] Cf. Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2008.

[6] Cf. J. Ratzinger, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca Book, Milano 1990, pp. 101-109.
[7] Ibid., p. 108.

[Traduzione dall’inglese di don Mauro Gagliardi]




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Intervista a don Mauro Gagliardi: contenuti teologici della liturgia

DAL BLOG MESSAINLATINO:

E' apparsa ieri, 21 ottobre 2009 sul prestigioso sito Zenit (
link all'articolo su ZENIT.org) una interessante intervista (a firma Antonio Gaspari) a don Mauro Gagliardi, autore del recentissimo volume dal titolo “Liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche" edito dall'ottima casa ed. Fede & Cultura e da noi già segnalato a inizio mese: LINK
.
Si coglie l'occasione per ricordare la bontà del magistrale libro e dei suoi aspetti importantissimi.

Don Gagliardi ha avuto il pregio di proporre la visione della liturgia principalmente in prospettiva teologica. Egli, cioè, spiega autorevolmente ma con chiarezza come la liturgia sia anche espressione e comunicazione della dottrina; come attraverso i segni liturgici si integrhi la preghiera orale, e come la ritualità favorisca l'adorazione. E questo in perfetta adesione con il magistero di Benedetto XVI (e dei suoi scritti quan'era ancora Cardinale).
Per alcuni questi sono argomenti ovvi, e già noti. Ma gli ideali destinatari di don Gagliardi sono i professori, i rettori di seminari, i parroci attualmente poco persuasi di questa più corretta conoscenza della liturgia-teologica.
.
Nella prefazione al libro monsignor Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero, ha scritto che “l’autore offre ciò di cui oggi più si avverte l’esigenza: un consistente e al tempo stesso accessibile approccio teologico alla liturgia” anche perchè “il Concilio vaticano II ricorda che l’approccio alla liturgia è innanzitutto di tipo teologico”. L’Arcivescovo Segretario per il Clero ribadisce, inoltre, che uno degli elementi principali di qualificazione del sacerdozio è “il servizio liturgico e, in modo del tutto speciale il ministero dell’altare”.
.
L'accento fermo ed esplicito sul senso teologico della liturgia e del sacerdote (elementi inscindili) necessariamente mette in secondo piano i nuovi vari ruoli che nel post-concilio si son voluti attribuire - pur spesso in buona fede - al prete: quelli di sociologo, psicologo, sindacalista, bambinaio, pacifista, ecologista, manager, insomma, di tuttofare (a disscapito, quindi della sua missione sacra di ministro di Dio e causa dell'impoverimento della vita spirituale delle parrocchie).

.E’ nostra convinzione - conclude monsignor Piacenza - che il presente volume possa realmente contribuire a questa necessaria riscoperta del fatto che il sacerdote è innanzitutto un uomo scelto dal Signore per stare davanti a Lui e per servirlo”.
Ed è quello che il libro di don Gagliardi si propone di ottenere, inserendosi magistralmente sulla scia indicata e praticata dal Santo Padre.
.
Riportiamo qui solo un brano della bella intervista condotta da Antonio Gaspari, ma merita di essere letta per intero al
link indicato.
[Il sottolineato è nostro, di messainlatino]
***

[...]
Domanda - C’è ancora molta polemica sull’esito delle riforma liturgica post-conciliare. Può illustrarci i termini del dibattito e qual è il suo parere in proposito?

Gagliardi: Circa i termini della questione, detto in estrema sintesi: dopo il Vaticano II, una commissione a ciò deputata ha operato per condurre a termine la riforma generale della liturgia, chiesta dal Concilio. I risultati concreti di questa riforma, per ammissione dell’allora cardinale Ratzinger e di tanti altri studiosi, non corrispondono in tutti i concreti dettagli al testo della Sacrosanctum Concilium.


Qui le posizioni divergono: alcuni parlano di tradimento del Concilio e, ancor più, della Chiesa e della sua immemorabile tradizione liturgica e vorrebbero un annullamento completo della riforma, cui faccia seguito una restaurazione della liturgia alla situazione del 1962, se non prima. Altri, al contrario, tendono quasi ad operare una canonizzazione della riforma nel modo in cui è stata condotta e nei suoi risultati e si dimostrano a volte persino aggressivi quando qualcuno avanza l’ipotesi non certo di annullarla, ma anche solo di rivederla e correggerla.
Entrambi gli schieramenti, a mio avviso, sono in errore. E queste prospettive impediscono anche di valutare nel modo giusto alcune importanti decisioni che il Santo Padre ha operato. Tuttavia esiste una terza via, che è quella giusta, che consiste nel favorire lo sviluppo omogeneo della tradizione liturgica della Chiesa.
..
Domanda - Secondo un sondaggio recente, due praticanti su tre andrebbero alla Messa tridentina almeno una volta al mese se l’avessero in parrocchia, ma sembra che diversi Vescovi e parroci non abbiano in simpatia questo rito. È vero? Che cosa ne pensa?

Gagliardi: Ho letto di questo recente sondaggio, condotto dalla Doxa, una nota società che opera nel settore. I risultati dovrebbero quindi, in linea di massima, corrispondere alla situazione reale, per quanto possibile ad un sondaggio.
Dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum, ormai più di due anni fa, molte volte i giornali, le riviste e i siti web hanno riportato notizie di dichiarazioni e/o decisioni di membri del clero, che sembrano andare in una direzione diversa da quella auspicata dal documento pontificio. In questo senso, si può dire che una parte, che non saprei quantificare, di vescovi e sacerdoti pare non essere entusiasta all’idea di vedere un nuovo diffondersi della celebrazione della Messa secondo l’uso più antico. I motivi di questo atteggiamento possono essere diversi ed è chiaro che non possiamo fare qui un’analisi approfondita e puntuale.
Il mio parere personale è che, se il Santo Padre ha deciso di favorire, attraverso la sua decisione, quelli che desiderano celebrare o partecipare alla forma più antica del rito romano, coloro che non amano particolarmente tale forma – e quindi non desiderano personalmente avvalersi della facoltà concessa – non dovrebbero frapporre ostacoli all’attuazione di una normativa che, essendo stata emanata dalla Suprema Autorità, ha valore per tutta la Chiesa. Certo, ci possono essere dei casi particolari, in cui gli estimatori del rito di San Pio V avanzano pretese eccessive.
Questi casi vanno valutati singolarmente da parte dei vescovi, che restano, nelle loro diocesi, i responsabili principali della vita liturgica (e si ricordi che agli stessi vescovi compete vigilare non solo su questi casi, ma anche sull’attenta osservanza delle norme fissate nei libri liturgici post-conciliari). Mi pare, tuttavia, che i casi di eccesso da parte degli estimatori del rito più antico siano stati, da due anni a questa parte, meno frequenti di dichiarazioni o azioni volti a scoraggiare la celebrazione di quel rito. In breve, direi che è essenziale che nessuno anteponga la sua autorità particolare o la sua visione personale alle decisioni del Santo Padre, che è il centro di unità visibile della Chiesa.
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Domanda - Perché un docente di teologia, quale lei è, ha deciso di scrivere un libro sulla liturgia?

Gagliardi: [...] Inizialmente, i miei studi erano rivolti quasi esclusivamente alla teologia dogmatica, che è il mio campo principale di specializzazione e di insegnamento. Un giorno, durante il mio ultimo anno di dottorato in teologia, mi capitarono tra le mani alcuni libri che mi incuriosirono: essi presentavano il tema della liturgia in un modo diverso da quello cui ero abituato: [...]
Per dirla in breve, l’approccio di quei volumi presentava la liturgia non solo dal punto di vista storico – che pure non veniva trascurato – ma anche da quello teologico. Ciò che non avevo mai conosciuto bene era una teologia della liturgia e, quando questa mi venne incontro, la accolsi con gioia, quasi in modo connaturale. In seguito, ho letto e riletto tante volte l’eccezionale libro del cardinale Ratzinger Introduzione allo spirito della liturgia e gli altri suoi saggi in materia liturgica. Penso di averli letti tutti e ognuno più volte. [...].
In effetti, il mio approccio restava teologico-dogmatico, ma ora, grazie ai nuovi studi, potevo vedere meglio il fecondo legame tra dottrina, liturgia e devozione. [...].
Esponendo queste circostanze, credo di aver spiegato anche come mai un dogmatico si interessi di liturgia: eventi concreti mi ci hanno portato, ma questi eventi non facevano altro che stimolare in me l’interesse per aspetti non ancora sviluppati e che sono strettamente connessi al dogma stesso. [...].




SEGUE L'INTERVISTA INTEGRALE......

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Liturgia, fonte di vita


Una prospettiva teologica per la prassi liturgica



di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).- E’ appena arrivato nelle librerie l'ultimo volume di don Mauro Gagliardi dal titolo “Liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche” (Fede & Cultura).

Si tratta di un libro che ha il pregio di proporre una visione della liturgia principalmente in prospettiva teologica e cerca di rispondere alle domande di fondamento della liturgia indicando una prassi celebrativa più consona ai sacri misteri.

Nella prefazione al libro monsignor Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero, ha scritto che “l’autore offre ciò di cui oggi più si avverte l’esigenza: un consistente e al tempo stesso accessibile approccio teologico alla liturgia” anche perchè “il Concilio vaticano II ricorda che l’approccio alla liturgia è innanzitutto di tipo teologico”.

L’Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Clero precisa che “tra gli elementi principali che qualificano il sacerdozio vi è senz’ombra di dubbio il servizio liturgico e, in modo del tutto speciale il ministero dell’altare” per questo motivo “comprendere teologicamente e spiritualmente il senso della liturgia significa pertanto comprendere davvero il proprio sacerdozio”.

“E’ nostra convinzione - conclude monsignor Piacenza - che il presente volume possa realmente contribuire a questa necessaria riscoperta del fatto che il sacerdote è innanzitutto un uomo scelto dal Signore per stare davanti a Lui e per servirlo”.

Don Mauro Gagliardi, nato nel 1975, nel 1999 è stato ordinato presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno, nella quale svolge il ministero di Viceparroco e di Assistente diocesano della FUCI.

Dottore in Teologia (Gregoriana, Roma 2002) ed in Filosofia (L’Orientale, Napoli 2008), dal 2007 è Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma.

Dal 2008 è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice. Ha pubblicato diversi volumi, articoli e contributi a miscellanee, sia in Italia che all’estero.

Per cercare di comprendere il rapporto tra teologia e liturgia, ZENIT lo ha intervistato.

Perché un docente di teologia, quale lei è, ha deciso di scrivere un libro sulla liturgia?

Gagliardi: Direi che ci sono diversi motivi, alcuni dei quali sono circostanziali ed altri toccano maggiormente il merito dello studio teologico. Negli ultimi anni, mi sono trovato, per una serie di eventi occasionali, ad approfondire lo studio della liturgia. Inizialmente, i miei studi erano rivolti quasi esclusivamente alla teologia dogmatica, che è il mio campo principale di specializzazione e di insegnamento. Un giorno, durante il mio ultimo anno di dottorato in teologia, mi capitarono tra le mani alcuni libri che mi incuriosirono: essi presentavano il tema della liturgia in un modo diverso da quello cui ero abituato: mi appassionai nella lettura di essi e, in seguito, di altri saggi analoghi. Cominciai così a farmi una cultura liturgica.

Per dirla in breve, l’approccio di quei volumi presentava la liturgia non solo dal punto di vista storico – che pure non veniva trascurato – ma anche da quello teologico. Ciò che non avevo mai conosciuto bene era una teologia della liturgia e, quando questa mi venne incontro, la accolsi con gioia, quasi in modo connaturale. In seguito, ho letto e riletto tante volte l’eccezionale libro del cardinale Ratzinger Introduzione allo spirito della liturgia e gli altri suoi saggi in materia liturgica. Penso di averli letti tutti e ognuno più volte. Nel 2007, pubblicai un libro sull’Eucaristia (Introduzione al Mistero eucaristico. Dottrina – Liturgia – Devozione), nel quale sviluppavo sia l’aspetto dogmatico, che liturgico, che spirituale del grande Sacramento dell’altare.

In effetti, il mio approccio restava teologico-dogmatico, ma ora, grazie ai nuovi studi, potevo vedere meglio il fecondo legame tra dottrina, liturgia e devozione.

Il libro uscì tra l’altro quasi contemporaneamente all’Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, che tratta dell’Eucaristia proprio sviluppando queste tre dimensioni. Fu per me una conferma autorevolissima dello studio che avevo fatto per scrivere il libro. Nel 2008, sono stato poi nominato Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice. Anche a motivo di ciò, il mio studio in ambito liturgico continua e si approfondisce, anche se deve dividersi il campo con la ricerca nell’ambito dogmatico, che ovviamente deve proseguire.

Esponendo queste circostanze, credo di aver spiegato anche come mai un dogmatico si interessi di liturgia: eventi concreti mi ci hanno portato, ma questi eventi non facevano altro che stimolare in me l’interesse per aspetti non ancora sviluppati e che sono strettamente connessi al dogma stesso. Nel caso specifico del mio ultimo libro (La liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche, Fede e Cultura, Verona 2009), l’occasione mi è stata fornita da un invito a tenere un seminario monografico intensivo, nell’ambito del Corso Internazionale per i Formatori di Seminari: un’importante iniziativa che si tiene ogni estate a Leggiuno, in provincia di Varese, organizzata, ormai da vent’anni, dall’Istituto Sacerdos.

Il corso offre a rettori, professori, padri spirituali e formatori dei seminari di tutto il mondo un programma ampio e molto ben strutturato di formazione e di aggiornamento, sulle tematiche attinenti alla formazione dei futuri sacerdoti. Nel luglio del 2008, parlai per tre giorni della liturgia a questi confratelli sacerdoti, provenienti dai cinque continenti, ed anche a un vescovo orientale che pure partecipava al corso, e mi accorsi del loro grande interesse per il taglio teologico che davo alla mia trattazione. I dati biblici, storici e filologici certamente contano e io cercavo di non farli mancare, assieme all’analisi di casi concreti, ma l’interesse era suscitato soprattutto da una comprensione teologica della liturgia. Dopo questa esperienza positiva, decisi di sistemare bene le mie dispense e ne è nato il libro.

In un mondo che sembra sempre più secolarizzato perché un libro sulla liturgia?

Gagliardi: Direi al contrario che, proprio perché spesso il mondo moderno – almeno il mondo occidentale – ci appare sempre più lontano dalla fede e dalla religione, c’è bisogno di ricordare alcuni punti fermi e, tra questi, certamente c’è il culto divino, o sacra liturgia.

A volte si è pensato che, dinanzi alle sfide della «città secolare», anche il cristianesimo, se vuole essere accettato, debba secolarizzarsi. Non posso ovviamente qui entrare nei dettagli di un tema che è molto ampio, anche se si è esaurito negli stessi anni in cui sorse all’interno della teologia. Per la liturgia vale un discorso simile.

Sembra che in molti casi vi sia stata una tendenza a secolarizzarla, quasi a «de-mitizzarla», a renderla meno divina e più umana, in modo che le persone potessero riconoscervisi maggiormente, stanti la mentalità e la cultura tipiche del nostro tempo. È chiaro che la liturgia si forma e cambia, attraverso i secoli, anche in base all’influsso delle culture. Bisogna però prudentemente verificare quando si tratta di cambiamenti omogenei con la tradizione, e quindi generalmente parlando positivi, e quando no.

Anche in questo caso, è impossibile qui entrare nei dettagli, ma alla Sua domanda rispondo: proprio in un mondo che sembra spesso lontano da Dio, c’è bisogno ancor più di una liturgia davvero divina e sacra.

Non è corretto dire – come spesso si è fatto – che oggi i problemi della Chiesa sarebbero “ben altri”. Il culto che noi dobbiamo dare a Dio pubblicamente, e la corretta forma nel rendere questo culto, sono di importanza capitale per l’uomo di ogni epoca, qualunque siano i problemi che ci si trovi a fronteggiare. Anzi, a pensarci bene, si fatica ad individuare qualche problema che sia più importante per l’uomo del suo rapporto con Dio, di cui la liturgia sacra è momento apicale.

Quali sono i temi rilevanti analizzati nel libro? Che cosa intende comunicare ai lettori? Quali sono gli obiettivi che pensa di raggiungere?

Gagliardi: Comincio dalle ultime due domande e rispondo semplicemente che ciò che mi propongo, quando studio, insegno o scrivo, è la ricerca personale della verità e la conseguente diffusione di essa. Perciò non mi propongo mai di escogitare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno ha mai saputo o detto prima. Cerco di dire in modo chiaro e, quando è possibile, anche in modo nuovo, ciò che la Chiesa ha sempre saputo e che incessantemente continua ad insegnare ed approfondire nello sviluppo della sua vita.

Per quanto riguarda i temi del mio libro, ho trattato, a livello di temi fondamentali e generali, del concetto di liturgia, del ruolo del sacerdote ministro e dei fedeli nella celebrazione, del modo in cui la liturgia è per noi fonte di vita, ossia sorgente della grazia, della santificazione liturgica del tempo e dello spazio, della dinamica teologica dell’Eucaristia, della bellezza liturgica, nonché del rapporto tra liturgia ed etica e liturgia e devozione, concludendo sulla formazione liturgica. Inoltre ho proposto un capitolo con una breve storia della riforma liturgica dal Concilio di Trento ai nostri giorni. Nel libro si trovano anche diversi temi specifici e concreti quali: l’orientamento nella preghiera liturgica, la lingua da utilizzare nella celebrazione, l’atteggiamento migliore per ricevere la Santa Comunione ed altri.

C’è ancora molta polemica sull’esito delle riforma liturgica post-conciliare. Può illustrarci i termini del dibattito e qual è il suo parere in proposito?

Gagliardi: Circa i termini della questione, detto in estrema sintesi: dopo il Vaticano II, una commissione a ciò deputata ha operato per condurre a termine la riforma generale della liturgia, chiesta dal Concilio. I risultati concreti di questa riforma, per ammissione dell’allora cardinale Ratzinger e di tanti altri studiosi, non corrispondono in tutti i concreti dettagli al testo della Sacrosanctum Concilium.

Qui le posizioni divergono: alcuni parlano di tradimento del Concilio e, ancor più, della Chiesa e della sua immemorabile tradizione liturgica e vorrebbero un annullamento completo della riforma, cui faccia seguito una restaurazione della liturgia alla situazione del 1962, se non prima. Altri, al contrario, tendono quasi ad operare una canonizzazione della riforma nel modo in cui è stata condotta e nei suoi risultati e si dimostrano a volte persino aggressivi quando qualcuno avanza l’ipotesi non certo di annullarla, ma anche solo di rivederla e correggerla.

Entrambi gli schieramenti, a mio avviso, sono in errore. E queste prospettive impediscono anche di valutare nel modo giusto alcune importanti decisioni che il Santo Padre ha operato. Tuttavia esiste una terza via, che è quella giusta, che consiste nel favorire lo sviluppo omogeneo della tradizione liturgica della Chiesa.

Secondo un sondaggio recente, due praticanti su tre andrebbero alla Messa tridentina almeno una volta al mese se l’avessero in parrocchia, ma sembra che diversi Vescovi e parroci non abbiano in simpatia questo rito. È vero? Che cosa ne pensa?

Gagliardi: Ho letto di questo recente sondaggio, condotto dalla Doxa, una nota società che opera nel settore. I risultati dovrebbero quindi, in linea di massima, corrispondere alla situazione reale, per quanto possibile ad un sondaggio.

Dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum, ormai più di due anni fa, molte volte i giornali, le riviste e i siti web hanno riportato notizie di dichiarazioni e/o decisioni di membri del clero, che sembrano andare in una direzione diversa da quella auspicata dal documento pontificio. In questo senso, si può dire che una parte, che non saprei quantificare, di vescovi e sacerdoti pare non essere entusiasta all’idea di vedere un nuovo diffondersi della celebrazione della Messa secondo l’uso più antico. I motivi di questo atteggiamento possono essere diversi ed è chiaro che non possiamo fare qui un’analisi approfondita e puntuale.

Il mio parere personale è che, se il Santo Padre ha deciso di favorire, attraverso la sua decisione, quelli che desiderano celebrare o partecipare alla forma più antica del rito romano, coloro che non amano particolarmente tale forma – e quindi non desiderano personalmente avvalersi della facoltà concessa – non dovrebbero frapporre ostacoli all’attuazione di una normativa che, essendo stata emanata dalla Suprema Autorità, ha valore per tutta la Chiesa.

Certo, ci possono essere dei casi particolari, in cui gli estimatori del rito di San Pio V avanzano pretese eccessive.

Questi casi vanno valutati singolarmente da parte dei vescovi, che restano, nelle loro diocesi, i responsabili principali della vita liturgica (e si ricordi che agli stessi vescovi compete vigilare non solo su questi casi, ma anche sull’attenta osservanza delle norme fissate nei libri liturgici post-conciliari). Mi pare, tuttavia, che i casi di eccesso da parte degli estimatori del rito più antico siano stati, da due anni a questa parte, meno frequenti di dichiarazioni o azioni volti a scoraggiare la celebrazione di quel rito. In breve, direi che è essenziale che nessuno anteponga la sua autorità particolare o la sua visione personale alle decisioni del Santo Padre, che è il centro di unità visibile della Chiesa.

Molti fedeli lamentano un impoverimento della attuale prassi celebrativa. Quali sono le cose che lei consiglia di fare per rinnovare e rendere più bella e intensa la liturgia?

Gagliardi: Ce ne sono tante, che espongo nel mio libro e quindi, per rispondere alla Sua domanda, non dovrei far altro che rimandare alla lettura di esso. Tuttavia, posso almeno dire che alla base delle tante cose da fare o da rinnovare – tanto a livello più generale, quanto a livello di dettaglio – credo che ci sia una verità teologico-liturgica attorno alla quale ruota tutto il resto: il protagonista della sacra liturgia non è l’individuo né la comunità – che pure hanno parte rilevante – bensì il Dio trinitario ed il suo Cristo. Tutto sta qui.

Questo è davvero l’essenziale. Ogni accorgimento, ogni disposizione, ogni atteggiamento corporeo e spirituale, ogni oggetto utilizzato nella liturgia deve essere una manifestazione di questo fatto: non celebriamo noi stessi o la nostra comunità. Il nostro culto è rivolto a Dio Padre, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Questo culto in spirito e verità ci santifica e ci dischiude la vita eterna.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Alcuni commenti interessanti che prendo dal Blog di Messainlatino a riguardo dell'intervista sopra riportata....

DANTE PASTORELLI ha detto...


Due oservazioni.

1) se la riforma di Paolo VI ha bisogno d'esser corretta vuol dire che molta parte d'essa è da correggere, il che significa ch'è risultata negativa per le anime. E ciò perché la parte più carente è proprio la sacralità del rito.
Quindi se risulta eccessivo il dispregio di coloro che vorrebbero annullarla, è eccessivo anche il voler salvarla con qualche ritocchino che non incida nella struttura intera. Un light lifting.

2) Non so dove e quando le richieste avanzate dai seguaci dell'antico rito sian risultate spropositate. Aver la possibilità di usufruire di una chiesa - quante chiese vengon offerte ad eretici, scismatici, islamici ecc? -, di un sacerdote, di una celebrazione magari in parrocchia e ad orari non proibitivi, son richieste eccessive?
A me sembra che l'ostilità della stragrande maggioranza dei preti e dei vesovi sia eccessiva come la loro arroganza.

Insomma l'intevista m'appare cerchiobottista e superficiale, senza neppur lo sforzo d'un'adeguata esemplificazione.

***************************************************************

mic ha detto...


sottoscrivo e condivido

La riforma della riforma non può consistere in qualche restauro formale o di stile: non si andrebbe da nessuna parte; ma nel recupero 'sostanziale' di quanto selvaggiamente e arbitrariamente tagliato via dal rito Romano  in cosa precisamente consisterebbero le pretese 'eccessive' degli amanti della Tradizione..
Inoltre riconoscere che ad un docente di dogmativa 'mancava' l'approccio teologico con la Liturgia, mi sembra già rivelatore.

Abbiamo qui il caso di un sacerdote che si è lasciato interpellare dai testi e dai contenuti che ha avuto l'opportunità di incontrare (sembra più per ricerca personale che per modelli formativi!) e allora vien fuori: "ho scoperto"!...
Si tratta di un caso certamente provvidenziale che sembra aver dato i suoi frutti, ma nella Chiesa si può continuare a lasciar affidata al caso la formazione dei sacerdoti agganciata alla Tradizione?


********************************************************

Areki ha detto...


Sono daccordo con gli interventi precedenti.
Dal Prof. don Mauro Gagliardi mi sarei aspettato qualcosa di più...
A mio parere la riforma di Paolo VI rimane un fallimento e si salva solo in quelle parti dove si riprende la liturgia precedente.
Ancora oggi mi domando: non sarebbe bastato tradurre semplicemente il Messale di San Pio V con qualche lieve ritocco e mantenere in latino il canone?....
Che bisogno c'era di tutti quei cambiamenti affrettati???
don Bernardo

*******************************************************

domande annose ha detto...


...già, che bisogno c'era?

E torniamo sempre allo stesso punto: l'evento inaudito fino ad allora, che - dai vertici della Chiesa - si attuasse con una rapidità degna di miglior causa un vero e proprio
SEPPELLIMENTO dell'antico Messale e della Messa di S. Pio V, in modo tale da far credere a tutto l'orbe cattolico che essa fosse non solo obsoleta, ma... proibita, per non dire anti-cattolica!
solita domanda:
Cui prodest?
(che risuona da 41 anni nelle coscienze dei fedeli sconcertati e disorientati...)


***********************************************************
mic ha detto...


prodest per avvicinarci ai "fratelli separati" e, per non essere più separati da loro, diventare come loro: il che significa 'sposare' le loro eresie (mensa e non altare, Cena e non sacrificio, ecc. ecc.)


**************************************************************

Caterina63 ha detto...


Gagliardo di nome e di fatto...ma si vede che è giovane, ha ancora molta strada da fare e...volendo dire una civetteria (non cattiveria su!) è probabile che monsignor Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero... non gli avrebbe fatto alcuna prefazione che equivale alla presentazione referente, se magari il giovane sacerdote avesse scritto qualcosa di diverso...
^__^


Comprendo ciò che dice Dante Pastorelli, ma non si può pretendere neppure che il Papa si affacci dalla finestra e dica: "Ora basta, abbiamo scherzato, il Concilio è da oggi cancellato, ergo non c'è nessuna riforma liturgica, si ritorni alla Messa di sempre...."
^__^

Il problema non è neppure nel restauro come appunto dice Mic...perchè la devastazione delle Chiese NON si sta fermando, ergo l'intenzione è quella proprio di CANCELLARE LA TRADIZIONE LITURGICA DELLA CHIESA....
La stessa risposta "personale" del giovane sacerdote sulla forma antica dove dice:

Il mio parere personale è che, se il Santo Padre ha deciso di favorire, attraverso la sua decisione, quelli che desiderano celebrare o partecipare alla forma più antica del rito romano, coloro che non amano particolarmente tale forma – e quindi non desiderano personalmente avvalersi della facoltà concessa – non dovrebbero frapporre ostacoli all’attuazione di una normativa che, essendo stata emanata dalla Suprema Autorità, ha valore per tutta la Chiesa.

la trovo un pò grave perchè qui non si è capito che non si deve difendere semplicemente LA NORMATIVA DELLA SUPREMA AUTORITA' dal momento che lo stesso MP dice che NESSUNA AUTORITA' L'AVEVA ABROGATA...
quanto il fatto che il NOM, il quale senza il VOM NON ESISTEREBBE, non ha proprio alcun diritto sul VOM, ossia direbbero in tribunale civile: PERCHE' IL FATTO NON SUSSISTE...
IL NOM senza il VOM non esiste ^__^

Se si iniziasse a dire le cose come stanno forse si comprenderebbe che l'ospite (gradito o meno poco importa) NON è il VOM ma il NOM anche se il Papa l'ha dichiarato ORDINARIO...
Il VOM infatti seppur degradato per alcuni nella forma Straordinaria è di fatto quello che da vita e legalità al NOM, altrimenti si dovrà riconoscere che il NOM nasce dal nulla dopo il Concilio...

coerenza per coerenza, ciò che manca è il coraggio di dire dai tetti LA VERITA'...



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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22/11/2009 13:11
 
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Due anniversari per due Messali



Pubblichiamo un articolo di don Mauro Gagliardi tratto da ZENIT.org dell'11 novembre 2009.

***

Il Santo Padre Benedetto XVI ha indetto, come a tutti noto, l’Anno Sacerdotale (giugno 2009 – giugno 2010), in occasione del 150° anniversario del dies natalis del Santo Curato d’Ars.

L’intento è di «contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi» [1]. San Giovanni Maria Vianney, oltre a rappresentare al vivo un modello sommo di sacerdote, ha sempre annunciato con chiarezza e con enfasi l’incomparabile dignità del sacerdozio e la centralità del ministero ordinato in seno alla Chiesa. Attingendo ai suoi insegnamenti, il Santo Padre ha riproposto le seguenti parole del Santo: «"Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia..."».

E ancora: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo» [2].

Come si vede, san Giovanni Maria individua la grandezza del sacerdote con riferimento privilegiato al potere che egli esercita nei sacramenti a nome e nella Persona di Cristo. Benedetto XVI ha messo in evidenza questo fatto, riportando ancora altre parole del Curato d’Ars, che si riferiscono in particolare al ministero di celebrare la Santa Eucaristia. Il Papa scrive che il Santo «era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: "La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!"» [3].

L’Anno Sacerdotale propone alla nostra riflessione la figura del sacerdote e, in modo particolare, la sua dignità di ministro ordinato che celebra i sacramenti, a beneficio di tutta la Chiesa, nella Persona di Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote [4].

In questo Anno Sacerdotale, che si celebra tra il 2009 ed il 2010, ci sono tuttavia anche altre ricorrenze che merita ricordare, perché intimamente connesse con l’indole eucaristica della dignità sacerdotale.

Nel 1969, il Papa Paolo VI promulgava, con la Costituzione apostolica Missale Romanum, il nuovo Messale approntato dopo il Concilio Vaticano II. Nel presente anno 2009, dunque, si celebra il 40° di tale promulgazione. Il prossimo anno 2010, si celebreranno altri due anniversari, pure legati direttamente alla celebrazione dell’Eucaristia. Il primo coincide con il 40° anniversario (1970-2010) della promulgazione della definitiva editio typica (prima) della Institutio Generalis Missalis Romani. Il secondo coincide con il 440° anniversario della promulgazione del Messale attualmente detto Vetus Ordo o Usus antiquior, promulgato da san Pio V con la Costituzione apostolica Quo primum del 14 luglio 1570. Tale Costituzione è richiamata, assieme al Messale di san Pio V, sin dalle prime parole della menzionata Costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI [5].

I due Messali, uniti anche dalla celebrazione dei rispettivi anniversari, sono due forme dell’unica lex orandi della Chiesa di Rito latino. A questo riguardo, si è espresso il Santo Padre Benedetto XVI, insegnando che, in relazione al Messale di Paolo VI, «il Messale Romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito dal beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa "lex orandi" ["legge della preghiera"] e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della "lex orandi" della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella "lex credendi" ("legge della fede") della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico Rito Romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa» [6].

La possibilità di una serena ed armonica coesistenza delle due forme dell’unico Rito Romano è infine stata indirettamente affermata anche dalla compresenza di entrambi gli Ordines Missae (beato Giovanni XXIII e Paolo VI) all’interno del recentissimo Compendium Eucharisticum, pubblicato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [7].

La coincidenza di queste diverse ricorrenze ha dettato anche il tema che la rubrica Spirito della Liturgia si propone di approfondire quest’anno: quello del «Sacerdote nella Celebrazione eucaristica». Attraverso brevi articoli a cadenza quindicinale, redatti da teologi, liturgisti e canonisti competenti, cercheremo di presentare in modo chiaro ed accessibile il ruolo ed il compito del sacerdote nelle diverse parti della Messa, tenendo presenti entrambi i Messali di cui si celebrano gli anniversari.

L’auspicio è che questi articoli possano aiutare i sacerdoti a cogliere l’opportunità di riflessione e di conversione offerta dall’Anno Sacerdotale, e che li possano stimolare ad una cura sempre più attenta dell’ars celebrandi. Speriamo inoltre che i contributi che saranno via via pubblicati possano aiutare anche gli altri lettori – religiosi, religiose, seminaristi, fedeli laici – a riconsiderare con maggiore attenzione, e a venerare con profondo rispetto religioso, la grandezza del Mistero eucaristico e la dignità del ministero sacerdotale, nonché a riscoprire la loro centralità nella vita e nella missione della Chiesa.

