È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!

A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA che cosa è e di cosa parla

Ultimo Aggiornamento: 28/08/2012 15:04
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
12/05/2011 22:26
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

I

I.D.I.S. - Istituto per la Dottrina e l'Informazione Sociale - Voci per un Dizionario del Pensiero Forte

La dottrina sociale della Chiesa: natura e storia
di Giovanni Cantoni (fondatore di Alleanza Cattolica)

 

1. "Creazione, peccato, Redenzione"

La Chiesa cattolica si vuole società sui generis, in quanto fondata direttamente da Dio nella persona di Gesù Cristo e con caratteri simili a quelli di ogni società fondata indirettamente da Dio stesso attraverso la naturale socialità umana, cioè come ogni società appunto umana, istituita però direttamente dagli uomini. La visione del mondo cattolica è ritmata da una sequenza, che rende ragione di tutto l’operare della Chiesa e dei "mondi" costituiti da cattolici come risultato di una conversione e di una inculturazione, cioè come esito di una implantatio non solo religiosa, ma anche socio-culturale. La sequenza in questione è "Creazione, peccato, Redenzione", esprimibile anche, con particolare attenzione all’uomo, attraverso tre aggettivi atti a descrivere tre diverse condizioni dell’uomo stesso: formatus, deformatus, reformatus, "formato", "deformato", "riformato". Tale sequenza suppone Dio creatore di una realtà con una ratio, una "ragion d’essere", che l’uomo, parte di questa realtà, intuisce con il senso comune attraverso la rilevazione che "res sunt" — secondo la felice formula dello storico della filosofia e filosofo Étienne Gilson (1884-1978) —, che "vi sono le cose", fra le quali ne vengono poi apprezzate di particolari: "homines sunt", "vi sono gli uomini". Segue l’approfondimento di questa rilevazione attraverso l’operare umano, principalmente grazie a quello contemplativo che si esprime nella filosofia e coglie un diritto naturale, e attraverso la catalogazione dell’operare umano stesso e dei suoi frutti, cioè grazie all’esperienza storica, che svela l’essere dell’operatore: infatti "operari sequitur esse", "l’agire consegue all’essere". Un atto umano compiuto in illo tempore, in principio, il "peccato originale", il rifiuto da parte dell’uomo della propria condizione di creatura, ha ferito l’operare umano, sia com’è posto dalla volontà che com’è espresso dall’intelligenza.

Così s’impone una restaurazione della realtà ferita, un’integrazione dei doni collegati alla creazione, alla natura, cioè l’integrazione soprannaturale della grazia, che si manifesta attraverso la Rivelazione, con la costituzione della Chiesa, che annuncia la Buona Novella, conferma i caratteri della natura anteriori alla deformazione prodotta dal peccato originale e amministra i sacramenti, veicoli ordinari della grazia, cioè dell’aiuto straordinario da parte di Dio. Dell’annuncio fa parte la conferma di una regola di comportamento — la morale e lo sforzo, l’ascesi che l’accompagna, risposta dell’uomo al misterioso, "mistico", aiuto di Dio —, il cui rispetto garantisce il ritorno all’origine, al punto di partenza: da Dio, come fonte, tutto viene, e a Dio, come fine, tutto va. I due itinerari vengono indicati nel linguaggio della teologia scolastica in genere, e in quello di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) in specie, come exitus e reditus, rispettivamente "uscita" e "ritorno".

2. Morale individuale e sociale, morale naturale e rivelata

La morale individuale è l’indicazione dei valori di riferimento ai quali l’uomo come singolo deve guardare nel suo agire perché, nato ferito dalla caduta originale, possa essere redento e tornare a Dio.

La dottrina sociale della Chiesa è l’indicazione comportamentale, cioè morale, intesa a contrastare le difficoltà costituite per l’agire dell’uomo dalla cosiddetta "questione sociale", cioè dall’insieme delle difficoltà, derivanti dal peccato originale, dell’operare degli uomini nelle loro relazioni con Dio come gruppi sociali, nella vita di convivenza fra loro e fra gruppi sociali, e nei rapporti suscitati dalle relazioni con i beni sia dei singoli, che — di nuovo — dei gruppi umani.

