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Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa",

Ultimo Aggiornamento: 04/05/2013 17:49
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Prof. Ratzinger (1970): L'opinione pubblica ha bisogno di etichette chiare e non accetta le sfumature: chi non è per il progresso, è contro di esso; si deve essere o conservatori o progressisti (da "Perchè siamo ancora nella Chiesa")

Grazie al grandioso lavoro della nostra preziosissima Gemma (di nome e di fatto) leggiamo questo splendido testo dell'allora professore Ratzinger. La conferenza si tenne il 4 giugno 1970, ma le parole sono cosi' attuali da sembrare scritte ieri.
Clicca
qui per leggere la seconda parte
.
R.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008

PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA

Il 4 giugno 1970 a Monaco quasi mille persone accolsero l’invito Dell’Accademia Cattolica di Baviera a una conferenza serale del Prof.Dr.Joseph Ratzinger, al tempo docente ordinario di Dogmatica all’Università di Ratisbona. Il tema "Perché oggi sono ancora nella Chiesa" poneva evidentemente al centro una questione che toccava molte persone.

Di motivi per non essere più nella Chiesa oggi ce ne sono molti e diversi tra loro. A voltare le spalle alla Chiesa si sentono spinti non più solo coloro ai quali la fede della Chiesa è diventata estranea, ai quali la Chiesa appare troppo arretrata, troppo medioevale, troppo ostile al mondo e alla vita, bensì anche coloro che amarono nella Chiesa la sua figura storica, la sua liturgia, la sua inattualità, il suo riverbero di eternità.

A questi ultimi sembra che la Chiesa stia tradendo la propria vera natura, che si stia svendendo alla moda e stia quindi perdendo la propria anima: sono delusi come un innamorato che deve vivere il tradimento di un grande amore e considerano seriamente il voltarle le spalle
.

D’altra parte però vi sono anche motivi molto contrastanti per rimanere nella Chiesa: in essa restano non solo quelli che conservano in modo instancabile la loro fede nella sua missione, o quelli che non si vogliono staccare da una vecchia e cara abitudine (anche se ne fanno scarso uso).
Oggi rimangono in essa con maggior vigore proprio coloro che rifiutano la sua intera essenza storica e contestano con passione il significato che i suoi ministri cercano di darle o di conservarle. Sebbene essi vogliano rimuovere ciò che la Chiesa fu ed è, sono anche determinati a non lasciarsi mandare fuori da essa, per trasformarla in ciò che secondo loro essa dovrebbe diventare.

Riflessione preliminare sulla situazione della Chiesa

In questo modo, però, si ha una vera condizione babilonese per la Chiesa, nella quale non solo sono intrecciati nella maniera più strana i motivi a favore e contro di essa, ma un’intesa sembra quasi impossibile. Innanzitutto nasce la sfiducia, perché l’essere-nella-Chiesa ha perso il proprio carattere inequivocabile e nessuno osa più avere fiducia nella sincerità dell’altro.
L’affermazione piena di speranza che Romano Guardini fece nel 1921 sembra ormai capovolta: "un processo di grande portata è iniziato: la Chiesa si sveglia nelle coscienze".
Oggi al contrario la frase sembrerebbe dover suonare: "In realtà si svolge un processo di grande portata – la Chiesa si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità".

In un mondo che tende all’unità, la Chiesa si disgrega in risentimenti nazionalistici, denigrando ciò che è estraneo e glorificando il proprio particolare.

Tra i fautori della mondanità e quelli di una reazione che si aggrappa troppo all’esteriorità e al passato, tra il disprezzo della tradizione e la fiducia positivistica di una fede presa alla lettera, sembra non esserci alcuna via di mezzo – l’opinione pubblica assegna inesorabilmente a ognuno il suo posto.
Essa ha bisogno di etichette chiare e non accetta le sfumature: chi non è per il progresso, è contro di esso; si deve essere o conservatori o progressisti
.


Grazie a Dio, la realtà è indubbiamente molto diversa: in segreto e quasi senza voce ci sono anche oggi, tra questi due estremi, coloro che semplicemente credono di realizzare la vera missione della Chiesa anche in questo momento di confusione: il culto e l’accettazione della vita quotidiana a partite dalla parola di Dio. Ma essi non si adattano all’immagine che se ne vuole avere e così rimangono in larga misura muti: la vera Chiesa non è certamente invisibile, ma profondamente nascosta sotto le malefatte degli uomini.
Si è così ottenuto un primo abbozzo dello sfondo sul quale si pone oggi la domanda: perché rimango ancora nella Chiesa? Per poter dare una risposta sensata, bisogna innanzitutto approfondire ulteriormente l’analisi di questo contesto storico che con la parola <> rientra direttamente nel nostro tema, e dobbiamo intendere le ragioni che hanno portato a questa situazione.

Come si è potuti arrivare a questa singolare situazione babilonese, nel momento in cui ci si aspettava invece una nuova Pentecoste? Come è stato possibile che, proprio nel momento in cui il Concilio sembrava aver raccolto il frutto maturo del risveglio degli ultimi decenni, invece della ricchezza del compimento sia emerso un vuoto inquietante?

Com’è potuto accadere che dalla grande spinta verso l’unità sia sorta la disgregazione?

Vorrei innanzitutto tentare di rispondere con un paragone, che può nel contempo svelare il compito che ci spetta e insieme rendere già visibili, tramite alcuni accenni, i motivi che possono ancora rendere possibile un si, anche tra tanti no. Nel nostro sforzo di comprendere la Chiesa, e fare un lavoro concreto su di essa, tramutatosi nel concilio in una vera e propria lotta, sembra che le siamo giunti così vicino da non riuscire più a percepirla nel complesso: sembra che non siamo più in grado di vedere la città oltre le case, la foresta oltre gli alberi. La stessa situazione in cui ci ha portato così spesso la scienza rispetto alla realtà sembra essersi ripetuta ora anche rispetto alla Chiesa: noi vediamo il particolare, con una precisione talmente esasperata che diventa impossibile percepire il tutto. E anche qui il guadagno in esattezza significa perdita di verità. Quello che ci mostra il microscopio quando osserviamo in esso un pezzo di albero è indiscutibilmente giusto, ma può nel contempo nascondere la verità, se ci fa dimenticare che la singola cosa non è meramente tale, bensì possiede un’esistenza nel tutto, che non può essere vista al microscopio; pur essendo di certo vera, più vera della singola cosa in se stessa.

Esprimiamo ora i concetti senza metafore. La prospettiva del presente ha trasformato il nostro sguardo sulla Chiesa in modo tale che noi oggi in pratica la vediamo solo sotto l’aspetto della fallibilità, chiedendoci cosa possiamo fare di essa. Il grande sforzo di riforma interno alla Chiesa ha infine fatto dimenticare tutto il resto; essa è per noi oggi solo una struttura, che si può trasformare e che ci porta a chiederci cosa si debba cambiare in essa per renderla più efficiente per i singoli scopi che ognuno le attribuisce.

Nel porsi questa domanda, il concetto di riforma è ampiamente degenerato nella coscienza comune ed è stato privato del suo nucleo centrale. Infatti la riforma, nel suo significato originario, è un processo spirituale molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del cuore del fenomeno cristiano; soltanto attraverso la conversione si diventa cristiani, e questo è valido per tutta la vita del singolo e per tutta la storia della Chiesa. Anche essa continua a vivere convertendosi sempre nuovamente al Signore, tenendosi lontana dall’irrigidimento in se stessa e in quella semplice e cara abitudine che è così facilmente contraria alla verità.
 