Note
[1] Benedetto XVI, Lettera di Indizione dell’Anno Sacerdotale, 16.06.2009.
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] I presbiteri «esercitano al massimo grado il loro sacro munus nel culto eucaristico o sinassi, nella quale, agendo in persona di Cristo [in persona Christi] e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano ed applicano l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre come Vittima immacolata, fino alla venuta del Signore»: Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 28: AAS 57 (1965), p. 34. Cf. anche Presbyterorum Ordinis, nn. 2; 12; 13.
[5] Cf. Paolo VI, Missale Romanum, 03.04.1969: AAS 61 (1969), p. 217.
[6] Benedetto XVI, Summorum Pontificum, 07.07.2007, art. 1.
[7] Cf. Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Compendium Eucharisticum, LEV, Città del Vaticano 2009. La preparazione di questo testo era stata affidata direttamente dal Santo Padre, che ne aveva dato notizia nella Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, 22.02.2007, n. 93.



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote nella Liturgia della Parola della Santa Messa


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 27 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Per la rubrica “Spirito della liturgia”, pubblichiamo di seguito l'articolo di don Mauro Gagliardi, Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


* * *

Oggetto di questo articolo non è la Liturgia della Parola considerata in se stessa, sulla quale si dovrebbe pertanto offrire una panoramica storica, teologica e disciplinare. In continuità con la serie dei precedenti articoli di questa rubrica, ci interessiamo invece al ruolo del sacerdote nella Liturgia della Parola della Messa, tenendo presenti tanto la forma ordinaria (o di Paolo VI) quanto quella straordinaria (o di san Pio V) del Rito Romano.

La forma straordinaria

Nella «Messa bassa» (celebrazione semplice, di uso quotidiano) della forma straordinaria, il sacerdote legge tutte le letture, ossia l’Epistola[ii], il Graduale e il Vangelo. In genere, egli fa ciò assumendo la stessa posizione con la quale offrirà in seguito il santo Sacrificio. Con un’espressione fuorviante ma molto diffusa, possiamo dire che il sacerdote proclama la Liturgia della Parola «spalle al popolo». La lingua della proclamazione è la stessa di tutto il rito, quindi il latino, oppure la lingua nazionale, come ricorda l’articolo 6 del Motu Proprio Summorum Pontificum. Al termine dell’Epistola, chi assiste dice: Deo gratias. All’Epistola segue il Graduale, così chiamato dai gradini che il diacono saliva per andare a leggere il Vangelo dall’ambone nella Messa solenne. Dopo il Graduale, si legge l’Alleluja con il suo versetto, oppure il Tratto[iii]. In alcune occasioni, prima del Vangelo, il sacerdote proclama anche una Sequentia[iv].

Fatto ciò, mentre il ministrante trasporta il Messale (nel quale si trovano anche i testi delle letture bibliche) dal lato destro dell’altare (detto cornu epistulae) al lato sinistro (cornu evangelii), il sacerdote, posto al centro dell’altare, chiede al Signore la benedizione prima di passare al lato sinistro (o settentrionale), alla cui estremità proclama il Vangelo dopo aver detto Dominus vobiscum, aver ricevuto la relativa risposta, aver annunziato il titolo del libro evangelico da cui è tratta la pericope che sta per leggere, aver tracciato con il pollice della mano destra un segno di croce sul libro e tre su di sé (sulla fronte, sulla bocca e sul petto). Quando legge l’Epistola, il Graduale e l’Alleluja, il sacerdote tiene le mani appoggiate sul Messale o sull’altare, ma sempre in modo che le mani tocchino il libro. Invece, nel proclamare il Vangelo, tiene le mani giunte all’altezza del petto. Terminata la lettura del Vangelo, solleva con le mani il libro dal leggio e lo bacia dicendo in segreto la formula Per evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

 Durante la proclamazione delle diverse letture, il sacerdote fa un inchino con il capo ogni volta che pronuncia il nome di Gesù. In casi particolari, è prevista la genuflessione durante la lettura. Alla fine della lettura del Vangelo, si acclama Laus tibi, Christe. Dopo il Vangelo, soprattutto nelle domeniche e nei giorni di precetto, ci può essere a seconda dell’opportunità una breve omelia[v]. Infine, dopo l’eventuale omelia, quando è previsto, si recita il Simbolo della fede: il sacerdote torna al centro dell’altare e intona il Credo allargando e ricongiungendo le mani dinanzi al petto e facendo un inchino col capo. Quando si recita Et incarnatus est genuflette e rimane così fino a et homo factus est. Fa inoltre un inchino col capo quando dice simul adoratur. Infine, concludendo il Simbolo, si segna con il segno della croce. Tutte le parti della Liturgia della Parola, eccetto le preghiere che il sacerdote recita prima e dopo la proclamazione del Vangelo, sono dette con tono di voce intellegibile. Non possiamo qui aggiungere altri dettagli sul modo di proclamare le letture bibliche nella Messa solenne.

La forma ordinaria

Nel Messale di Paolo VI, la Liturgia della Parola ha mantenuto diversi elementi del Messale di san Pio V, anche se ne sono stati soppressi alcuni ed aggiunti altri. Di per sé, non è stata cambiata la lingua della proclamazione, perché la lingua propria della liturgia romana è rimasta il latino anche nella riforma liturgica post-conciliare, ragion per cui i nuovi lezionari (ora stampati come libri a sé stanti) sono stati pubblicati in latino nel 1969 e nel 1981. D’altro canto, è ben noto che la editio typica è stata poi tradotta nelle varie lingue nazionali e queste sono quelle generalmente usate. La Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR) detta le norme generali per la Liturgia della Parola ai nn. 55-71. Una prima differenza tra le due forme del Rito Romano sta nel fatto che, anche nella Messa quotidiana, celebrata in forma non solenne, si ammette la possibilità che altri lettori proclamino i brani biblici[vi], eccezion fatta per il Vangelo, anche se resta ovviamente la possibilità che sia ancora il sacerdote a leggere tutti i testi della Liturgia della Parola[vii].

Un secondo cambiamento sta nel fatto che, nelle domeniche e solennità, il numero delle letture aumenta a tre (Prima e Seconda Lettura, più il Vangelo), oltre il Salmo responsoriale, che prende il posto del Graduale o del Tratto. Anche la selezione di pericopi bibliche è aumentata in modo considerevole rispetto al lezionario della forma straordinaria[viii]. Un terzo elemento nuovo è il reinserimento della Orazione Universale o Preghiera dei Fedeli, che si svolge dopo il Vangelo e l’omelia. L’omelia è raccomandata per ogni giorno dell’anno e obbligatoria nelle domeniche e nei giorni di precetto[ix]. Significativo è l’inserimento, all’interno delle norme dettate dalla Institutio, di un numero sul silenzio:

«La Liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento. In essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l’aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera. Questi momenti di silenzio si possono osservare, ad esempio, prima che inizi la stessa Liturgia della Parola, dopo la prima e la seconda lettura, e terminata l’omelia»[x].

La Institutio stabilisce poi che le letture bibliche si leggano sempre dall’ambone[xi] quindi, anche se le legge il sacerdote, non lo fa mai stando di «spalle al popolo». Anche nella forma ordinaria, il sacerdote, prima di proclamare il Vangelo, recita una preghiera silenziosa. Nel rito di Paolo VI, al termine di ogni lettura si dice un versetto, che lancia la risposta dei fedeli[xii]. Il Salmo invece è detto «responsoriale», perché è intercalato da un responso detto da tutti i fedeli tra una strofa e l’altra. Anche se di solito ciò non avviene, le norme prevedono la possibilità di cantare o recitare il Salmo senza responso, o anche di sostituirlo con un Graduale[xiii]. Il Messale di Paolo VI mantiene in alcune occasioni l’uso della Sequentia, la quale è però obbligatoria solo nei giorni di Pasqua e Pentecoste[xiv] e inoltre si recita prima del versetto allelujatico e non dopo di esso. Il Vangelo viene proclamato compiendo gli stessi gesti della Messa di san Pio V, anche se la IGMR non precisa la posizione delle mani del sacerdote e altri aspetti simili[xv]. Ciò avviene anche per le norme riguardanti la recita del Credo, per la quale, però, si precisa che non si genuflette, bensì solo ci si inchina al momento delle parole Et incarnatus est[xvi].

Circa la Preghiera dei Fedeli, la IGMR dice che «è conveniente che nelle Messe con partecipazione di popolo vi sia normalmente questa preghiera»[xvii]. «Spetta al sacerdote celebrante guidare dalla sede la preghiera. Egli la introduce con una breve monizione, per invitare i fedeli a pregare, e la conclude con un’orazione. [...] Le intenzioni si leggono dall’ambone o da altro luogo conveniente, da parte del diacono o del cantore o del lettore o da un fedele laico»[xviii].

Alcune annotazioni

Da quanto detto, si nota una continuità sostanziale tra il modo di celebrare la Liturgia della Parola nei due Messali, unita a dei cambiamenti, alcuni arricchenti, altri più problematici. La continuità si basa su diversi motivi. Il primo e principale è che la Liturgia della Parola della Messa accoglie in sé solo ed esclusivamente testi biblici (Antico e Nuovo Testamento). Rappresenta, pertanto, uno snaturamento di questa parte della celebrazione l’inserzione di testi extra-biblici, fossero anche presi dai Padri, dai grandi Dottori e Maestri di spiritualità cristiana. A maggior ragione, non possono essere letti testi profani o scritti sacri di altre religioni[xix]. Altro motivo di continuità è la struttura della Liturgia della Parola, che è simile nelle due forme del Rito Romano.

Vi sono anche diversi aspetti che indicano un cambiamento. Nel rito di Paolo VI la selezione di pericopi è molto più ricca che nel precedente Messale. Questo fatto è senza dubbio positivo e risponde alle indicazioni della Sacrosanctum Concilium[xx]. Sarebbe tuttavia il caso di abbreviare numerose pericopi troppo lunghe[xxi]. Positiva è anche la norma per la quale le letture sono proclamate dall’ambone e, quindi, con i lettori rivolti verso il popolo. Questa postura è infatti più indicata per la Liturgia della Parola[xxii]. Positiva è ancora la norma che prescrive l’obbligatorietà dell’omelia alla domenica e nei giorni di precetto.

Qui il sacerdote ha un ruolo importante e delicato. Recentemente, S. E. Mons. Mariano Crociata ha ricordato che «è decisivo che l’omileta abbia coscienza di essere egli stesso un ascoltatore, anzi di essere il primo ascoltatore delle parole che pronuncia. Egli deve sapere innanzitutto, se non solamente, rivolta a sé quella parola che sta pronunciando per altri»[xxiii]. La preparazione accurata dell’omelia è parte integrante del ruolo del sacerdote nella Liturgia della Parola. Benedetto XVI ci ricorda che l’omelia ha sempre scopo sia catechetico che esortativo[xxiv]: non può essere dunque una lezione di esegesi biblica, sia perché deve esprimere anche il dogma, sia perché deve essere un discorso catechetico e non accademico; né può essere una semplice parenesi che richiama certi valori vaghi, magari presi dalla mentalità corrente senza alcun filtro evangelico (il che significherebbe separare la parte esortativa, che riguarda il bene da operare, da quella veritativa o catechetica).

Circa il ministero dei lettori, la forma ordinaria permette che non solo leggano ministri appositamente istituiti dalla Chiesa per questo compito, ma anche altri fedeli laici. Il ruolo del sacerdote, in questo caso, non è più quello di leggere sempre in prima persona le letture bibliche, ma quello – più remoto – di assicurare che questi lettori siano davvero idonei. Nessuno può semplicemente salire all’ambone e proclamare la parola di Dio nella liturgia. Se non vi sono persone adeguatamente preparate, il sacerdote deve continuare ad assumersi in prima persona il ruolo di lettore, finché non si potrà assicurare la presenza di lettori veramente idonei. Per ragioni di spazio, non possiamo qui soffermarci sul tema della Preghiera dei Fedeli.



Infine, un elemento di cambiamento che rappresenta un impoverimento è la mancanza di indicazioni precise sugli atteggiamenti corporei che il sacerdote deve assumere all’atto di leggere (in particolare il Vangelo). Tuttavia, questa rappresenta una scelta di fondo del nuovo Messale, che è molto meno preciso del precedente su questi aspetti, lasciando il campo aperto a diversi atteggiamenti celebrativi. Si può ovviare a simile carenza, applicando al nuovo rito le usanze di quello antico, lì dove questo è possibile, per quelle indicazioni che non sono escluse esplicitamente dalle attuali rubriche, come il tenere le mani giunte all’altezza del petto durante la proclamazione del Vangelo. Ciò contribuisce alla dignità della celebrazione della Liturgia della Parola e può rappresentare un esempio di quel reciproco influsso tra i due Messali auspicato da Benedetto XVI, quando ha scritto che «le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda». Anche in questo modo «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso»[xxv].


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Note

i) Per una panoramica storica e teologica sulla Liturgia della Parola, si può vedere ad esempio: M. Kunzler, La liturgia della Chiesa, Jaca Book, Milano 2003 (II edizione ampliata), pp. 297-309, con bibliografia alle pp. 309-310.

ii) In alcuni casi, l’Epistola è preceduta da altre letture.

iii) Il versetto allelujatico è sostituito dal Tratto dalla Settuagesima a Pasqua e nelle Messe dei defunti.

iv) Nell’ordinamento del Messale di Giovanni XXIII si trovano solo cinque Sequentiae: Victimae paschali per la Pasqua, Veni sancte Spiritus per la Pentecoste, Lauda Sion per il Corpus Domini, Stabat Mater per le due feste dei Sette Dolori, Dies Irae per le Messe dei defunti.

v) «Post Evangelium, praesertim in dominicis et diebus festis de praecepto, hebeatur, iuxta opportunitatem, brevis homilia ad populum»: Missale Romanum 1962, Rubricae generales, VIII, n. 474.

vi) La lettura liturgica è competenza del lettore istituito (cf. IGMR, n. 99), tuttavia «se manca il lettore istituito, altri laici, che siano però adatti a svolgere questo compito e ben preparati, siano incaricati di proclamare le letture della Sacra Scrittura» (IGMR, n. 101).

vii) Tuttavia, come si evince da IGMR, n. 59, questa seconda possibilità si mantiene solo in assenza di lettori idonei. Così pure il n. 135: «Quando manca il lettore, il sacerdote stesso proclama tutte le letture e il salmo stando all’ambone». Il n. 176 prescrive che, se è presente il diacono, sarà lui a leggere in caso di mancanza del lettore.

viii) Non c’è dubbio circa la maggiore ampiezza della selezione biblica del lezionario post-conciliare. Bisogna anche riconoscere, tuttavia, che diverse volte le pericopi scelte sono troppo lunghe, il che, unito al reinserimento della Preghiera dei Fedeli e alla pratica ordinaria dell’omelia, fa spesso diventare la Liturgia della Parola più lunga della Liturgia Eucaristica, dando luogo ad uno scompenso teologico-liturgico, oltre che rituale.

ix) Cf. IGMR, nn. 65-66. A differenza delle norme fissate nel Messale del 1962, nella IGMR non si precisa che l’omelia deve essere «breve».

x) IGMR, n. 56.

xi) Cf. IGMR, n. 58.

xii) Cf. IGMR, n. 128.

xiii) Cf. IGMR, n. 61.

xiv) Cf. IGMR, n. 64.

xv) Cf. IGMR, n. 134.

xvi) La genuflessione si mantiene solo all’Annunciazione e al Natale del Signore (cf. IGMR, n. 137).

xvii) IGMR, n. 69.

xviii) IGMR, n. 71.

xix) «Non è permesso omettere o sostituire di propria iniziativa le letture bibliche prescritte né sostituire specialmente “le letture e il salmo responsoriale, che contengono la parola di Dio, con altri testi non biblici”» (Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 62).

xx) «Nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 35).

xxi) Altri difetti del lezionario post-conciliare sono segnalati da A. Nocent in Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo (ed.), Scientia liturgica. Manuale di liturgia, III: L’Eucaristia, Piemme, Casale Monferrato 2003 (III edizione), pp. 195-200.

xxii) Cf. J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 77.

xxiii) M. Crociata, Omelia nella Messa al Convegno Liturgico per Seminaristi, Roma 29 dicembre 2009: www.chiesacattolica.it/cci2009/segretario/chiesa_cattolica_italiana/cei/00009347_Rom...
Mons.Crociata_al_Convegno_liturgico.htm
l

xxiv) Cf. Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 46.

xxv) Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi in occasione del Motu Proprio «Summorum Pontificum».



http://www.zenit.org/article-21167?l=italian

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Il sacerdote nei riti iniziali della Santa Messa


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- In questo articolo, con cui riprendiamo nel nuovo anno la nostra rubrica, padre Paul Gunter, Docente presso il Pontificio Istituto Liturgico e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ci offre una panoramica efficace sul ruolo del sacerdote celebrante nei riti iniziali della Messa, mettendo a confronto i due Messali attualmente in vigore: quello della forma ordinaria e quello della forma straordinaria del Rito Romano (don Mauro Gagliardi).



***

padre Paul Gunter, OSB

Nella prima parte della Messa, i riti sembrano parlare di per se stessi. Non siamo ancora giunti alla Liturgia della Parola, che proclama la Sacra Scrittura, né abbiamo ancora preparato l'altare per il Sacrificio. Nondimeno, in qualche modo abbiamo già fatto queste cose, perlomeno nella disposizione interiore del sacerdote. Quando si compiono i riti iniziali, sono infatti già stati posti diversi atti, sebbene non visibili all'assemblea. E sono questi che non solo fanno da sfondo a ciò che di più santo esiste, ma anche determinano nella vita di un prete il modo col quale egli si presenta all'appuntamento con l'altare, sicché le preoccupazioni della vita quotidiana non facciano guerra alla sacralità raccolta, che è richiesta dalla celebrazione della Santa Messa.

Il sacerdote ha fatto la sua preparazione privata, che è delineata nel Messale sia della forma ordinaria (o di Paolo VI), che di quella straordinaria (o di san Pio V). La distinzione tra le due forme è qui evidenziata non solo perché esse rappresentano l'uso corrente del Rito Romano, ma anche perché si complementano a vicenda nello scopo di «far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo»[1].

La Praeparatio ad Missam di entrambe le forme ha in comune una preghiera di sant'Ambrogio, una di san Tommaso d'Aquino ed una preghiera alla Beata Vergine Maria[2].
La «formula di intenzione» ricorda al sacerdote che egli consacra il Corpo e il Sangue di Cristo a beneficio di tutta la Chiesa e per tutti coloro che si sono raccomandati alle sue preghiere. Siccome questa preghiera si trova in entrambe le forme del rito, è chiaro che tutte e due mantengono la dimensione ecclesiologica della Messa[3]. Anche il sacerdote che celebra in privato non celebra la Messa solo per se stesso.

L'IGMR 93, nello spiegare ciò, descrive anche le disposizioni che deve avere il celebrante:

«[...] il presbitero, che nella Chiesa ha il potere di offrire il sacrificio nella persona di Cristo in virtù della sacra potestà dell'Ordine[4], presiede il popolo fedele radunato [...], ne dirige la preghiera, annuncia ad esso il messaggio della salvezza, lo associa a sé nell'offerta del sacrificio a Dio Padre per Cristo nello Spirito Santo, distribuisce ai fratelli il pane della vita eterna e lo condivide con loro. Pertanto, quando celebra l'Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo»[5].

Di conseguenza, i riti iniziali suppongono che il prete arrivi all'altare pronto a svolgere le sue sacre funzioni. Allo stesso tempo, non ci si aspetta di meno dal popolo di Dio: i fedeli presenti devono unire se stessi all'azione della Chiesa ed evitare ogni atteggiamento di individualismo o di divisione[6]. «Questa unità appare molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme»[7].

I riti iniziali nella forma straordinaria

La forma straordinaria, mentre ci ricorda che il sacerdote che indossa i paramenti si avvicina all'altare dopo aver fatto i necessari atti di riverenza, si preoccupa anche di illustrare la cura con la quale il celebrante deve fare il segno di croce[8]. I riti iniziali della forma straordinaria, più estesi di quelli della forma ordinaria, sono composti innanzitutto dal Salmo 42 con la sua famosa antifona Introibo ad altare Dei ad Deum qui laetificat iuventutem meum, recitata tra il prete e il ministrante.

Il Confiteor è pregato due volte, la prima dal sacerdote e la seconda dal ministrante, che recita anche il Misereatur dopo il Confiteor del sacerdote.
Dopo il secondo Confiteor, il Misereatur - che è stato conservato nella forma ordinaria della Messa, ma che lì domanda il perdono dei peccati in genere, invece di evidenziare la distinzione tra i peccati del sacerdote e quelli del popolo - è seguito dalla formula Indulgentiam, durante la quale il sacerdote fa il segno di croce, mentre prega per la remissione dei peccati di tutti. Seguono alcuni versetti dal Salmo 84.

Guéranger descrive il loro scopo in questo modo:

«La pratica di recitare questi versetti è molto antica. L'ultimo ci trasmette le parole di Davide, il quale, nel suo Salmo 84, prega per la venuta del Messia. Nella Messa, prima della Consacrazione, noi attendiamo la venuta di Nostro Signore, così come coloro che vissero prima dell'Incarnazione avevano atteso il Messia promesso. Non dobbiamo comprendere la parola "misericordia", che si trova qui perché usata dal Profeta, come riferita alla bontà di Dio; al contrario, noi chiediamo a Dio che accordi di inviarci Lui, [...] il Salvatore, dal quale attendiamo su di noi la salvezza. Queste poche parole del Salmo ci riportano indietro, nello spirito, al tempo di Avvento, nel quale noi invochiamo continuamente Colui che deve venire»[9].

Il sacerdote, nell'ascendere all'altare, dice in segreto l'orazione Aufer a nobis, pregando che Dio possa rimuovere i nostri peccati e che le nostre menti possano essere ben disposte nel momento in cui entriamo nel Santo dei Santi. Dopo, bacia l'altare e prega - invocando i meriti dei santi, in particolare di quelli le cui reliquie si trovano nell'altare - che Dio sia indulgente verso i suoi peccati.
Nella «Messa alta» [Messa solenne], il prete incensa il crocifisso e poi l'altare[10] e lo fa in modo tale da coprire di incenso ogni parte dell'altare. Un diagramma del Messale descrive il modo preciso in cui ciò va fatto.
Questo atto ci ricorda che l'altare rappresenta Cristo.
Dom Guéranger riporta il significato scritturistico di quest'uso:

«La santa Chiesa ha preso in prestito questa cerimonia dal Cielo stesso, dove l'ha contemplata san Giovanni. Nella sua Apocalisse, egli ha visto un angelo ritto in piedi, con un incensiere d'oro, presso l'altare sul quale si trovava l'Agnello, circondato dai ventiquattro vegliardi (cf. Ap 8,3-4). Egli ci descrive quest'angelo mentre offre a Dio le preghiere dei santi, che sono simboleggiate dall'incenso. Perciò la nostra santa Madre, la Chiesa, la Sposa fedele di Cristo, desidera fare come si fa in Cielo»[11].


I riti iniziali nella forma ordinaria

La forma ordinaria del Rito Romano inizia enfatizzando la presenza del popolo radunato, prima di menzionare la processione del sacerdote e dei ministri verso l'altare, processione accompagnata dal canto introitale. La sostituzione degli inni con le antifone di introito e di comunione ha in effetti implicato la perdita di questi testi propri della Messa. Sebbene essi siano stati tradotti nelle lingue vernacole assieme agli altri testi, è in verità raro sentirli cantare, soprattutto nelle parrocchie.
Nondimeno, la liturgia inizia con il canto, durante il quale il prete può incensare l'altare.
Le parole iniziali della Messa sono le stesse in entrambe le forme: «Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo».
Gudati dal celebrante, sacerdote e fedeli fanno insieme questo gesto, superando così il tempo che è trascorso tra la morte storica di Cristo sulla croce e il Sacrificio di Cristo sul Calvario, reso presente sull'altare ogni volta che viene celebrata la Messa. Come scrive padre Jeremy Driscoll, «I nostri corpi saranno trasportati nel corpo che fu appeso sulla croce, e questa partecipazione alla morte di Cristo è la rivelazione del mistero trinitario»[12].

«Nel nome» suggerisce che noi affidiamo la celebrazione al nome della Trinità. Con il battesimo, noi siamo immersi ed affidati al nome di Dio. Come nel battesimo veniamo sepolti e risuscitiamo con Cristo, così nel fare il segno di croce, noi rinnoviamo attivamente la nostra fede nel nome trinitario di Dio. Il segno della croce non è solo il modo tradizionale con cui i cattolici iniziano a pregare, ma è al contrario il modo più ovvio e più forte di iniziare a farlo. L'Amen è l'assenso solenne di coloro che rispondono.
 

Il «saluto apostolico» accoglie l'assemblea. Viene chiamato così perché è ispirato alle lettere di san Paolo. Il sacerdote può usare il Dominus Vobiscum, oppure può scegliere tra diverse formule. Qualunque sia la sua scelta, certamente non dovrà banalizzare tale saluto dicendo «Buon giorno».
Il saluto liturgico è formalizzato perché il sacerdote saluta i fedeli nel suo specifico ruolo sacramentale per cui, in persona Christi capitis[13], egli saluta l'assemblea radunata da Dio. L'assemblea perciò non risponde «Buon giorno, padre», bensì «e con il tuo spirito».
Scrive ancora Driscoll: «I fedeli si rivolgono allo "spirito" del sacerdote; cioè, a quella profondissima parte interiore del suo essere, nella quale egli è stato ordinato esattamente per guidare il popolo in questa sacra azione»[14].

Il sacerdote, poi, guida i fedeli col rito penitenziale, nel richiamare il popolo a riconoscere i propri peccati e a chiedere la misericordia di Dio. Nel Messale della forma ordinaria c'è una certa varietà di scelta. Il Confiteor, che qui è detto tutti insieme, incoraggia ognuno a pregare per l'altro e invoca la comunione dei santi perché ci assista. Un'altra forma richiama i versetti che seguono l'Indulgentiam nella forma straordinaria[15]. Entrambe le forme dell'atto penitenziale sono seguite dal Misereatur e dal Kyrie, la cui ripetizione indica le persistenti suppliche di misericordia. La terza forma consiste in una serie di petizioni, spesso legate al tempo liturgico, dette anche «tropi», seguiti dall'invocazione Kyrie eleison oppure Christe eleison[16]. La domenica, nelle feste o in occasioni speciali, il prete intona di seguito il Gloria, il canto degli angeli, cui si uniscono i presenti, o che è cantato dal coro che rappresenta i fedeli.

L'orazione principale, o colletta, conclude il ruolo del sacerdote nei riti iniziali della Messa. L'invito «Preghiamo» è seguito da un breve silenzio. Il silenzio parla profondamente all'essere interiore. Nella forma straordinaria esso è una componente naturale, nella forma ordinaria è considerato una risposta adeguata e umile al mistero.
Il nome di «colletta» dato a questa orazione viene dal verbo latino colligere che indica il mettere insieme pezzi sparsi, per formare un'unità. La liturgia della Chiesa, attraverso la bocca del sacerdote, mette nei cuori dei fedeli una preghiera che riassume ciò per cui tutti dovremmo pregare. Non solo la colletta ci incoraggia a guardare oltre la piccolezza dei nostri bisogni e richieste, ma anche ad ascoltare la preghiera letta o cantata dal solo sacerdote a nome di tutta la Chiesa, per farne la preghiera di ciascuno di noi. Dopo di ciò, orientati verso Dio e dediti al culto della beata Trinità nel servizio della sacra liturgia della Chiesa, prete e fedeli insieme possono essere meglio sintonizzati per ascoltare la dolce voce che ci chiama affinché con la grazia di Dio giungiamo finalmente «alle più alte cime di scienza e di virtù»[17].


[Traduzione dall'inglese di don Mauro Gagliardi]


Note

1) Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 1.

2) La Praeparatio nel Missale Romanum del 1962 è più ampia.

3) Missale Romanum, Editio Typica Tertia, Typis Vaticanis 2002, 1289-1291.

4) Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 28.

5) Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR), n. 93.

6) Cf. IGMR, n. 95.

7) IGMR, n. 96.

8) «[...] signat se signo crucis a fronte ad pectus, et clara voce dicit...»: Missale Romanum 1962.

9) P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, tr. L. Shepherd, Stanbrook Abbey, Worcestershire 1885, 7.

10) A. FORTESCUE - J.B. O'CONNELL - A. REID, The Ceremonies of the Roman Rite Described, 14th ed., St Michael's Abbey Press, Farnborough 2003, 142.

11) P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, 8.

12) J. DRISCOLL, What happens at Mass, Gracewing Publishing, Leominster 2005, 21.

13) «Nella persona di Cristo Capo».

14) J. DRISCOLL, What happens at Mass, 25.

15) «Ostende nobis Domine misericordiam tuam...».

16) Un tropo, dal latino tropus, e a volte riferito spregiativamente a farsato, era in origine una frase o un versetto aggiunto come abbellimento o come inserzione nella Messa cantata nel medioevo. Ad esempio il «Kyrie Lux et Origo eleison» della Missa I in Tempore Paschali. Il Messale di san Pio V li eliminò.

17) Regola di san Benedetto, capitolo 73.


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Il sacerdote nella celebrazione eucaristica del Natale in Oriente e Occidente


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, giovedì, 24 dicembre 2009 (ZENIT.org).- In prossimità del Santo Natale, Don Nicola Bux, noto teologo e liturgista, ci propone una bella e dotta meditazione teologico-liturgica, attingendo alla Rivelazione biblica ed alla Tradizione d’Occidente e di Oriente. Il testo, degno di attenta lettura, rappresenta anche un piccolo dono che la rubrica «Spirito della Liturgia» intende fare ai propri lettori, perché gustino spiritualmente le solenni celebrazioni che caratterizzano questi giorni di festa (don Mauro Gagliardi).





* * *

Nicola Bux

Come non si possono dividere nella Sacra Scrittura le parole e i gesti, così non si può separare la Parola dall’Eucaristia, la catechesi dai sacramenti, l’adorazione dalla comunione, perché significa separare la natura divina di Cristo da quella umana, quasi il Verbo non si fosse incarnato. La fede cattolica si propone nell’incontro sacramentale, fatto di gesti e parole, di segni, di bellezza, di luci, di immagini, di splendore, come è particolarmente evidente nelle liturgie orientali. Accade nei misteri, secondo tempi e modi diversi per ognuno, l’incontro col Signore, un’esperienza che san Paolo descrive come un processo di percezione della forma e di rapimento, diremmo di estetica ed estasi: «Noi tutti, che, a faccia svelata, rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine salendo di gloria in gloria, conforme all’operazione del Signore che è spirito» (2Cor 3,18).

La ricerca costante del sacro descrive l’ampio spazio del mistero nel quale il sacerdote si muove quando celebra la sacra liturgia: l’uomo può essere rapito e portato ad esso con la contemplazione o più semplicemente può aderirvi con l’intelletto e la volontà grazie alla rivelazione. Sono alcuni sintomi dello scambio mirabile tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano inaugurato dall’incarnazione del Verbo. Gesù Cristo «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 44,3), il paradosso di colui che è il più bello e nello stesso tempo «non ha apparenza né bellezza per attirare il nostro sguardo» (Is 53,2): è lui, secondo la celebre frase di Dostoevskij, la bellezza redentrice che ci salverà.

Niente riesce nel contatto meglio dell’arte creata dalla fede e del volto dei santi da cercare ogni giorno, come esorta la Didachè. Per imparare a vedere e conoscere la bellezza divina, secondo Giovanni Damasceno, non servono i concetti che creano idoli, ovvero la gnosi, ma è necessario lo stupore: si può dire che dall’adorazione abbia inizio l’intelligenza del mistero cristiano. I teologi mistici, da Dionigi Areopagita a Giovanni della Croce, sono partiti dalla forma dell’essere per giungere allo spirito interiore, secondo il metodo dell’incarnazione del Verbo: «la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (Gv 1,9); hanno mostrato la coincidenza, in certo modo, tra la mistica e l’estetica. Dio si è rivelato, ha manifestato la sua forma all’uomo; questi, attraverso il di Lui visibile nella liturgia, è attratto a partecipare alla gloria di Dio: «perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili» [1]. Infatti nel Credo si professa la fede in Dio creatore di tutte le cose visibili e invisibili: si noti l’attributo invisibili al sostantivo cose che usualmente è riferito alla materialità, mentre qui riguarda anche la sfera dell’invisibile.