Una dottrina morale sociale esiste ed è sempre esistita fra gli uomini, quale ne sia o ne sia stata l’espressione, "mitica", cioè esemplare, o filosofica, cioè riflessa e astratta; ed essa ha trovato nella Sacra Scrittura un’espressione privilegiata, in quanto rivelata, quindi garantita dal Rivelatore. Inoltre la sua esplicitazione è passata dall’intervento episodico all’insegnamento sociale: dalla terapia sociale, dalla denuncia e dall’indicazione nel caso concreto all’educazione sociale integrale. Così, alle indicazioni sociali veterotestamentarie seguono quelle neotestamentarie; quindi, il Magistero ecclesiastico accompagna la vita delle società alle quali annuncia, alla luce della regalità di Cristo, e nelle quali testimonia nel tempo le verità della Creazione, del peccato e della Redenzione con indicazioni sollecitate dalle necessità di tali società.

3. Dalla terapia sociale all’educazione sociale integrale

Tutti i giudizi su temi sociali, necessitati dai fatti, emessi da autorità spirituali e gerarchiche dopo la fondazione della Chiesa costituiscono espressioni della dottrina sociale della Chiesa, che è sollecitata a formulazioni sempre più organizzate dallo svolgimento della vita nella società in cui si trova storicamente a vivere; prima la società romana, che continua nella Pars Orientis dell’impero nella società romano-orientale o bizantina, poi la società romano-germanica. Se l’intervento morale è suggerito dallo svolgimento sociale, è letteralmente incalzato dal tralignamento dell’ultima società in questione — conseguenza sub specie societatis del peccato originale — a partire dal Rinascimento, quindi dalle premesse — l’accumulazione originaria — della Rivoluzione industriale, poi dalle modifiche delle strutture organizzative della società, con particolare rilievo per quelle politiche. Perciò, nel tempo che si stende dall’emanazione di una delle prime lettere encicliche, la Vix pervenit del 1745, di Papa Benedetto XIV (1740-1758), fino al 1961, data di pubblicazione dell’enciclica Mater et Magistra da parte di Papa Giovanni XXIII (1958-1963), cresce un corpo dottrinale di cui — nella parte IV dell’ultimo documento citato — viene data una denominazione ormai determinata, "dottrina sociale della Chiesa", e del quale è anche indicata la portata, "parte integrante della concezione cristiana della vita".

Punto nodale di questo itinerario è costituito dal 1891, anno di pubblicazione dell’enciclica Rerum novarum a opera di Papa Leone XIII (1878-1903), alla quale non solo nella vulgata è ormai consuetamente collegata la nozione di dottrina sociale della Chiesa come magna charta di essa. Si tratta di un legame che necessita almeno di una precisazione: l’attenzione alla societas testimoniata dal documento di Papa Leone XIII non dev’essere ridotta alla sola dimensione socio-economica del reale sociale.