Ma se la riforma viene allontanata da questo contesto, dallo sforzo della conversione e se ci si aspetta la salvezza solo dal cambiamento degli altri, da forme e adattamento al tempo sempre nuovi, forse si può raggiungere qualche risultato – ma nel complesso la riforma diventa una caricatura di se stessa. Una simile riforma, in fin dei conti, può portare solo a ciò che è irrilevante, che è di second’ordine nella Chiesa; non c’è da meravigliarsi che alla fine la Chiesa stessa le sembri qualcosa di secondario.

Se si riflette su ciò si comprende meglio anche il paradosso che si è apparentemente delineato negli sforzi di rinnovamento della nostra epoca; lo sforzo per rendere meno pesanti strutture ormai irrigidite, per correggere forme del ministero ecclesiastico che derivano dal medioevo o ancora di più dai tempi dell’assolutismo e per liberare la Chiesa da tali sovrapposizioni verso un servizio più semplice secondo lo spirito del Vangelo. In effetti questi sforzi hanno condotto a una sopravvalutazione dell’elemento istituzionale nella Chiesa, che è quasi senza precedenti nella Chiesa.

Le istituzioni e i ministeri nella Chiesa di certo vengono criticati oggi in modo più radicale di un tempo, ma essi assorbono anche l’attenzione in modo più esclusivo che mai: non pochi credono oggi che la Chiesa consista solo di essi
.

La problematica della Chiesa si esaurisce allora nella battaglia sulle sue istituzioni; non si vuole lasciare inutilizzato un apparato così vasto, ma lo si trova per molti aspetti inadatto ai nuovi scopi che gli vengono assegnati.
Dietro di ciò si profila un secondo punto, il problema effettivo: la crisi della fede, che è il vero nocciolo della questione. La Chiesa si protende, dal punto di vista sociologico, sempre ben oltre la cerchia dei veri e propri credenti ed è profondamente alienata dalla sua vera essenza da questa falsità istituzionalizzata.
L’effetto pubblicitario del concilio e l’apparentemente possibile futuro avvicinamento di fede e non fede – avvicinamento che il sistema dell’informazione sul concilio ha simulato, quasi come se fosse necessitato a farlo – hanno radicalizzato all’estremo questa alienazione.

Il plauso per il concilio giunse in parte anche da coloro che pur non avendo affatto intenzione di diventare credenti nel senso della tradizione cristiana, salutarono però questo "progresso" della Chiesa nella direzione di quanto da loro stessi deciso come conferma del loro cammino.

Nello stesso tempo, però, la fede è entrata in una fase di fermento anche nella Chiesa stessa. Il problema della mediazione storica porta l’antico Credo in una penombra difficilmente spiegabile, nella quale scompaiono i contorni delle cose; l’obiezione delle scienze naturali o ancora di più ciò che si considera come concezione cosmologica moderna, fa la sua parte per aggravare questo processo.

I confini tra interpretazione e negazione diventano, proprio sulle questioni principali, sempre più indistinti: cosa significa veramente "risuscitato dai morti?"

Chi è che crede, chi è che interpreta, chi è che nega? E mentre si discute sui limiti dell’interpretazione si perde di vista il volto di Dio.
La "morte" di Dio è un processo del tutto reale, che oggi penetra in profondità all’interno Chiesa. Dio muore nella cristianità, così almeno sembra. Poiché laddove la resurrezione diventa l’accadimento di una missione percepita in immagini superate, Dio non opera più.
Ma soprattutto, egli agisce? E’ questa la domanda che ci incalza. Ma chi sarà così reazionario da insistere sull’affermazione realistica "Egli è risorto"?

Così ciò che per l’uno è progresso per l’altro è miscredenza, e diventa normale quello che finora era impensabile, cioè che delle persone che da tempo hanno abbandonato la fede della Chiesa si considerino ancora con buona coscienza i veri cristiani progressisti.

Per loro, però, l’unico criterio in base al quale giudicare la Chiesa è l’efficienza con la quale essa funziona; ma rimane ancora da chiedersi cosa sia efficace e a quale scopo il tutto debba effettivamente essere usato. Per criticare la società, per aiutare lo sviluppo, per fomentare la rivoluzione? O per celebrare le feste locali?

In ogni caso, bisogna ricominciare da capo, poiché la Chiesa originariamente non era stata concepita per tutto ciò e nella sua forma attuale effettivamente non è adatta a queste funzioni. In questo modo aumenta il disagio sia fra i credenti che tra i non credenti.

Il diritto di cittadinanza che la miscredenza ha ottenuto nella Chiesa rende la situazione sempre più insopportabile per gli uni e per gli altri; soprattutto, attraverso questi processi il programma di riforma è finito tragicamente in una singolare ambiguità, che per molti è irrisolvibile.

Naturalmente si può obiettare che tutto ciò non rappresenta di certo l’intera nostra situazione. Ci sono anche tanti elementi positivi, che sono cresciuti negli ultimi anni e che non devono assolutamente passare sotto silenzio: la nuova liturgia più accessibile, l’attenzione ai problemi sociali, la migliore comprensione tra i cristiani di diverse confessioni, la fine di una certa paura che era dovuta a una fede falsificata, troppo legata alla lettera, e molto altro ancora.

Questo è vero e non lo si deve sminuire, ma non contraddistingue l’atmosfera generale (se così si può dire) della Chiesa. Al contrario, anch’esso viene per il momento trascinato in quell’ambiguità che è emersa dall’attenuazione dei confini tra fede e miscredenza.

Soltanto all’inizio il risultato di questa attenuazione sembrò essere una liberazione.

Oggi è chiaro che, nonostante tutti i segni di speranza ancora esistenti, da questo processo non è emersa una Chiesa moderna, bensì una Chiesa diventata quanto mai discutibile e profondamente lacerata.

Dobbiamo ammetterlo una buona volta a chiare lettere: il concilio Vaticano I aveva descritto la Chiesa come "signum levatum in nationes", come il grande vessillo escatologico visibile da lontano, che chiama e unisce gli uomini attorno a sé.
Secondo il concilio del 1870, essa rappresenta quel segno auspicato da Isaia (11,12), visibile da lontano, che ogni uomo può riconoscere e che indica a tutti il cammino in modo inequivocabile: con la sua prodigiosa diffusione, la sua profonda santità, la sua fecondità in tutto ciò che è buono e la sua incrollabile stabilità, essa rappresenta il vero miracolo del cristianesimo, la sua costante autenticazione che sostituisce tutti gli altri segni e miracoli al cospetto della storia.