Bisogna domandarsi: l’uomo moderno è capace di capire la liturgia cattolica? Di comprendere che in essa il “Cielo scende sulla terra”, il mistero si fa incontrare e toccare? Romano Guardini dubitava della capacità dell’uomo moderno di comprenderla [2]. L’uomo moderno vive nell’immanentismo, nel materialismo, ma nello stesso tempo avverte l’insoddisfazione, il bisogno di uscire da tale morsa, di trovare una soluzione a tale situazione e allora bisogna fargli intravedere una possibilità di risposta alla domanda che porta dentro di sé. La liturgia è la risposta al bisogno di incontrare il senso della vita, di avvicinarsi al mistero, quasi di avvertirlo ed esserne in qualche modo avvolto, coinvolto: è questo ciò che tocca l’essere umano, ciò che evoca nell’animo umano la nostalgia di assoluto, di divino. Gesù ha rivelato a Nicodemo la sua duplice natura, divina e umana, nell’unità della Persona: «Nessuno è asceso al cielo, se non colui che è disceso al cielo, il Figlio dell’uomo» (Gv 3,13).

Nello stesso tempo ha rivelato il fine della sua venuta nel mondo: donare la vita eterna e la salvezza (cf. Gv 3,15-17), far sì che l’essere umano e il cosmo raggiungano Dio; per questo, quindi, doveva aprire un varco, offrire una scala per salire, per compiere l’ascensione verso Dio.

Nella discesa del Verbo si avvera la condivisione, da parte del Logos eterno, della vita dell’essere umano; quindi il mistero si è fatto carne, è entrato nella nostra quotidianità e perciò non dobbiamo avere paura. L’angelo disse a Maria: Non temere, non avere paura. Gesù lo ricordava ai discepoli: non abbiate paura, sono io.

Il ministero del sacerdote, specialmente nella sacra liturgia natalizia, è simile a quello degli angeli: annunciare la Presenza del Salvatore che vince ogni paura. L’essere umano ha paura quando non apre gli occhi sul fatto che il mistero si è fatto carne, è diventato uno di noi. Infatti, se grande è quello che ci è stato promesso, secondo sant’Agostino, ancor più grande è quello che è accaduto: il fatto inaudito di Dio che scende nel mondo assumendo la nostra umanità, condividendola totalmente dall’interno e quindi svelando alla storia il suo significato e imprimendole la direzione finale.

La concezione “cosmica” adorante di Dio presente nel mistero sacramentale era propria di padri come Agostino; di monaci come Nicodemo, della santa montagna dell’Athos; di teologi come Tommaso d’Aquino. Essi si sentivano perciò responsabili dell’introduzione dei fedeli al mistero, vedevano il sacerdote quale amministratore dei misteri, quindi interprete o mistagogo del mistero divino-umano, che è la luce della verità venuta nel mondo. La luce è essa stessa una realtà misteriosa, ed è umile, perché vuol far vedere non se stessa ma tutto il resto; è trasparenza della realtà; è composta di tutti i colori, sì da riuscire trasparente. In modo magistrale, sant’Ambrogio insegna che «La luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche trattazione previa» [3].

Nella liturgia bizantina acclama il coro dopo la comunione: «Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la vera fede, adorando la Trinità indivisa, poiché essa ci ha salvati». Per comprendere questo, bisogna seguire l’itinerario che essa compie e che ha come il suo fulcro nella frase del salmo «Nella tua luce noi vediamo la luce» (Sal 36,10). Da quando Dio si è fatto uomo e la forma ha irradiato la divinità, la liturgia comunica quella luce, perché l’essere umano guardando la luce veda, percepisca la luce di Dio. Ecco perché la liturgia è sinonimo di bellezza, di luce – i testi liturgici romani del Natale hanno a tema la luce apparsa, manifestata in Cristo –: come la luce fisica fa funzionare i nostri occhi, che altrimenti al buio, pur perfetti, non funzionerebbero, così è Gesù Cristo, che ha detto: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre» (Gv 8,12); cioè, io faccio vedere, faccio funzionare gli occhi del vostro spirito; senza di me l’essere umano non vede, resta cieco perché la luce fa essere gli occhi e fa esistere le cose.

Se il mondo fosse permanentemente nel buio, tutte le cose del mondo non avrebbero forma ed esistenza, dunque la luce è sinonimo di vita. «Nella tua luce vediamo la luce» vuol dire: nella contemplazione di te noi capiamo, comprendiamo il senso della vita. Siamo al centro del mistero di Dio uno e trino, manifestato in Gesù nell’Epifania, nel Battesimo, nella Trasfigurazione. Cristo comunica attraverso la forma umana trasfigurata lo splendore del Padre, la gloria di Dio. La carne di Cristo è il sacramento del Padre, la carne di Cristo è sacramento della divinità. La discesa (catabasi) e l’abbassamento (kenosi) di Dio va dal mistero dell’incarnazione al mistero della redenzione. Il Natale è l’inizio, anche se la sua celebrazione nell’anno liturgico si è affermata solo dopo che la Chiesa aveva posto al centro del tempo annuale il mistero della Pasqua.

Nel rito bizantino per la preparazione dei doni (proskomidia), in cui la Chiesa commemora gli anni trascorsi da Gesù prima della vita pubblica, si adoperano degli strumenti sacri che ricordano la Natività, come la stella o asterisco, formata da due semicerchi di metallo prezioso, incrociati uno sull’altro, alla cui sommità è posta una croce e, nella parte inferiore, una stelletta, sulla patena o disco del pane – la mangiatoia dove è stato adagiato il Dio bambino –, a simboleggiare l’astro che guidò i Magi alla grotta.

Il luogo della preparazione (protesi) è come la grotta misteriosa in cui il Salvatore si degnò di nascere quando il Cielo venne portato sulla terra: esso divenne grotta e questa si cambiò in cielo [4], in essa fu confezionato per la prima volta il pane del sacrificio. Poi, quanto annunciato nell’ouverture della protesi, la liturgia lo dispiega come in una sinfonia: nella liturgia dei catecumeni il rito del “piccolo ingresso” con l’evangeliario, che sta a significare l’incarnazione con cui il Verbo ha fatto il suo ingresso nel mondo.

Sebbene tale allegoria sia tardiva, il realismo dell’immagine o icona da proporre alla venerazione attraverso gli atti liturgici, al contrario dello spiritualismo simbolico e per certi versi “iconoclasta”, corrisponde all’essenza del cristianesimo che è il mistero presente nel fatto storico della Persona e della vita di Gesù Cristo. La liturgia latina, che pure possedeva analoghe espressioni, dovrebbe recuperarle onde evitare il simbolismo astratto che non attrae l’uomo al mistero. Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell’arte come nella liturgia. Dunque, la liturgia manifesta il suo nesso causale con i misteri della vita di Cristo, in cui l’economia salvifica passa dalla cosmicità alla storicità.

Note

[1] Messale Romano, prefazio di Natale I.

[2] Liturgie und liturgische Bildung, Würzburg 1966, pp. 9-18.

[3] Sant’Ambrogio, De mysteriis, 2: SCh 25bis, 156.

[4] Cf. N. Cabasilas, Esposizione della Divina Liturgia,IV: PG 150, 377D-380A.


Si veda anche:

L'Inno del Cherubico: versione orientale della Santa Messa di San Gregorio Magno

Divina Liturgia in Rito Bizantino in comunione con Roma (Chiese in Italia e indirizzi)

Il rito del «Resurrexit» nella domenica di Pasqua

L'Eparchia di Lungro istituita da Benedetto XV nel 1919 per i cristiani bizantini

Nuova Parrocchia MARONITA a Roma con Altare "Versus Deum"




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La vestizione dei paramenti liturgici e le relative preghiere


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 9 dicembre 2009 (ZENIT.org).- L’articolo che presentiamo oggi si propone di ricordare l’uso antico di accompagnare la vestizione dei paramenti liturgici con delle preghiere, brevi ma molto ricche dal punto di vista biblico, teologico e spirituale. Simile pratica tradizionale è da ritenersi tutt’altro che superata. Essa va al contrario riscoperta nella sua bellezza ed utilità per la vita spirituale del sacerdote.



* * *



1. Cenni storici

Le vesti usate dai ministri sacri nelle celebrazioni liturgiche sono derivate dalle antiche vesti civili greche e romane. Nei primi secoli, l’abito delle persone di un certo livello sociale (gli honestiores) è stato adottato anche per il culto cristiano e questa prassi si è mantenuta nella Chiesa anche dopo la pace di Costantino. Come emerge da alcuni scrittori ecclesiastici, i ministri sacri portavano le vesti migliori, con tutta probabilità riservate per tale occasione [1].

Mentre nell’antichità cristiana le vesti liturgiche si sono distinte da quelle civili non in ragione della loro forma particolare, ma per la qualità della stoffa e per il loro particolare decoro, nel corso delle invasioni barbariche i costumi e, con essi, gli abiti di nuovi popoli sono stati introdotti in Occidente e hanno apportato cambiamenti nella moda profana. Invece, la Chiesa ha mantenuto essenzialmente inalterate le vesti usate dal clero nel culto pubblico; così si è differenziato l’uso civile delle vesti da quello liturgico.

In epoca carolingia, infine, i paramenti propri ai vari gradi del sacramento dell’ordine, tranne alcune eccezioni, sono stati definitivamente fissati ed hanno assunto la forma che hanno ancora oggi.

2. Funzione e significato spirituale

Al di là delle circostanze storiche, i paramenti sacri hanno una funzione importante nelle celebrazioni liturgiche: in primo luogo, il fatto che non sono portati nella vita ordinaria, e perciò possiedono un carattere cultuale, aiuta a staccarsi dalla quotidianità e dai suoi affanni, al momento di celebrare il culto divino. Inoltre, le forme ampie delle vesti, ad esempio del camice, della dalmatica e della casula o pianeta, pongono in secondo piano l’individualità di chi le porta, per far risaltare il suo ruolo liturgico. Si può dire che la “mimetizzazione” del corpo del ministro al di sotto delle ampie vesti, in un certo senso lo spersonalizza, di quella sana spersonalizzazione che toglie dal centro il ministro celebrante e riconosce il vero Protagonista dell’azione liturgica: Cristo. La forma delle vesti, dunque, dice che la liturgia viene celebrata in persona Christi e non a nome proprio. Colui che compie una funzione cultuale non attua in quanto persona privata, ma come ministro della Chiesa e come strumento nelle mani di Gesù Cristo. Il carattere sacro dei paramenti risulta anche dal fatto che vengono assunti secondo quanto descritto nel Rituale Romano.

Nella forma straordinaria del Rito Romano (cosiddetta di San Pio V), la vestizione dei paramenti liturgici è accompagnata da preghiere relative ad ogni veste, preghiere il cui testo si trova ancora in molte sagrestie. Anche se queste orazioni non sono più prescritte (ma neppure vietate) dal Messale della forma ordinaria emanato da Paolo VI, il loro uso è consigliabile, perché aiutano alla preparazione ed al raccoglimento del sacerdote prima della celebrazione del Sacrificio eucaristico. A conferma dell’utilità di queste preghiere, va notato che esse sono state incluse nel Compendium eucharisticum, pubblicato recentemente dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [2]. Inoltre, può essere utile ricordare che Pio XII, con decreto del 14 gennaio 1940, assegnò un’indulgenza di cento giorni per le singole orazioni.


                            abiti liturgici

3. Le singole vesti liturgiche e le preghiere che accompagnano la vestizione

1) All’inizio della vestizione, il sacerdote si lava le mani recitando un’apposita preghiera; oltre al fine pratico dell’igiene, questo atto ha anche un simbolismo profondo, in quanto significa il passaggio dal profano al sacro, dal mondo del peccato al puro santuario dell’Altissimo. Lavarsi le mani equivale in qualche modo al togliersi i sandali davanti al roveto ardente (cf. Esodo 3,5). La preghiera accenna a questa dimensione spirituale:

Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam; ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.

(Da’, o Signore, alle mie mani la virtù che ne cancelli ogni macchia: perché io ti possa servire senza macchia dell’anima e del corpo) [3].

All’abluzione delle mani, segue la vestizione vera e propria.

2) Si comincia con l’amitto, un panno di lino rettangolare munito di due fettucce, che si appoggia sulle spalle e si fa poi aderire al collo; infine si lega attorno alla vita. L’amitto ha lo scopo di coprire l’abito quotidiano attorno al collo, anche se si tratta dell’abito del sacerdote. In questo senso, bisogna ricordare che l’amitto va indossato anche quando si utilizzano fogge di camici moderne, le quali spesso non prevedono un’apertura ampia nella parte superiore, e tendono piuttosto a stringersi attorno al collo. Nonostante ciò, l’abito quotidiano rimane ugualmente visibile e per questo è necessario coprirlo anche in questi casi con l’amitto [4].

Nel Rito Romano, l’amitto è indossato prima del camice. Nell’assumerlo, il sacerdote recita la seguente preghiera:

Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.

(Imponi, Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per sconfiggere gli assalti diabolici).

Con richiamo alla Lettera di san Paolo agli Efesini 6,17, l’amitto viene interpretato come «l’elmo della salvezza», che deve proteggere colui che lo porta dalle tentazioni del demonio, in particolare dai pensieri e desideri cattivi durante la celebrazione liturgica. Questo simbolismo è ancora più chiaro nel costume seguito a partire dal medioevo dai Benedettini, Francescani e Domenicani, presso i quali l’amitto si applicava prima sulla testa e poi si lasciava cadere sulla casula o sulla dalmatica.

3) Il camice o alba è la lunga veste bianca indossata da tutti i sacri ministri, che ricorda la nuova veste immacolata che ogni cristiano ha ricevuto mediante il battesimo. Il camice è dunque simbolo della grazia santificante ricevuta nel primo sacramento ed è considerato anche simbolo della purezza di cuore necessaria per entrare nella gioia eterna della visione di Dio in Cielo (cf. Matteo 5,8). Questo si esprime nella preghiera detta dal sacerdote, mentre indossa il camice, orazione che fa riferimento ad Apocalisse 7,14:

Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruar sempiternis.

(Purificami, Signore, e monda il mio cuore, perché purificato nel Sangue dell’Agnello, io goda degli eterni gaudi).

4) Sopra il camice, all’altezza della vita, è indossato il cingolo, un cordone di lana o di altro materiale adatto che si utilizza a mo’ di cintura. Tutti gli officianti che indossano il camice dovrebbero portare anche il cingolo (questa consuetudine tradizionale è oggi disattesa molto di frequente) [5]. Per i diaconi, i sacerdoti e i vescovi, il cingolo può essere di diversi colori, secondo il tempo liturgico o la memoria del giorno. Nel simbolismo delle vesti liturgiche, il cingolo rappresenta la virtù del dominio di sé, che san Paolo enumera anche tra i frutti dello Spirito (cf. Galati 5,22). La corrispondente preghiera, prendendo spunto dalla Prima Lettera di Pietro 1,13, dice:

Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.

(Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità).

5) Il manipolo è un paramento liturgico adoperato nelle celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano; è caduto in disuso negli anni della riforma liturgica, anche se non è stato abolito. Il manipolo è simile alla stola, ma di lunghezza minore: è lungo meno di un metro e fissato a metà da un fermaglio o da fettucce simili a quelle che si trovano nella pianeta. Durante la Santa Messa nella forma straordinaria, il celebrante, il diacono e il suddiacono lo portano all’avambraccio sinistro. Questo paramento forse deriva da un fazzoletto (mappula) che era portato dai romani annodato al braccio sinistro. Siccome la mappula si utilizzava per detergere il viso da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Questa lettura è entrata anche nell’apposita preghiera di vestizione:

Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.

(O Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia il compenso del mio lavoro).

Come si vede, nella prima parte la preghiera cita il pianto ed il dolore che accompagnano il ministero sacerdotale, ma nella seconda parte si fa riferimento al frutto del proprio lavoro. Non sarà fuori luogo richiamare il passo di un salmo che può aver ispirato questa seconda simbologia del manipolo, visto che la Vulgata così rendeva il Salmo 125,5-6: «Qui seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos» (corsivo nostro).

6) La stola è l’elemento distintivo del ministro ordinato e si indossa sempre nella celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. È una striscia di stoffa, di norma ricamata, il cui colore varia secondo il tempo liturgico o il giorno del santorale. Indossandola, il sacerdote recita la relativa preghiera:

Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis; et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.

(Restituiscimi, o Signore, la stola dell’immortalità, che persi a causa del peccato del primo padre; e per quanto accedo indegno al tuo sacro mistero, che io raggiunga ugualmente la gioia senza fine).

Siccome la stola è un paramento di enorme importanza, che indica più di ogni altro lo stato di ministro ordinato, non si può non lamentare l’abuso ormai diffuso in molti luoghi che i sacerdoti non portino più la stola quando indossano la casula [6].

7) Infine, ci si riveste della casula o della pianeta, la veste propria di colui che celebra la Santa Messa. I libri liturgici hanno usato in passato i due termini latini casula e planeta come sinonimi. Mentre il nome di planeta si usava particolarmente a Roma ed è rimasto in Italia, il nome di casula deriva dalla forma tipica della veste che all’origine circondava interamente il sacro ministro che la portava. L’uso della parola casula si trova anche in altre ligue: «casulla» in spagnolo, «chasuble» in francese e in inglese, «Kasel» in tedesco. La preghiera relativa alla casula fa riferimento all’esortazione della Lettera ai Colossesi 3,14: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»; e, infatti, l’orazione con cui si indossa la casula o pianeta cita le parole del Signore contenute in Matteo 11,30:

Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.

(O Signore, che hai detto: Il mio gioco è soave e il mio carico è leggero: fa’ che io possa portare questo [indumento sacerdotale] in modo da conseguire la tua grazia. Amen).

In conclusione, si può auspicare che la riscoperta del simbolismo proprio ai paramenti e delle rispettive preghiere possa incoraggiare i sacerdoti a riprendere la consuetudine di pregare durante la vestizione, in modo da prepararsi con il dovuto raccoglimento alla celebrazione liturgica. Se è vero che è possibile pregare con diverse orazioni, o anche semplicemente elevando la mente a Dio, nondimeno i testi delle preghiere per la vestizione hanno dalla loro parte la brevità, la precisione del linguaggio, l’afflato di spiritualità biblica, nonché il fatto di essere state pregate per secoli da un numero incalcolabile di sacri ministri. Queste orazioni si raccomandano dunque ancora oggi, per la preparazione alla celebrazione liturgica, anche svolta in accordo alla forma ordinaria del Rito Romano.





Note

[1] Cf. ad esempio san Girolamo, Adversus Pelagianos, I, 30.

[2] Edito dalla LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 385-386.

[3] Riprendiamo il testo delle preghiere dall’edizione del Missale Romanum emanato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, Roman Catholics Books, Harrison (NY) 1996, p. lx. La traduzione in italiano delle preghiere è nostra.

[4] La Institutio Generalis Missalis Romani (2008) al n. 336 permette di non assumere l’amitto quando il camice è confezionato in maniera tale da coprire completamente il collo, nascondendo la vista dell’abito comune. Di fatto, però, avviene di rado che l’abito non sia visibile, anche solo parzialmente; di qui la raccomandazione ad utilizzare comunque l’amitto.

[5] Lo stesso n. 336 della Institutio del 2008 prevede la possibilità di omettere il cingolo, se il camice è confezionato in maniera tale da aderire al corpo senza di esso. Nonostante questa concessione, bisogna riconoscere: a) il valore tradizionale e simbolico dell’uso del cingolo; b) il fatto che difficilmente il camice – sia in foggia più tradizionale, che soprattutto nei tagli più moderni – aderisce da sé al corpo. Se la norma prevede la possibilità, essa dovrebbe però restare piuttosto ipotetica in via di fatto: in concreto, il cingolo risulta sempre necessario. A volte si trovano oggi dei camici che hanno il cingolo incorporato: una fettuccia di stoffa unita al camice per mezzo di una cucitura all’altezza della vita e che si annoda al momento della vestizione: in questi casi la preghiera sul cingolo può essere recitata mentre si annoda. Resta però di gran lunga preferibile la forma tradizionale.

[6] «Il Sacerdote che porta la casula secondo le rubriche non tralasci di indossare la stola. Tutti gli Ordinari provvedano che ogni uso contrario sia eliminato»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, 25 marzo 2004, n. 123.


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Le preghiere apologetiche dell’Ordo Missae


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 25 novembre 2009 (ZENIT.org).- In questo articolo, scritto originariamente in spagnolo, si spiegano l’importanza e il significato delle preghiere «apologetiche» durante la celebrazione della Santa Messa. Si tratta di preghiere che il sacerdote recita a bassa voce, in «segreto» davanti a Dio, per partecipare più consapevolmente e degnamente ai misteri divini che celebra in favore di tutta la Chiesa. I fedeli accompagnano queste preghiere sacerdotali con riverente silenzio esterno e con raccoglimento interiore, che favoriscono una comprensione più piena di quanto si svolge sull’altare e quindi una partecipazione più attiva alla liturgia.


***

Un silenzio che contempla e adora

Le preghiere apologetiche dell’Ordo Missae

La sacra liturgia, che il Concilio Vaticano II qualifica come l’azione sacerdotale di Cristo, e quindi la fonte e il culmine della vita ecclesiale, non può mai ridursi ad una semplice realtà estetica, né può essere considerata come uno strumento a fini puramente pedagogici o ecumenici. La celebrazione dei santi misteri è soprattutto azione di lode rivolta alla maestà suprema di Dio uno e trino, azione voluta da Dio stesso. Con essa l’uomo, personalmente e comunitariamente, si presenta davanti al Signore per rendergli grazie, cosciente del fatto che il suo stesso essere non può raggiungere la propria pienezza se non lo loda e non compie la sua volontà, nella costante ricerca del Regno che è già presente e tuttavia verrà definitivamente nel giorno della parusia del Signore Gesù[1].

Alla luce di ciò, è chiaro che la direzione di ogni azione liturgica – che è la stessa per sacerdote e fedeli – è quella rivolta verso il Signore: al Padre attraverso di Cristo nello Spirito Santo. Perciò «sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, bensì verso l’unico Signore»[2]. Si tratta di vivere costantemente il «conversi ad Dominum», quel volgersi ora verso il Signore, che suppone la conversio, il dirigere la nostra anima verso Gesù Cristo e, in questo modo, verso il Dio vivente, ossia verso la luce vera[3].

In questo modo, la celebrazione liturgica è vissuta come atto di quella virtù di religione che, coerentemente alla sua natura, deve caratterizzarsi per il profondo senso del sacro. In essa, l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di incontrarsi, in modo speciale, dinanzi a Colui che è il tre volte Santo e il Trascendente. Di qui che «un segno convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha presso i fedeli è senza dubbio la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente in mezzo a noi»[4].

L’atteggiamento appropriato nella celebrazione liturgica non può essere altro se non quello pieno di riverenza e di stupore, che scaturisce dal sapersi in presenza della maestà di Dio. Non era forse questo ciò che Dio stesso voleva indicare, ordinando a Mosè di togliersi i sandali dinanzi al roveto ardente? Non nasceva forse da questa coscienza l’atteggiamento di Mosè ed Elia, che non osarono guardare Dio faccia a faccia?[5]

In questo quadro si intendono meglio le parole del II Canone della Messa, che definiscono perfettamente l’essenza del ministero sacerdotale: «Astare coram te et tibi ministrare». Sono dunque due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: «Stare in presenza del Signore» e «servire alla sua presenza».

Il Santo Padre Benedetto XVI, commentando simile ministero, notava che il termine servizio si adotta fondamentalmente per riferirsi al servizio liturgico. Ciò implica diversi aspetti e, tra gli altri, la vicinanza e la familiarità. Scriveva il Papa:

«Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani»[6].


In effetti, prima di qualunque celebrazione liturgica, ma in modo speciale prima dell’Eucaristia – memoriale della morte e risurrezione del Signore, grazie al quale si fa realmente presente questo avventimento centrale della salvezza e si realizza l’opera della nostra redenzione – dobbiamo porci in adorazione dinanzi al Mistero: Mistero grande, Mistero di misericordia. Che cosa infatti avrebbe potuto fare di più Gesù per noi? Realmente, nell’Eucaristia egli ci mostra un amore che arriva «fino alla fine» (Gv 3, 1), un amore che non conosce limiti[7]. Rimaniamo attoniti e storditi dinanzi a una realtà così straordinaria: con quanta umile condiscendenza Dio ha voluto unirsi all’uomo! Se fra poche settimane staremo, commossi, davanti al presepe, contemplando l’incarnazione del Verbo, cosa non dobbiamo sentire davanti all’altare, sul quale Cristo fa presente nel tempo il suo Sacrificio, attraverso le povere mani del sacerdote? Non resta che inginocchiarsi e adorare in silenzio il grande Mistero della fede[8].

Conseguenza logica di quanto si è detto è che il popolo di Dio deve poter vedere, nei sacerdoti e anche negli altri ministri dell’altare, un comportamento pieno di riverenza e di dignità, che sia capace di aiutarli a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole o spiegazioni.

Nel Messale Romano detto «di san Pio V», come pure in diverse liturgie orientali, si trovano preghiere molto belle, con le quali il sacerdote esprime il più profondo sentimento di umiltà e riverenza dinanzi ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualunque liturgia[9]. Alcune di queste orazioni presenti nel citato Messale – che nella sua edizione del 1962 è il Messale proprio della «forma straordinaria» del Rito Romano – sono state riprese nel Messale promulgato dopo il Concilio Vaticano II. Queste preghiere sono chiamate tradizionalmente «Apologie».

A queste orazioni si riferisce la Institutio Generalis Missalis Romani al n. 33. Dopo il riferimento alle orazioni che il sacerdote pronuncia come celebrante a nome di tutta la Chiesa, la IGMR afferma che «talvolta [egli prega] invece anche a titolo personale, per poter compiere il proprio ministero con maggior attenzione e pietà. Tali preghiere, che sono proposte prima della proclamazione del Vangelo, alla preparazione dei doni, prima e dopo la Comunione del sacerdote, si dicono sottovoce».

Queste brevi formule pregate in silenzio invitano il sacerdote a personalizzare il suo compito, a consegnarsi al Signore anche a titolo personale. Esse sono allo stesso tempo un modo eccellente di incamminarsi – come gli altri fedeli – all’incontro con il Signore in modo interamente personale, oltre che comunitario. E questo è un primo aspetto di essenziale importanza, perché solo nella misura in cui si comprendono e si interiorizzano la struttura liturgica e le parole della liturgia, si può entrare in consonanza interiore con esse. Quando ciò succede, il sacerdote celebrante non parla con Dio solo come persona individuale, bensì entra nel «noi» della Chiesa che prega.

Se la celebratio è preghiera, ossia colloquio con Dio – colloquio di Dio con noi e nostro con Dio – l’«io» proprio del celebrante si trasforma, entrando nel «noi» della Chiesa. Si arricchisce e si allarga l’«io» pregando con la Chiesa, con le sue parole, e si intavola realmente un colloquio con il Signore. In questo modo il celebrare è realmente celebrare «con» la Chiesa: il cuore si dilata – ovviamente non in senso fisico, ma nel senso che esso si mette «con» la Chiesa in colloquio con Dio.
 
In questo processo di allargamento del cuore, le orazioni apologetiche ed il silenzio contemplativo e adorante che esse producono rappresentano un elemento importante e perciò fanno parte della struttura della celebrazione eucaristica da più di mille anni.

In secondo luogo, nel cammino verso il Signore ci accorgiamo della nostra indegnità. Perciò diventa necessario durante la celebrazione chiedere che Dio stesso ci trasformi ed accetti che partecipiamo in quella actio Dei che configura la liturgia. Di fatto, lo spirito di conversione continua è una delle condizioni personali che rendono possibile la actuosa participatio (partecipazione attiva) dei fedeli e dello stesso sacerdote celebrante. «Non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla liturgia eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita»[10].

Il raccoglimento ed il silenzio prima e durante la celebrazione si comprendono in questo contesto e facilitano il realizzarsi delle parole di Benedetto XVI: «Un cuore riconciliato con Dio abilita alla vera partecipazione»[11]. Ne consegue di nuovo che le orazioni apologetiche svolgono un ruolo importante nella celebrazione.

Ad esempio, le preghiere apologetiche «Munda cor meum», recitata prima della proclamazione del Vangelo, o «In spiritu humilitatis», che precede il lavabo dopo la presentazione delle oblate (pane e vino), permettono al sacerdote che le prega di prendere coscienza della realtà della sua indegnità e, allo stesso tempo, della grandezza della sua missione. «Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui»[12].

Il silenzio e i gesti di pietà e raccoglimento del celebrante muovono i fedeli che partecipano alla celebrazione a rendersi conto della necessità di prepararsi, di convertirsi, data l’importanza del momento liturgico cui partecipano: prima della lettura del Vangelo, o nell’imminenza dell’inizio della Preghiera Eucaristica.

Da parte loro le apologie «Per huius aquae et vini» durante l’Offertorio, o «Quod ore sumpsimus, Domine» durante la purificazione dei vasi sacri, si inquadrano perfettamente all’interno del desiderio di essere introdotti e trasformati nella e a causa della actio divina. Dobbiamo costantemente ricordare alla nostra mente e al nostro cuore che la liturgia eucaristica è actio Dei che ci unisce a Gesù attraverso il suo Spirito[13]. Queste due apologie orientano la nostra esistenza verso l’incarnazione e la risurrezione e, in realtà, costituiscono un elemento che favorisce la realizzazione di quel desiderio della Chiesa, che i fedeli non assistano alle celebrazioni come muti spettatori, ma che vi prendano parte attivamente dando grazie a Dio e imparando ad offrire se stessi insieme a Cristo[14].

Non ci sembra eccessivo, allora, affermare che le apologie svolgono un ruolo di primo piano nel ricordare al ministro ordinato che «è il medesimo Sacerdote Cristo Gesù di cui realmente il ministro fa le veci. Costui se, in forza della consacrazione sacerdotale che ha ricevuto, è in verità assimilato al Sommo Sacerdote, gode della potestà di agire con la potenza dello stesso Cristo che rappresenta (virtute ac persona ipsius Christi)»[15].

Allo stesso tempo, esse ricordano al sacerdote che, essendo ministro ordinato, egli è «il legame sacramentale che collega l’azione liturgica a ciò che hanno detto e fatto gli apostoli e, tramite loro, a ciò che ha detto e operato Cristo, sorgente e fondamento dei sacramenti»[16]. Le orazioni dette in segreto dal sacerdote costituiscono pertanto un mezzo straordinario per unirsi gli uni agli altri, per formare una comunità che è «liturga» e che partecipa tutta rivolta versus Deum per Iesum Christum.

Una delle apologie, conservata nell’Ordo Missae post-conciliare, rende perfettamente ciò che andiamo dicendo: «Domine Iesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntate Patris cooperante Spiritu Sancto per mortem tuam mundum vivificasti». Di fatto, le orazioni che il sacerdote prega in segreto, e questa in particolare, possono aiutare in modo efficace sacerdote e fedeli a raggiungere la chiara consapevolezza che la liturgia è opera della Santissima Trinità. «La preghiera e l’offerta della Chiesa sono inseparabili dalla preghiera e dall’offerta di Cristo, suo Capo»[17].

Così le apologie si configurano da più di mille anni come semplici formule purificate dalla storia, piene di contenuto teologico, che permettono al sacerdote che le prega, e ai fedeli che partecipano al silenzio che le accompagna, di rendersi conto del mysterium fidei al quale partecipano e così unirsi a Cristo riconoscendolo come Dio, fratello e amico.

Per questi motivi, dobbiamo rallegrarci che, nonostante il fatto che la riforma liturgica post-conciliare abbia drasticamente ridotto il numero e notevolmente ritoccato il testo di queste orazioni, esse continuino ad essere presenti anche nel più recente Ordo Missae. L’invito ai sacerdoti è a non trascurare queste preghiere durante la celebrazione e anche a non trasformarle da preghiere del sacerdote a preghiere di tutta l’assemblea, leggendole ad alta voce al pari di tutte le altre orazioni. Le orazioni apologetiche si basano su ed esprimono una teologia diversa e complementare a quella che fa da sfondo alle altre orazioni. Questa teologia si manifesta nel modo silenzioso e riverente con il quale sono pregate dal sacerdote e accompagnate dagli altri fedeli.