L’itinerario indicato prosegue — ed è destinato a proseguire fino alla fine dei tempi — fino alla determinazione dello statuto della dottrina stessa al n. 46 dell’enciclica Sollicitudo rei socialis, pubblicata da Papa Giovanni Paolo II nel 1987, dov’è qualificata come "teologia morale", e oltre, fino a un’esposizione compendiosa nel Catechismo della Chiesa Cattolica, del 1992, nella forma di commento sub specie societatis, cioè per l’uomo in quanto essere sociale, al decalogo. Il che conferma che la dottrina sociale naturale e cristiana è appunto riproposizione e commento al decalogo, espressione privilegiata della legge naturale e i cui dieci comandamenti appartengono alla Rivelazione di Dio: infatti, benché accessibili alla sola ragione, i precetti del decalogo sono stati rivelati perché "una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo — nota san Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274) (In libros sententiarum 4, 37, 1, 3) — si rese necessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata". Com’è nella natura della vita culturale delle società umane, la continua riesposizione della morale sociale nel caso concreto porta con sé anche un’altrettanto continua rielaborazione, quindi produce una maggior comprensione del deposito da parte della Chiesa, gerarchia e fedeli. Si tratta di una maggior comprensione che non comporta assolutamente una mutazione né del contenuto né, tanto meno, della natura del deposito. Sollecitazioni che inducono a un costante approfondimento, quindi allo svolgersi del magistero sociale, sono prodotte anche dalle difficoltà del mondo non solo contemporaneo alla Chiesa, ma con cui essa concretamente convive. A queste complicazioni, che costituiscono altrettanti fattori di complessità, s’affiancano le problematiche presentate dal processo di secolarizzazione, cioè di maliziosa espunzione delle motivazioni e delle finalità religiose dalla vita delle società umane, nonché il recepimento, talora oggettivamente secolarizzante, delle acquisizioni scientifiche e le dimensioni sociologiche delle mutazioni tecnologiche, soprattutto di quelle relative agli strumenti di comunicazione sociale. Così si spiegano — fra l’altro — le prese di posizione del Magistero della Chiesa, autentici presidi, sulle nuove frontiere della bioetica e dell’ecologia.

4. La formazione della coscienza sociale

La natura di morale sociale della dottrina sociale della Chiesa ne fa alimento indispensabile per la formazione della coscienza sociale, in quanto tale dottrina contiene i princìpi di riflessione, i criteri di giudizio e le direttive di azione per la coscienza del singolo fedele. Poiché la creazione, la conservazione e la rettificazione della società deformata passano attraverso l’intervento dell’uomo come essere vivente sociale, la morale sociale non è programma né legge positiva, ma costellazione di valori d’orientamento per ogni operare sociale storicamente determinato.

L’esplicitazione della dottrina sociale della Chiesa, derivata dalle necessità storiche evidenziate, il suo passaggio da messaggio implicito a messaggio esplicito, hanno talora prodotto un certo temporaneo disorientamento, una ricezione impropria di essa. Tale ricezione impropria si potrebbe indicare come una "ricezione ideologica", analoga a quella che trasforma l’orientamento proprio di una direzione spirituale in una legge positiva, facendo sì che il direttore surroghi il diretto subentrando in qualche modo nella di lui responsabilità.

Tale ricezione ideologica ha fatto sì che nella dottrina sociale si cercassero — talora, nella coscienza soggettiva degli stessi uomini di Chiesa, si proponessero — programmi politico-sociali anziché indicazioni di massima, anche se aggiornate alle problematiche proposte sia dal positivo che dal negativo che si presentano con caratteri di novità, di res novae, nel corso della storia.

Accanto alla ricezione ideologica si situa, negli anni 1960 e 1970, cioè negli anni immediatamente seguenti il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), un tentativo intraecclesiale teso a ridurre la rilevanza della dottrina sociale attraverso artifici lessicali quale la sua definizione come "insegnamento", nella prospettiva della sua negazione, cioè della sua trasformazione in una "morale sociale della situazione", quindi tanto condizionata dalla situazione storica da perdere quasi ogni significativa portata normativa. A partire dal 1979 si è realizzata, da parte delle massime autorità della Chiesa, una rivalutazione della dottrina stessa — non per questo adeguatamente compresa, studiata e, soprattutto, tenuta nella dovuta considerazione — attraverso la pubblicazione di numerosi documenti da parte di Papa Giovanni Paolo II, soprattutto dell’enciclica Centesimus annus, del 1991, ricca di indicazioni sulla natura e sulla storia della dottrina sociale.

Per approfondire: vedi Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, del 30-12-1988; card. Joachim Meisner, Teologia, antropologia ed economia, trad. it., in Cristianità, anno XVIII, n. 178, febbraio 1990, pp. 9-10; Jean-Yves Calvez S.J. e Jacques Perrin S.J., Chiesa e società economica.