Oggi sembra vero tutto il contrario: non un’istituzione prodigiosamente diffusa, ma un’associazione vuota e stagnante, che non è in grado di superare seriamente i confini né dello spirito europeo, né di quello medioevale; non una profonda santità, bensì un insieme di tutte le azioni vergognose degli uomini, insudiciata e mortificata da una storia che non si è fatta mancare alcuno scandalo, dalla persecuzione degli eretici e dai processi alle streghe, dalla persecuzione degli ebrei e dall’asservimento delle coscienze fino alla dogmatizzazione di sé e alla resistenza all’evidenza scientifica: a tal punto che chi fa parte di questa storia non può che coprirsi il capo vergognosamente; infine non più stabilità, bensì l’accondiscendenza a tutte le correnti della storia, al colonialismo, al nazionalismo e persino il tentativo di adattarsi al marxismo e se possibile di immedesimarsi ampiamente con esso…Se le cose stanno così, allora la Chiesa sembra essere non il segno che richiama alla fede, quanto piuttosto il principale impedimento ad accettarla.

La vera teologia sembra allora poter consistere solo nel togliere alla Chiesa i suoi predicati teologici, nel considerarla e trattarla in modo meramente politico. Non pare più essere essa stessa una realtà di fede, bensì un’organizzazione dei credenti, molto casuale anche se forse indispensabile, che si dovrebbe trasformare il più velocemente possibile secondo le più moderne conoscenze della sociologia.

La fiducia è bene, il controllo è meglio – questa è ora, dopo tutte le delusioni, la parola d’ordine rispetto al ministero ecclesiastico.
Il principio sacramentale non appare più abbastanza chiaro, solo il controllo democratico sembra attendibile in fondo, persino lo Spirito Santo è forse inafferrabile.
Chi non evita di guardare al passato sa certamente che le vergogne della storia derivarono proprio dal fatto che si seguì questa strada: l’uomo prese il potere e questo portò a considerare le sue capacità come l’unica vera realtà.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Grazie al lavoro della nostra "stakanovista" Gemma leggiamo questo secondo brano tratto da "Perchè siamo ancora nella Chiesa". Si tratta della conferenza che l'allora professor Ratzinger tenne il 4 giugno 1970.
Clicca
qui per leggere la prima parte.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008

PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA

Una metafora per la natura della Chiesa

Una Chiesa che venga considerata solo dal punto di vista politico, cioè contro tutta la sua storia e la sua natura, non ha alcun senso e la decisione di rimanere in essa, se è una decisione esclusivamente politica, non è leale anche se si presenta come tale.

Ma di fronte alla situazione attuale, come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: se vuole avere senso, la scelta a favore della Chiesa deve essere di carattere spirituale – ma come si può motivare una simile scelta spirituale? Vorrei dare una prima risposta di nuovo con un paragone e con il ricorso a un’affermazione fatta in precedenza per descrivere la situazione attuale.

Avevamo detto che noi, con la nostra analisi approfondita della Chiesa, siamo arrivati talmente vicino a essa che non riusciamo più a percepirla nel suo complesso.

Questo pensiero si può approfondire ricorrendo a un’immagine che i Padri della Chiesa scoprirono nella loro meditazione simbolica sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nella struttura del cosmo materiale il ruolo della luna è una metafora di ciò che la Chiesa rappresenta per la realizzazione della salvezza nel cosmo spirituale- religioso. Viene ripreso qui un antichissimo simbolismo della storia delle religioni (i Padri non hanno mai parlato di "teologia delle religioni", ma l’hanno attuata), in cui la luna, come simbolo tanto della fertilità e della fragilità, della morte e della caducità, quanto anche della speranza nella rinascita e nella resurrezione, era l’immagine dell’esistenza umana, "patetica e insieme consolatrice".

Il simbolismo lunare e quello terrestre si fondono spesso: la luna, nella sua fugacità e nella sua rinascita, rappresenta il mondo dell’uomo, il mondo terreno, questo mondo che è limitato dal bisogno di ricevere e che ottiene la propria fertilità non da se stesso, ma da qualche altra parte, dal sole
.

In questo modo il simbolismo lunare diventa anche il simbolo dell’essere umano, così come esso si manifesta nella donna, che concepisce ed è fertile in forza del seme che riceve. I Padri applicarono il simbolismo lunare alla Chiesa soprattutto per due motivi: per la relazione luna-donna (madre) e per il fatto che la luce della luna non è luce propria, ma luce del sole, senza il quale essa sarebbe solo oscurità; la luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di qualcun altro. Essa è buio e luce allo stesso tempo. In se stessa è oscurità, ma dona luminosità in virtù di un altro, di cui riflette la luce.

Proprio per questo essa rispecchia la Chiesa, che illumina pur essendo essa stessa buio; non è luminosa in virtù della propria luce, ma riceve quella del vero sole, Gesù Cristo, cosicché – sebbene essa stessa sia solo terra (anche la luna non è che un’altra terra) – è tuttavia in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - la luna narra il mistero di Cristo.

Non si devono forzare i simboli; ciò che hanno di prezioso consiste proprio in una ricchezza di immagini che si sottrae agli schematismi logici. Tuttavia oggi, nell’epoca del viaggio sulla luna, si impone un ampliamento del paragone, con il quale si metta in evidenza, confrontando il pensiero fisico e quello simbolico, lo specifico della nostra situazione anche rispetto alla realtà della Chiesa.

L’astronauta e la sonda lunare scoprono la luna solo come roccia, deserto, sabbia, montagne, ma non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto questo: deserto, sabbia, roccia. Tuttavia, per merito di altri e in funzione di altri ancora, essa è anche luce e rimane tale anche nell’epoca dei viaggi nello spazio. E’ quindi ciò che non è in se stessa.
L’altro, ciò che non è suo, fa comunque parte anche della sua realtà. Esiste una verità della fisica e una verità poetico-simbolica e l’una non annulla l’altra. Allora chiedo: questa non è forse un’immagine molto precisa della Chiesa?

Chi la esplora e la percorre con la sonda spaziale, può scoprire solo deserto, sabbia, roccia, le debolezze dell’uomo, i deserti, la polvere e le altezze della sua storia. Tutto ciò le appartiene, ma non rappresenta la sua effettiva realtà.

L’elemento decisivo è che essa, benché sia solo sabbia e sassi, è di certo anche luce in virtù di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo, la sua effettiva natura, anzi, la sua natura consiste nel fatto che essa non vale per ciò che è, bensì solo per ciò che non è suo. Essa esiste in qualcosa che è al di fuori di essa e ha una luce che, pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è "luna" -mysterium lunae – e così riguarda i credenti, perché proprio così essa è il luogo di una costante scelta spirituale.

Poiché il significato espresso in quest’immagine mi sembra di importanza decisiva, prima di tradurlo dal linguaggio metaforico in affermazioni oggettive, vorrei chiarirlo meglio con un’altra osservazione.
Dopo la traduzione in tedesco della liturgia, secondo l’ultima riforma, mi si presentava continuamente una difficoltà linguistica nel recitare un testo, che appartiene proprio a questo stesso contesto e che è sintomatico per ciò di cui si tratta qui.

Nella traduzione tedesca del Suscipiat si dice: il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio "per il bene nostro e di tutta la Sua santa Chiesa"
.

A me veniva sempre spontaneo dire: "E di tutta la nostra santa Chiesa".

In questa difficoltà linguistica viene alla luce tutta la problematica che stiamo trattando e diventa chiaro il fatto che siamo incorsi in una deviazione di prospettiva.

Al posto della Sua Chiesa è subentrata la nostra e con essa le molte chiese: ognuno ha la propria.
Le chiese sono diventate nostre imprese, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo, tante piccole proprietà private che stanno una accanto all’altra, chiese soltanto "nostre, che noi stessi costruiamo, che sono opera e proprietà nostra, e che noi vogliamo trasformare o conservare come tali.