[Traduzione dallo spagnolo di don Mauro Gagliardi]



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1) Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001.

2) J. Ratzinger/Benedetto XVI, Prefazione al primo volume delle Gesammelte Schriften.

3) Cf. Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

4) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 65.

5) Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001.

6) Benedetto XVI, Omelia nella Messa Crismale, 20.03.2008.

7) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 11.

8) Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2004.

9) Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001.

10) Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 55.

11) Ibid.

12) Ibid., n. 23.

13) Cf. Ibid., n. 37.

14) Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 48.

15) Pio XII, Mediator Dei, cit. in Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1548.

16) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1120.

17) Ibid., n. 1553.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote nella celebrazione eucaristica


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 11 novembre 2009 (ZENIT.org).- Riprendiamo con questo articolo la rubrica Spirito della Liturgia, che si propone di presentare, in modo accessibile e sintetico, diversi temi di teologia liturgica. Questo primo articolo presenta ai lettori il tema generale della nuova annata, che si estenderà sino alla fine del mese di giugno 2010.



***

don Mauro Gagliardi

Il Santo Padre Benedetto XVI ha indetto, come a tutti noto, l’Anno Sacerdotale (giugno 2009 – giugno 2010), in occasione del 150° anniversario del dies natalis del Santo Curato d’Ars. L’intento è di «contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi» [1].

San Giovanni Maria Vianney, oltre a rappresentare al vivo un modello sommo di sacerdote, ha sempre annunciato con chiarezza e con enfasi l’incomparabile dignità del sacerdozio e la centralità del ministero ordinato in seno alla Chiesa. Attingendo ai suoi insegnamenti, il Santo Padre ha riproposto le seguenti parole del Santo: «“Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”». E ancora: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo» [2].

Come si vede, san Giovanni Maria individua la grandezza del sacerdote con riferimento privilegiato al potere che egli esercita nei sacramenti a nome e nella Persona di Cristo. Benedetto XVI ha messo in evidenza questo fatto, riportando ancora altre parole del Curato d’Ars, che si riferiscono in particolare al ministero di celebrare la Santa Eucaristia. Il Papa scrive che il Santo «era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: “La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”» [3].

L’Anno Sacerdotale propone alla nostra riflessione la figura del sacerdote e, in modo particolare, la sua dignità di ministro ordinato che celebra i sacramenti, a beneficio di tutta la Chiesa, nella Persona di Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote [4].

In questo Anno Sacerdotale, che si celebra tra il 2009 ed il 2010, ci sono tuttavia anche altre ricorrenze che merita ricordare, perché intimamente connesse con l’indole eucaristica della dignità sacerdotale. Nel 1969, il Papa Paolo VI promulgava, con la Costituzione apostolica Missale Romanum, il nuovo Messale approntato dopo il Concilio Vaticano II. Nel presente anno 2009, dunque, si celebra il 40° di tale promulgazione.

Il prossimo anno 2010, si celebreranno altri due anniversari, pure legati direttamente alla celebrazione dell’Eucaristia. Il primo coincide con il 40° anniversario (1970-2010) della promulgazione della definitiva editio typica (prima) della Institutio Generalis Missalis Romani. Il secondo coincide con il 440° anniversario della promulgazione del Messale attualmente detto Vetus Ordo o Usus antiquior, promulgato da san Pio V con la Costituzione apostolica Quo primum del 14 luglio 1570. Tale Costituzione è richiamata, assieme al Messale di san Pio V, sin dalle prime parole della menzionata Costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI [5].

I due Messali, uniti anche dalla celebrazione dei rispettivi anniversari, sono due forme dell’unica lex orandi della Chiesa di Rito latino. A questo riguardo, si è espresso il Santo Padre Benedetto XVI, insegnando che, in relazione al Messale di Paolo VI, «il Messale Romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito dal beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” [“legge della preghiera”] e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico Rito Romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa» [6].

La possibilità di una serena ed armonica coesistenza delle due forme dell’unico Rito Romano è infine stata indirettamente affermata anche dalla compresenza di entrambi gli Ordines Missae (beato Giovanni XXIII e Paolo VI) all’interno del recentissimo Compendium Eucharisticum, pubblicato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [7].

La coincidenza di queste diverse ricorrenze ha dettato anche il tema che la rubrica Spirito della Liturgia si propone di approfondire quest’anno: quello del «Sacerdote nella Celebrazione eucaristica». Attraverso brevi articoli a cadenza quindicinale, redatti da teologi, liturgisti e canonisti competenti, cercheremo di presentare in modo chiaro ed accessibile il ruolo ed il compito del sacerdote nelle diverse parti della Messa, tenendo presenti entrambi i Messali di cui si celebrano gli anniversari. L’auspicio è che questi articoli possano aiutare i sacerdoti a cogliere l’opportunità di riflessione e di conversione offerta dall’Anno Sacerdotale, e che li possano stimolare ad una cura sempre più attenta dell’ars celebrandi. Speriamo inoltre che i contributi che saranno via via pubblicati possano aiutare anche gli altri lettori – religiosi, religiose, seminaristi, fedeli laici – a riconsiderare con maggiore attenzione, e a venerare con profondo rispetto religioso, la grandezza del Mistero eucaristico e la dignità del ministero sacerdotale, nonché a riscoprire la loro centralità nella vita e nella missione della Chiesa.


Note

[1] Benedetto XVI, Lettera di Indizione dell’Anno Sacerdotale, 16.06.2009.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] I presbiteri «esercitano al massimo grado il loro sacro munus nel culto eucaristico o sinassi, nella quale, agendo in persona di Cristo [in persona Christi] e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano ed applicano l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre come Vittima immacolata, fino alla venuta del Signore»: Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 28: AAS 57 (1965), p. 34. Cf. anche Presbyterorum Ordinis, nn. 2; 12; 13.

[5] Cf. Paolo VI, Missale Romanum, 03.04.1969: AAS 61 (1969), p. 217.

[6] Benedetto XVI, Summorum Pontificum, 07.07.2007, art. 1.

[7] Cf. Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Compendium Eucharisticum, LEV, Città del Vaticano 2009. La preparazione di questo testo era stata affidata direttamente dal Santo Padre, che ne aveva dato notizia nella Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, 22.02.2007, n. 93.




(Come potete leggere sopra alcuni articoli sono stati già inseriti)


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Il sacerdote nell'Offertorio della S. Messa


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 10 febbraio 2010 (ZENIT.org).- L'articolo odierno della nostra rubrica - scritto originariamente in spagnolo da don Juan Silvestre, professore di Liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice - descrive il ruolo del sacerdote nell'Offertorio della Santa Messa, prendendo in considerazione solo la forma ordinaria del Rito Romano, che è stata semplificata, sia nei gesti sia soprattutto nelle orazioni, rispetto alla forma straordinaria. Il testo pone in evidenza la ricchezza spirituale che, nonostante ciò, è ancora possibile individuarvi (Don Mauro Gagliardi).

* * *


Il sacerdote nell'Offertorio della S. Messa


Don Juan José Silvestre Valór



«Nella Chiesa antica esisteva la consuetudine che il vescovo o il sacerdote dopo l'omelia esortasse i fedeli esclamando "Conversi ad Dominum" - volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava anzitutto che essi si voltassero verso l'oriente, nella direzione da cui sorge il sole in quanto segno di Cristo che ritorna, all'incontro con il quale noi andiamo nella celebrazione eucaristica. Dove per qualche ragione questo non era possibile, essi volgevano lo sguardo all'immagine di Cristo nell'abside oppure alla croce, per orientarsi verso il Signore. Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del dirigere la nostra anima verso Gesù Cristo e, in questo modo, verso il Dio vivente, verso la luce vera»[1]. Queste parole del Santo Padre Benedetto XVI ci permettono di introdurre al tema che ora ci interessa: «Il sacerdote nell'Offertorio della Santa Messa».

Terminata la Liturgia della Parola, entriamo nella Liturgia Eucaristica. Come è noto, entrambe le parti della Messa «sono strettamente unite tra loro e formano un unico atto di culto»[2]. Di qui che la oblatio donorum, o presentazione delle offerte, primo gesto che il sacerdote, rappresentando Cristo Signore, realizza nella Liturgia Eucaristica[3], non è semplicemente un "intermezzo" tra questa e la Liturgia della Parola, bensì costituisce un punto di unione tra queste due parti strettamente connesse per formare, senza confondersi, un unico rito. Di fatto, la Parola di Dio, che la Chiesa legge e proclama nella liturgia, conduce all'Eucaristia.

La Liturgia della Parola è un vero discorso, che attende ed esige una risposta. Essa possiede il carattere di proclamazione e di dialogo: Dio che parla al suo popolo e questo che risponde e fa sua la Parola divina per mezzo del silenzio e del canto; che aderisce ad essa professando la propria fede nella professio fidei e che, pieno di fiducia si presenta con le sue richieste al Signore[4]. Di conseguenza, il reciproco rivolgersi di colui che proclama verso chi ascolta, e viceversa, implica che sia ragionevole che si pongano l'uno di fronte all'altro[5].

Tuttavia, quando il sacerdote lascia l'ambone o la sede, per salire all'altare - centro di tutta la Liturgia Eucaristica[6] - ci prepariamo in modo più immediato alla preghiera comune che sacerdote e fedeli dirigono al Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo[7]. In questa parte della celebrazione, il sacerdote parla al popolo unicamente dall'altare[8], dato che l'azione sacrificale che ha luogo nella Liturgia Eucaristica non si dirige principalmente alla comunità. Di fatto, l'orientamento spirituale ed interiore di tutti, del sacerdote - come rappresentante di tutta la Chiesa - e dei fedeli, è versus Deum per Iesum Christum. In questo modo, comprendiamo meglio l'esclamazione della Chiesa antica: Conversi ad Dominum. «Sacerdote e fedeli certamente non pregano l'uno verso l'altro, bensì verso l'unico Signore. Pertanto, durante la preghiera guardano nella stessa direzione, verso un'immagine di Cristo nell'abside, o verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come fece il Signore nell'orazione sacerdotale la notte prima della sua Passione»[9].

La oblatio donorum, vale a dire l'Offertorio o presentazione dei doni, prepara il sacrificio. Agli inizi si trattava di una semplice preparazione esteriore del centro e vertice di tutta la celebrazione, che è la Preghiera Eucaristica. Così si vede nelle testimonianze di Giustino[10], o nello sviluppo più elaborato che presenta l'Ordo Romanus I già nel secolo VII. Ad ogni modo, limitarsi a considerare l'offerta dei fedeli, in questi primi secoli, a partire solo dalla semplice apparenza esterna preparatoria, significherebbe svuotare il suo significato ideale e concreto[11].

In realtà, molto presto si intese questo gesto materiale in modo molto più profondo. Tale preparazione non sarà concepita unicamente come un'azione esteriore necessaria, bensì come un processo essenzialmente interiore. Per questo si relazionò con il gesto del capofamiglia giudaico che eleva il pane verso Dio, per riceverlo di nuovo da Lui, rinnovato. In un secondo momento, inteso in modo più profondo, questo gesto si associa con la preparazione che Israele fa di se stesso per presentarsi davanti al suo Signore. In questo modo, il gesto esterno di preparare i doni si comprenderà, sempre più, come un prepararsi interiormente dinanzi alla vicinanza del Signore, che cerca i cristiani nelle loro offerte. In realtà «si fa manifesto che il vero dono del sacrificio conforme alla Parola siamo noi, o almeno dobbiamo arrivare ad esserlo, con la partecipazione all'atto con il quale Gesù Cristo offre se stesso al Padre»[12].

Questo approfondimento del gesto della presentazione dei doni risulta una conseguenza logica della stessa forma esterna che presenta la Santa Messa[13]. Il suo elemento primordiale, il novum radicale che Gesù inserisce nella cena sacrificale giudaica, è precisamente l'«Eucaristia», cioè il fatto che sia un'orazione memoriale di azione di grazie. Questa oratio - la solenne Preghiera Eucaristica - è qualcosa di più che una serie di parole: è actio divina che si realizza attraverso il discorso umano. Per mezzo di essa, gli elementi della terra sono transustanziati, strappati, per dir così, dal loro radicamento creaturale, assunti nel fondamento più profondo del proprio essere e trasformati nel Corpo e Sangue del Signore. Noi stessi, partecipando a questa azione, siamo trasformati e ci convertiamo nel vero Corpo di Cristo.

Si comprende, così, che «il memoriale della sua totale donazione non consiste nella ripetizione dell'Ultima Cena, bensì propriamente nell'Eucaristia, vale a dire, nella novità radicale del culto cristiano. Gesù ci ha affidato così il compito di partecipare alla sua hora. L'Eucaristia ci inserisce nell'atto oblativo di Gesù. Non riceviamo il Logos solamente in modo passivo; siamo invece coinvolti nella dinamica della sua donazione. Egli ci attrae verso di sé»[14].

È Dio stesso colui che opera nella Preghiera Eucaristica e noi ci sentiamo attratti verso questa azione di Dio[15]. In questo cammino, che inizia con la presentazione dei doni, il sacerdote esercita una funzione di mediazione, come avviene nel Canone o nel momento della Comunione. Sebbene con l'attuale processione offertoriale venga soprattutto evidenziato il compito dei fedeli, rimane sempre la mediazione sacerdotale perché il sacerdote riceve le offerte e le depone sull'altare[16].

In questo percorso verso la oratio, che comporta l'offerta di sé, le azioni esterne risultano secondarie. Dinanzi alla oratio, l'agire dell'uomo passa in secondo piano. Essenziale è l'azione di Dio, che attraverso la Preghiera Eucaristica vuole trasformare noi stessi e il mondo. Per questa ragione, è logico che alla Preghiera Eucaristica ci accostiamo in silenzio e pregando. E rimane d'obbligo che, al processo esteriore della presentazione dei doni, corrisponda un processo interiore: «La preparazione di noi stessi; ci mettiamo in cammino, ci presentiamo al Signore: gli chiediamo che ci prepari per la trasformazione. Il silenzio comune è pertanto orazione comune, persino azione comune; è porsi in cammino dall'ambito della nostra vita quotidiana verso il Signore, per farci suoi contemporanei»[17].

Pertanto, il momento della oblatio donorum, «gesto umile e semplice, ha un significato molto grande: nel pane e nel vino che portiamo all'altare tutta la creazione è assunta da Cristo redentore per essere trasformata e presentata al Padre»[18]. È ciò che potremmo chiamare il carattere cosmico e universale della Celebrazione eucaristica. L'offertorio prepara la celebrazione e ci inserisce nel «mysterium fidei che si realizza nell'Eucaristia: il mondo nato dalle mani di Dio creatore ritorna a Lui redento da Cristo»[19].

Non è altro il significato del gesto dell'elevazione dei doni e delle orazioni che lo accompagnano: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo. Lo presentiamo a te perché diventi per noi cibo di vita eterna». Il contenuto delle preghiere è collegato con le orazioni che gli ebrei recitavano a tavola. Orazioni che, nella forma di benedizioni, hanno per punto di riferimento la Pasqua di Israele e sono pensate, declamate e vissute pensando ad essa. Questo suppone che esse sono state scelte in quanto anticipazione silenziosa del mistero pasquale di Gesù Cristo. Per questo, la preparazione e la realtà definitiva del sacrificio di Cristo si compenetrano in queste parole.

D'altro canto, «portiamo all'altare anche la sofferenza e il dolore del mondo, coscienti che tutto è prezioso agli occhi di Dio»[20]. In realtà, «il celebrante, in quanto ministro del sacrificio, è l'autentico sacerdote, che porta a compimento - in virtù del potere specifico della sacra ordinazione - il vero atto sacrificale che conduce di nuovo tutti gli esseri a Dio. Invece coloro che partecipano all'Eucaristia, senza sacrificare come lui, offrono assieme a lui, in virtù del loro sacerdozio comune, i propri sacrifici spirituali, rappresentati dal pane e dal vino, dal momento della loro preparazione sull'altare»[21].

Il pane e il vino diventano, in un certo senso, simbolo di tutto ciò che l'assemblea eucaristica in quanto tale porta in offerta a Dio e che essa offre in spirito. Questa è la forza ed il significato spirituale della presentazione dei doni[22]. In questa linea si comprende l'incensazione dei doni collocati sull'altare, della croce e dell'altare stesso, che significa l'oblazione della Chiesa e la sua preghiera, che salgono come incenso verso la presenza di Dio[23].

«Si comprende ora meglio perché la Liturgia Eucaristica, con il suo valore di di presentazione e di offerta della creazione e di se stessi a Dio iniziasse, nella Chiesa antica, con l'acclamazione: Conversi ad Dominum - dobbiamo sempre allontanarci dai cattivi sentieri sui quali tanto spesso ci incamminiamo con i nostri pensieri e le nostre opere. Dobbiamo invece sempre dirigerci verso di Lui. Dobbiamo essere sempre convertiti, con la nostra vita intera diretta verso Dio»[24].

Questo cammino di conversione, che deve essere più intenso ed immediato nel momento previo alla Preghiera Eucaristica, dovrebbe essere orientato in primo luogo dalla croce. Una proposta per attuare ciò la segnala Benedetto XVI: «Non procedere a nuove trasformazioni, ma proporre semplicemente la croce al centro dell'altare, verso la quale possano guardare insieme il sacerdote ed i fedeli, per lasciarsi guidare così dal Signore, che tutti insieme preghiamo»[25].

D'altro canto, il gesto di presentazione dei doni e l'atteggiamento con cui si realizza, stimolano il desiderio di conversione e di oblazione di sé. Sono diversi i gesti e le parole che sono finalizzati al raggiungimento di questo obiettivo. Vediamo brevemente due di essi.

a) La preghiera «In spiritu humilitatis...»[26]. Questa formula è entrata nei libri liturgici in Francia nel secolo IX. Appare per la prima volta nel sacramentario di Amiens, nella parte offertoriale[27]. Nella liturgia romana la troviamo già nell'Ordo della Curia e di lì passa nel Messale di san Pio V.

Come segnala Lodi, prima di iniziare il testo della grande Preghiera Eucaristica (o Canone Romano), che deve essere recitato fedelmente e nel quale le intenzioni personali sono più difficilmene esprimibili, troviamo questa orazione che permette al celebrante di esprimere i suoi sentimenti. Allo stesso tempo, per mezzo della Parola biblica che ispira tutta questa orazione, si esprime il senso ultimo di ogni oblazione esteriore: il dono del cuore accompagnato dalla disposizione intima al sacrificio personale[28].

Notiamo che l'articolazione al plurale («...sacrificium nostrum...») sembra indicare, una volta di più, che il sacerdote celebrante la pronunzia a nome suo e del popolo. Il fatto che essa sia pronunciata in segreto dal sacerdote non ci sembra ragione sufficiente per qualificarla come una orazione privata. Infatti, le stesse orazioni di presentazione dei doni possono essere pronunciate a voce alta o in segreto e in nessun caso si considerano private.

Il silenzio che si produce in questo momento di preghiera della apologia, e la posizione - profondamente inclinata - del sacerdote, che manifesta una chiara indole penitenziale, facilitano ai presenti alla celebrazione il penetrare nelle cose invisibili e accentuano l'idea della necessità della penitenza e dell'umiltà nell'incontrarci con Dio. Umiltà e riverenza dinanzi ai santi misteri: atteggiamenti che rivelano la sostanza stessa di qualunque liturgia[29].

b) Il lavabo[30]. Il lavabo nella Messa da parte del presbitero non rappresenta una tradizione universale (in Italia e in Spagna non lo si incontra praticamente fino al secolo XV, mentre in Francia fu introdotto a partire dagli Ordines che pervennero da Roma verso il secolo IX[31]). A Roma esso avrà una funzione unicamente pratica, sebbene più tardi acquisisca anche un valore simbolico[32].

Attualmente, il lavabo è un'azione puramente simbolica, come si deduce dalla formula impiegata, come pure dal fatto che, in genere, si lavano unicamente le punte delle dita indice e pollice - quelle che toccheranno la sacra Ostia. Possiamo dire che il rito esprime il desiderio di purificazione interiore[33]. Di qui che alcuni abbiano proposto e continuino a proporre la soppressione di questo rito. Non condividiamo quest'idea, perché pensiamo che esso ha un chiaro valore catechetico e inoltre rappresenta un rinnovato atto penitenziale per il sacerdote, che in quel momento si dispone all'azione eucaristica e si prepara ad essa. Allo stesso tempo, come nota Lodi[34], la formula che accompagna il gesto del lavabo delle mani è presente già dall'antichità cristiana come uso solenne, praticato prima che il sacerdote si raccolga in orazione, come testimoniato da Tertulliano[35] e dalla Traditio apostolica[36].

Il sacerdote conclude la presentazione dei doni rivolgendosi ai fedeli e chiedendo loro che preghino affinché «il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipontente». «Queste parole hanno valore di impegno in quanto esprimono il carattere di tutta la Liturgia Eucaristica e la pienezza del suo contenuto tanto divino quanto ecclesiale»[37]. Lo stesso può dirsi della risposta dei fedeli: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa». Risulta così logico che «la coscienza dell'atto di presentare le offerte dovrebbe essere mantenuta durante tutta la Messa»[38], perché i fedeli devono imparare ad offrire se stessi all'atto di offrire l'Ostia immacolata, non solo attraverso le mani del sacerdote, ma anche insieme con lui[39].

Note

[1] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

[2] Institutio Generalis Missalis Romani (= IGMR), n. 28; cf. Vaticano II, Sacrosanctum concilium, n. 56.

[3] Cf. IGMR, nn. 72-73.

[4] Cf. IGMR, n. 55.

[5] Cf. J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 102.

[6] Cf. IGMR, n. 73.

[7] Cf. IGMR, n. 78.

[8] Cf. «Pregare "ad Orientem versus"», Notitiae 322, vol. 29 (1993), p. 249.

[9] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesammelte Schriften, Presentazione al vol. XI: Theologie der Liturgie.

[10] Cf. Giustino di Nablus, I Apologia, 65 ss.

[11] Cf. V. Raffa, «Oblazione dei fedeli», in Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2003, p. 405.

[12] J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 237.

[13] Cf. J. Ratzinger, «Forma y contenido de la celebración eucarística», in La fiesta de la fe, pp. 43-66.

[14] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 11.

[15] «La grandezza dell'opera di Cristo consiste appunto nel fatto che egli non resta isolato e separato di fronte a noi, che non ci rinvia a una semplice passività; non solo ci sopporta, ma ci porta, si identifica con noi, che a lui appartengono i nostri peccati, a noi il suo essere: egli ci accoglie realmente, così che diventiamo attivi con lui e a partire da lui, agiamo con lui e partecipiamo quindi al suo sacrificio, condividiamo il suo mistero. Così anche la nostra vita e la nostra sofferenza, la nostra speranza e il nostro amore diventano fecondi nel nuovo cuore che lui ci ha donato" (J. Ratzinger, Il Dio vicino, pp. 47-48).

[16] Cf. IGMR, n. 73.

[17] J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 236.

[18] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 47.

[19] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 8. «Comunque sia da spiegare la cosa, oggettivamente parlando non sembra potersi negare l'effettivo coinvolgimento già attuale nell'azione e nel movimento, che diremmo di natura oblativa (offerimus), della terra, dell'uomo e della sua attività creativa, ovviamente non come oggetto assoluto chiuso in se stesso e concluso definitivamente nell'attimo fuggente, ma dinamico, aperto a un divenire e mirato a un traguardo futuro in se stesso, ma già presente nella mente e nel cuore. Il sacrificio certo ritualmente si ripresenterà solo nella preghiera eucaristica. Tuttavia non sarà come un evento che emerge del vuoto. Sarà invece il culmine di un'ascesa vissuta interiormente e tutta tesa ad esso» (V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, p. 415).

[20] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 47.

[21] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24.02.1980), n. 9.

[22] Cf. IGMR, n. 73.

[23] Cf. IGMR, 75.

[24] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

[25] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesammelte Schriften, Presentazione al vol. XI: Theologie der Liturgie.

[26] Cf. J. Jungmann, El sacrificio eucarístico, II, nn. 52, 58, 60, 105. M. Righetti, Historia de la Liturgia, II, p. 292.

[27] Cf. P. Tirot, «Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle», Ephemerides Liturgicae 98 (1984), p. 169.

[28] Cf. E. Lodi, «Les prières privées du prêtre dans le déroulement de la messe romain», en L'Eucharistie: célebrations, rites, piétés, BEL Subsidia 79, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 1995, p. 246.

[29] Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all'Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (21.09.2001).

[30] Cf. J. Jungmann, El sacrificio eucarístico, nn. 83-84. M. Righetti, Historia de la Liturgia, II, pp. 282-284.

[31] Cf. P. Tirot, «Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle», pp. 174-177.

[32] Conviene non dimenticare che un'abluzione simbolica si trova da tempi molto antichi nella liturgia della Messa in Oriente. Essa è attestata già nella catechesi mistagogica attribuita a san Cirillo di Gerusalemme morto nel 387 (cf. Catechesi mistagogiche, V, 2: ed. A. Piédagnel, SCh 126, 146-148) nonché, tra V e VI secolo, nello Pseudo-Dionigi (cf. Ecclesiastica Hierarchia, III, 3, 10: PG 3, 437D-440AB).

[33] IGMR, n. 76: «Deinde sacerdos manus lavat ad latus altaris, quo rito desiderium internae purificationis exprimitur».

[34] Cf. E. Lodi, «Les prières privées du prêtre dans le déroulement de la messe romain», p. 246.

[35] Cf. Tertulliano, De oratione, III: CSEL 20, 188.

[36] Cf. Tradition Apostolique, 41, SCh 22bis, 125.

[37] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24.02.1980), n. 9.

[38] Ibid.

[39] Cf. Vaticano II, Sacrosanctum concilium, n. 48.

[Traduzione dallo spagnolo di Don Mauro Gagliardi]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote e il Canone della S. Messa, o Prece eucaristica


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



ROMA, mercoledì, 24 febbraio 2010 (ZENIT.org).- L'odierno articolo della nostra rubrica - scritto originariamente in inglese e che termina citando un testo di J. Ratzinger che viene qui tradotto per la prima volta in italiano dall'originale tedesco - evidenzia l'importanza della Preghiera Eucaristica della Santa Messa. L'articolo invita tutti i fedeli, ma in particolare i sacerdoti, a riconoscere nel Canone della Messa il cuore e il culmine della vita cristiana (don Mauro Gagliardi).




 

***


Il cuore e culmine della Santa Messa

La Preghiera Eucaristica, nota nella tradizione orientale come Anaphora («offerta»), è davvero il «cuore» e il «culmine» della celebrazione della Santa Messa, come spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica[1]. Nella tradizione romana, la Preghiera Eucaristica ha preso il nome di Canon Missae («Canone della Messa»), espressione che si trova nei primi Sacramentari e che risale almeno al Papa Vigilio (537-555), il quale parla della «prex canonica»[2].

La Anafora o Canone è una lunga preghiera che ha forma di ringraziamento (eucharistia), improntata all'esempio di Cristo stesso durante l'Ultima Cena, quando Gesù prese il pane ed il calice del vino e «diede grazie» (Mt 26,27; Mc 14,23; Lc 22,19; 1Cor 11,23). San Cipriano di Cartagine (morto nel 258), uno dei testimoni più importanti della tradizione latina, ha fornito una formulazione classica del legame inseparabile tra la celebrazione liturgica e l'evento dell'istituzione dell'Eucaristia nel cenacolo, quando ha enfatizzato il fatto che il celebrante deve imitare da vicino gli atti e le parole che il Signore usò in quell'occasione, e dai quali dipende la validità dei sacramenti[3].

Il Santo Padre Benedetto XVI ha espresso questa verità essenziale della fede in un'omelia tenuta a Parigi durante la sua Visita Apostolica del 2008:

«Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo. Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e da tutta la Chiesa da quasi duemila anni: Cristo ha istituito il sacramento dell'Eucaristia la sera del Giovedì Santo. Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant'Agostino, "più intimo a noi che noi medesimi" (cf. Confess. III, 6.11)»[4].

Le singole parole del «ringraziamento» di Cristo - eccetto quelle dell'istituzione, con le quali il Signore stabilì il Sacrificio della Nuova Alleanza - non ci sono state trasmesse e perciò all'interno della Tradizione Apostolica si è sviluppata una varietà di riti che sono storicamente associati con le sedi primaziali più importanti, che sono nominate dal sesto canone del Concilio di Nicea (325): Roma, Alessandria, Antiochia e, un poco più tardi, Bisanzio[5].

Elementi essenziali della Prece Eucaristica

Gli elementi essenziali della Preghiera Eucaristica sono presentati sinteticamente nel Catechismo:

- Nel Prefazio, «la Chiesa rende grazie al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo, per tutte le sue opere, per la creazione, la redenzione e la santificazione. In questo modo l'intera comunità si unisce alla lode incessante che la Chiesa celeste, gli angeli e tutti i santi cantano al Dio tre volte Santo»[6].

- Nell'Epiclesi, la Chiesa «prega il Padre di mandare il suo Santo Spirito (o la potenza della sua benedizione) sul pane e sul vino, affinché diventino, per la sua potenza, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo e perché coloro che partecipano all'Eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito (alcune tradizioni liturgiche situano l'epiclesi dopo l'anamnesi)»[7].

- Nel cuore della Preghiera Eucaristica, ossia nel racconto dell'istituzione, «l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte»[8].

- Al racconto istituzionale fa seguito l'anamnesi, nella quale «la Chiesa fa memoria della Passione, della Risurrezione e del Ritorno glorioso di Gesù Cristo; essa presenta al Padre l'offerta di suo Figlio che ci riconcilia con lui»[9].

- Nelle intercessioni, si «manifesta che l'Eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa del cielo e della terra, dei vivi e dei defunti, e nella comunione con i pastori della Chiesa, il Papa, il vescovo della diocesi, il suo presbiterio e i suoi diaconi, e tutti i vescovi del mondo con le loro Chiese»[10].

Dalla tarda antichità fino alla riforma liturgica effettuata dopo il Concilio Vaticano II, il Canon Missae era l'unica Preghiera Eucaristica del Rito Romano, ed è ancora così per la forma straordinaria di questo rito, celebrata in accordo al Missale Romanum del 1962. Nella editio typica del Messale pubblicata nel 1970, il Canone Romano è stato conservato con alcune modifiche secondarie (e con la riduzione dei gesti rubricali) come la prima di quattro Preghiere Eucaristiche. Le nuove Preghiere Eucaristiche contengono elementi sia della tradizione latina che di quelle orientali. Successivamente, sono state aggiunge al Messale ancora altre Preghiere Eucaristiche.

Il Canon Missae risale alla seconda metà del IV secolo, periodo in cui la liturgia latina romana cominciò a svilupparsi pienamente. Nel suo De Sacramentis, che consiste in una serie di catechesi tenute ai nuovi battezzati attorno all'anno 390, sant'Ambrogio cita in modo esteso brani della Preghiera Eucaristica utilizzata in quel tempo nella sua città[11]. I brani citati rappresentano le prime formulazioni delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone che si trova nei primi Sacramentari romani.

Nella più anticha tradizione romana, il Canone inizia con ciò che noi oggi chiamiamo Prefazio, un atto solenne di ringraziamento a Dio per i suoi innumerevoli benefici, specialmente per la sua opera di salvezza. Il Sanctus fu introdotto in un momento successivo, separando così il Prefazio dalle preghiere che seguono. È una caratteristica propria del Rito Romano che il testo del Prefazio vari in accordo al tempo liturgico o alla festa celebrata. Le collezioni più antiche di Messe riportavano diversi Prefazi, che si erano molto ridotti già nel primo medioevo, sicché il Missale Romanum del 1570 ne mantenne soltanto undici. Successivamente se ne aggiunsero altri e di certo rappresenta uno dei guadagni dell'opera più recente di riforma liturgica l'aver arricchito il corpus dei Prefazi scegliendoli dalle fonti antiche[12].