L’insegnamento sociale dei Papi da Leone XIII a Giovanni XXIII (1878-1963), trad. it., Centro Studi Sociali, Milano 1965, pp. 7-117; Hervé Carrier S.J., Dottrina sociale. Nuovo approccio all’insegnamento sociale della Chiesa, trad. it., 2a ed., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996; e i miei Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della "Laborem exercens", in Cristianità, anno IX, n. 78-79, ottobre-novembre 1981, pp. 1-20, soprattutto pp. 3-5;

La buona battaglia di Alleanza Cattolica per la maggiore gloria di Dio anche sociale, ibid., anno XI, n. 100, agosto-settembre-ottobre 1983, pp. 3-5; La "rivalutazione" della dottrina sociale della Chiesa, ibid., anno XIV, n. 133, maggio 1986, pp. 3-5; Dottrina sociale, teologia morale e coscienza, ibid., anno XVII, n. 165, gennaio 1989, pp. 5-7; e L’"Anno della Dottrina sociale della Chiesa", ibid., anno XIX, n. 189, gennaio 1991, pp. 3-6.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
12/05/2011 22:28
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

I

I.D.I.S. - Istituto per la Dottrina e l'Informazione Sociale - Voci per un Dizionario del Pensiero Forte

La dottrina sociale della Chiesa: princìpi, criteri e direttive
di Giovanni Cantoni

 

1. La morale sociale nel "Catechismo della Chiesa Cattolica"

La dottrina sociale della Chiesa — il corpo dottrinale in progress, "fabbrica" destinata a chiudersi alla fine dei tempi, di cui sono note le grandi linee e le fondamenta, che si viene costituendo nel corso della storia a opera della Gerarchia e sulla base dell’elaborazione delle scienze umane soprattutto in risposta alle sollecitazioni delle diverse società umane — comporta tre aree: princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione. Essa ha trovato una ricostruzione e un’esposizione compendiose di particolare rilevanza magisteriale nel Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato da Papa Giovanni Paolo II nel 1992, come strumento valido e legittimo della comunione ecclesiale e come norma sicura per l’insegnamento della fede, per la catechesi, cioè per l’attività attraverso la quale la Chiesa, in tutte le sue articolazioni, fa eco alla Sacra Scrittura, alla Tradizione apostolica, al Magistero ecclesiastico proclamando i "diritti dell’uomo" senza anteporli ai "diritti di Dio", dei quali si deve riconoscere e rispettare il primato, non solo come fonti di precisi doveri corrispondenti, ma anche come fondamenta e garanzie dei primi.

2. Princìpi di riflessione

I princìpi di riflessione della dottrina sociale naturale e cristiana sono costituiti dal primato della persona umana, dal principio di sussidiarietà e da quello di solidarietà.

Quanto all’uomo, se ne afferma la naturale socialità e si indica il fondamento della sua grandezza nell’esser stato creato a immagine e somiglianza di Dio, sì che la dimensione stessa di tale grandezza è la gloria di Dio: "La gloria di Dio — scrive sant’Ireneo di Lione, un Padre della Chiesa, di lingua greca, del secolo II — è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è la contemplazione di Dio" (Adversus haereses 4, 20, 7); l’uomo è posto al centro del mondo delle creature visibili e invisibili, tutte ricolme della gloria del Creatore e che ne proclamano la gloria, sì che, attraverso la storia del cosmo visibile e invisibile, s’innalza, come un Tempio immenso, un abbozzo del Regno eterno di Dio.

Nell’esecuzione di quest’opera, in base al principio di sussidiarietà, l’uomo deve esser messo in condizioni di realizzare e all’uomo si deve domandare che realizzi tutte le proprie potenzialità prima di auspicare e di richiedere l’intervento di altri uomini a soddisfare le sue esigenze naturali — cioè derivanti dalla sua natura sociale, che lo rende strutturalmente bisognoso dell’aiuto di altri —, sia a integrare le deficienze dovute alle conseguenze del peccato originale. Questo rapporto fra il singolo e la società come insieme di altri uomini è modello anche per le relazioni fra i diversi corpi sociali intermedi, a partire dalla società matrimoniale, da quella familiare e oltre, fino alla comunità delle nazioni.