Dietro alla "nostra Chiesa" o anche alla "vostra Chiesa" è scomparsa la "sua Chiesa".
Ma solo quest’ultima interessa e se non esiste più anche la "nostra" Chiesa deve abdicare.
Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe solo un inutile gioco da bambini
.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli

Copia di questo post viene pubblicata sul blog "RACCOLTA DI TESTI DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI"

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/08/2011 09:09
 
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[SM=g1740722]La Chiesa e il mondo
Pensieri del beato cardinale J.H.Newman

tratto da "De vita Contemplativa" piccola Rivista mensile per i Monasteri delle Suore Francescane dell'Immacolata - Anno V N.8 Agosto 2011 - per richiedere la Rivista, mandando una offerta, è possibile farlo attraverso:
e-mail francescanecittacastello@interfree.it

L'unico dovere della Santa Chiesa Cattolica è quello di salvare le anime, liberarle dal male, proteggerle, perfezionarle.
Essa tutto subordina alla salvezza dell'anima immortale e preferirebbe - ammonisce il cardinale Newman - " che la terra rovinasse e tutti i suoi milioni di abitanti morissero di fame in estremo spasimo, sempre nell'ordine delle afflizioni terrene, piuttosto che un'anima non dico andasse perduta, ma commettesse un solo peccato veniale".

Pensieri del beato cardinale J.H.Newman

Come il suo Divino Autore, la Chiesa medita, lavora e fatica per l'anima individuale, si occupa e si preoccupa delle anime per le quali è morto il Cristo e ch'Egli le ha affidato.
Il suo scopo supremo, al quale tutto sacrifica, apparenze, reputazione, successo terreno, è di assolvere questa immane tremenda responsabilità. Madre tenerissima, incompresa e mal giudicata dal mondo che la crede, com'esso è, preoccupata sempre e soli di guadagni e successi materiali, la Chiesa invece, proprio per la sua profonda veduta delle cose spirituali e per il suo amore alle Anime, rimane ostacolata e inceppata nelle sue operazioni in questo freddo, arido mondo, luogo del suo soggiorno.
Per essa, il bene ed il male non sono luci ed ombre che si proiettano dall'estremo su questa nostra società, ma sono forze viventi che scaturiscono dalle profondità dell'anima.
Le azioni non sono semplici operazioni o espressioni esteriori, a fatti e a parole, compiute dalla mano o dalla lingua e riverberatisi sopra una sfera d'influenza più o meno estesa, secondo i casi, ma sono i pensieri, i desideri dello spirito e le attuazioni dei suoi propositi.

La Chiesa non mira a dare uno spettacolo, ma a compiere un'opera!
In confronto  del valore di un'anima sola, questo mondo, con tutto ciò ch'esso contiene, le appare come un'ombra, come polvere e cenere e nulla di più.
Essa considera l'azione di questo mondo e l'azione dell'anima assolutamente sproporzionate, osservate nelle loro sfere rispettive.
Preferirebbe salvar l'anima di un solo bandito o dell'infimo dei mendicanti, piuttosto che impiantare cento linee ferroviarie, per quanto utili, o effettuare una vasta riforma igienico-sanitaria, per quanto provvidenziale, a meno che queste grandiose opere sociali non mirassero o tendessero a qualche vantaggio spirituale.

Tale è la Chiesa, o uomini del mondo! Ora la conoscete.
Tale è e tale sarà. Per quanto essa tenda al bene vostro, vi tende a modo suo, secondo le sue vedute, e se voi le opponete resistenza, essa vi sfida.

Si trovi in miseria, o in auge, sia essa in  cenci o in vesti suntuose, in portamento dimesso o tra le raffinatezze e gli onori, essa ha una missione da compiere, e la compirà, per mezzo d' intelligenze incolte o attraverso tutti i doni della Grazia e dell'intelletto.
Non vogliamo dire che in realtà la Chiesa non sia anche la sorgente d'innumerevoli benefici temporali e morali per voi, la storia dei secoli lo attesta; ma essa non promette nulla in quel campo. Fu mandata a cercare le anime smarrite, è quello il suo scopo principale, e lo perseguirà, a qualunque costo.
(...)
Vorrei dire questo solo al mondo:
tenete per voi le vostre teorie, non imponetele ovunque ai figli di Adamo, non misurate il Cielo e la terra con le vostre vedute chiuse e ristrette che non potranno mai essere cattoliche.
I vostri sistemi sono forse più pratici e certo più commerciali, ma noi lavoriamo in modo infinitamente più umano e benefico.

Alla povertà umana noi andiamo come gli Angeli di Dio, voi come poliziotti.

Guardate i vostri ricoveri di mendicità, manicomi, ospedali, prigioni; come sono perfetti esternamente! Quale abilità e ingegnosità si rivelano nella loro struttura, nella loro organizzazione economica e amministrativa! Il loro aspetto è così ordinato, bello e decoroso, che richiama alla mente ciò che Nostro Signore ebbe a dire dei "sepolcri dei morti".
Si, hanno davvero tutto quello che il mondo può dare: tutto, fuorchè la vita, tutto, fuorchè un cuore.
Voi sapete inchiodare una bara, sapete chiudere una tomba, siete gli impresari funebri della natura umana, ma non sapete fabbricarle una Casa che sia focolare e Patria. Voi non potete nutrirla veramente, né risanarla: essa giace come Lazzaro, e coperta di piaghe.
La vedete ansante e languente per tante pene e privazioni, e voi danzate e cantate per lei, le mostrate le immagini dei vostri libri, le date spettacolo coi vostri serragli o col lancio dei vostri fuochi d'artifizio.

O filosofi superficiali! questo modo d'agire è forse avvincente e persuasivo che dobbiamo imitarlo noi pure?
Mi direte che lo stato politico e sociale delle nazioni cattoliche è inferiore a quello di nazioni protestanti.
Io risponderò che, quand'anche voi lo dimostraste, vi resterebbe altro ancora da provare: che, cioè (se questo è un argomento a favore della vostra tesi) il grado massimo di prosperità civile o di espansione politica sia proprio la garanzia più sicura della Grazia e la vera misura della salvezza.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il Papa: Di fronte alle persecuzioni subite a causa di Gesù, la comunità non solo non si spaventa e non si divide, ma è profondamente unita nella preghiera, come una sola persona, per invocare il Signore. Questo, direi, è il primo prodigio che si realizza quando i credenti sono messi alla prova a causa della loro fede: l’unità si consolida, invece di essere compromessa, perché è sostenuta da una preghiera incrollabile. La Chiesa non deve temere le persecuzioni che nella sua storia è costretta a subire, ma confidare sempre, come Gesù al Getsemani, nella presenza, nell’aiuto e nella forza di Dio, invocato nella preghiera

CICLO DI CATECHESI SULLA PREGHIERA NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI E NELLE LETTERE DI SAN PAOLO

UDIENZA GENERALE: VIDEO INTEGRALE

CATECHESI DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA

Vedi anche:

Il Papa all'udienza generale: pregate per me perché possa perseverare nel mio servizio a Cristo e alla Chiesa (R.V.)