La preghiera sacerdotale

Come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Dominicae Cenae nei primi anni del suo pontificato, l'Eucaristia è «la principale e centrale ragion d'essere del sacramento del sacerdozio, nato effettivamente nel momento dell'istituzione dell'Eucaristia e insieme con essa»[13]. La Preghiera Eucaristica è davvero la preghiera sacerdotale per eccellenza perché, come insegna il Concilio Vaticano II, il sacerdote ordinato «compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo»[14]. Il sacerdote, che ricevendo il sacramento dell'Ordine è stato conformato a Cristo Sommo Sacerdote, agisce e parla rappresentando Cristo Capo. È per questa ragione - scrive Giovanni Paolo II nella sua ultima Enciclica Ecclesia de Eucharistia - che «nel Messale Romano è prescritto che sia unicamente il sacerdote a recitare la Preghiera Eucaristica, mentre il popolo vi si associa con fede e in silenzio»[15].

Nella consacrazione dell'Eucaristia, il sacerdote ordinato non agisce mai da solo, ma sempre in e con il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa, i cui membri, attraverso le virtù infuse della fede e della carità, partecipano all'azione di Cristo Capo rappresentati dal sacerdote ministro. Il Papa Pio XII, nella sua Enciclica Mediator Dei, afferma che anche i fedeli «offrono la Vittima divina, sebbene in un senso diverso» rispetto a come la offre il sacerdote ministro. Questo insegnamento è confermato da riferimenti agli scritti sulla Messa di Papa Innocenzo III e di san Roberto Bellarmino. Pio XII richiama l'attenzione anche sul fatto che le preghiere liturgiche di offerta sono spesso alla prima persona plurale, come avviene anche in diverse parti del Canone della Messa[16]. Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Sacra Liturgia, segue la Mediator Dei quando proclama che i fedeli, al partecipare al Mistero della Fede, ossia alla Santa Eucaristia, «rendano grazie a Dio, offrendo la Vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, e imparino ad offrire se stessi»[17]. Come insegna poi la Costituzione Dogmatica conciliare sulla Chiesa, «i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia»[18]. Attraverso il carattere indelebile che hanno ricevuto nel Battesimo, i fedeli partecipano al sacerdozio di Cristo e pertanto anche all'offerta sacrificale che Egli fa di sé al Padre nello Spirito Santo.

Questo insegnamento del Magistero della Chiesa offre anche il fondamento per una rinnovata e più profonda comprensione della participatio actuosa (partecipazione attiva) dei fedeli alla liturgia, partecipazione che non è solo esteriore, ma anche e soprattutto interiore. Da questa prospettiva si capisce anche meglio perché sin dall'epoca carolingia fino alla riforma del Vaticano II, e anche oggi nella forma straordinaria del Rito Romano, il sacerdote celebrante prega il Canone in silenzio. Come ha spiegato l'allora Cardinale Joseph Ratzinger, così facendo non si nega la comunione davanti a Dio:

«Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della Preghiera Eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della Celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l'educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l'indirizzo fondamentale del canone; dall'altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l'intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l'unità della Chiesa nel silenzio della Preghiera Eucaristica ha sperimentato che cos'è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito. Qui noi preghiamo davvero tutti insieme il Canone, sia pure nel legame con l'incarico particolare del servizio sacerdotale»[19].

Per i sacerdoti, la Celebrazione dell'Eucaristia è il momento più importante della giornata. Tutte le altre attività, ogni altro aspetto della loro esistenza sacerdotale deve essere intimamente connesso all'offerta del Santo Sacrificio. Qui troviamo il cuore del sacerdozio e anzi di tutta la natura sacramentale della Chiesa, come l'allora teologo Joseph Ratzinger ha detto così bene:

«Affinché l'evento avvenuto in un tempo passato si faccia presente, devono dunque essere pronunciate le parole: Questo è il mio Corpo - Questo è il mio Sangue. Ma in queste parole si suppone che parli l'Io di Gesù Cristo. Solo Lui può dire queste cose; sono le Sue parole. Nessun uomo può pretendere di dichiarare l'Io di Gesù Cristo come proprio. Nessuno può qui dire in modo appropriato "Io" e "Mio". Eppure ciò deve essere detto, se il mistero salvifico non è più un lontano passato. Perciò questo si può dire a partire da un munus [Vollmacht] che nessuno può darsi da sé - un munus che neppure una comunità o molte comunità possono trasmettere, bensì solo può fondarsi sull'autorizzazione "sacramentale" data all'intera Chiesa da Gesù Cristo stesso. [...] E questo è esattamente l'"Ordinazione sacerdotale" e il "Sacerdozio"»[20].

Note

[1] Catechismo della Chiesa Cattolica [= CCC], n. 1352.

[2] Papa Vigilio, Ep. ad Profuturum, 5: PL 69,18

[3] Cipriano di Cartagine, Ep. 63,16-17: CSEL 3,714-715.

[4] Benedetto XVI, Omelia durante la Celebrazione Eucaristica all'Esplanade des Invalides, Paris (13 settembre 2008).

[5] Cf. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 155-166.

[6] CCC, n. 1352.

[7] CCC, n. 1353

[8] Ibid.

[9] CCC, n. 1354.

[10] Ibid.

[11] Ambrogio di Milano, De Sacramentis, IV, 5,21-22; 6,26-27: CSEL 73,55 e 57.

[12] Nella sua Lettera ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il "Motu Proprio" sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 (7 luglio 2007), Papa Benedetto XVI indica che il Messale antico potrebbe essere arricchito dall'inserimento di «nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi».

[13] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Dominicae Cenae (24 febbraio 1980), n. 2.

[14] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 10.

[15] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), n. 28.

[16] Pio XII, Lettera Enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), nn. 85-87.

[17] Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 48.

[18] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 10.

[19] J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 211.

[20] J. Ratzinger, Das Fest des Glaubens. Versuche zur Theologie des Gottesdienstes, Johannes, Einsiedeln 1993 (III ediz.), pp. 84-85 (= J. Ratzinger, Theologie der Liturgie. Die sakramentale Begründung christlicher Existenz, Gesammelte Schriften 11, Freiburg, Herder 2008, p. 626).


[Traduzione dall'inglese e dal tedesco di don Mauro Gagliardi]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote nei Riti di Comunione della Santa Messa


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 10 marzo 2010 (ZENIT.org).- Padre Paul Gunter, professore presso il Pontificio Istituto Liturgico e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ci offre in questo articolo una panoramica sui Riti di Comunione della Santa Messa (forma ordinaria e straordinaria), concentrando l'attenzione sul sacerdote celebrante. Dalla sua esposizione, emerge il significato liturgico e spirituale di questi riti, che dispongono sacerdote e fedeli a ricevere il Corpo e Sangue di Cristo con le dovute disposizioni dell'animo, in modo che la Comunione eucaristica rechi frutti di conversione e di santità nelle loro vite (don Mauro Gagliardi).



 

***

Paul Gunter, O.S.B.

Il sacerdote che si prepara ai riti di Comunione nella Messa è predisposto dalla Preghiera Eucaristica, che egli ha appena completato, a riconoscere che «nel racconto dell'istituzione, l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte»[1]. D'altro canto, quando giunge il momento in cui il sacerdote e i fedeli ricevono la Santa Eucaristia, ossia quando si preparano a mangiare il Corpo del Signore e a bere il suo Sangue, bisogna ricordarsi del discorso di Gesù a Cafarnao, che rappresenta la ricezione della Santa Eucaristia sia come una venuta che come un incontro[2].

Per quanto riguarda il tema della venuta, il Vangelo di san Giovanni dice: «Il pane di Dio è colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo»[3]. Circa l'incontro, l'Eucaristia viene addirittura concepita come espressione della relazione interna alla Santissima Trinità, testimoniata nella relazione filiale di Gesù con il suo Padre celeste. Gesù la spiega con le parole: «Non che alcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita»[4]. «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me»[5]. Di conseguenza, la preparazione personale e pubblica a ricevere la Santa Eucaristia, che i Riti di Comunione favoriscono in modo così intenso, sia nella forma ordinaria che in quella straordinaria della Messa, non preparano il sacerdote e i fedeli a ricevere una cosa, bensì una Persona. Come riassume Romano Guardini: «Non esso, bensì Egli, la Persona suprema lodata in tutta l'eternità»[6].

La forma ordinaria del Rito Romano

Nella forma ordinaria (o Messa di Paolo VI), all'inizio dei Riti di Comunione, guidati dal sacerdote, il popolo sta in piedi. A livello simbolico, l'immagine del sacerdote che sta al centro dell'altare, circondato dall'assemblea in piedi, rappresenta un'anticipazione della Chiesa che starà con Cristo in cielo alla fine dei tempi. Il sacerdote introduce il Pater Noster utilizzando una delle formule previste, prima che si reciti o si canti insieme la preghiera del Signore. Le parole che Gesù ci ha insegnato perché pregassimo con fiducia, e che noi usiamo prima di accostarci alla Santa Eucaristia, sono state commentate da numerosi autori. Ad esempio, alcuni testi presi dal commento di san Cipriano di Cartagine sulla preghiera del Signore sono stati inseriti nell'Ufficio delle Letture della Lituurgia delle Ore, all'undicesima settimana del Tempo Ordinario, per educarci ad un maggior apprezzamento del significato di tali parole[7]. I testi di san Cipriano ricordano al sacerdote che ogni recita del Pater Noster è un atto ecclesiale, che porta conseguenze nella vita degli altri. San Cipriano ha scritto:

«Prima di tutto, il Maestro della pace e dell'unità non volle che pregassimo per conto nostro ed in privato, in maniera tale che ognuno pregasse solo per sé. Perciò non diciamo "Padre mio che sei nei cieli", oppure "Dammi oggi il mio pane" [...]. La nostra preghiera è pubblica e per tutti e, quando preghiamo, lo facciamo non per una persona soltanto, ma per tutte, perché noi tutti siamo uno»[8].

La preghiera Libera nos continua a diffondere dolcemente le risonanze del Pater Noster e descrive l'umana indegnità e il bisogno di liberazione dal male con cui ci accostiamo all'Eucaristia. Il sacerdote, che prega in favore di ciascuno, riconosce, da un lato, le vicende che incidono sulla nostra pace, in vite macchiate da peccati e angustie; e, dall'altra, la gioiosa speranza che arreca la venuta del Signore. Il popolo completa la preghiera con una dossologia, che esprime l'aspettativa che il Signore compirà la sua promessa di essere glorificato in noi. La preghiera Domine Iesu Christe si concentra sui nostri peccati ed angustie e riposa sulla fede della Chiesa che attende la pace e l'unità del regno, come compimento della volontà di Dio. Dopo, il sacerdote stende le mani e scambia il saluto con l'assemblea: Pax Domini sit semper vobiscum. Si risponde: Et cum spiritu tuo.

L'effettivo scambiarsi la pace non rappresenta una componente obbligatoria della liturgia: il diacono o il sacerdote possono, se è opportuno, invitare i presenti a scambiarsi il segno della pace. Le discussioni a riguardo del momento più appropriato per scambiarsi la pace all'interno della liturgia restano distinte da quelle che riguardano il modo di scambiarsela. Il Messale mantiene le dovute distinzioni ecclesiologiche. Certamente, lo scambio della pace non è un momento nel quale da un'attitudine formale si passa ad una più informale, bensì un momento in cui i rapporti umani, che sono parte intrinseca dell'ordine delle cose, si rivelano nelle giuste proporzioni. «Si tratta di un rito di scambio, non di un saluto alla buona»[9]. San Tommaso d'Aquino ha espresso questa relazione tra i rapporti umani e il buon ordine nel suo bell'inno al Santissimo Sacramento dal titolo Pange Lingua, cantato il Giovedì Santo e nel giorno del Corpus Domini nella liturgia romana[10]. La terza strofa recita: «Nella notte della Cena, / sedendo a mensa con i suoi fratelli, / dopo aver osservato pienamente le prescrizioni della legge...»[11].

Il sacerdote scambia la pace con il diacono o con il ministro assistente. Non è previsto che egli lasci il presbiterio per salutare i fedeli nella navata. Costoro si scambiano la pace solo con coloro che sono più vicini. La rubrica distingue questi due gesti (del celebrante, cioè, e dei fedeli), il che impedisce che vi sia un fraintendimento ecclesiologico, che potrebbe scaturire da una visione puramente orizzontale.

La frazione del pane, che segue, possiede un aspetto pratico ed uno simbolico. Dal punto di vista rituale, in molti casi il celebrante spezza l'Ostia grande, che egli consuma in prima persona. D'altro canto, questo rito permette che si usi anche un'Ostia più grande rispetto al solito, che sia fatta in pezzi da distribuire ai fedeli. Una particola di essa viene inserita nel calice mentre il sacerdote dice in segreto: «Il Corpo e il Sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna».

L'Agnus Dei che accompagna questa azione domanda perdono e si rivolge a Gesù che è l'Agnello pasquale, il cui corpo sacrificato ha versato il sangue per la remissione dei peccati. L'immagine di Gesù come Agnello è rappresentata in modo straordinario da una pala d'altare della Cattedrale di san Bavone a Gand, nella quale si vede un agnello ritto in piedi sull'altare, che versa il suo sangue in un calice[12]. L'Agnus Dei si richiama al Libro dell'Apocalisse, che proclama la dignità dell'Agnello che è stato immolato[13] e la benedizione di coloro che sono invitati al banchetto di nozze dell'Agnello[14]. L'antichità dell'Agnus Dei nel Rito Romano è tale che molti studiosi ritengono che sia stato Papa Sergio I (687-701) ad introdurlo nella Messa. La terza invocazione dell'Agnus Dei domanda la pace perché la Santissima Eucaristia è Sacramento di Pace, in quanto è il mezzo attraverso cui tutti coloro che lo ricevono sono stretti in un vincolo di unità e di pace[15].

Il sacerdote prega in segreto una preghiera preparatoria personale alla Santa Comunione, tra le due che sono proposte nel Messale. Nella prima, egli chiede di essere liberato dalle sue iniquità e da ogni altro male, attraverso il Corpo e Sangue di Cristo, e domanda la grazia di rimanere nei comandamenti del Signore sicché nulla possa mai separarlo da lui. Nella seconda, il sacerdote prega che la sua ricezione del Corpo e Sangue di Cristo non porti su di lui un giudizio di condanna, ma al contrario rappresenti una difesa e una cura per l'anima e per il corpo. La Comunione del sacerdote, che sempre precede quella dei fedeli, si fa sotto le due specie, per completare l'azione liturgica della Messa. Egli prega che il Corpo e Sangue di Cristo lo conducano alla vita eterna. Invece, alla purificazione dei vasi sacri, egli prega in favore di coloro che hanno comunicato (incluso, quindi, se stesso), affinché ciò che hanno ricevuto con le labbra sia ricevuto da un cuore puro, e anche affinché da semplice dono fatto nel tempo, la Comunione eucaristica diventi un rimedio che dura per la vita eterna. L'insieme di queste parole ed azioni rivela che qui è stato celebrato un grande mistero: la Celebrazione eucaristica è un kairos - tempo favorevole del Signore - che ha intercettato il chronos, ossia il tempo che è semplice successione di eventi che si svolgono attorno a noi. Perciò qui, dinanzi a Dio, il silenzio rappresenta in fondo l'unica risposta personale appropriata che proviene dalla parte più intima del nostro essere per esprimere fede, riverenza e comunione d'amore con Colui che abbiamo ricevuto.

Questo momento di silenzio dovrebbe essere salvaguardato con attenzione. Dovrebbe durare dei minuti e non dei secondi, per fornire uno spazio di preghiera chiaramente definito. Nella preghiera dopo la Comunione, che pure prevede una pausa di silenzio dopo l'Oremus, soprattutto se essa non è stata osservata in precedenza, il sacerdote guida il ringraziamento della Chiesa e prega perché il dono della Comunione, che è stato distribuito, possa portare frutto in noi. L'Amen con il quale i fedeli rispondono a questa preghiera conclude i Riti di Comunione, che erano iniziati con l'invito del sacerdote a pregare il Pater Noster.

La forma straordinaria

Il sacerdote nei Riti di Comunione della forma straordinaria (o Messa di san Pio V) compie gesti più complessi, che indicano l'identità e la funzione sacerdotali, in preparazione alla Santa Comunione. Seguendo lo stesso ordine usato per esporre i riti della forma ordinaria, consideriamo ora quella straordinaria, cominciando dall'introduzione al Pater Noster fino alla conclusione della preghiera dopo la Comunione. Si notano certamente delle differenze tra le due forme che compongono il Rito Romano. Siccome il Messale Tridentino prevede celebrazioni con distinti gradi di solennità, in questi casi i ministri assistenti svolgono delle azioni che invece sono operate dallo stesso sacerdote quando celebra la Messa Bassa (non solenne). Il sacerdote recita il Pater Noster da solo e il ministro assistente risponde: sed libera nos a malo. Il Libera quaesumus include le intercessioni di tutti i santi, e oltre a menzionare la Vergine Maria e i santi Pietro e Paolo, include anche sant'Andrea, probabilmente come segno di particolare devozione verso l'apostolo.

Quando il sacerdote prega per ottenere la pace ai nostri giorni[16], fa il segno di croce su se stesso con la patena e la bacia sull'orlo superiore, prima di sottoporla all'Ostia, in modo da preparare lo svolgimento della frazione del pane. Nella sua spiegazione delle preghiere e cerimonie della Santa Messa, Guéranger offre un commento che descrive lo scopo della formula Haec Commixtio, che si dice al momento di inserire la particola dell'Ostia nel calice - commento che al tempo stesso rivela la tendenza di questo autore verso l'allegorismo:

«Il sacerdote poi lascia cadere la particola che aveva nella mano all'interno del calice, mescolando così il Corpo e il Sangue del Signore, dicendo allo stesso tempo: Haec commixtio et consecratio Corporis et Sanguinis Domini nostri Iesu Christi fiat accipientibus nobis in vitam aeternam. Amen. Qual è il significato di questo rito? Che cosa è significato nella mescolanza della Particola con il Sangue che è nel calice? Questo rito non è dei più antichi, sebbene abbia circa mille anni. Suo fine è di mostrare che, al momento della risurrezione di Nostro Signore, il suo Sangue fu unito di nuovo al suo Corpo, scorrendo nelle sue vene come prima. Non sarebbe stato sufficiente che si fosse riunita al suo Corpo soltanto la sua Anima; doveva avvenire lo stesso per il suo Sangue, in modo che il Signore fosse integro e completo. Il nostro Salvatore, perciò, nella risurrezione riprese il suo Sangue che era stato in precedenza versato sul Calvario, nel Pretorio e nell'Orto degli ulivi»[17].

Dopo l'Agnus Dei, ci sono tre preghiere che il sacerdote dice prima della Santa Comunione, con gli occhi fissi sulla sacra Ostia e il cui contenuto si ritrova largamente nei Riti di Comunione della forma ordinaria. Dopo, tenendo l'Ostia egli dice la formula Domine, non sum dignus per tre volte e simultaneamente si batte il petto. Quando purifica la patena nel calice prima di consumare il prezioso Sangue, egli cita il Salmo 115: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore», e vi aggiunge: «Lodando invocherò il Signore e sarò salvato dai miei nemici»[18]. Durante la purificazione del calice, dopo il Quod ore sumpsimus, il sacerdote prega che non rimanga in lui alcuna macchia dei suoi misfatti e che il Corpo e Sangue di Cristo che ha ricevuto trasformino il suo intero essere.

Si vede che l'enfasi riposta sul carattere sacedotale e sulle azioni liturgiche del sacerdote nei Riti di Comunione sono estremamente incoraggianti. Mentre non nascondono la consapevolezza che il sacerdote possiede della propria indegnità, sottolineano tuttavia la sua dignità unica e gli ricordano di come egli debba lottare per diventare puro e santo come Cristo. Perciò questi riti invitano - e invitano in modo immediato - il sacerdote che compie il sacrificio ad entrare in una più stretta unione con Gesù Cristo, Sommo Sacerdote e Vittima. Inoltre invitano i fedeli a riconoscere con gioia il ministero del sacerdozio, il cui mistero è essenziale per l'Eucaristia, quale «Fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa»[19]. In questi aspetti distinti dello stesso invito, la Chiesa intravede le meraviglie dell'amore di Dio, che ha umiliato se stesso per condividere la nostra umanità; amore che rinnova il suo invito ogni volta che la sua alleanza di amore si fa presente sull'altare, quando Cristo trascina la nostra esistenza umana sempre più profondamente nella sua vita risorta. Come testimonia l'autore dell'Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me»[20].

[Traduzione dall'inglese di don Mauro Gagliardi]


Note

[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1353.

[2] Gv 6.

[3] Gv 6,33.

[4] Gv 6,46-48.

[5] Gv 6,57.

[6] R. GUARDINI, Meditations Before Mass, tr. ingl. E. CASTENDYK, Sophia Institute, Manchester (NH) 1993 (rist.), 174.

[7] Cipriano di Cartagine, De Oratione dominica, 4-30, PL 3A, 91-113.

[8] Cipriano di Cartagine, De Oratione dominica, 8.

[9] J. DRISCOLL, What happens at Mass, Gracewing, Leominster 2005, 123.

[10] Durante la solenne traslazione del Santissimo Sacramento del Giovedì Santo e come Inno ai Vespri del Corpus Domini.

[11] «In supremae nocte caenae recumbens cum fratribus, observata lege plene...».

[12] J. VAN EYCK, Adorazione dell'Agnello, particolare della pala d'altare, 1432, Cattedrale di San Bavone, Gand, Belgio.

[13] Ap 5,11-12.

[14] Ap 19,7.9. Il sacerdote introduce il Domine, non sum dignus, formula basata su Mt 8,8 e Lc 7,6-7 cui, nel Messale di Paolo VI, è stata aggiunta l'immagine della festa dell'Agnello.

[15] «O segno di unità, o vincolo di carità»: Agostino di Ippona, In Joannis evangelium tractatus, 26, 13: PL 35, 1613; cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 47.

[16] «Da propitius pacem in diebus nostris».

[17] P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, tr. ingl. L. Shepherd, Stanbrook Abbey, Worcestershire 1885, 61.

[18] «Laudans invocabo Dominum et ab inimicis meis salvus ero».

[19] Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 3.

[20] Ap 3,19-20.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote nella celebrazione del Triduo Pasquale

La Lettera agli Ebrei è l’unico testo del Nuovo Testamento che attribuisce a nostro Signore Gesù Cristo i titoli di «sacerdote», «sommo sacerdote» e «mediatore della Nuova Alleanza», grazie all’offerta del sacrificio del suo corpo, anticipato nella Cena mistica del Giovedì Santo, consumato sulla Croce e presentato al Padre con la risurrezione e ascensione al cielo (cf. Eb 9,11-15). Tale testo viene meditato nella Liturgia delle Ore della quinta settimana di Quaresima – o di Passione, come nel calendario liturgico della forma straordinaria del Rito Romano – e nella Settimana Santa.

Noi sacerdoti cattolici dobbiamo sempre guardare a Gesù Cristo e avere gli stessi sentimenti suoi, fino all’immedesimazione con Lui; questa ascesi avviene con la conversione permanente. Come si attua la conversione in noi sacerdoti? Nel rito di ordinazione ci è chiesto di insegnare la fede cattolica, non le nostre idee, di «celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo – cioè la liturgia e i sacramenti – secondo la tradizione della Chiesa» e non secondo il nostro gusto; soprattutto di «essere sempre più strettamente uniti a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi», cioè di conformare la nostra vita al mistero della croce.

La Santa Chiesa onora il sacerdote e il sacerdote deve onorare la Chiesa con la santità della vita – si proponeva nel giorno d’ordinazione sant’Alfonso Maria de’ Liguori – con lo zelo, con la fatica e con il decoro. Egli offre Gesù Cristo all’Eterno Padre, perciò deve essere rivestito delle virtù di Gesù Cristo e prepararsi ad incontrare il Santo dei Santi. Quanto è importante la preparazione interiore ed esteriore alla sacra Liturgia, alla santa Messa! Si tratta di glorificare il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo.

Ora, tutto questo si attua al massimo grado nella Settimana Santa, la Grande e Santa Settimana, come dicono gli Orientali. Vediamone alcuni atti principali in base al Pontificale dei Vescovi.

1. La Domenica delle Palme, il sacerdote entra con Gesù in Gerusalemme nella gioia. La Chiesa celebra in questa domenica il trionfo del Salvatore e anticipa il gaudio per la vittoria del Risorto. La processione solenne in onore di Cristo Re è il rito più caratteristico della giornata: ricorda il corteo trionfale che accompagnò Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme, esprime l’incontro attuale della Chiesa col Salvatore nei santi misteri e rappresenta, in anticipo, l’ingresso degli eletti nella città celeste, secondo quanto dice l’Apostolo: «partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17).

La liturgia delle Palme ci orienta, dunque, verso la Presenza definitiva del Signore, in greco parousía. Non si tratta soltanto di commemorare l’ingresso del Signore nella Gerusalemme celeste ma, accostandoci al banchetto eucaristico, dove verrà spezzato il Pane, di annunciare simbolicamente ciò che si compirà realmente alla fine del mondo. Allora la Croce del Signore aprirà l’ingresso della Gerusalemme celeste a quella «folla immensa» che san Giovanni contemplò nella visione profetica, «di ogni nazione, stirpe, popolo e lingua...; vestiti di bianche vesti, con le palme in mano, che gridavano con voce potente: vittoria al nostro Dio che siede sul trono, e all’Agnello» (Ap 7, 9-10).

2. Con la Missa in Cena Domini del Giovedì Santo, il sacerdote entra nei principali misteri, l’istituzione della SS. Eucaristia e del sacerdozio ministeriale, come pure il comandamento dell’amore fraterno, significato dalla lavanda dei piedi, gesto che la liturgia copta compie ordinariamente ogni domenica. Nulla meglio del canto Ubi caritas lo esprime. Dopo la comunione, il sacerdote, indossato il velo omerale, sale all’altare, genuflette e, aiutato dal diacono, prende la pisside con le mani coperte dal velo omerale. È il simbolo della necessità di mani e cuore puri per avvicinarsi ai Divini Misteri e toccare il Signore!

3. Il Venerdì Santo in Passione Domini, il sacerdote è chiamato a salire sul Calvario. Alle tre del pomeriggio, o poco più tardi, ha luogo la celebrazione della Passione del Signore, in tre momenti: la Parola, la Croce, la Comunione. Egli si reca in processione e in silenzio all’altare. Dopo aver riverito l’altare, che rappresenta Cristo nell’austero denudamento del Calvario, si prostra a terra: è la proskýnesis, come nel giorno dell’ordinazione. Così egli esprime la convinzione di essere nulla davanti alla Maestà divina, e il pentimento di aver osato misurarsi, per mezzo del peccato, con l’Onnipotente. Come il Figlio che annullò se stesso, il sacerdote riconosce il suo nulla, e ha inizio la sua mediazione sacerdotale tra Dio e il popolo, che culmina nella preghiera solenne universale.

Quindi ha luogo l’ostensione e l’adorazione della Santa Croce: il sacerdote va all’altare con i diaconi e lì, stando in piedi, la riceve e la scopre in tre momenti successivi, o la mostra già scoperta, e invita ciascuna volta i fedeli all’adorazione con le parole: Ecco il legno della Croce. Nella sua scarna solennità, qui, nel cuore dell’anno liturgico, la tradizione ha resistito tenacemente più che in altri momenti dell’anno. Il sacerdote, dopo aver deposto la casula, possibilmente a piedi scalzi, si avvicina per primo alla Croce, genuflette davanti ad essa e la bacia. La teologia cattolica non teme di dare qui alla parola adorazione il suo vero significato. La vera Croce, bagnata dal sangue del Redentore, fa, per così dire, una sola cosa con Cristo e riceve l’adorazione. Perciò prostrandoci davanti al sacro legno, è al Signore che ci rivolgiamo: «Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua Santa Croce hai redento il mondo!».

4. La Pasqua del Regno Dio si è compiuta in Gesù: offerta e consumata la Cena, «nella notte in cui fu tradito»; immolata sul Calvario il Venerdì Santo, quando «s’era fatto buio su tutta la terra», ancora di notte riceve la consacrazione dell’approvazione divina, nella risurrezione di Cristo Signore: da Giovanni sappiamo che Maria di Magdala si recò al sepolcro «mentre era ancora buio»; quindi era avvenuta nelle ultime ore della notte dopo il sabato pasquale.

Nel Novus Ordo il sacerdote, fin dall’inizio della Veglia, indossa le vesti di colore bianco come per la Messa. Benedice il fuoco e accende il cero pasquale al nuovo fuoco, se ritiene, dopo aver inciso, come nella liturgia antica, una croce. Quindi traccia sopra il lato verticale della croce la lettera greca alfa e sotto, invece, la lettera omega; entro i bracci della croce traccia quattro cifre per indicare l’anno corrente, dicendo: Cristo ieri e oggi. Poi, fatta l’incisione della croce e degli altri segni, può infiggere nel cero cinque grani di incenso, dicendo: Per mezzo delle sue sante piaghe. Quindi, al canto di Lumen Christi, guida la processione verso la chiesa. Il sacerdote è a capo del popolo dei fedeli qui in terra, per poterlo guidare in cielo.

È il sacerdote a intonare solennemente l’Alleluia. Lo canta tre volte elevando gradualmente il tono della voce: il popolo dopo ogni volta, lo ripete nel medesimo tono.

Nella liturgia battesimale, il sacerdote, stando in piedi presso il fonte, benedice l’acqua cantando l’orazione: O Dio, per mezzo dei segni sacramentali; mentre invoca: Discenda, Padre, in quest’acqua, può immergere in essa il cero pasquale, una o tre volte. Il significato è profondo: il sacerdote è l’organo fecondatore del grembo ecclesiale, simboleggiato dalla vasca battesimale. Davvero nella persona di Cristo Capo egli genera figli che, come padre, fortifica col crisma e nutre con l’Eucaristia. Anche in ragione di tali funzioni maritali nei confronti della Chiesa sposa, il sacerdote non può che essere uomo. Tutto il senso mistico della Pasqua si manifesta nell’identità sacerdotale, raggiungendo la pienezza, il plếroma, come dice l’Oriente. Con esso l’iniziazione sacramentale raggiunge il culmine e la vita cristiana il centro.

Dunque, il sacerdote, salito con Gesù sulla croce il Venerdì e sceso nel suo sepolcro il Sabato Santo, la Domenica di Pasqua può affermare realmente con la sequenza: «Sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti».


Fraternamente CaterinaLD

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Il sacerdote nei Riti di Conclusione della Santa Messa


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 14 aprile 2010 (ZENIT.org).- Per la rubrica "Spirito della liturgia" pubblichiamo l'articolo di don Mauro Gagliardi, Ordinario della Facoltà di Teologia dell'Ateneo Pontificio "Regina Apostolorum" di Roma e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.



* * *

1. I Riti di Conclusione nelle due forme della Messa di Rito Romano

1.1 I Riti di Conclusione della Santa Messa si svolgono, in entrambe le forme del Rito Romano - l'ordinaria e la straordinaria - una volta terminata l'orazione dopo la Comunione. Per la forma ordinaria (o di Paolo VI), l'Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR) al n. 90 si esprime in questi termini:

«I Riti di Conclusione comprendono:

a) Brevi avvisi, se necessari;

b) Il saluto e la benedizione del sacerdote, che in alcuni giorni e in certe circostanze si può arricchire e sviluppare con l'orazione sul popolo o con un'altra formula più solenne.

c) Il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio;

d) Il bacio dell'altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l'inchino profondo all'altare da parte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri»i.

Il ruolo del sacerdote, dunque, consiste nel dare brevi avvisi ai fedeli, nel salutarli con la formula liturgica «Dominus vobiscum» e nel benedirli con formula semplice o solenne. Il sacerdote, se manca il diacono, pronuncia anche la formula di congedo «Ite, missa est»ii. I Riti terminano con il bacio dell'altare e con un inchino profondo ad esso, come all'inizio della Messa.

1.2 Possiamo confrontare questa struttura con quella stabilita dalle rubriche del Messale di forma straordinaria (o di san Pio V, nella revisione operata dal beato Giovanni XXIII). Gli elementi fondamentali sono comuni alle due forme del rito, ma si notano anche delle differenze. Il congedo «Ite, Missa est» qui è anteposto alla benedizioneiii. Ricevuta la risposta «Deo gratias», il sacerdote si volge di nuovo verso l'altare e, profondamente inclinato, con le mani giunte e appoggiate su di esso, dice la preghiera Placeat, che san Pio V fece aggiungere nel suo Messale (1570). Si tratta di una bella preghiera con la quale il ministro ordinato chiede alla Trinità di accettare il sacrificio eucaristico in favore suo e di tutti coloro per i quali il sacerdote lo ha offerto. Ecco il testo:

Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meæ: et præsta, ut sacrificium quod oculis tuæ maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile; mihique et omnibus pro quibus illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Ameniv.