Ancora: nell’esecuzione di quest’opera il vantaggio spirituale e materiale del singolo uomo dev’essere perseguito in armonia con il vantaggio dell’umanità come insieme di tutti gli uomini — è il principio di solidarietà —, cioè nella prospettiva del bene comune di ogni società e della società universale inteso come insieme delle condizioni che, ai diversi livelli e nelle diverse situazioni, garantiscono e favoriscono le migliori situazioni di vita di ogni singolo, quindi la realizzazione sociale della gloria di Dio.

I princìpi evocati trovano la loro codificazione nella regolamentazione dei rapporti con Dio dell’uomo e della società che forma e di cui vive, implicito commento alla prima tavola del decalogo che appunto li prevede nei primi tre comandamenti; quindi nell’implicito commento alla seconda tavola della stessa legge, che riguarda le relazioni fra gli uomini e degli uomini con i beni.

3. Criteri di giudizio

Quanto ai rapporti con Dio delle società — con particolare riguardo alle società politiche, cioè agli Stati —, l’orizzonte costituito dal primo comandamento, "Non avrai altro Dio fuori di me", comporta un’accoglienza della verità della religione cristiana da parte della società in un modo quanto più possibile integrale, per cui anche la confessionalità dello Stato — cioè del profilo organizzativo della società —, con il riconoscimento della missione unica della Chiesa cattolica, è obiettivo da perseguire, naturalmente sulla base inamovibile della libertà religiosa, che esclude ogni e qualsiasi coercizione sociale e civile in materia religiosa. Le esigenze sociali insite nel secondo comandamento, "Non nominare il nome di Dio invano", comportano che i diritti alla libertà di coscienza, d’opinione e d’espressione non esonerino dal dovere di trattare con deferente considerazione l’esperienza spirituale di quanti credono in Dio e che, offendendo pubblicamente Dio, non si commetta soltanto una grave colpa morale, ma si violi pure un preciso diritto della persona al rispetto delle proprie convinzioni religiose. Circa il terzo comandamento, "Ricordati di santificare le feste", l’osservanza di un giorno settimanale di preghiera e di riposo, con effetto rigeneratore e tonificante sull’esistenza umana, dev’essere garantito contro l’asservimento al lavoro e il culto del denaro.

Il quarto comandamento, "Onora il padre e la madre", espresso nella forma di un dovere da compiere, è uno dei fondamenti della dottrina sociale naturale e cristiana. Infatti riguarda la famiglia, fondata sul matrimonio eterosessuale, monogamico e indissolubile, offeso in radice dalla permissione del divorzio, che — con l’adulterio, l’incesto, l’omosessualità e ogni abuso sessuale — contrasta con il sesto comandamento, "Non commettere atti impuri". Cellula originaria della vita sociale, la famiglia — alla quale spetta il diritto primario all’educazione dei figli e alla libera scelta della scuola — esercita a tale vita, educando implicitamente all’organicità sociale, quindi sia all’uguaglianza che alla diversità fra gli uomini, sia alla gerarchia che alla fraternità sulla base della comune paternità nonché all’identificazione dei propri diritti e dei corrispondenti doveri. Inoltre della vita sociale, in ogni suo grado, è nello stesso tempo modello e modulo, sulla cui base realizzare la partecipazione alla vita politica — contrapponendo democrazia a totalitarismo, ma guardandosi dal totalitarismo democratico, cioè da una democrazia che voglia imporre i valori a maggioranza — ed esercitare l’autorità come servizio.