L’UDIENZA GENERALE, 18.04.2012

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa ha ripreso la sua catechesi sulla preghiera negli Atti degli Apostoli.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

La «piccola Pentecoste»

Cari fratelli e sorelle,

dopo le grandi feste, ritorniamo adesso alle catechesi sulla preghiera.
Nell’udienza prima della Settimana Santa ci siamo soffermati sulla figura della Beata Vergine Maria, presente in mezzo agli Apostoli in preghiera nel momento in cui attendevano la discesa dello Spirito Santo.
Un’atmosfera orante accompagna i primi passi della Chiesa.
La Pentecoste non è un episodio isolato, poiché la presenza e l’azione dello Spirito Santo guidano e animano costantemente il cammino della comunità cristiana. Negli Atti degli Apostoli, infatti, san Luca, oltre a raccontare la grande effusione avvenuta nel Cenacolo cinquanta giorni dopo la Pasqua (cfr At 2,1-13), riferisce di altre irruzioni straordinarie dello Spirito Santo, che ritornano nella storia della Chiesa.

E quest’oggi desidero soffermarmi su quella che è stata definita la «piccola Pentecoste», verificatasi al culmine di una fase difficile nella vita della Chiesa nascente.

Gli Atti degli Apostoli narrano che, in seguito alla guarigione di un paralitico presso il Tempio di Gerusalemme (cfr At 3,1-10), Pietro e Giovanni vennero arrestati (cfr At 4,1) perché annunciavano la Risurrezione di Gesù a tutto il popolo (cfr At 3,11-26). Dopo un processo sommario, furono rimessi in libertà, raggiunsero i loro fratelli e raccontarono quanto avevano dovuto subire a causa della testimonianza resa a Gesù il Risorto. In quel momento, dice san Luca, «tutti unanimi innalzarono la loro voce a Dio» (At 4,24). Qui san Luca riporta la più ampia preghiera della Chiesa che troviamo nel Nuovo Testamento, alla fine della quale, come abbiamo sentito, «il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati dello Spirito Santo e proclamavano la Parola di Dio con franchezza» (At 4,31).

Prima di considerare questa bella preghiera, notiamo un atteggiamento di fondo importante: di fronte al pericolo, alla difficoltà, alla minaccia, la prima comunità cristiana non cerca di fare analisi su come reagire, trovare strategie, come difendersi, quali misure adottare, ma, davanti alla prova, si mette in preghiera, prende contatto con Dio.

E che caratteristica ha questa preghiera? Si tratta di una preghiera unanime e concorde dell’intera comunità, che fronteggia una situazione di persecuzione a causa di Gesù. Nell’originale greco san Luca usa il vocabolo «homothumadon» - «tutti insieme», «concordi» – un termine che appare in altre parti degli Atti degli Apostoli per sottolineare questa preghiera perseverante e concorde (cfr At 1,14; 2,46).

Questa concordia è l'elemento fondamentale della prima comunità e dovrebbe essere sempre fondamentale per la Chiesa. Non è allora solo la preghiera di Pietro e di Giovanni, che si sono trovati nel pericolo, ma di tutta la comunità, perché quanto vivono i due Apostoli non riguarda soltanto loro, ma tutta la Chiesa.

Di fronte alle persecuzioni subite a causa di Gesù, la comunità non solo non si spaventa e non si divide, ma è profondamente unita nella preghiera, come una sola persona, per invocare il Signore. Questo, direi, è il primo prodigio che si realizza quando i credenti sono messi alla prova a causa della loro fede: l’unità si consolida, invece di essere compromessa, perché è sostenuta da una preghiera incrollabile. La Chiesa non deve temere le persecuzioni che nella sua storia è costretta a subire, ma confidare sempre, come Gesù al Getsemani, nella presenza, nell’aiuto e nella forza di Dio, invocato nella preghiera.

Facciamo un passo ulteriore: che cosa chiede a Dio la comunità cristiana in questo momento di prova? Non chiede l’incolumità della vita di fronte alla persecuzione, né che il Signore ripaghi coloro che hanno incarcerato Pietro e Giovanni; chiede solamente che le sia concesso «di proclamare con tutta franchezza» la Parola di Dio (cfr At 4,29), cioè prega di non perdere il coraggio della fede, il coraggio di annunciare la fede. Prima però cerca di comprendere in profondità ciò che è accaduto, cerca di leggere gli avvenimenti alla luce della fede e lo fa proprio attraverso la Parola di Dio, che ci fa decifrare la realtà del mondo.

Nella preghiera che eleva al Signore, la comunità parte dal ricordare e invocare la grandezza e immensità di Dio: «Signore, tu che hai creato il cielo e la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano» (At 4,24). E' l'invocazione al Creatore: sappiamo che tutto viene da Lui, che tutto è nelle sue mani. Questa è la consapevolezza che ci dà certezza e coraggio: tutto viene da Lui, tutto è nelle sue mani. Passa poi a riconoscere come Dio abbia agito nella storia - quindi comincia con la creazione e continua nella storia -, come è stato vicino al suo popolo mostrandosi un Dio che si interessa dell’uomo, che non si è ritirato, che non abbandona l’uomo sua creatura; e qui viene citato esplicitamente il Salmo 2, alla luce del quale viene letta la situazione di difficoltà che sta vivendo in quel momento la Chiesa. Il Salmo 2 celebra l’intronizzazione del re di Giuda, ma si riferisce profeticamente alla venuta del Messia, contro il quale nulla potranno fare la ribellione, la persecuzione, il sopruso degli uomini: «Perché le nazioni si agitarono e i popoli tramarono cose vane? Si sollevarono i re della terra e i principi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo» (At 4,25). Questo dice già profeticamente il Salmo sul Messia, ed è caratteristica in tutta la storia questa ribellione dei potenti contro la potenza di Dio. Proprio leggendo la Sacra Scrittura, che è Parola di Dio, la comunità può dire a Dio nella sua preghiera: «davvero in questa città … si sono radunati insieme contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse» (At 4,27). Ciò che è accaduto viene letto alla luce di Cristo, che è la chiave per comprendere anche la persecuzione; la Croce, che sempre è la chiave per la Risurrezione.

L’opposizione verso Gesù, la sua Passione e Morte, vengono rilette, attraverso il Salmo 2, come attuazione del progetto di Dio Padre per la salvezza del mondo. E qui si trova anche il senso dell’esperienza di persecuzione che la prima comunità cristiana sta vivendo; questa prima comunità non è una semplice associazione, ma una comunità che vive in Cristo; pertanto, ciò che le accade fa parte del disegno di Dio. Come è successo a Gesù, anche i discepoli incontrano opposizione, incomprensione, persecuzione. Nella preghiera, la meditazione sulla Sacra Scrittura alla luce del mistero di Cristo aiuta a leggere la realtà presente all’interno della storia di salvezza che Dio attua nel mondo, sempre nel suo modo.

Proprio per questo la richiesta che la prima comunità cristiana di Gerusalemme formula a Dio nella preghiera non è quella di essere difesa, di essere risparmiata dalla prova, dalla sofferenza, non è la preghiera di avere successo, ma solamente quella di poter proclamare con «parresia», cioè con franchezza, con libertà, con coraggio, la Parola di Dio (cfr At 4,29).