Recitata con devozione questa preghiera, il sacerdote bacia l'altare, eleva gli occhi al cielo mentre apre e chiude le braccia elevandole e riabbassandole davanti al petto, inclina il capo verso la croce e dice: «Benedicat vos omnipotens Deus»; poi si volta verso il popolo e lo benedice con il segno di croce semplice nel nome della Trinità (lo stesso gesto che si compie nella forma ordinaria)v.

I Riti di Conclusione della forma straordinaria prevedono ancora una lettura biblica: il sacerdote, infatti, benedetto il popolo, si volge di nuovo all'altare, al lato del Vangelo, e proclama il Prologo del Vangelo di Giovanni, introducendo la lettura con le stesse formule e i medesimi gesti che si usano per la proclamazione del Vangelo all'interno della Liturgia della Parola. Nel leggere «Et Verbum caro factum est», egli genuflette. L'ultimo Vangelo è sempre Gv 1,1-14, che si omette in alcune celebrazionivi. Il Prologo del Vangelo di Giovanni veniva apprezzato già dal sec. XIII come formula di benedizione, in particolare per ottenere il bel tempo, e perciò fu inserito da san Pio V nel suo Messalevii. Questa lettura, pertanto, va intesa come parte della benedizione.

1.3 Notiamo che la continuità nei Riti di Conclusione tra la forma straordinaria e la forma ordinaria del Rito Romano sta in questi elementi: la benedizione del popolo, la formula di congedo, il bacio e la venerazione dell'altare. Le differenze tra le due forme si riscontrano per alcune soppressioni nel passaggio dal Vetus al Novus Ordo e in un'aggiunta operata da quest'ultimo. Il Novus Ordo ha cambiato la struttura di svolgimento dei Riti di Conclusione, sia invertendo l'ordine tra congedo e benedizione, sia eliminando la preghiera Placeat e l'ultimo Vangelo. L'aggiunta che esso fa consiste invece nell'indicazione dell'IGMR, n. 90/a, che prevede la possibilità di dare brevi avvisi all'inizio dei Riti di Conclusioneviii. Altra aggiunta (ripresa dalla prassi antica) è la possibilità di utilizzare formule di benedizione più solenni.

2. Le due colonne portanti dei Riti di Conclusione: benedizione e congedo

2.1 Da quanto detto, risulta che le due colonne portanti dei Riti di Conclusione della Messa sono la benedizione ed il congedo. Nella Sacra Scritturaix, la parola «benedire/benedizione» ha un significato molto ampio. Nell'ebraico dell'Antico Testamento, la radice brk indica la fortuna di quegli uomini a cui tutto riesce, ma indica anche la fecondità, l'abbondanza, la ricchezza e persino l'umidità delle nuvole (vera e propria ricchezza e benedizione nel deserto!). Oltre a questi significati, brk viene usata nel senso verbale di «rendere omaggio», «lodare», «glorificare», «esprimere riconoscenza» e anche «parlare bene di qualcuno». Infine, siccome in Israele qualsiasi saluto era un augurio di benedizione, brk significa anche semplicemente «salutare». Il significato più vicino al nostro modo di intendere la «benedizione», si trova espressa nei testi che trattano di auguri di benedizione dei padri ai figli, o dei sacerdoti ai partecipanti del culto, o ancora riguardo a promesse fatte da Dio in favore degli uomini. Si trovano anche formule liturgiche fisse, ad esempio Nm 6,23-26.

Nell'Antico Testamento, la benedizione, al pari della maledizione, ha una forza che realizza quanto le parole esprimono. Ad esempio, «benedizione» è una forza che si trasmette a qualcuno mediante l'imposizione delle mani (cf. Gen 48,14.17) o pronunciando una parola su qualcuno (cf. Gen 27,27-29; 49,1-28). Una volta ricevuta mediante la benedizione, la forza non può essere tolta da un uomo (cf. Gen 27,33.35; Nm 22,6). Anche quando Dio non viene esplicitamente menzionato, è sempre sottinteso che la forza della benedizione viene da lui. Oltre che sul popolo eletto e sui singoli, l'Antico Testamento conosce una benedizione divina anche su oggetti (cf. Es 23,25; Dt 7,13; 28,4-5; Ger 31,23; Pro 3,33), sebbene non venga presentato un rito liturgico corrispondente.

Tra i vari personaggi che nell'Antico Testamento benedicono, vi sono anche i sacerdoti che benedicono le singole persone che si recano al tempio (cf. 1Sam 2,20), i pellegrini (cf. Sal 118,26) nonché il popolo radunato (cf. Lev 9,22). Anzi si dice che, strettamente parlando, JHWH ha designato solo i sacerdoti e i leviti per benedire nel suo nome (cf. Dt 21,5; 10,8).

Al tempo di Gesù, nel tempio di Gerusalemme i sacerdoti, nel compiere la liturgia mattutina, pronunciavano la «benedizione di Aronne», ossia il già citato Nm 6,23-26. Il Nuovo Testamento fa propri gli usi e le concezioni della benedizione anticostestamentaria e giudaicax. La Lettera agli Ebrei ricorda la benedizione di Melchisedec ad Abramo e quella di Isacco a Giacobbe (cf. Eb 7,1; 11,20). Secondo san Paolo, la benedizione divina ad Abramo giunge anche a coloro che non sono sua discendenza per via carnale: necessaria, però, è la fede (cf. Gal 3,8-9). Interessante è ancora un'altra annotazione di Ebrei che, prendendo spunto dalla benedizione di Melchisedec, nota che «senza dubbio è l'inferiore che è benedetto dal superiore» (Eb 7,7): quindi, chi benedice è stato costituito da Dio in una posizione superiore rispetto a colui che è benedettoxi. Gesù stesso benedice mediante imposizione delle mani: i bambini (cf. Mc 10,16) e i discepoli (cf. Lc 24,50). Rileggendo la vita di Gesù dopo la risurrezione, san Pietro dirà che Dio ha mandato il Figlio a benedirci (cf. At 3,26) e san Paolo preciserà che si tratta di una eulogía pneumatiké, una benedizione spirituale (Ef 1,3). Il cristiano è chiamato a imitare Cristo e a benedire sempre: «Benedite (anche) coloro che vi maledicono» (Lc 6,28; cf. Rm 12,14).

2.2 Da questi elementi biblici discende l'uso liturgico cristiano di benedire, che ha il significato di «chiedere a Dio i suoi doni sulle sue creature, e rendergli grazie per i doni già ricevuti»xii. Prosper Guéranger ha sostenuto che la benedizione deve risalire in qualche modo alle istituzioni liturgiche dettate dagli stessi apostolixiii. A livello rituale, essa si compie con l'imposizione delle mani sui singoli oppure, per le assemblee, allargando le braccia e rivolgendo le palme delle mani sui presenti. Il segno cristiano di benedizione per eccellenza è però il segno della croce e perciò giustamente il Rito Romano fa iniziare e concludere l'Eucaristia con questo segno.

«"Diventerai una benedizione", aveva detto Dio ad Abramo al principio della storia della salvezza (Gen 12,2). In Cristo, figlio di Abramo, questa parola è pienamente compiuta. Egli è benedizione per l'intera creazione e per tutti gli uomini. La croce, che è il suo segno nel cielo e sulla terra, doveva dunque diventare il vero gesto di benedizione dei cristiani»xiv.

Al termine della Messa, la benedizione può svolgersi in diversi modi: come benedizione semplice, come tripla benedizione solenne, o come preghiera di benedizione sul popoloxv.

Il sacerdote celebrante deve tener presente il ruolo di mediatore che egli svolge anche nell'impartire ai fedeli la benedizione finale della Messa, che non è solo un atto dovuto, o un modo come un altro per concludere la celebrazione. Nella benedizione finale (come in tutta la Messa) si incrociano due dinamiche: quella dal basso, per la quale l'uomo rende grazie a Dio, «bene-dice» Dio per i doni già ricevuti; e quella dall'alto, per cui Dio stesso effonde i suoi beni sui fedeli. Il sacerdote è proprio al centro di questo flusso di preghiera e di grazia.

2.3 Dalla natura teologica della benedizione conclusiva, deriva anche il carattere proprio del congedo. Anche qui non si tratta semplicemente di un saluto di cortesia ai presenti, ma dell'esplicitazione di un mistero di grazia. Benedetto XVI ci ricorda che nel saluto «Ite, missa est»,

«ci è dato di cogliere il rapporto tra la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo. Nell'antichità "missa" significava semplicemente "dimissione". Tuttavia essa ha trovato nell'uso cristiano un significato sempre più profondo. L'espressione "dimissione", in realtà, si trasforma in "missione". Questo saluto esprime sinteticamente la natura missionaria della Chiesa. Pertanto, è bene aiutare il popolo di Dio ad approfondire questa dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia»xvi.

Il congedo da parte del sacerdote costituisce, pertanto, un ultimo ammonimento a vivere ciò che si è celebrato. Si tratta di custodire la grazia ricevuta nel sacramento, affinché porti frutti nella vita cristiana di ogni giorno. Perciò con il tema del congedo è collegato il grande tema del rapporto tra liturgia ed etica, intendendo quest'ultima nel senso più ampio possibile (vita morale nella carità, testimonianza, annuncio, missione, martirio). Il fatto che il congedo non sia a sé stante, ma che sia collegato e derivi dalla benedizione, ci dice che in questo impegno non siamo soli: il Signore ci accompagna ed «opera con noi» (cf. Mc 16,20) e perciò la nostra vita può essere il «culto logico» gradito a Dio (cf. Rm 12,1-2; 1Pt 2,5). «Il congedo, atto presidenziale, dichiara sciolta l'assemblea. Come ci si raduna su convocazione divina (Rm 8,30), così il presidente, che agisce "in persona Christi", invia i fedeli alle azioni usuali della vita, per compierle in modo nuovo, trasformandole in materiale di salvezza; perciò l'assemblea risponde: "Rendiamo grazie a Dio"»xvii.

Lo storico cattolico Henri Daniel-Rops, in un libretto in cui medita sul significato della Santa Messa nel rito di san Pio V, così riassume il senso della benedizione finale e del congedo:

«Proprio quando la Messa sta per finire, e noi stiamo per riprendere il lavoro di ogni giorno tra affanni e pericoli, la Chiesa ci ricorda che dobbiamo vivere sotto la mano di Dio e che è sotto la sua mano che saremo guidati e protetti. In questo modo tutta l'essenza della Messa sarà, in un certo senso, incorporata al nostro essere e continuata nella nostra vita d'ogni giorno. [...] L'Ite Missa est, o formula di congedo, può essere spiegata come un annuncio solenne della conclusione della funzione, ma ci avvisa anche che il nostro personale servizio di Dio non è che all'inizio. Con il Placeat [...] siamo guidati a contemplare l'onnipresenza del Dio Uno e Trino, nel cui Nome è invocata su di noi la Benedizione finale. Con un bellissimo gesto liturgico, il celebrante alza le mani in alto come per tirar giù dal Cielo la grazia che ci accompagnerà per proteggerci e guidarci»xviii.

Da sponda ortodossa, gli fa eco lo ieromonaco Gregorio del Monte Athos, che in un libro in cui commenta la divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, così interpreta il congedo:

«La divina liturgia è un cammino. Un cammino il cui scopo, il cui fine è l'incontro con Dio, l'unione dell'uomo con lui. Tale meta è già stata attinta. Siamo giunti al termine del nostro percorso. Abbiamo visto la luce vera. Abbiamo visto il Signore trasfigurato sul Tabor. Ci siamo accostati al suo santo corpo e al suo sangue immacolato. E mentre osiamo balbettare al nostro illustre visitatore: "È bello per noi restare qui" (Mt 17,4), la madre Chiesa ci ricorda che il termine del nostro cammino liturgico deve diventare l'inizio del nostro cammino di testimonianza: Procediamo in pace! Dobbiamo lasciare il monte della trasfigurazione per ritornare nel mondo e percorrere la via del martirio della nostra vita. Questo cammino diviene la testimonianza del credente in ordine alla Via e alla Vita che egli ospita in sé. Nella divina liturgia abbiamo ricevuto in noi Cristo. Ora siamo chiamati a portarlo al mondo. A diventare i testimoni della vita di lui nel mondo: i testimoni della nuova vita. [...] Dopo esserci accostati all'Eucaristia dobbiamo uscire nel mondo quali "cristofori" - portatori di Cristo - e "pneumatofori" - portatori dello Spirito -. In seguito dobbiamo lottare per far sì che non si estingua la luce ricevuta»xix.

3. Conclusioni e prospettive

3.1 Il sacerdote nei Riti di Conclusione della Santa Messa sta ancora svolgendo un compito sacerdotale, ossia di mediazione tra Dio e il popolo fedele. Non si tratta solo di salutarsi e di darsi appuntamento alla volta successiva, ricordando magari gli impegni infrasettimanali. Il sacerdote qui invoca sul popolo la benedizione divina, mentre a nome del popolo ringrazia Dio per i doni già ricevuti dalla sua bontà. Anche qui egli agisce in persona Christi. Perciò egli non dice, al plurale, «ci benedica Dio onnipotente...», né «la Messa è finita, andiamo in pace». Egli parla a nome e nella Persona di Cristo e come ministro della Chiesa, perciò imparte la benedizione, mentre la invoca, e invia i fedeli alla missione quotidiana della vita: «vi benedica Dio...», «andate in pace». Attraverso di lui, Cristo e la Chiesa incaricano i battezzati di questa testimonianza quotidiana da rendere al Vangelo.

3.2 La revisione dei Riti di Conclusione operata dal Messale di Paolo VI segna alcuni elementi di progresso: a) Le distinte modalità di benedizione esprimono con più completezza il messaggio della Scrittura e della Tradizione liturgica; b) La soppressione dell'ultimo Vangelo non rappresenta un danno grave, dato il carattere di benedizione che esso aveva nel Vetus Ordo; c) L'inversione di congedo e benedizione manifesta che solo con la grazia di Dio noi possiamo essere fedeli al Signore ogni giorno.

Su questi punti, non c'è da lamentarsi dei cambiamenti operati. Si potrebbe riflettere sull'opportunità di reintrodurre il Placeat. Bisogna però soprattutto riconoscere l'impoverimento teologico e celebrativo dovuto all'inserimento, nel Novus Ordo, degli avvisi ai fedeli come parte propria, ufficialmente normata, dei Riti di Conclusione. Sebbene la più recente IGMR sottolinei che tali avvisi devono essere brevi e che bisogna darli solo se sono necessari, ciò non toglie che si è introdotto ufficialmente un elemento di per sé estraneo alla liturgia, che poi di fatto è diventato molto spesso il vero elemento centrale dei Riti di Conclusione della Messa. Mentre, pertanto, va suggerito ai sacerdoti di ridurre al minimo, anzi possibilmente di eliminare del tutto questa pratica, si deve sperare che in una futura riforma dell'IGMR l'attuale concessione venga ritirata. Non c'è dubbio che la prassi degli avvisi finali abbia preceduto la normativa; nondimeno non appare opportuno riconoscere de iure quanto prima si era operato de facto, allo scopo di non favorire ulteriormente tanto l'abitudine in sé quanto l'estensione della sua pratica. È chiaro che una comunità cristiana, soprattutto parrocchiale, ha bisogno di forme di comunicazione interna, ma particolarmente ai nostri giorni esse non mancano, ragion per cui non appare necessario inserirle nella liturgia.



Note

i Citiamo l'IGMR nella editio typica tertia emendata (2008).

ii Nell'ultima edizione del Messale di forma ordinaria sono state inserite alcune formule alternative: «Ite, ad Evangelium Domini annuntiandum»; «Ite in pace, glorificando vita vestra Dominum»; «Ite in pace» (cf. Missale Romanum, Reimpressio emendata dell'Editio typica tertia [2008], n. 144, p. 605).

iii Nella Messa «in Cena Domini» e in ogni Messa cui segue una processione, l'«Ite» è sostituito con la formula «Benedicamus Domino»; nelle Messe per i defunti si sostituisce l'«Ite» con «Requiescant in pace». Infine, come è anche nella forma ordinaria, durante l'ottava di Pasqua alla formula ordinaria «Ite, missa est», come pure alla risposta «Deo gratias», si aggiunge due volte l'alleluja.

iv «Ti sia gradito, o santa Trinità, l'ossequio del mio servizio: e concedi che il sacrificio che io - sebbene indegno agli occhi della tua divina maestà - ho offerto, sia a te accetto; e, per la tua misericordia, sia propizio per me e per tutti coloro per i quali l'ho offerto. Per Cristo Nostro Signore. Amen».

v Si benedice in questo modo anche nelle Messe solenni. Nelle Messe in cui «Ite, missa est» si sostituisce con altre formule (cf. supra, nota 3), non si dà la benedizione. Se si è detto «Requiescant in pace», si passa direttamente dalla preghiera Placeat alla lettura dell'ultimo Vangelo. Se si è detto «Benedicamus Domino», si omette anche l'ultimo Vangelo.

vi L'ultimo Vangelo si omette: a) nelle Messe in cui l'«Ite» è sostituito da «Benedicamus Domino»; b) nella terza Messa di Natale; c) nella Dominica II Passionis seu in Palmis; d) nella Messa della Veglia Pasquale; e) nelle Messe dei defunti cui segue l'assoluzione al feretro, al tumulo o al drappo; f) in alcune Messe celebrate in occasione di consacrazioni o di benedizioni. La Domenica in Palmis si omette l'ultimo Vangelo se si è tenuta la benedizione dei rami di palma. Altrimenti, l'ultimo Vangelo si legge, ma la pericope giovannea è sostituita con Mt 21,1-9.

vii Cf. M. Kunzler, La liturgia della Chiesa, Jaca Book, Milano 20032, p. 347.

viii Cf. anche IGMR (2008), n. 166. L'IGMR (1969-1970) e l'IGMR (1975), ossia l'editio typica prima e l'editio typica altera del Messale post-conciliare, non parlavano della possibilità di dare avvisi al n. 57 (corrispondente al n. 90 dell'attuale editio typica tertia), però ne parlavano al n. 123 (corrispondente all'attuale n. 166).

ix Per quanto segue, cf. J. Guillet, «Bénédiction», in X. Léon-Dufour (ed.), Vocabulaire de Théologie Biblique, Cerf, Paris 1962, coll. 91-98; J. Scharbert, «Benedizione», in J. Bauer (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 178-189.

x Si può ricordare che anche a Qumran la benedizione aveva una funzione importante, ad esempio al momento di essere ammessi nella comunità (cf. 1QS II,1-4).

xi È ovvio che ciò si applica alla benedizione che Dio riversa su un uomo attraverso un altro uomo, scelto ed elevato da Dio ad una condizione superiore. Non si applica ai casi in cui l'uomo biblico «benedice Dio», dove il termine benedire viene usato nella sfumatura di dire-bene, lodare, onorare, ringraziare, ecc.

xii R. Berger, Kleines liturgisches Lexikon, Herder, Freiburg im Br. 1987: qui nell'edizione italiana Liturgia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 19973, p. 25.

xiii «La Liturgia stabilita dagli Apostoli deve aver contenuto necessariamente tutto ciò che era essenziale alla celebrazione del Sacrificio cristiano, all'amministrazione dei Sacramenti (sia dal punto di vista delle forme essenziali, che da quello dei riti richiesti per la dignità dei misteri), all'esercizio del potere di Santificazione e di Benedizione che la Chiesa ottiene da Cristo per mezzo degli stessi Apostoli...»: P. Guéranger, Institutions liturgiques, Société Générale de Librairie Catholique, Paris 18782, I, 38 (traduzione nostra).

xiv J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, p. 180.

xv Questa triplice opportunità si manifesta più chiaramente nel nuovo Messale, anche se il Vetus Ordo già prevedeva la triplice benedizione per le Messe pontificali e, almeno in Quaresima, presentava un'orazione sul popolo introdotta con la formula humiliate capita vestra Deo.

xvi Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 22.02.2007, n. 51. A. Nocent in passato ha contestato lo slittamento semantico di missa da «congedo» a «missione» e perciò ha lamentato le cattive traduzioni in lingua nazionale dell'«Ite, missa est»: cf. il suo «Storia della celebrazione dell'Eucaristia», in S. Marsili (ed.), Anàmnesis, 3/2: La Liturgia, eucaristia: teologia e storia della celebrazione, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983, pp. 189-190; 269-270.

xvii A. Sorrentino, L'Eucaristia: rito e vita, Dottrinari, Pellezzano (SA) 2008, p. 138.

xviii H. Daniel-Rops, Questa è la Messa. Riflessioni e meditazioni sulla Messa di san Pio V, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV) 2009, pp. 150-151.

xix G. Chatziemmanouil, La Divina Liturgia. "Ecco, io sono con voi... sino alla fine del mondo" (A. Ranzolin, ed.), LEV, Città del Vaticano 2002, pp. 247-248.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote nella celebrazione eucaristica di Pentecoste


Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi


ROMA, giovedì, 20 maggio 2010 (ZENIT.org).- In vista della solennità che conclude il Tempo di Pasqua, pubblichiamo l’articolo di Don Nicola Bux, noto teologo e liturgista nonché consultore di diversi dicasteri vaticani, dedicato al ruolo del sacerdote nella Messa di Pentecoste. L’Autore richiama i testi eucologici, ma soprattutto prende spunto dai riti della solennità, sia nella forma ordinaria che straordinaria del Rito Romano, per offrire una riflessione di ampio respiro su diversi temi teologici connessi con il mistero dell’invio del Paraclito sulla Chiesa. In particolare, emergono i temi dell’interpretazione ecclesiale della Scrittura e della cattolicità della Chiesa (Don Mauro Gagliardi).

***



La Pentecoste fa della Chiesa l’antitesi della torre di Babele. Ne fa la città dove, come recita l’orazione colletta della Messa in vigilia, «i popoli dispersi si raccolgono insieme, e le diverse lingue si uniscono a proclamare» con una sola fede la gloria del Signore. Questo è stato possibile dall’inizio, perché ciascuno ascoltava gli Apostoli predicare nella propria lingua. La predicazione del Vangelo precede e accompagna la sua stesura scritta: quindi, dall’inizio della Chiesa, è il Magistero apostolico a rendere comprensibile la Scrittura.

1. Alla luce di ciò, è necessario innanzitutto guardarsi da giudizi sommari sulla storia della Chiesa, quale quello che afferma che i cattolici dei secoli a noi più vicini ritenessero la lettura della Bibbia non necessaria alla salvezza, e dunque che fosse meglio trasmettere ai fedeli il messaggio biblico attraverso le «vie indirette» della predicazione e del catechismo. Dinanzi a giudizi simili, basta ricordare che il ministro della regina Candace, che pur leggeva Isaia in una lingua a lui familiare, non capiva il senso della Scrittura: «Come posso comprendere – osservò al diacono Filippo – se qualcuno non mi guida?» (At 8,31).

Gli Apostoli hanno esercitato la «mediazione» sacerdotale con la celebrazione del Sacrificio eucaristico e, prima ancora, «spezzando» la parola, cosa che avviene con la predicazione, la catechesi, l’omiletica. Solo un pregiudizio teologico può ritenere tali opere apostoliche delle «vie indirette» di accesso alla Scrittura. Così è Pietro che, ricevuto lo Spirito, prende la parola per spiegare quanto accaduto nel giorno di Pentecoste: questo fatto segna l’inizio del Magistero della Chiesa, senza il quale la Parola divina resta sigillata, quindi incomprensibile o soggetta all’interpretazione soggettiva.

Le «Profezie», ossia le letture della vigilia di Pentecoste nella forma straordinaria del Rito Romano, e nella Messa del sabato sera in quella ordinaria, illustrano l’«illuminazione» che compie lo Spirito nei cuori: certo, tale illuminazione può avvenire leggendo; ma, la Tradizione insegna che è da privilegiare l’ascolto. I liturgisti odierni sono tendenzialmente concordi nel confermare che l’atteggiamento più adeguato da parte dei fedeli durante la Liturgia della Parola è proprio quello dell’ascolto.

2. Altra tendenza diffusa ai nostri giorni consiste nel paragonare la vigilia di Pentecoste a quella pasquale. Vi sono, è chiaro, somiglianze, ma non vanno attutite le differenze. Le letture della Solennità ripropongono la doppia effusione dello Spirito: nel Vangelo di Giovanni, quella procedente dal Figlio Gesù, apparso nel cenacolo, per la remissione dei peccati; l’altra, degli Atti, per l’espansione missionaria e l’interiorizzazione del mistero pasquale. Tuttavia, la veglia della risurrezione del Signore è all’origine dell’effusione dello Spirito, che invece nella domenica di Pentecoste dà compimento alla Pasqua, a favore del corpo di Cristo che è la Chiesa. Infatti, il cero pasquale viene spento, a simboleggiare la conclusione della presenza visibile del Signore e l’inizio di quella invisibile per opera dello Spirito. Questo gesto indica la differenza tra Pasqua e Pentecoste. Anzi, dopo il congedo alleluiatico dei fedeli, il sacerdote celebrante potrebbe spegnere il cero – come previsto nella forma straordinaria già all’Ascensione – e togliere i grani d’incenso che egli stesso aveva infisso nel cero la notte di Pasqua.

3. Un altro gesto presente nella forma straordinaria è quello della genuflessione dei ministri alle Litanie che precedono l’inizio della Messa della vigilia e alla Sequenza nella Messa del giorno: un parallelo è nel rito della gonuklisía – la genuflessione – nella liturgia bizantina. Non si può ottenere la «discesa» dello Spirito Santo senza aver piegato le ginocchia in adorazione di Colui che, risorto e asceso al Cielo, invia dalla destra del Padre lo Spirito sulla Chiesa. L’iconografia latina rappresenta preferibilmente in tal modo la disposizione degli Apostoli con Maria nel cenacolo.

Solo la non conoscenza del background comune a Roma e Bisanzio – la cui evidenza rituale era maggiore prima della riforma liturgica postconciliare – può far ritenere la predicazione e la raffigurazione, come è stato scritto recentemente, «una pietà sentimentale dominata dalla contemplazione dei “misteri” della vita di Cristo».

Lo Spirito non vuole essere adorato, diceva per paradosso von Balthasar, ma vuole adorare in noi il Figlio Signore e, per Lui, il Padre: egli è «rivolto» verso il Signore, egli stesso è Signore. Tale adorazione appare come la conclusione logica del Mistero pasquale: Spiritus Domini replevit orbem terrarum, come canta l’antifona d’introito del giorno di Pentecoste.

4. Come si fa ad immaginare la discontinuità nella Tradizione della Chiesa, contrapponendo il nutrimento all’edificazione della fede, ritenendo che la predicazione di un tempo mirasse solo a quest’ultima? Gli amboni, i pergami e i pulpiti delle nostre cattedrali e chiese attestano che la parola di Dio è stata sempre al centro della vita ecclesiale, anche se noi chierici e laici non sempre abbiamo saputo trarne tutto il profitto possibile. Anzi, il fatto che tali strutture liturgiche fossero collocate in mezzo all’assemblea, ricorda la preoccupazione di istruire catecumeni e fedeli al fine di accedere ai sacramenti. Sebbene il Vaticano II abbia certamente promosso ulteriormente l’uso della Sacra Scrittura nella liturgia, constatiamo che finora il desiderio del concilio rimane come sospeso: basti prendere atto delle «lamentazioni» di catecheti e liturgisti sull’odierna realtà dell’omiletica e della catechesi, malgrado la riforma postconciliare. Dunque, bisogna piuttosto aver fede nello Spirito che in ogni tempo rinnova la faccia della terra! Nemmeno noi del terzo millennio siamo immuni da arretramenti spirituali.

5. Il sacerdote nella Pentecoste deve proclamare che «oggi» – come canta il Prefazio – si è compiuto il Mistero pasquale a Gerusalemme con la nascita della Chiesa universale, come ebbe a ricordare il Santo Padre nell’omelia di Pentecoste 2008, riprendendo l’insegnamento della Lettera Communionis notio inviata da lui – all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – ai vescovi della Chiesa Cattolica. La Chiesa è nata universale in un luogo, non particolare o locale, ma una e cattolica, santa e apostolica. È a tale appartenenza che i sacerdoti devono e si devono educare, prima che alla «diocesanità», la quale ha certamente valore, ma se innestata innanzitutto nella «cattolicità». Ne è sintomo l’istintivo immediato riferimento che i fedeli cattolici sentono verso il Papa, quale principio interiore di unità della Chiesa. L’autorità del Papa non è mediata da altra istanza, bensì è l’autorità dei vescovi che si esercita solo in comunione con quella del Vescovo di Roma.

6. Ne è segno, nella liturgia, l’uso della lingua latina, la quale, proprio perché superiore agli idiomi locali, ricorda visibilmente il mistero dell’unica lingua di Pentecoste, contrapposta alla confusione babelica. Dice il Prefazio: «Hai effuso lo Spirito Santo […] che ha riunito i linguaggi della famiglia umana nella professione dell’unica fede». Si rifletta sul fatto che il culto postula anche il linguaggio sacro, che col suo vocabolario costituisce una via specifica per organizzare l’esperienza religiosa. Mentre il razionalismo tende a rigettarlo, la fede nel soprannaturale porta necessariamente ad adottare un linguaggio sacro nel culto. Esso aiuta a preservare la Tradizione e l’ortodossia della fede – come attestano l’immutata presenza del Kyrie, degli Amen, degli Alleluia e dell’Osanna –; mentre volentieri vanno tradotte in lingua corrente le letture, ove è prevalente l’esigenza di comunicazione. Ritenere però che la lettura delle Scritture in latino ostacolerebbe l’efficacia della Parola di Dio nel cuore del credente, significa negare tutta la storia di fede e di santità di duemila anni.

La lingua latina serve ad esprimere meglio l’unità e l’universalità della Chiesa (cf. Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 62). Possiamo pensare che la cosiddetta «Messa internazionale», celebrata in più lingue, ove a turno solo una parte di fedeli comprende ciò che si dice (e gli altri, di conseguenza, non comprendono), esprima meglio l’universalità della Chiesa rispetto alla Messa in latino? D’altro canto, la lingua è parte di un ampio sforzo per evangelizzare la cultura, che proprio la Pentecoste ha inaugurato. La lingua latina è fattore di unità: essa ha posto le basi della civiltà cristiana, è giunta fino a noi e continuerà a svilupparsi.

7. Riteniamo che nella celebrazione di Pentecoste il sacerdote abbia la possibilità di istruire i fedeli su questi punti che abbiamo seppur sommariamente esposto: ne dipende la comprensione della cattolicità della Chiesa. Proprio a Gerusalemme il vescovo Cirillo puntualizzava: «Non domandare dove sia la Chiesa, ma specifica bene e chiedi dove sia la Chiesa Cattolica» (PG 33,1048).

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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02/07/2010 00:32
 
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Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica del Corpus Domini


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, giovedì, 3 giugno 2010 (ZENIT.org).- L’articolo odierno è dedicato alla solennità del Corpus Domini. Padre Michael Lang, Officiale della Congregazione per il Culto Divino e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ripercorre le principali tappe storiche che hanno condotto alla definitiva affermazione di questa importante ricorrenza liturgica. Richiamando i testi eucologici della Messa del giorno, egli offre alcune riflessioni teologico-spirituali, che si estendono anche alla tradizionale processione del Santissimo Sacramento. In particolare, si sottolinea il legame del Giovedì Santo e del Tempo di Pasqua con la solennità del Corpus Domini e l’importanza peculiare di quest’ultima per la vita spirituale dei sacerdoti (don Mauro Gagliardi).




* * *


Uwe Michael Lang

La solennità del Corpo e del Sangue del Signore, nelle parole di Papa Benedetto XVI, «ci invita a contemplare il sommo Mistero della nostra fede: la Santissima Eucaristia, reale presenza del Signore Gesù Cristo nel Sacramento dell’altare. Ogni volta che il sacerdote rinnova il Sacrificio eucaristico, nella preghiera di consacrazione ripete: “Questo è il mio corpo... questo è il mio sangue”. Lo dice prestando la voce, le mani e il cuore a Cristo, che ha voluto restare con noi ed essere il cuore pulsante della Chiesa»[1].