Il quinto comandamento, "Non uccidere", rifiuta l’omicidio diretto e volontario, l’aborto e l’eutanasia, nonché il suicidio e quei generi di suicidi promossi fisicamente dall’assunzione di droghe, con tutta l’attività criminale che la circonda, e moralmente dagli scandali provocati, di volta in volta, da leggi o da istituzioni, dalla moda o dall’opinione pubblica. A tali scandali si affiancano la permissività dei costumi e l’intossicazione pornografica, dai quali mette in guardia il nono comandamento, "Non desiderare la donna d’altri". Sempre al quinto comandamento rimandano il rispetto dell’integrità corporea e psichica e il divieto di ogni sperimentazione scientifica sugli esseri umani che li esponga a rischi sproporzionati o evitabili — neppure con il consenso esplicito del soggetto o dei suoi aventi diritto — nonché la condanna di rapimenti, di presa di ostaggi e di terrorismo. Nel quadro del rispetto della vita si situano lecitamente sia la legittima difesa, la cui versione macroscopica è la guerra, che la pena di morte, pratiche da scongiurare con ogni sforzo ragionevole e possibile — soprattutto a fronte delle moderne tecniche di guerra e del moderno disprezzo per la vita — ricorrendo a modalità quali la trattativa diplomatica, l’arbitrato internazionale e la carcerazione.

Il settimo e il decimo comandamento, "Non rubare" e "Non desiderare la roba d’altri", fondano la liceità del diritto di proprietà privata, acquisita con il lavoro o ricevuta in eredità oppure in dono; non eliminano però l’universale destinazione dei beni, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto a essa e del suo esercizio, e condannano ogni forma di esproprio surrettizio, quale quello fiscale. Al diritto di proprietà s’affianca quello d’iniziativa economica, nonché il rispetto dell’integrità della creazione. Comunque la vita economica dev’essere garantita dallo Stato, che deve sorvegliare e guidare l’esercizio dell’attività e dei diritti nel settore, quindi dare un solido inquadramento giuridico pure al mondo finanziario.

Infine l’ottavo comandamento, "Non dire falsa testimonianza", non riguarda solo la veridicità nella testimonianza in sede giuridica e contrattuale, ma l’informazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale, nel suo contenuto sempre vera e — salve la giustizia e la carità — integra, e nel modo onesta e rispettosa delle leggi morali, dei legittimi diritti e della dignità dell’uomo.

4. Direttive di azione

I princìpi enunciati e le determinazioni della legge naturale e cristiana costituiscono la premessa di ogni ascesi sociale, cioè di ogni opera sociale e di ogni sforzo politico teso alla realizzazione delle condizioni massimali e ottimali della convivenza a ogni livello, da quello fra famiglie a quello internazionale, a partire dalla messa in atto di ogni gesto utile allo svolgimento di tale attività, quindi alla preventiva conquista — ove necessario — e alla conservazione di una condizione di libertà, che per il cristiano coincide con la libertas Ecclesiae, ma che si rivela anche libertas hominis, grazie appunto alla relazione fra il decalogo e la "legge naturale", per cui "fin dalle origini — come afferma sempre sant’Ireneo —, Dio aveva radicato nel cuore degli uomini i precetti della legge naturale. Poi si limitò a richiamarli alla loro mente. Fu il Decalogo" (op. cit. 4, 15, 1); quindi — con altra formulazione — grazie all’interdipendenza fra i "diritti di Dio" e i "diritti dell’uomo", che non solo non si escludono, ma vanno di pari passo. Perciò s’impone quella che Papa Giovanni Paolo II chiama — al n. 26 dell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 1984 — la "quadruplice riconciliazione" dell’uomo "con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato", nella cui prospettiva di ritorno ai princìpi si situano lo studio, la diffusione e l’applicazione della dottrina sociale della Chiesa, "[...] un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi àmbiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

"Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali princìpi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale"; cioè — secondo lo stesso Pontefice nella conclusione dell’esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici, del 1988 — "[...] contribuire a stabilire sulla terra la civiltà della verità e dell’amore, secondo il desiderio di Dio e per la sua gloria".