Aggiunge poi la richiesta che questo annuncio sia accompagnato dalla mano di Dio, perché si compiano guarigioni, segni, prodigi (cfr At 4,30), cioè sia visibile la bontà di Dio, come forza che trasformi la realtà, che cambi il cuore, la mente, la vita degli uomini e porti la novità radicale del Vangelo.

Alla fine della preghiera – annota san Luca - «il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), il luogo tremò, cioè la fede ha la forza di trasformare la terra e il mondo. Lo stesso Spirito che ha parlato per mezzo del Salmo 2 nella preghiera della Chiesa, irrompe nella casa e ricolma il cuore di tutti coloro che hanno invocato il Signore. Questo è il frutto della preghiera corale che la comunità cristiana innalza a Dio: l’effusione dello Spirito, dono del Risorto che sostiene e guida l’annuncio libero e coraggioso della Parola di Dio, che spinge i discepoli del Signore ad uscire senza paura per portare la buona novella fino ai confini del mondo.

Anche noi, cari fratelli e sorelle, dobbiamo saper portare gli avvenimenti della nostra vita quotidiana nella nostra preghiera, per ricercarne il significato profondo. E come la prima comunità cristiana, anche noi, lasciandoci illuminare dalla Parola di Dio, attraverso la meditazione sulla Sacra Scrittura, possiamo imparare a vedere che Dio è presente nella nostra vita, presente anche e proprio nei momenti difficili, e che tutto - anche le cose incomprensibili - fa parte di un superiore disegno di amore nel quale la vittoria finale sul male, sul peccato e sulla morte è veramente quella del bene, della grazia, della vita, di Dio.

Come per la prima comunità cristiana, la preghiera ci aiuta a leggere la storia personale e collettiva nella prospettiva più giusta e fedele, quella di Dio. E anche noi vogliamo rinnovare la richiesta del dono dello Spirito Santo, che scaldi il cuore e illumini la mente, per riconoscere come il Signore realizzi le nostre invocazioni secondo la sua volontà di amore e non secondo le nostre idee. Guidati dallo Spirito di Gesù Cristo, saremo capaci di vivere con serenità, coraggio e gioia ogni situazione della vita e con san Paolo vantarci «nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza la virtù provata e la virtù provata la speranza»: quella speranza che «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,3-5). Grazie.

* * *

Desidero esprimere cordiale gratitudine per gli auguri che mi avete presentato per il VII anniversario della mia elezione, e per il mio compleanno. Vi chiedo di sostenermi sempre con le vostre preghiere, affinché, con l’aiuto dello Spirito Santo, possa perseverare nel mio servizio a Cristo e alla Chiesa.

Mi rivolgo ora ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i partecipanti al Seminario promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce; le religiose che prendono parte al corso formativo dell’USMI; i missionari Verbiti e i fedeli che ricordano il 250° anniversario di fondazione delle Suore Trinitarie, tra cui numerose scolaresche. Saluto i cresimandi della diocesi di Grosseto, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Franco Agostinelli; i novizi dell’Abbazia di Noci e i seminaristi della Diocesi di Conversano-Monopoli, come pure i rappresentanti dell’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. Questo incontro sia per tutti una provvida occasione per rafforzare la fede in Cristo risorto.

Il mio pensiero va poi ai malati, agli sposi novelli e ai giovani presenti, specialmente ai numerosi studenti provenienti da diverse Regioni. Cari ragazzi e giovani, anche a voi, come ai primi discepoli, Cristo risorto ripete: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv 20,21). Rispondete con gioia e con amore a queste parole! Per voi, cari malati, la risurrezione di Cristo sia fonte inesauribile di conforto e di speranza. E voi, cari sposi novelli, siate testimoni del Risorto con il vostro amore coniugale.

 
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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LA SOSTENIBILE

 

INSOPPORTABILITÀ

 

DELL’ESSERE …PAPA

 

 

C’è il peso di una missione che sembra troppo grande per le spalle di un solo uomo, se la guardiamo soltanto da una prospettiva umana. Non è lo stesso potere di un sovrano, di un primo ministro, di un presidente, fosse anche del Presidente dei presidenti, quello degli Stati Uniti (…) No, il potere del papa è incredibilmente più grande, perché infinitamente diverso. E’ quel potere invisibile che nasce dalla certezza di guidare la barca di Pietro che, se affonda, trascina a picco con sé tutta l’umanità. Il rischio c’è sempre. Perché la barca è solida – resiste da duemila anni e più – ma la tempesta sembra volerla rovesciare da un momento all’altro e ogni volta il vento ci rimanda quel grido rabbioso e terrorizzato dei discepoli “Maestro, non t’importa che moriamo?”

 

 

 

di Claudia Cirami da papalepapale.com

 

E’ una dolce sera di settembre. Jean Guitton, filosofo e accademico di Francia, passeggia lungo i viali di Castegandolfo, in compagnia di Papa Paolo VI. Che porta sulle spalle, in quel momento, il peso di una cattolicità in subbuglio, uscita dal Concilio con ansie di rinnovamento e incapace di vedere gli effetti nefasti di certe decisioni apparentemente liberanti, ma che, in realtà, le stringono un cappio al collo ad ogni passo. D’un tratto, Guitton esprime il suo stupore per essere lì, in quel momento, in compagnia del Santo Padre, quasi fosse un sogno. Ecco la risposta del Papa: «Crede che io non provi la sua stessa impressione, e che non mi sorprenda di essere qui, di essere papa? Quando ho un grave problema da risolvere, succede, come a Giovanni XXIII, che mi dica: Esporrò la cosa al Santo Padre. E mi accorgo che l’oracolo sono io; io l’ultimo ricorso, l’ultima istanza. E’ una cosa insopportabile se non vi si è preparati»” (J. Guitton, Paolo VI segreto).

 

IL PAPA PIACE FINCHÉ NON DESTABILIZZA IL NOSTRO “SECONDO ME”

Paolo VI e l'amico Jean Guitton, il grande filosofo e apologeta cattolico, nei giardini vaticani

Sì. L’ “insopportabilità” dell’essere papa è una realtà. Non è semplice cogliere oggi la solitudine e la responsabilità che gravano sulle spalle di un pontefice quando lo vediamo – nelle occasioni pubbliche – circondato, quasi sommerso da una folla festosa. Siamo tentati di misurare da questo l’amore per il papa, ma non è così semplice. C’è prima di tutto un aspetto che chiama in causa ogni cattolico: basta un suo discorso, una parola, un gesto che stride con una convinzione personale o con un comune sentire “politicamente corretto” ed immediatamente tutto cambia. Investito dalle polemiche, amplificate ad arte dai media, il Papa si ritrova con un dito accusatore puntato addosso. Polemiche quasi sempre pretestuose che spesso tirano verso il basso, come in un vortice, lo stesso “gradimento” di alcuni tra i fedeli. Come se il Papa – anche lui, come già prima Cristo – funzionasse finché il suo pensiero si accorda con il nostro. Quando osa discostarsene, però, anche il Papa – come Cristo, come la Chiesa – diventa un ostacolo alla nostra felicità personale, quindi un nemico.