1. Le origini della festa del Corpus Domini[2]

Le origini remote della festa del Corpus Domini si trovano nello sviluppo del culto dell’Eucaristia nel corso del Medioevo. Le dispute dottrinali fra Pascasio Radberto († 865) e Ratramno di Corbie († 868), e soprattutto fra Berengario di Tours († 1088) e Lanfranco di Pavia († 1089), portarono ad un chiarimento della dottrina sulla presenza reale di Cristo nel Sacramento e, di conseguenza, ad un più sentito e diffuso culto dell’Eucaristia.

Nel secolo XIII si manifesta un movimento più ampio di devozione eucaristica presso il popolo ed anche fra i teologi, con un forte contributo dato dal nuovo ordine francescano. Il Concilio Lateranense IV (1215), precisando la dottrina della Chiesa con la formula della transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, ha spinto ad un ulteriore sviluppo del culto eucaristico. Lo stesso Concilio prescrisse l’obbligo della comunione annuale a Pasqua e la custodia dell’Eucaristia in un luogo sicuro[3]. Nella liturgia si diffuse la prassi di elevare l’ostia ed il calice durante la Messa per il desiderio dei fedeli di vedere e di adorare le specie consacrate.

La solenne celebrazione del Corpus Domini, come la conosciamo anche oggi, è dovuta all’ispirazione della religiosa fiamminga Santa Giuliana di Cornillon (1191-1258). La festa, istituita nella diocesi di Liegi, nell’attuale Belgio, nel 1246, si diffuse rapidamente, grazie anche all’impegno del fiammingo Giacomo Pantaleone di Troyes, in seguito eletto papa col nome di Urbano IV (1261-1264). Egli incluse la festa nel calendario liturgico generale con la Bolla Transiturus de hoc mundo, dell’11 agosto 1264[4]. Tuttavia, a causa di diverse vicende, essa fu celebrata in tutta la Chiesa solo dopo il Concilio di Vienne (1311-1312).

Secondo la Vita di Santa Giuliana, Cristo stesso le disse il principale motivo per cui desiderava questa nuova festa, cioè per ricordare l’istituzione del Sacramento del suo Corpo e Sangue in maniera particolarmente solenne, il che non era possibile il Giovedì Santo, quando la liturgia è segnata dalla lavanda dei piedi e della Passione del Signore. Tale festa porterà ad un aumento di fede e grazia per i cristiani, che saranno indotti a partecipare con maggiore attenzione a ciò che invece vivono, nei giorni ordinari, con minore devozione o persino con negligenza.

La festa fu stabilita per il giovedì dopo l’Ottava di Pentecoste, il primo giovedì dopo il Tempo Pasquale, secondo il Calendario liturgico dell’usus antiquior. La festa è così chiaramente legata al Giovedì Santo, ed esprime il suo carattere essenziale: «Nella festa del Corpus Domini, la Chiesa rivive il mistero del Giovedì Santo alla luce della Risurrezione»[5].

2. La Messa

Nonostante qualche dubbio degli storici, è stato confermato dalla ricerca recente che la Messa e l’Ufficio del Corpus Domini sono stati composti da san Tommaso d’Aquino per ordine del papa Urbano IV. La Messa originale è rimasta la stessa nelle varie edizioni del Missale Romanum fino agli anni Cinquanta del secolo XX, con l’eccezione del Kyrie tropato[6] (preso da una fonte più antica), che era sparito nel Messale di San Pio V (1570).

Per l’epistola si è scelto il brano dell’apostolo Paolo sull’istituzione dell’Eucaristia (1Cor 11,23-29) in una versione più breve dello stesso testo, utilizzato durante la Messa in cena Domini il Giovedì Santo (1Cor 11,20-32). In questo quadro si inserisce anche il brano evangelico (Gv 6,56-59) dal grande «discorso eucaristico» di Gesù, che segue al miracolo della moltiplicazione dei pani.

Oltre le solite preghiere e antifone, la Messa contiene una lunga sequenza, della penna stessa dell’Aquinate, il Lauda Sion. Questa sequenza è un bell’esempio di come la lex credendi si esprima nella lex orandi, come accenna Benedetto XVI:

«Poco fa abbiamo cantato nella Sequenza: “Dogma datur christianis, / quod in carnem transit panis, / et vinum in sanguinem – È certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino”. Quest’oggi riaffermiamo con trasporto la nostra fede nell’Eucaristia, il Mistero che costituisce il cuore della Chiesa. […] Pertanto quella del Corpus Domini è una festa singolare e costituisce un importante appuntamento di fede e di lode per ogni comunità cristiana. È festa che ha avuto origine in un determinato contesto storico e culturale: è nata con lo scopo ben preciso di riaffermare apertamente la fede del Popolo di Dio in Gesù Cristo vivo e realmente presente nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia. È festa istituita per adorare, lodare e ringraziare pubblicamente il Signore, che “nel Sacramento eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue” (Sacramentum caritatis, 1)»[7].

San Tommaso d’Aquino ha assegnato alla Messa del Corpus Domini il Prefazio della Natività del Signore: «Nel mistero dei Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili»[8]. Questa scelta è significativa, in quanto stabilisce un’intima connessione fra il mistero dell’Incarnazione e quello della Transustanziazione: nel Sacramento è realmente e sostanzialmente presente il Cristo vivente, Corpo, Sangue, Anima e Divinità.

Nel Missale Romanum del 1962, attualmente normativo per la forma straordinaria del Rito Romano, il Prefazio della Natività è stato sostituito con quello Comune. Tuttavia, nel 1962, quattro nuovi prefazi sono stati approvati per alcune diocesi, tra cui un Prefazio del Santissimo Sacramento utilizzabile anche per il Corpus Domini.

Nel Missale Romanum del 1970 e nelle successive edizioni tipiche, i testi eucologici della festa sono rimasti essenzialmente gli stessi, mentre è stato assegnato il nuovo Prefazio della Santissima Eucaristia. La differenza principale è l’arricchimento delle letture secondo il ciclo dei tre anni (Anno A: Dt 8,2-3.14b-16a, 1Cor 10,16-17, Gv 6,51-58; Anno B: Es 24,3-8, Ebr 9,11-15, Mc 14,12-16.22-26; Anno C: Gen 14,18-20, 1Cor 11,23-26, Lc 9,11-17).

3. La Processione

In tutto il mondo, il Corpus Domini è segnato dalla solenne processione eucaristica che segue alla Messa. Anche a questo riguardo, la festa riprende la celebrazione del Giovedì Santo, che termina con la processione eucaristica all’altare della reposizione. Va rilevato, però, che la processione del Giovedì Santo ricorda l’esodo del Signore dal Cenacolo alla solitudine del Monte degli Ulivi, dove fu tradito da Giuda, e quindi ha in sé un aspetto oscuro e triste: è la notte che conduce alla Passione del Venerdì Santo. Invece, la processione eucaristica del Corpus Domini si svolge nella gioiosa luce della Risurrezione. Nel portare il Cristo Sacramentato attraverso città e villaggi, sui prati e sui laghi, la Chiesa opera «quasi in obbedienza all’invito di Gesù di “proclamare sui tetti” ciò che Egli ci ha trasmesso nel segreto (cf. Mt 10,27). Il dono dell’Eucaristia, gli apostoli lo ricevettero dal Signore nell’intimità dell’Ultima Cena, ma era destinato a tutti, al mondo intero»[9].

Nella solenne celebrazione del Corpus Domini in innumerevoli parrocchie e comunità cattoliche, si esprime la gioia nella fede, sulla quale Benedetto XVI, come teologo e come Papa, ha spesso riflettuto: la forza con la quale la verità della fede cristiana si fa strada deve essere la gioia con cui essa si manifesta. Questa gioia è una gioia pasquale, radicata nel fatto che Cristo è risorto dai morti. La Chiesa ha bisogno di sfruttare tutto lo splendore del bello, per esprimere questa gioia suprema.

Non bisogna stancarsi mai di insistere sulla priorità del culto divino, superando così una stretta interpretazione legalistica e moralistica del cristianesimo. Benedetto XVI dà l’esempio, perché è profondamente convinto che «il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione»[10]. L’adorazione, che si esprime in modo del tutto particolare nella Messa e nella Processione del Corpus Domini, è costitutiva del rapporto dell’uomo con Dio e della giusta esistenza umana nel mondo.

In questo Anno Sacerdotale, i ministri del Santissimo Sacramento hanno una ragione in più per tornare a meditare sull’incomparabile dignità, cui sono stati chiamati per divina vocazione. L’essere sacerdoti ordinati ha un riferimento primario ed insostituibile al potere di consacrare l’Eucaristia. Ai vari motivi teologici che fanno da sfondo alla gioia di ogni cristiano dinanzi al Dono eucaristico, il sacerdote aggiunge anche la sua conformazione – di certo umanamente immeritata – al Cristo Sacerdote, che si rende presente realmente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Auguriamo pertanto ai sacerdoti di tutto il mondo di vivere la processione del Corpus Domini come momento di adorazione, contemplazione e riflessione sul grande Mistero che si rende sempre di nuovo presente nel mondo attraverso le loro mani, unte un giorno con il sacro crisma per poter consacrare e toccare il Corpo sacramentale di Cristo.

Note

1) Benedetto XVI, Angelus (10 giugno 2007).

2) Cf. L. Pristas, «The Calendar and Corpus Christi: An Historical and Theological Consideration of the Church’s Sacred Year», in U. M. Lang (ed.), The Genius of the Roman Rite: Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, Hillenbrand Books, Chicago 2010, pp. 159-178.

3) Concilio Lateranense IV (1215), Constitutiones, 20. De chrismate et eucharistia sub sera conservanda: in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, p. 244.

4) Cf. DS 846-847.

5) Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (26 maggio 2005). Oggi, in molti paesi dove questo giovedì non è una festa pubblica, la festa del Corpus Domini si celebra la domenica seguente.

6) Con questa espressione si intende un’invocazione del «Kyrie, eleison» accompagnata da un versetto introduttivo chiamato «tropo», ad es.: «Signore, mandato dal Padre a salvare i contriti di cuore, abbi pietà di noi – Signore, pietà».

7) Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (7 giugno 2007).

8) «Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostrae oculis lux caritatis infulsit: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur».

9) Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del SS.mo Corpo e Sangue di Cristo (7 giugno 2007).

10) J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 16.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il sacerdote nella Praeparatio e nella Gratiarum Actio della S. Messa


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 16 giugno 2010 (ZENIT.org).- Padre Paul Gunter, professore del Pontificio Istituto Liturgico di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ci offre in questo articolo un’accurata descrizione delle preghiere che il sacerdote può lodevolmente utilizzare per prepararsi alla celebrazione della S. Messa e per fare il ringraziamento dopo di essa. Tali preghiere si trovano, con diversa estensione, nei due messali delle due forme del Rito Romano. L’articolo evidenzia l’importanza di una buona preparazione alla celebrazione e del dovuto ringraziamento successivo, sia in base al legame tra l’esempio di Cristo e la vita del sacerdote, che per gli effetti benefici che tale consuetudine produce anche nei fedeli che partecipano alla liturgia (don Mauro Gagliardi).



* * *

Paul Gunter, OSB

1. La preghiera intima e personale di Gesù

Per il sacerdote portare frutto nella vita e nel ministero dipende dall’unione con Dio, unione che è alla base anche del fatto che i fedeli si rivolgono a lui perché preghi per loro. Gesù Cristo ha affidato a coloro che lo seguivano più da vicino una parola che chiarisce il senso di tutto il bene che avrebbero fatto: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi dimora in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Lo stesso Signore Gesù, nel contesto dei molti miracoli da lui operati, ha stabilito un tempo per stare solo, da dedicare alla preghiera al suo Padre celeste. Per Gesù, la preghiera ufficiale della liturgia era supportata da una vita interiore, nella quale la riservatezza supportava quell’intimità che nutre la preghiera personale. Le dimensioni ecclesiale e comunitaria sono rafforzate da simile relazione personale con Dio, che ogni fedele spera di poter approfondire.

La ricerca di Dio, che dà significato alla vita di quelli che lo amano, serve da ricordo quotidiano del fatto che ogni benedizione proviene da e al tempo stesso rivolge verso il Dio onnipotente. La Sacra Scrittura descrive in maniera vivida il nutrimento che Gesù trasse dalla sua vita di preghiera nascosta: «Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare» (Lc 5,16). Allo stesso modo, notiamo l’importanza dei diversi momenti del giorno, dal fatto che Gesù si mostra particolarmente attento al silenzio della preghiera, in cui egli cerca il volere del Padre. Momenti simili incoraggiano uno speciale raccoglimento e una vicinanza ininterrotta: «Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» (Mc 1,35); «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (Mt 14,23).

2. La preghiera intima e personale del sacerdote

Il sacerdote, consapevole di partecipare all’opera di Cristo, si sforza di seguire il suo esempio, di guidare il santo popolo di Dio al Padre, attraverso Cristo nello Spirito Santo. Egli sa molto bene che, poiché i suoi difetti danneggiano la credibilità della sua testimonianza, deve chiedere con non minore urgenza a Dio di infondere in lui le virtù proprie del suo stato. Parte dell’omelia proposta nel rito di ordinazione del presbitero istruisce colui che sta per essere ordinato in questo modo: «Così continuerai l’opera di santificazione di Cristo. Attraverso il tuo ministero, il sacrificio spirituale dei fedeli è reso perfetto, perché unito al sacrificio di Cristo, è offerto attraverso le tue mani nel nome della Chiesa in modo incruento sull’altare, nella celebrazione dei sacri misteri. Riconosci ciò che fai, imita colui che tocchi, sicché celebrando il mistero della morte e risurrezione del Signore, tu possa mortificare in te stesso tutti i vizi e prepararti a camminare in novità di vita»[1].

Si vede, perciò, che il motivo di una particolare preparazione del sacerdote prima della Messa e il ringraziamento dopo di essa risiede nel beneficio per l’intera Chiesa, perché il sacerdote che santifica il popolo cristiano ha bisogno lui per primo di essere riempito dallo spirito di santità. È sempre di aiuto al sacerdote l’aver preso un momento per considerare i testi che pregherà durante la Messa, sia nel giorno in cui vi partecipa l’assemblea, sia quando essa manca. Opportune riflessioni previe sui testi possono stimolare un desiderio più profondo di Dio. La preparazione testuale costituisce una preparazione liturgica coerente per la S. Messa, non da ultimo perché basata sulla Sacra Scrittura. Un sacerdote che coltiva il silenzio personale nel tempo che precede e che segue la S. Messa, con la sua stessa disposizione incoraggerà lo spirito di meditazione.

Un sacerdote in cura pastorale potrebbe dover lottare per stabilire il silenzio desiderabile in ogni sagrestia, specialmente se si presenta la necessità di dovervi incontrare dei fedeli. Ma proprio per lui in particolare, i testi di preparazione prima della Messa e di ringraziamento dopo di essa offrono pensieri utili ad elevare la mente e il cuore e, in tutto o in parte, possono essere pregati in qualunque momento. Essi riconoscono anche le limitazioni di tempo e perciò si presentano come un sostegno spirituale più che un’imposizione di obbligazione sul sacerdote che cerca di celebrare la Messa nel modo più riverente possibile. Va notato che la blanda rubrica che si trova sotto i titoli della Praeparatio ad Missam e della Gratiarum Actio nel Messale del 1962 riconosce tali esigenze concrete del sacerdote[2]. Nessun atto di amore è, per definizione, affrettato. Avendo offerto il supremo sacrificio dell’amore di Cristo, è da aspettarsi che un sacerdote sarà mosso a fare quanto possibile per trovare un tempo, per quanto breve, per un atto di rigraziamento dopo la Messa. E si sentirà rafforzato per averlo fatto.

La preparazione di un sacerdote per la Messa sarà ulteriormente sostenuta dal ciclo della Liturgia delle Ore, che arricchisce la vita di ogni sacerdote. L’antica sapienza del Ritus Servandus in Celebratione Missae, che si trova ancora nella prima parte del Messale del 1962, presume l’importanza intrinseca dell’Ufficio Divino per la vita interiore del presbitero. Essa stabiliva che il Mattutino e le Lodi dovevano essere stati completati prima della celebrazione. Nondimeno, va notato che il contesto di quella prescrizione secolare non poteva tenere presente la Messa serale[3].

Poiché la Messa è ormai celebrata a qualunque ora del giorno liturgico, non si applica più in modo restrittivo tale norma, tuttavia i Principi e Norme per la Liturgia delle Ore spiegano attentamente la connessione tra la celebrazione dell’Eucaristia e la Liturgia delle Ore: «Cristo ha comandato: “Bisogna pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1). Perciò la Chiesa, obbedendo fedelmente a questo comando, non cessa mai di innalzare preghiere e ci esorta con queste parole: “Per mezzo di lui (Gesù) offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio” (Eb 13,15). A questo precetto la Chiesa ottempera non soltanto celebrando l’Eucaristia, ma anche in altri modi, e specialmente con la Liturgia delle Ore, la quale, tra le altre azioni liturgiche, ha come sua caratteristica per antica tradizione cristiana di santificare tutto il corso del giorno e della notte»[4].

3. La Praeparatio ad Missam

3.1. La comparazione dei testi offerti per la Praeparatio evidenzia che le stesse preghiere sono incluse nelle due forme del Rito Romano, sebbene esse siano state ridotte a quattro nel Missale Romanum del 1970. In questo, troviamo la preghiera Ad Mensam di sant’Ambrogio; l’Omnipotens sempiterne Deus, ecce accedo di san Tommaso d’Aquino; una preghiera alla Beata Vergine Maria, O Mater pietatis et misericordiae; e la Formula di Intenzione Ego volo celebrare Missam[5]. A seguito di una prima riforma delle indulgenze fatta dopo il Concilio Vaticano II e pubblicata nell’Enchiridion delle Indulgenze del 1968, non si menzionano le indulgenze che sono state accordate alla recita di queste preghiere da Pio IX, i cui dettagli erano stati pubblicati nel Messale del 1962.

3.2. Ampli testi adornano quel Messale. L’antifona Ne reminiscaris chiede a Dio di essere misericordioso nonostante i peccati nostri e di coloro che ci hanno preceduto. Essa è seguita dai salmi 83, 84, 85, 115 e 129. Il Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison e il Pater noster, i cui due ultimi righi formano l’inizio di una serie di versetti, sono seguiti da un numero di brevi collette. In alcuni manuali devozionali queste sette collette sono state attribuite a sant’Ambrogio e assegnate ai diversi giorni della settimana. Comunque sia, per come sono sistemate nel Messale, si ritiene che esse vadano dette in successione sotto un’unica conclusione. Tutte, eccetto la settima, si concentrano sull’opera di santificazione dello Spirito Santo. La settima colletta è seguita da una dossologia più lunga che conclude la serie. La prima colletta prega affinché lo Spirito Santo risplenda nei nostri cuori, così che possiamo celebrare degnamente i santi misteri. La seconda chiede che possiamo amare Dio perfettamente e lodarlo degnamente. La terza che possiamo servire Dio nella castità e purezza di spirito, mentre la quarta implora il Paraclito di illuminare le nostre menti. La quinta domanda la forza dello Spirito Santo per scacciare le forze del nemico. La sesta colletta chiede la sapienza e la consolazione e l’ultima supplica Dio di purificarci e di fare di noi il luogo della sua dimora.

3.3. L’estesa Oratio Sacerdotis ante Missam è divisa nel Messale in sette parti, una per ogni giorno della settimana, e forma una meditazione orante sull’imitazione delle virtù di Cristo, Sommo Sacerdote. Il suo significato è altrettanto confortante quanto esigente. La rilevanza dei suoi vari temi è adeguata al suo stile letterario, che è insistente ed intimo. La domenica il sacerdote chiede allo Spirito Santo di insegnargli a trattare i santi misteri con reverenza, onore, devozione ed intimo timore. Il lunedì, si concentra sul suo bisogno di perfetta castità, mentre il martedì il sacerdote riconosce la propria indegnità a celebrare la Messa e, mentre proclama la sua fede nel fatto che Dio può supplire a quanto gli manca, chiede di percepire la sua presenza mentre celebra ed anche di essere circondato dagli angeli. Il mercoledì viene alla luce l’elenco delle necessità sociali delle persone per le quali Cristo ha versato il suo Sangue. Di giovedì il sacerdote, mentre mendica la misericordia divina, si ricorda di come la provvidenza soccorra all’umana fragilità: «Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato»[6]. Il venerdì il sacerdote prega specialmente per i defunti e il sabato egli riflette sul grande dono del Santissimo Sacramento e supplica che esso lo possa condurre a vedere Dio faccia a faccia.

3.4. L’Ad Mensam di sant’Ambrogio chiede che il Corpo e il Sangue di Cristo possano perdonare il sacerdote dei suoi peccati e proteggerlo dai suoi nemici. La Preghiera di san Tommaso d’Aquino, invece, domanda che il potere risanante del Santissimo Sacramento possa preparare il sacerdote alla visione eterna di Dio. Nella Preghiera alla Beata Vergine Maria, il sacerdote prega non solo per se stesso, ma per tutti i suoi confratelli che celebrano Messa in quel giorno in tutto il mondo. Seguono preghiere a san Giuseppe, a tutti gli angeli e i santi e infine una preghiera al santo in onore del quale verrà celebrata la Messa. La Formula di Intenzione ricorda al sacerdote l’intenzione della Chiesa a riguardo della celebrazione della Messa, nonché il suo ruolo all’interno di essa. Il sacerdote non è all’opera da solo. Ciò che egli compie è stato consegnato da Cristo alla sua Chiesa, confermato dal Magistero e supportato dalla Tradizione. Il sacerdote rende presente il Corpo e Sangue di Cristo. Egli segue il rito della santa Chiesa Cattolica. Suo scopo è di lodare Dio e la Chiesa celeste, mentre prega per quella terrena, e in particolare per tutti coloro che si sono raccomandati alle sue preghiere, come pure per il benessere di tutta la Chiesa Cattolica. Poi, pregando per tutti i fedeli, il sacerdote chiede che il Signore conceda a lui e a tutti gioia con pace, l’emendamento della vita, uno spazio di vera penitenza, la grazia e il conforto dello Spirito Santo e la perseveranza nelle buone opere.

4. La Gratiarum Actio post Missam

4.1. Il corpo di testi che forma il ringraziamento dopo la Messa dimostra amore, umiltà e fede che si esaltano nel dono sublime della Santissima Eucaristia. Il Missale Romanum del 2002 contiene la Preghiera Universale attribuita a papa Clemente XI e l’Ave Maria. Inoltre, in comune con il Messale del 1962, contiente la Preghiera di san Tommaso d’Aquino; le Aspirazioni al Santissimo Redentore o Anima Christi; l’Offerta di sé o Suscipe; la Preghiera davanti a N.S. Gesù Cristo Crocifisso o En Ego; e la Preghiera alla Beata Vergine Maria. A questi testi nel Messale del 1962 venivano annesse indulgenze dai papi Pio X, XI e XII, mentre alcuni testi del Missale Romanum del 2002 sono stati inclusi anche nell’Enchiridion delle Indulgenze.

4.2. Nel Messale del 1962, un’antifona precede il Benedicite (cf. Dn 3,56-58) e il Salmo 150. Osservando la stessa struttura della Preparazione alla Messa, il Kyrie eleison e alcuni versetti aprono la strada ad alcune collette. La prima di esse prega che, come i tre giovani furono tratti illesi dalle fiamme, così possano i servi del Signore evitare le ferite del peccato. La seconda colletta domanda che le opere buone che Dio ha iniziato nei suoi servi possano essere portate a compimento, mentre la terza, che ha tema simile alla prima, è una preghiera a san Lorenzo, diacono e martire, che fu trovato vincitore nella sofferenza. Le devozioni che il sacerdote può recitare pro opportunitate posseggono espressioni pari alle richieste di protezione nel nostro viaggio verso il cielo. Dopo la Preghiera di san Tommaso ce n’è un’altra (alia oratio) e l’inno metrico Adoro Te è seguito dall’amata orazione dell’Anima Christi. Il Suscipe e l’En Ego precedono un’altra preghiera che chiede che la Passione di Cristo sia la forza del sacerdote, la sua difesa e gloria eterna. Prima delle preghiere a san Giuseppe ed al santo in onore del quale è stata celebrata la Messa, la Preghiera alla Beata Vergine Maria offre Gesù, che è stato ricevuto nella Santissima Eucaristia, alla Vergine Madre, perché Ella possa rioffrirlo nel supremo atto di adorazione (latreia), o culto perfetto, alla Santissima Trinità.

5. Conclusione

L’Ordinamento Generale del Messale Romano stabilisce: «È perciò di somma importanza che la celebrazione della Messa, o Cena del Signore, sia ordinata in modo tale che i sacri ministri e i fedeli, partecipandovi ciascuno secondo il proprio ordine e grado, traggano abbondanza di quei frutti, per il conseguimento dei quali Cristo Signore ha istituito il Sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue e lo ha affidato, come memoriale della sua Passione e risurrezione, alla Chiesa, sua dilettissima Sposa»[7]. La preparazione del sacerdote alla Messa e l’atto di ringraziamento successivo si completano a vicenda. Essi nutrono la riverenza nei cuori e nelle menti dei fedeli che sono aiutati a partecipare con maggiore intensità alla liturgia celebrata da un sacerdote che ha beneficiato dell’opportunità di raccogliersi. Ciò che incoraggia la preparazione previa promuove anche il ringraziamento successivo alla Messa. Entrambi guidano continuamente la Chiesa verso e dal Sacrificio eucaristico che celebra e rende presente i frutti del mistero pasquale finché Cristo ritorni alla fine dei tempi.

[Traduzione dall’inglese di don Mauro Gagliardi]


Note

1) Pontificale Romanum, «De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum», cap. 2, n. 151: «Munere item sanctificandi in Christo fungéris. Ministério enim tuo sacrifícium spirituále fidélium perficiétur, Christi sacrifício coniúnctum, quod una cum iis per manus tuas super altáre incruénter in celebratióne mysteriórum offerétur. Agnósce ergo quod agis, imitáre quod tracta, quátenus mortis et resurrectiónis Dómini mystérium célebrans, membra tua a vítiis ómnibus mortificáre et in novitáte vitæ ambuláre stúdeas».

2) La dicitura Praeparatio ad Missam stampata in nero è seguita dall’altra: pro opportunitate sacerdotis facienda scritta in rosso, il che qualifica i testi come risorse facoltative che il sacerdote può usare a seconda delle circostanze.

3) «Sacerdos celebraturus Missam […] saltem Matutino cum Laudibus absoluto».

4) Institutio Generalis de Liturgia Horarum, cap. 1, n. 10.

5) Missale Romanum, editio typica tertia 2002, nn. 1289-1291.

6) Sap 11,24 forma l’introito del Mercoledì delle Ceneri, sia nella forma ordinaria che straordinaria del Rito Romano.

7) Institutio Generalis Missalis Romani, 2002, n. 17.

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Osservanza delle norme liturgiche e ars celebrandi


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

                           da Rinascimento Sacro



di don Mauro Gagliardi

ROMA, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Durante l'Anno Sacerdotale, da poco concluso, la rubrica Spirito della Liturgia ha sviluppato il tema de «Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica», scelto a motivo della concomitanza, nel 2009-2010, di diversi anniversari: il 150° della morte del Santo Curato d'Ars (1859), il 40° di promulgazione del Messale di Paolo VI (1969) e il 440° del Messale di San Pio V (1570), che nell'edizione approvata dal beato Giovanni XXIII (1962) rappresenta la forma straordinaria del Rito Romano[1]. Di qui l'opportunità di mettere in luce la peculiare dignità del sacerdozio ordinato, approfondendo la teologia e la spiritualità della S. Messa, particolarmente nella prospettiva del ministro che la celebra.

In quest'ultimo articolo, col quale intendiamo anche congedarci dai nostri lettori prima della pausa estiva, vogliamo riflettere con la consueta brevità sul tema dell'ars celebrandi.

1. La situazione nel post-Concilio

Il Concilio Vaticano II ha ordinato una riforma generale della sacra liturgia[2]. Essa è stata effettuata, dopo la chiusura del Concilio, da una commissione comunemente detta, per brevità, il Consilium[3]. È noto che la riforma liturgica è stata sin dall'inizio oggetto tanto di critiche, a volte radicali, quanto di esaltazioni, in certi casi eccessive. Non è nostra intenzione soffermarci su questo problema. Possiamo invece dire che si è generalmente d'accordo nel notare un forte aumento degli abusi in campo celebrativo dopo il Concilio.

Anche il Magistero recente ha preso atto della situazione e in molti casi ha richiamato alla stretta osservanza delle norme e delle rubriche liturgiche. D'altro canto, le leggi liturgiche stabilite per la forma ordinaria (o di Paolo VI) - quella che, eccezioni a parte, si celebra sempre e dovunque nella Chiesa di oggi - sono molto più "aperte" rispetto al passato. Esse consentono molte eccezioni e diverse applicazioni, e anche prevedono molteplici formulari per i diversi riti (la pluriformità persino aumenta nel passaggio dalla editio typica latina alle versioni nazionali). Nonostante ciò, un gran numero di sacerdoti ritiene di dover ulteriormente ampliare lo spazio lasciato alla "creatività", che si esprime soprattutto con il frequente cambiamento di parole o di intere frasi rispetto a quelle fissate nei libri liturgici, con l'inserimento di "riti" nuovi e spesso del tutto estranei alla tradizione liturgica e teologica della Chiesa e anche con l'uso di paramenti, vasi sacri e arredi che non sempre sono adeguati e, in alcuni casi più rari, rasentano persino il ridicolo. Il liturgista Cesare Giraudo ha sintetizzato la situazione con queste parole:

«Se prima [della riforma liturgica] c'erano fissità, sclerosi di forme, innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una "liturgia di ferro", oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi, che fanno - o perlomeno rischiano di fare - della liturgia una "liturgia di caucciù", sgusciante, glissante, saponosa, che a volte si esprime in un ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale. [...] Questa spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l'improvvisazione, la faciloneria, il pressappochismo, il permissivismo, è il nuovo "criterio" che affascina innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici.

[...] Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso»[4].

Papa Giovanni Paolo II, nell'enciclica Ecclesia de Eucharistia, ha manifestato il suo malcontento per gli abusi liturgici che spesso avvengono, particolarmente nella celebrazione della S. Messa, in quanto «l'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni»[5]. E ha aggiunto:

«Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti. Una certa reazione al "formalismo" ha portato qualcuno, specie in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le "forme" scelte dalla grande tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti.

Sento perciò il dovere di fare un caldo appello perché, nella Celebrazione eucaristica, le norme liturgiche siano osservate con grande fedeltà. Esse sono un'espressione concreta dell'autentica ecclesialità dell'Eucaristia; questo è il loro senso più profondo. La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità nella quale si celebrano i misteri»[6].

2. Cause ed effetti del fenomeno

Il fenomeno della "disobbedienza liturgica" si è talmente esteso, per numero e in certi casi anche per gravità, da formare in molti una mentalità per la quale nella liturgia, fatte salve le parole della consacrazione eucaristica, si potrebbero apportare tutte le modifiche ritenute "pastoralmente" opportune dal sacerdote o dalla comunità. Questa situazione ha indotto lo stesso Giovanni Paolo II a chiedere alla Congregazione per il Culto Divino di preparare un'Istruzione disciplinare sulla Celebrazione dell'Eucaristia, pubblicata col titolo di Redemptionis Sacramentum il 25 marzo 2004. Nella citazione sopra riprodotta della Ecclesia de Eucharistia, si indicava nella reazione al formalismo una delle cause della "disobbedienza liturgica" del nostro tempo. La Redemptionis Sacramentum individua altre cause, tra cui un falso concetto di libertà[7] e l'ignoranza. Quest'ultima in particolare riguarda non solo la non conoscenza delle norme, ma anche una scarsa comprensione del valore storico e teologico di molti testi eucologici e riti: «Gli abusi trovano, infine, molto spesso fondamento nell'ignoranza, giacché per lo più si rigetta ciò di cui non si coglie il senso più profondo, né si conosce l'antichità»[8].