 

UN POTERE INFINITAMENTE PIÙ GRANDE. PERCHÈ PROFONDAMENTE DIVERSO

Nelle parole di Paolo VI, però, si intuisce qualcosa di più. C’è il peso di una missione che sembra troppo grande per le spalle di un solo uomo, se la guardiamo soltanto da una prospettiva umana. Non è lo stesso potere di un sovrano, di un primo ministro, di un presidente, fosse anche del Presidente dei presidenti, quello degli Stati Uniti d’America, nelle cui stanze sembrano esser prese decisioni fondamentali per le sorti dell’umanità. O quello del vertice di qualsiasi loggia massonica o di gruppo di potere che sembra tirare le fila del mondo, secondo chi crede che i complotti umani possano avere l’ultima parola. No, il potere del papa è incredibilmente più grande, perché infinitamente diverso. E’ quel potere invisibile che nasce dalla certezza di guidare la barca di Pietro che, se affonda, trascina a picco con sé tutta l’umanità. Il rischio c’è sempre. Perché la barca è solida – resiste da duemila anni e più – ma la tempesta sembra volerla rovesciare da un momento all’altro e ogni volta il vento ci rimanda quel grido rabbioso e terrorizzato dei discepoli “Maestro, non t’importa che moriamo?” (Mc 4, 38). Papa Benedetto XVI è consapevole delle difficoltà di navigazione: “Non sono un mistico – ha detto – Ma è sicuramente vero, da Papa, ci sono molte ragioni in più per pregare e per affidarsi completamente a Dio. Infatti mi rendo conto che quasi tutto quello che devo fare non potrei farlo da solo. E già solo per questo sono per così dire costretto a mettermi nelle mani del Signore e a dirgli: «Fallo tu, se lo vuoi»”.

 

L’USCITA NELLA NOTTE

I recenti accadimenti – con l’aiutante di camera arrestato come presunto colpevole per una sottrazione di documenti – hanno mostrato quale “insopportabilità” può nascondere l’essere capo visibile della Chiesa di Cristo. Se è il “dolce vicario di Cristo sulla terra”, come lo definì santa Caterina da Siena, lo è fino in fondo, anche nel tradimento. Non importa quello che potrà dire la giustizia su questi fatti e su chi è il vero colpevole del trafugamento di carte riservate. La verità è che anche un papa, anzi prima di tutti un papa, ha il suo “giuda”, colui che sembra sposare la sua missione ma che, nell’intimo, ha già scelto di “uscire nella notte” (cf. Gv 13, 30) – come lo sventurato apostolo – per compiere l’azione indegna.

Nell’omelia del Giovedì Santo 2012, Benedetto XVI ha detto: “La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi.” Anche Gesù esce nella notte, come Giuda, ma mentre l’apostolo viene inghiottito dalle tenebre dell’anima, Gesù “entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità”. Così anche il Papa, costretto dagli eventi, ad entrare nelle “notti” del tradimento, delle incomprensioni, dei corvi, dei maneggi, è preso per mano dal suo Signore per vincere ancora una volta sul male.

 

ROCCIA E SABBIE MOBILI

Perché non importa quello che è stato prima, quello che verrà dopo: Pietro, divenuto pastore della Chiesa, non è più soltanto il pescatore Simone. Su di lui – sulla sua vicenda umana, sulle prove, sulle angosce – soffia il vento vivificante dello Spirito Santo. In Varcare la soglia della speranza, Giovanni Paolo II ha scritto che con la forza dello Spirito: “Pietro è diventato la roccia, anche se come uomo, forse, non era che sabbia mobile” e questo deve significare che l’invito “non abbiate paura” di Gesù vale anche per lui. Solo in questo modo un pontificato diventa sostenibile. L’invito è valido anche quando la sabbia mobile non è il Santo Padre, come tristemente notiamo da tempo, ma chi – e siamo molti – non riesce ad essergli fedele fino in fondo. Così, quando noi, umani troppo umani con le nostre infedeltà e le nostre pochezze, sconfessiamo con i fatti l’obbedienza e l’amore che sosteniamo a parole, su di lui vegli la Santissima Trinità, che rimedia, a volte anche in extremis, ai disastri in cui, più o meno intenzionalmente, tentiamo di trascinare il Papa e la Chiesa tutta.





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30/09/2012 14:35
 
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"L'inferno è solitudine: ecco l' abisso dell'uomo" di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI (da «Perché siamo ancora nella Chiesa», Rizzoli)

 

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa? Rizzoli 2008

L' inferno è solitudine: ecco l' abisso dell' uomo

di JOSEPH RATZINGER PAPA BENEDETTO XVI

L'articolo della discesa agli inferi del Signore ci ricorda che della rivelazione cristiana fa parte non solo il parlare di Dio, bensì anche il suo tacere. Dio non è solo la parola comprensibile, che si avvicina a noi, egli è anche la causa taciuta e inaccessibile, incompresa e incomprensibile che ci sfugge.

Certamente, nel cristianesimo c'è un primato del logos, della parola rispetto al silenzio: Dio ha parlato, Dio è la parola. Ma oltre a ciò noi non dovremmo dimenticare la verità del duraturo nascondimento di Dio. Solo quando lo abbiamo conosciuto come silenzio, possiamo sperare di sentire anche il suo parlare, che emana dal suo silenzio.

La cristologia oltrepassa la croce, il momento della tangibilità dell' amore divino, sin nella morte, nel silenzio e nell' oscuramento. Se si tiene conto di ciò, si risolve da solo il problema della «prova scritta»; perlomeno nel grido di morte di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) il segreto della discesa agli inferi di Gesù diventa visibile come un lampo accecante in una notte buia. A questo riguardo non dimentichiamo che questa frase del Crocifisso è il versetto iniziale di una preghiera di Israele, nella quale si riassume in modo sconvolgente il bisogno e la speranza di questo popolo eletto da Dio, e in apparenza profondamente abbandonato da lui. Questa preghiera che sale come richiesta nel momento dell' oscurità di Dio finisce con una esaltazione della grandezza di Dio. Anche questa è assente nel grido in punto di morte di Gesù, che Ernst Käsemann ha di recente definito una preghiera dagli inferi, come l' istituzione della prima preghiera nel deserto dell' apparente assenza di Dio: «Il Figlio mantiene ancora la fede, quando la fede sembra essere diventata insensata e la realtà terrena rivela il Dio assente, di cui parlano non a caso il primo ladrone e la folla che schernisce. Il suo grido non è indirizzato al vivere e sopravvivere, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido è contro la realtà del mondo intero».
Tentiamo un' ulteriore riflessione per penetrare in questo complesso mistero, che non può essere chiarito a partire da un solo lato.

Innanzitutto prendiamo atto ancora una volta di un' osservazione esegetica. Ci viene detto che nel nostro articolo di fede il termine «inferno» sarebbe solo una traduzione errata di scheol (in greco: hádes), con il quale l' ebreo definiva quella condizione al di là della morte, che si immaginava in modo molto vago come una specie di esistenza nell' ombra, più un non esserci che un esserci. Perciò la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù è entrato nello scheol, ovvero che è morto.

Ora, questo può senz' altro essere vero. Ma rimane la questione se la cosa con ciò sia diventata più facile e chiara.

Penso che la domanda si ponga ora più che mai: cos'è veramente la morte e cosa accade dopo, quando qualcuno muore ed entra quindi nel destino della morte? Tutti noi dovremo ammettere il nostro imbarazzo di fronte a questa domanda.