Innestando il tema della fedeltà alle norme in una comprensione teologica e storica, nonché nel contesto dell'ecclesiologia di comunione, l'Istruzione afferma:

«Troppo grande è il Mistero dell'Eucaristia "perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale". [...] Atti arbitrari, infatti, non giovano a un effettivo rinnovamento, ma ledono il giusto diritto dei fedeli all'azione liturgica che è espressione della vita della Chiesa secondo la sua tradizione e la sua disciplina. Inoltre, introducono elementi di deformazione e discordia nella stessa Celebrazione eucaristica che, in modo eminente e per sua natura, mira a significare e realizzare mirabilmente la comunione della vita divina e l'unità del popolo di Dio. Da essi derivano insicurezza dottrinale, perplessità e scandalo del popolo di Dio e, quasi inevitabilmente, reazioni aspre: tutti elementi che nel nostro tempo, in cui la vita cristiana risulta spesso particolarmente difficile in ragione del clima di "secolarizzazione", confondono e rattristano notevolmente molti fedeli.

Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della Santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito, come prescritto nei libri liturgici e dalle altre leggi e norme. Allo stesso modo, il popolo cattolico ha il diritto che si celebri per esso in modo integro il sacrificio della Santa Messa, in piena conformità con la dottrina del Magistero della Chiesa. È, infine, diritto della comunità cattolica che per essa si compia la celebrazione della Santissima Eucaristia in modo tale che appaia come vero sacramento di unità, escludendo completamente ogni genere di difetti e gesti che possano generare divisioni e fazioni nella Chiesa»[9].

Particolarmente significativo in questo testo è il richiamo al diritto dei fedeli di avere la liturgia celebrata secondo le norme universali della Chiesa, nonché la sottolineatura del fatto che trasformazioni e modifiche della liturgia - pur se operate per motivi "pastorali" - non hanno in realtà un effetto positivo in questo campo; al contrario confondono, turbano, stancano e possono perfino far allontanare i fedeli dalla pratica religiosa.

3. L'ars celebrandi

Ecco i motivi per i quali il Magistero negli ultimi quattro decenni ha richiamato diverse volte i sacerdoti all'importanza dell'ars celebrandi, la quale - se non consiste solo nella perfetta esecuzione dei riti in accordo alle rubriche, ma anche e soprattutto nello spirito di fede e adorazione con cui essi si celebrano - non si può però attuare se ci si discosta dalle norme fissate per la celebrazione[10]. Così si esprime ad esempio il Santo Padre Benedetto XVI:

«Il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del popolo di Dio al Rito sacro è la celebrazione adeguata del Rito stesso. L'ars celebrandi è la migliore condizione per l'actuosa participatio. L'ars celebrandi scaturisce dall'obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cf. 1Pt 2,4-5.9)»[11].

Richiamando questi aspetti, non si deve cadere nell'errore di dimenticare i frutti positivi prodotti dal movimento di rinnovamento liturgico. Il problema segnalato, tuttavia, sussiste ed è importante che la soluzione ad esso parta dai sacerdoti, i quali devono impegnarsi innanzitutto a conoscere in maniera approfondita i libri liturgici e anche a metterne fedelmente in pratica le prescrizioni. Solo la conoscenza delle leggi liturgiche e il desiderio di attenersi strettamente ad esse impedirà ulteriori abusi ed "innovazioni" arbitrarie che, se sul momento possono forse emozionare i presenti, in realtà finiscono presto per stancare e deludere. Fatte salve le migliori intenzioni di chi la commette, dopo quarant'anni di esperienza in merito possiamo riconoscere che la "disobbedienza liturgica" non costruisce affatto comunità cristiane migliori, ma al contrario mette in pericolo la solidità della loro fede e della loro appartenenza all'unità della Chiesa Cattolica. Non si può utilizzare il carattere più "aperto" delle nuove norme liturgiche come pretesto per snaturare il culto pubblico della Chiesa:

«Le nuove norme hanno di molto semplificato le formule, i gesti, gli atti liturgici [...]. Ma neppure in questo campo non si deve andare oltre a quello che è stabilito: difatti, così facendo, si spoglierebbe la liturgia dei segni sacri e della sua bellezza, che sono necessari, perché sia veramente attuato nella Comunità cristiana il mistero della salvezza e sia anche compreso sotto il velo delle realtà visibili, attraverso una catechesi appropriata. La riforma liturgica infatti non è sinonimo di desacralizzazione, né vuole essere motivo per quel fenomeno che chiamano la secolarizzazione del mondo. Bisogna perciò conservare ai riti dignità, serietà, sacralità»[12].

Tra le grazie che speriamo di poter ottenere dalla celebrazione dell'Anno Sacerdotale vi è pertanto anche quella di un vero rinnovamento liturgico in seno alla Chiesa, affinché la sacra liturgia sia compresa e vissuta per quello che essa è in realtà: il culto pubblico e integrale del Corpo Mistico di Cristo, Capo e membra, culto di adorazione che glorifica Dio e santifica gli uomini[13].



Note

1) Cf. M. Gagliardi, «Il sacerdote nella Celebrazione eucaristica», Zenit 11.11.2009: www.zenit.org/article-20283?l=italian.

2) Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 21.

3) Abbreviazione di Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.

4) C. Giraudo, «La costituzione "Sacrosanctum Concilium": il primo grande dono del Vaticano II», in La Civiltà Cattolica (2003/IV), pp. 532; 531.

5) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 10.

6) Ibid., n. 52. Cf. anche Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 28.

7) «Gli abusi non di rado si radicano in un falso concetto di libertà. Dio, però, ci concede in Cristo non quella illusoria libertà in base alla quale facciamo tutto ciò che vogliamo, ma la libertà, per mezzo della quale possiamo fare ciò che è degno e giusto»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 7.

8) Ibid., n. 9.

9) Ibid., nn. 11-12.

10) Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 20: «Per favorire il corretto svolgimento della sacra celebrazione e la partecipazione attiva dei fedeli, i ministri non debbono limitarsi a svolgere il loro servizio con esattezza, secondo le leggi liturgiche, ma debbono comportarsi in modo da inculcare, per mezzo di esso, il senso delle cose sacre».

11) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 38. Si veda il n. 40 che sviluppa adeguatamente il concetto.

12) Sacra Congregazione per il Culto Divino, Liturgicae instaurationes, n. 1. Il testo continua: «L'efficacia delle azioni liturgiche non sta nella ricerca continua di novità rituali, o di ulteriori semplificazioni, ma nell'approfondimento della parola di Dio e del mistero celebrato, la cui presenza è assicurata dall'osservanza dei riti della Chiesa e non da quelli imposti dal gusto personale di un singolo sacerdote. Si tenga presente, poi, che la imposizione di rifacimenti personali dei sacri riti da parte del sacerdote offende la dignità dei fedeli, e apre la via all'individualismo e al personalismo nella celebrazione di azioni che direttamente appartengono a tutta quanta la Chiesa».

13) Cf. Pio XII, Mediator Dei, I, 1; Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 7.

[Modificato da Caterina63 17/07/2010 21:32]
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La bellezza del rito liturgico


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


di don Mauro Gagliardi*

ROMA, mercoledì, 3 novembre 2010 (ZENIT.org).- Hans Urs von Balthasar, nella «Introduzione» al primo volume della sua monumentale Herrlichkeit (Gloria), in cui ha sviluppato una teologia sistematica centrata sul trascendentale del bello, scrive:

«La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come oggi è dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa» (Gloria. Una estetica teologica, Jaca book, Milano 1994 [II rist.], pp. 10-11).

Sono parole di chiara condanna, da parte di un teologo ben “moderno”, di quello spirito funzionalista tipico della modernità, che non è più capace di apprezzare il valore delle cose belle che non abbiano un immediato riscontro nel campo dell’utile. Come capire oggi il valore dei dettagli minuziosi che i pittori hanno tracciato sulle volte di innumerevoli chiese e che sono inutili, perché non percebili da chi guarda la volta dalla navata? Come giustificare la fatica dei maestri mosaicisti che hanno passato giorni a comporre tessere in luoghi non visibili delle cattedrali medioevali? Se il dipinto o il mosaico non saranno visti, non saranno fruiti da alcun occhio umano, a che è servito tanto lavoro? Il bello in questo caso non implica lo spreco di tempo e di energie? E ancora: a cosa serve la bellezza dei paramenti e dei vasi sacri, se il povero muore di fame o non ha di che coprire la sua nudità? Quella bellezza non sottrae risorse alla cura dei bisognosi?

Eppure la bellezza serve! E serve proprio quando è gratuita, quando non ricerca un utile immediato, quando è irradiazione di Dio. Ricorda Benedetto XVI:

«Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. [...] La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. [...] La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (Sacramentum Caritatis, n. 35).

Chi non sa apprezzare il valore gratuito (cioè di grazia) della bellezza e, in particolare, della bellezza liturgica, difficilmente può compiere un adeguato atto di culto divino. Continua Von Balthasar: «Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare» (Gloria, p. 11).

La bellezza del rito, quando è tale, corrisponde all’azione santificatrice propria della sacra liturgia, la quale è opera di Dio e dell’uomo, celebrazione che dà gloria al Creatore e Redentore e santifica la creatura redenta. Conformemente alla natura composita dell’uomo, la bellezza del rito deve sempre essere corporea e spirituale, investire il visibile e l’invisibile. Altrimenti si cade o nell’estetismo che vuole soddisfare il gusto, o nel pragmatismo che supera le forme alla ricerca utopica di un contatto “intuitivo” col divino. In fondo, in entrambi i casi si scade dalla spiritualità all’emotività.

Il rischio oggi è meno quello dell’estetismo e molto più quello del pragmatismo informale. Abbiamo bisogno al presente non tanto di semplificare e sfrondare, ma di riscoprire il decoro e la maestà del culto divino. La sacra liturgia della Chiesa attrarrà l’uomo del nostro tempo non vestendo sempre più i panni della grigia e anonima quotidianità, cui egli è già ben avvezzo, bensì indossando il manto regale della vera bellezza, abito sempre nuovo e giovane, che la fa percepire come finestra aperta sul Cielo, come punto di contatto con il Dio Uno e Trino, alla cui adorazione essa è ordinata, attraverso la mediazione di Gesù Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote.

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*Don Mauro Gagliardi è Ordinario della Facoltà di Teologia dell'Ateneo Pontificio "Regina Apostolorum" di Roma e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Fraternamente CaterinaLD

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La nobile semplicità delle vesti liturgiche


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



di Uwe Michael Lang, C.O.*

ROMA, mercoledì, 17 novembre 2010 (ZENIT.org).- La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come «lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica come ausiliaria, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria teologica.

Questo insegnamento risuona nell’omelia del Santo Padre Benedetto XVI durante la Santa Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia a Barcellona (7 novembre 2010): «La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo». La bellezza divina si manifesta in modo del tutto particolare nella sacra liturgia, anche attraverso le cose materiali di cui l’uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l’edificio del culto, le suppellettili, le vesti, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse.

Va riletto in merito il quinto capitolo sul «Decoro della celebrazione liturgica» nell’ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia di Papa Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove egli afferma che Cristo stesso ha voluto un ambiente degno e decoroso per l’ultima cena, chiedendo ai discepoli di prepararla nella casa di un amico che aveva una «sala grande e addobbata» (Lc 22,12; cf. Mc 14,15). L’enciclica ricorda anche l’unctio di Betania, un evento significativo che precorse l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mt 26; Mc 14; Gv 12). Di fronte alla protesta di Giuda che l’unzione con olio prezioso costituisse uno «spreco» inaccettabile, viste le necessità dei poveri, Gesù, senza diminuire l’obbligo della carità concreta verso i bisognosi, dichiara il suo grande apprezzamento per l’atto della donna, perché la sua unzione anticipa «quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua Persona» (Ecclesia de Eucharistia, n. 47). Giovanni Paolo II conclude che la Chiesa, come la donna di Betania, «non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (ivi, n. 48). La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore.

In fondo, la cura attenta per le chiese e per la liturgia deve essere un’espressione dell’amore per il Signore. Anche in un luogo dove la Chiesa non ha grandi risorse materiali, non si può tralasciare questo compito. Già un papa importante del Settecento, Benedetto XIV (1740-1758) nella sua enciclica Annus qui (19 febbraio 1749), dedicata soprattutto alla musica sacra, ha esortato il suo clero affinché le chiese fossero ben tenute e dotate di tutte gli oggetti sacri necessari per la degna celebrazione della liturgia: «Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà».

La Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si è pronunciata in modo simile: «Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri» (Sacrosanctum Concilium, n. 124). Questo passo si riferisce al concetto della «nobile semplicità», introdotto dalla stessa Costituzione al n. 34. Questo concetto pare originare dall’archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), secondo il quale la scultura classica greca era caratterizzata da «nobile semplicità e quieta grandezza». All’inizio del Novecento il noto liturgista inglese Edmund Bishop (1846-1917) descriveva il «genio del Rito Romano» come contrassegnato da semplicità, sobrietà e dignità (cf. E. Bishop, Liturgica Historica, Clarendon Press, Oxford 1918, pp. 1-19). Questa descrizione non è priva di merito, ma bisogna essere attenti alla sua interpretazione: il Rito Romano è «semplice» in confronto agli altri riti storici, come quelli orientali che sono distinti da grande complessità e sontuosità. Però, la «nobile semplicità» del Rito Romano non si deve confondere con una fraintesa «povertà liturgica» ed un intellettualismo che possono condurre alla rovina della solennità, fondamento del Culto divino (cf. il contributo essenziale di san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae III, q. 64, a. 2; q. 66, a 10; q. 83, a. 4).

Da tali considerazioni risulta evidente che i paramenti sacri debbono contribuire «al decoro dell’azione sacra» (Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 335), soprattutto «nella forma e nella materia usata», ma anche, pur in modo misurato, negli ornamenti (ivi, n. 344). L’uso delle vesti liturgiche esprime l’ermeneutica della continuità, senza escludere un particolare stile storico. Benedetto XVI fornisce un modello nelle sue celebrazioni, quando indossa sia le casule di stile moderno che, in qualche occasione solenne, le pianete “classiche”, usate anche dai suoi predecessori. Così si segue l’esempio dello scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, paragonato da Gesù ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro nova et vetera (Mt 13,52).

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*Padre Uwe Michael Lang è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

ricordiamo che:

Il Santo Padre ha nominato Consultori della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti i Reverendi don Nicola Bux e lo stesso don Mauro Gagliardi

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07/12/2010 00:01
 
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[SM=g1740733] Il Sito Ufficiale del Vaticano, alla pagina dedicata alle Celebrazioni Liturgiche, ha postato in ordine tutti gli interventi di don Mauro Gagliardi....



Studi dei Consultori

 


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28/12/2010 17:43
 
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La musica sacra a servizio della verità


Di padre Paul Gunter, O.S.B.*

ROMA, mercoledì, 1° dicembre 2010 (ZENIT.org).- Al tempo in cui sant’Agostino scrisse «Qui cantat, bis orat – chi canta prega due volte», si poteva riconoscere facilmente quanto il carattere proprio della musica sacra la rendesse essenzialmente diversa da un semplice canto di gruppo, o da un’elegante performance da parte di un musicista esperto, ma di ambito secolare. La convinzione del fatto che la preghiera raddoppia se cantata invece che recitata, non era basata tanto sui meriti dello sforzo umano, quanto piuttosto sulla necessità di descrivere la dimensione numinosa all’interno della musica sacra, i suoi aspetti emotivi ed artistici, in quanto interfaccia dello scambio tra Dio, Datore di ogni dono, e la risposta d’amore dell’essere umano all’amore onnipotente del Signore.

Un amore più grande cercherà una qualità più alta e non soltanto una quantità più abbondante, e ciò avviene quando la perseveranza di un singolo o di un gruppo ha ottenuto un progresso in ambito musicale e ha sperimentato per ciò stesso la bellezza delle sue consolazioni spirituali. Sacrosanctum Concilium (SC) afferma che «la sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa» (n. 9) e aggiunge molto acutamente che «prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione»; inoltre al n. 10 chiarisce che «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa». La liturgia, pertanto, è precisamente la fonte della forza necessaria ad ogni opera apostolica. Lì dove la vita liturgica della Chiesa è lasciata al caso, la mancanza di coerenza nei suoi frutti diviene evidente. I musicisti liturgici devono essere valorizzati e supportati in tutti i modi possibili, se essi devono raggiungere un livello tecnico tale che permetta loro di comunicare, attraverso la musica sacra, la relazione con il mistero tremendo che è Dio. È questa percezione della santità di Dio, specificamente tratta dalla musica sacra, che forma un ponte che permette alle persone di far incontrare il loro desiderio di Dio col desiderio di conformare la loro vita alla Sua.

La musica sacra è preghiera ordinata a far elevare i cuori e le menti verso Dio. Al di là delle sfide rappresentate dalle preferenze personali o culturali, lo scopo della musica sacra è sempre la lode di Dio. La partecipazione attiva dell’assemblea dovrebbe essere ordinata a questo fine, in modo che non venga né compromessa la dignità della liturgia, né vengano oscurate le possibilità per un’effettiva partecipazione al culto divino. La actuosa participatio non esclude diversi livelli di partecipazione che, di per se stessi, indicano che la “partecipazione nell’atto” non è diminuita dal fatto che uno potrebbe non stare cantando ogni cosa in ogni momento. La musica sacra deve conformarsi ai testi liturgici e la musica devozionale deve ispirarsi a testi biblici o liturgici, curando in ogni caso di non nascondere le realtà ecclesiologiche della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II lo ha spiegato ad alcuni vescovi degli USA, in occasione della loro visita ad limina nel 1998: «La partecipazione piena non significa che ognuno fa ogni cosa, poiché questo porterebbe a clericalizzare il laicato e a laicalizzare il sacerdozio; e questo non è ciò che il Concilio aveva in mente. La liturgia, come la Chiesa, deve essere gerarchica e polifonica, rispettando i diversi ruoli assegnati da Cristo e permettendo a tutte le diverse voci di convergere in un unico grande inno di lode». La musica sacra, perciò, nelle sue espressioni di fede religiosa, fedeltà testuale e misurata dignità, deve diventare un simbolo di comunione ecclesiale.

Il carattere di musica sacra non è diminuito quando essa è semplice, nella misura in cui la sua semplicità è nobile piuttosto che banale. L’uso diffuso, benché proibito, di musica secolare registrata e di canzoni “pop” ai funerali giustifica la presa di distanza di molti fedeli, che si mostrano estranei alla vita musicale della Chiesa. Canti “cultuali” dottrinalmente insipidi, che spesso prendono il posto di tesori liturgici con valore catechetico, con l’effetto che la cultura di musica ecclesiale in molte parrocchie è stata «condotta in un vicolo cieco nel quale si può dire sempre di meno circa il suo quo vadis» – questo è il modo in cui J. Ratzinger descrive la separazione della cultura moderna dalla sua matrice religiosa (A New Song for the Lord. Faith in Christ and liturgy today, Crossroad, New York 1996, p. 120).

Sacrosanctum Concilium ha detto che al canto gregoriano dovrebbe essere riservato «il posto principale» (n. 116) e che l’organo a canne «è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti» (n. 120). Mentre gli effetti delle interpretazioni antropologiche post-moderne sono intolleranti nei confronti di ogni tendenza a rifarsi al passato, le verità senza tempo e universali sono di beneficio alle persone di tutti i tempi e luoghi.

È necessaria un’efficace catechesi liturgica al centro della Nuova Evangelizzazione per favorire l’immersione dei fedeli nei misteri celebrati per ritus et preces – attraverso i riti e le preghiere (cf. SC 48). Il Motu Proprio del 2007, Summorum Pontificum, ha offerto un’opportunità determinante per il revival del canto gregoriano, in quei luoghi in cui esso era stato precedentemente praticato, nonché per il suo inserimento in contesti nei quali ancora non fosse conosciuto. Sarebbe triste, però, se per brama di comprendere tutto, l’uso del canto gregoriano nelle parrocchie fosse limitato alla celebrazione in «forma straordinaria», relegando così l’antico idioma di questo canto alla storia della Chiesa e a simbolo di polarizzazione. Tra le opportunità pastorali, non è chiedere troppo che le persone possano fare esperienza dell’universalità della Chiesa a livello locale, essendo capaci di cantare le parti che loro competono in latino (cf. SC 54). Questa è stata l’intenzione dei padri del Concilio. Con la dovuta moderazione e sensibilità pastorale, questa pratica si unirebbe armonicamente alle ricche espressioni della fede cattolica in vernacolo.

Infine, l’armonia ed ortodossia della musica sacra per un’efficace predicazione del deposito rivelato dipende dalla fedeltà del cristiano alla vita di grazia, in una più grande dedizione al vivere coerente, come la Regola di san Benedetto afferma tanto chiaramente: «Consideriamo, perciò, come dovremmo comportarci alla presenza di Dio e dei suoi angeli e manteniamoci […] in forma tale che le nostre menti siano in accordo con le nostre voci» (19,6-7).

[Traduzione dall’inglese di don Mauro Gagliardi;]
*Padre Paul Gunter, O.S.B., è professore al Pontificio Istituto Liturgico di Roma e consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.
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I segni esterni di devozione da parte dei fedeli


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



di Juan Silvestre*

ROMA, mercoledì, 12 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nella liturgia della Nuova Alleanza, ogni azione liturgica, specialmente la celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa» (CCC, n. 1097). La Liturgia è quindi “luogo” privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con Colui che Egli ha inviato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3).

In questo incontro l’iniziativa, come sempre, è del Signore, che si presenta, nel cuore della Ecclesia, risorto e glorioso. Di fatto, «se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice» (Benedetto XVI, Ai Vescovi del Brasile [norte 2], 15.04.2010).

Cristo precede l’assemblea che celebra. Egli – che agisce inseparabilmente unito allo Spirito Santo – la convoca, la riunisce e la istruisce. Per questo, la comunità, ed ogni fedele che la forma, «deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un popolo ben disposto» (CCC, n. 1098). Attraverso le parole, le azioni e i simboli che costituiscono la trama di ogni celebrazione, lo Spirito Santo pone fedeli e ministri in relazione viva con Cristo, Parola e Immagine del Padre, in modo che possano innestare nella propria vita il senso di ciò che ascoltano, contemplano e realizzano. Di qui che «ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (CCC, n. 1153).

In questo incontro l’aspetto umano è importante, come segnala anche san Josemaría Escrivá: «Io non ho un cuore per amare Dio e un altro per amare le persone della terra. Con lo stesso cuore con il quale ho amato i miei genitori e amo i miei amici, proprio con questo stesso cuore io amo Cristo e il Padre e lo Spirito Santo e Maria Santissima. Non mi stancherò mai di ripeterlo: dobbiamo essere molto umani; perché, altrimenti, non potremo essere neppure divini» (È Cristo che passa, n. 166). Per questo la fiducia filiale deve caratterizzare il nostro incontro con Cristo. Senza dimenticare tuttavia che «questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi» (Benedetto XVI, Santa Messa del Crisma, 20.03.2008).

La Liturgia, e in modo speciale l’Eucaristia, «è l’incontro e l’unificazione di persone; la Persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio» (Benedetto XVI, Alla Curia Romana, 22.12.2005). Il singolo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi davanti a Colui che è il tre volte Santo. Di qui la necessaria attitudine, piena di riverenza e di senso di stupore, che sgorga dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non era forse questo ciò che Dio intendeva esprimere quando ordinò a Mosè di togliersi i sandali davanti al roveto ardente? Non nasceva da simile consapevolezza l’atteggiamento di Mosè e di Elia, che non osarono guardare Dio faccia a faccia? E non ci mostrano questa stessa disposizione d’animo i Magi che «prostratisi, lo adorarono»? I diversi personaggi del Vangelo che incontrano Gesù che passa, che perdona... non ci danno anch’essi un modello esemplare di condotta per i nostri incontri con il Figlio del Dio vivo?

In realtà, i gesti corporei esprimono e promuovono «l’intenzione e i sentimenti dei partecipanti» (IGMR, n. 42) e permettono di superare il pericolo che insidia ogni cristiano: l’abitudine. «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile» (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 3). Per questo, «un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli» (Id., Sacramentum Caritatis, n. 65).

Gli atti di devozione si comprendono in modo adeguato in questo contesto di incontro con il Signore, che implica unione, «unificazione [che] può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell’adorazione» (Id., Alla Curia Romana, 22.12.2005).

Evidenziamo in primo luogo la genuflessione, «che si fa piegando il ginocchio destro fino a terra, e significa adorazione; perciò è riservata al SS.mo Sacramento e alla santa Croce, dalla solenne adorazione nell’Azione liturgica del Venerdì nella Passione del Signore fino all’inizio della Veglia pasquale» (IGMR, n. 274).

L’inchino del capo significa invece riverenza e onore. Nel Credo – eccetto nelle solennità del Natale e dell’Annunciazione (Incarnazione), nelle quali si sostituisce con la genuflessione – compiamo questo gesto pronunciando le mirabili parole: «E per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo».

Da ultimo, vogliamo mettere in luce il gesto di inginocchiarsi al momento della consacrazione e, dove si conserva quest’uso, dal Sanctus fino alla fine della Preghiera Eucaristica, o anche ricevendo la sacra Comunione. Si tratta di segni forti, che manifestano la consapevolezza di stare davanti a Qualcuno di speciale. È Cristo, il Figlio del Dio vivo, e davanti a Lui cadiamo in ginocchio. Nell’inginocchiarsi, il significato spirituale e corporeo formano un’unità, perché il gesto corporeo implica un significato spirituale e, viceversa, l’atto spirituale esige una manifestazione, una traduzione esteriore. Inginocchiarsi davanti a Dio non è qualcosa di “poco moderno”; al contrario corrisponde alla verità del nostro stesso essere. «Chi impara a credere, impara anche ad inginocchiarsi, ed una fede e una liturgia che non conoscesse più l’inginocchiarsi sarebbe malata in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo impararlo di nuovo, per rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli Apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia [Opera omnia 11], LEV, Città del Vaticano 2010, p. 183).

[Traduzione dallo spagnolo di don Mauro Gagliardi; il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 26 gennaio]

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* Don Juan Silvestre è professore di Liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce e Consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L’uso di messalini e foglietti nella Santa Messa

            



Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


di Paul Gunter, O.S.B.*

ROMA, mercoledì, 23 febbraio 2011 (ZENIT.org).- L’uso dei messalini da parte dei fedeli laici, almeno nei principali Paesi europei, si pratica da più di due secoli. Nei Paesi che hanno conosciuto persecuzioni religiose, il possesso di libri simili rappresentava, per gli oppositori della fede cattolica, una prova sufficiente di adesione al “papismo”.

Tra il 1788 e il 1792, apparvero traduzioni in italiano della Messa, sia di rito ambrosiano che romano, con l’aggiunta di spiegazioni sulle principali feste, contenute all’interno di una guida alla preghiera per fedeli devoti. Fatti simili avvennero in Francia e Germania e si svilupparono rapidamente, ispirati dalle iniziative liturgiche di Dom Prosper Guéranger, nel sec. XIX. L’uso di messalini favorì un attaccamento alla liturgia che introdusse coloro che sapevano leggere nei meandri della liturgia celebrata in latino. I messalini spesso includevano i testi dei vespri della domenica, che divennero perciò pratica di molte parrocchie, specialmente in Francia, nei Paesi Bassi e in Germania. Durante il sec. XX, questi sussidi furono progressivamente arricchiti con materiale catechetico sull’anno liturgico, commenti alla Sacra Scrittura e testi eucologici.

Al presente, nelle celebrazioni secondo la «forma straordinaria» (o di san Pio V), i messalini sono ritenuti un prerequisito, non solo come mezzo di partecipazione alla conoscenza dei testi eucologici, che spesso sono intenzionalmente letti in silenzio, ma, più importante ancora, come strumenti per seguire i testi della Scrittura, come pure di alcuni riti particolari legati a certi giorni. Essi contengono una versione abbreviata delle rubriche del Messale da altare e forniscono una raccolta di testi e illustrazioni di arte sacra che supportano la preghiera e aiutano a ridurre le inevitabili distrazioni.

Nel contesto della «forma ordinaria» (o di Paolo VI), lo scopo dei messalini in vista della partecipazione alla Messa è meno chiaro. Nonostante molte persone [soprattutto fuori d’Italia, ndt] scelgano di possederne uno, forse ispirati dall’esempio del passato, l’ermeneutica della partecipazione è cambiata. Questo cambiamento ha influenzato i fedeli al punto che molti di loro hanno semplicemente smesso di usarli. Nonostante ciò, il messalino rimane di notevole aiuto per i sordi e per quelle situazioni particolari in cui la proclamazione dei testi è incomprensibile.

La maggioranza dei cattolici si è resa conto che il movimento liturgico del sec. XX si è battuto per la riforma della liturgia. Pochi hanno apprezzato il fatto che, quando Sacrosanctum Concilium (SC) ha invocato la riforma della liturgia, lo ha fatto richiedendo che la riforma si accompagnasse alla promozione del culto liturgico (cf. n. 1). A questo scopo, era necessario che la liturgia comunicasse effettivamente ciò che celebra, sì che le menti e i cuori di coloro che vi prendono parte fossero capaci di articolare ciò che veniva promosso. Questa ermeneutica sorregge la direttiva di SC 11: «I pastori di anime devono vigilare attentamente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso».

                                           

Dopo il Vaticano II, i messalini hanno perso molto del loro ruolo nella promozione della vita liturgica, dato che i fedeli hanno imparato le parti della celebrazione loro assegnate e a recitarle insieme «in maniera comunitaria» (SC 21). Le letture vengono adesso proclamate ad alta voce e con il supporto di sistemi di amplificazione, da un ambone rivolto verso l’assemblea. Molti di coloro che un tempo seguivano i testi sui messalini, sono diventati i pionieri del n. 29 di SC, perché, essendo ora lettori, hanno scoperto una nuova e «sincera pietà», trovandosi ad esercitare una vera funzione liturgica. Il clero, incoraggiato da SC 24, ha cominciato a predicare in modo ideale sulla Scrittura proclamata, col risultato che dai sermoni si è passati alle omelie, radicate nella predicazione liturgica e destinate a rendere fruibile la parola di Dio proclamata. Di conseguenza, nella misura in cui diventavano familiari con i riti, i fedeli avevano sempre meno bisogno di leggere materiale di supporto, che desse loro indicazioni strutturali. Essi avrebbero perciò in gran parte messo da parte i loro messalini. Ironicamente, però, l’uso di messalini e foglietti sta per ricominciare, dato che le parrocchie dovranno presto avere a che fare con le nuove traduzioni della terza edizione del Messale Romano.

È deludente che molte parrocchie si siano servite per tanti anni di foglietti preparati di settimana in settimana. Il disordine da essi generato non solo diminuisce prepotentemente il valore di un armonico spazio di raccoglimento all’interno dell’edificio sacro; ma in se stessi si presentano spesso anche mal redatti. Alcuni editori di foglietti aggiungono versi di canti del tutto irrilevanti rispetto ai testi liturgici. La fiducia riposta in questi canti ha di certo aiutato ad evitare di confrontarsi con la sfida, che si presenta in maniera molto pungente, riguardo al fatto che oggi si canta di tutto, ma si sono persi o scartati i testi delle antifone di ingresso e di comunione. Inoltre, la dignità riconosciuta alle Scritture non è affatto valorizzata quando l’assemblea gira la pagina del foglietto, magari a metà della seconda lettura.

Resta da vedere se il rinnovamento nella pubblicazione dei messalini per la «forma ordinaria», alla luce delle prossime nuove traduzioni, inaugurerà un nuovo interesse verso un loro uso diffuso a lungo termine. Ciò che è certo, è che queste pubblicazioni necessitano di essere imbevute dello spirito della liturgia e di promuovere la conformità a ciò che la Chiesa richiede da noi, in questa rinnovata opportunità per un’autentica catechesi sulla Messa, offerta dalle suggestioni provenienti dalle nuove traduzioni. Affinché i fedeli siano ricondotti ad una vera «piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche» (SC 14), c’è bisogno che coloro cui sono affidate le migliorie del nuovo Messale «imparino ad osservare le leggi liturgiche» (SC 17). Allora, i messalini, e ogni altro materiale supplementare, risplenderà come faro di unità, ossia di una liturgia celebrata, fedelmente riformata e promossa in maniera tale, da essere «insegnata sia sotto l’aspetto teologico che sotto l’aspetto storico, spirituale, pastorale e giuridico» (SC 16).

[Traduzione e riduzione dall’originale inglese a cura di don Mauro Gagliardi; il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 9 marzo]


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* Padre Paul Gunter, O.S.B., è professore al Pontificio Istituto Liturgico di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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