Ma forse possiamo tentare un avvicinamento partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, trovando espresso il nucleo di ciò che significa discesa di Gesù, partecipazione al destino di morte dell' uomo. In quest' ultima preghiera di Gesù, come nella scena del monte degli ulivi, sembra che il nucleo più profondo della sua passione non sia un qualsivoglia dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. In questo punto, però, appare infine veramente l' abisso della solitudine dell'uomo come tale, dell' uomo che nell' intimo è solo. Questa solitudine, che certo è perlopiù coperta in vario modo, ma è comunque la vera condizione dell' uomo, significa nel contempo la più profonda contraddizione all' essenza dell' uomo, che non può stare da solo, ma ha bisogno di essere in comunione.

Perciò la solitudine è la sfera della paura, che si basa sul venire a mancare dell' essenza: essenza che deve essere e che tuttavia è stata esiliata in uno spazio che le è impossibile. Cerchiamo di chiarircelo con un esempio. Se un bambino deve camminare da solo attraverso la foresta nella notte buia, ha paura, anche se gli si è dimostrato in maniera convincente che non vi è nulla da temere.

Nel momento in cui è solo nell' oscurità e sente la solitudine in maniera così radicale, sorge la paura, la vera paura dell' uomo, che non è paura di qualcosa, bensì paura in sé. La paura di qualcosa di determinato è in fin dei conti innocua, può essere esorcizzata allontanando l' oggetto in questione. Se qualcuno per esempio ha paura di un cane che morde, la faccenda si può sistemare velocemente legando il cane alla catena. Qui ci imbattiamo in qualcosa di molto più profondo: nel fatto che l' uomo, quando finisce nella solitudine definitiva, non ha paura di qualcosa di determinato, che si potrebbe mostrare lontano; egli prova piuttosto la paura della solitudine, dell' inquietudine e della sospensione della propria essenza, che non può essere superata razionalmente.

Aggiungiamo ancora un esempio: quando qualcuno deve stare sveglio di notte da solo con un morto in una camera, troverà sempre la sua situazione in qualche modo inquietante, anche se non vuole confessarselo ed è in grado di rendere comprensibile razionalmente l' infondatezza della sua sensazione. Egli sa bene che il morto non gli può fare nulla e che la sua situazione sarebbe forse molto più pericolosa se la persona in questione fosse ancora viva. Quello che nasce qui è una paura di tutt' altro tipo, non paura di qualcosa, bensì nell' essere soli con la morte, la sinistra sensazione della solitudine in sé, la sospensione dell' esistenza.

Ma, dobbiamo chiederci ora, come può essere superata una tale paura, se la prova dell' infondatezza cade nel vuoto? Ora, il bambino perderà la sua paura nel momento in cui vi sarà lì una mano che lo prende e lo conduce. E anche colui che è solo con il morto sentirà sparire l' impulso della paura se qualcuno è con lui. In questo superamento della paura si svela nel contempo ancora una volta la sua essenza: che essa è la paura della solitudine, la paura di un essere che può vivere soltanto nell' essere in comunione.

Dobbiamo spingere ancora oltre la nostra domanda. Se esistesse una solitudine nella quale nessuna parola di un altro potesse più arrivare e avere effetto trasformante; se sopraggiungesse una sospensione dell' esistenza tanto grave che in quel luogo non potrebbe più giungere alcun tu, allora sarebbe data quella vera e totale solitudine e terribilità che il teologo chiama «inferno».

Cosa significhi questa parola possiamo definirlo precisamente in base a ciò: essa indica una solitudine nella quale non penetra più la parola dell' amore e significa quindi la vera sospensione dell' esistenza.

In questo contesto, è immediato ricordare che i poeti e i filosofi della nostra epoca sono convinti che tutti gli incontri tra gli uomini rimangano in sostanza alla superficie; nessun uomo avrebbe accesso alla vera profondità dell' altro. Nessuno perciò può giungere alla vera profondità dell'altro; ogni incontro, per quanto possa sembrare bello, in fin dei conti non fa altro che narcotizzare l' insanabile ferita della solitudine. Nell' intimo più profondo dell'esistenza di noi tutti abiterebbe quindi l' inferno, la disperazione - la solitudine, che è tanto indefinibile quanto terribile. Sartre ha notoriamente costruito la sua antropologia su quest'idea. Infatti, una cosa è certa: c' è una notte nel cui abbandono non arriva alcuna voce; vi è una porta attraverso la quale noi possiamo passare solamente in solitudine: la porta della morte. Tutta la paura del mondo è in ultima analisi paura di questa solitudine. Da questo si può capire perché l' Antico Testamento abbia solo una parola per l' inferno e la morte, il termine scheol: in fin dei conti le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma quella solitudine nella quale l' amore non può più penetrare è l' inferno. Con questo siamo giunti di nuovo al nostro punto di partenza.

In base a ciò, questa frase significa che Cristo ha attraversato la porta della nostra ultima solitudine, che egli nella sua passione è entrato in questo abisso del nostro essere abbandonati. Dove nessuna voce può raggiungerci, egli è lì. In questo modo l' inferno è superato, o meglio: la morte, che prima era l' inferno, non lo è più. Entrambe le cose non sono più le stesse, poiché nel cuore della morte c' è la vita, poiché l' amore abita nel cuore di essa. L' inferno è ora solo una chiusura volontaria di sé o, come afferma la Bibbia, la seconda morte.

Il brano

Le lezioni da Ratzinger

Il testo che pubblichiamo oggi, tratto dal libro di Joseph Ratzinger Perché siamo ancora nella Chiesa (Rizzoli, 299 pagine, 19 euro), è un ampio stralcio di un intervento pronunciato nel marzo 1968 dall'allora teologo al convegno «Professione di fede passata di moda?» tenuto a Monaco di Baviera

L' Accademia

Il volume che arriva oggi in libreria raccoglie discorsi e lezioni di Ratzinger svolti in quarant' anni all'Accademia cattolica di Baviera.

© Copyright Corriere della sera, 9 gennaio 2008, consultabile online anche qui

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa? Rizzoli 2008

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[SM=g1740733] Benedetto XVI grande lectio su Dio e la Chiesa Sinodo 2012 (1)

Cari Amici, Benedetto XVI fa rientro oggi nel "recinto di San Pietro", come ci disse lui stesso, e nel silenzio ci accompagna con la sua preghiera. Vogliamo accompagnarlo non solo con la nostra preghiera ma anche con l'ascolto al suo grande insegnamento. L'8 ottobre 2012 ha fatto un Discorso presso la Congregazione generale dei Vescovi: La questione per noi è: Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza?
E ancora, il Papa ci aiuta a comprendere e a conoscere davvero la Chiesa: La Chiesa non comincia con il «fare» nostro, ma con il «fare» e il «parlare» di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato...

www.gloria.tv/?media=437746

Il testo integrale che troverete qui:
www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2012/october/documents/hf_ben-xvi_spe_20121008_meditazione-sinodo...

sarà diviso in due audio-video per uso sia personale quanto comunitario.

**************
Benedetto XVI grande lectio su Dio e la Chiesa Sinodo 2012 (2)
www.gloria.tv/?media=438497


Buona meditazione a tutti.


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[Modificato da Caterina63 04/05/2013 17:49]
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