Per approfondire: vedi Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, del 30-12-1988; don José Miguel Ibáñez Langlois, La dottrina sociale della Chiesa. Itinerario testuale dalla "Rerum novarum" alla "Sollicitudo rei socialis", trad. it., Ares, Milano 1989; e i miei Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della "Laborem exercens", in Cristianità, anno IX, n. 78-79, ottobre-novembre 1981, pp. 1-20;

La buona battaglia di Alleanza Cattolica per la maggiore gloria di Dio anche sociale, ibid., anno XI, n. 100, agosto-settembre-ottobre 1983, pp. 3-5; Cattolici, politica e dottrina sociale della Chiesa, in Quaderni di "Cristianità", anno II, n. 4, primavera 1986, pp. 68-76; La Contro-Rivoluzione e le libertà, in Cristianità, anno XIX, n. 199, novembre 1991, pp. 6-12;

La democrazia nell’enciclica sociale "Evangelium vitae", ibid., anno XXIII, n. 241-242, maggio-giugno 1995, pp. 3-8. Vedi pure I documenti sociali della Chiesa.

Da Pio IX a Giovanni Paolo II, a cura di Raimondo Spiazzi O.P., vol. I, dal 1864 al 1965, e vol. II, dal 1967 al 1987, 2a ed. aggiornata, Massimo, Milano 1988; e Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, a cura di Ugo Bellocchi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, dal 1993, 6 voll., testi dal 1740 al 1903.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
12/05/2011 22:34
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

 
  IL DIRITTO NATURALE nel Magistero Pontificio

Di J.-Y. Calvez – J. Perrin
(tratto da "Chiesa e società economica", Centro Studi Sociali Milano, 1965, pp. 71-88)


Nei documenti pontifici - bisogna riconoscerlo - si trovano scarse considerazioni esplicite circa la definizione e il contenuto della nozione di diritto naturale. Il che non facilita il compito d'esegesi che intraprendiamo, essendo molto movimentata la storia del concetto di diritto naturale e assai varie le definizioni che di esso sono state date dai pensatori della tradizione occidentale, quali S. Tommaso, Suarez, Altusio, Kant, Hegel. Alcuni testi essenziali basteranno tuttavia a dimostrare la continuità del Magistero Ordinario Universale dei Pontefici e, quindi, a indicarci il doveroso assenso in coscienza a questa dottrina.

Conoscibilità del diritto naturale.

Pio XI, nella sua denuncia della teoria nazista del diritto, è stato indotto a delle precisazioni. Egli parla così del "diritto naturale, che il dito dello stesso Creatore impresse nelle tavole del cuore umano e che la ragione umana sana e non ottenebrata da peccati e passioni può in esse leggere" (Pio XI, Mit brennender Sorge, 14 marzo 1937, in A.A.S., 1937). Il diritto naturale dunque può essere conosciuto dalla ragione, vera fonte di conoscenza di questo diritto.

La nozione equivalente di "legge naturale", di cui i Papi si servono nei documenti più specificamente teologici, permette di spiegare che cosa sia il diritto naturale e come esso comporti il carattere di obbligatorietà proprio della legge morale. Conformemente a tutta la tradizione cattolica, la Chiesa ammette che la ragione umana può non soltanto conoscere l'esistenza della legge naturale, ma anche esprimerne il contenuto con tutta la certezza desiderabile. Pio XII scriveva a questo proposito: "Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il valore della ragione umana, alla quale spetta il compito [...] di porre correttamente in luce (rite exprimendam) la legge che il Creatore ha impressa nelle anime degli uomini" (PIO XII, Humani Generis, 12 agosto 1950, in A.A.S., 1950).

Questa legge naturale è oggetto di conoscenza, e nel contempo espressione dell'obbligazione morale inerente alla natura stessa dell'uomo. Coi soli lumi della ragione l'uomo può conoscere il dover-essere che gli è proprio e, nel medesimo tempo, il fondamento ultimo di questa legge, cioè Dio, custode dell'ordine morale. Il testo ora citato mette infatti sul medesimo piano ("parique modo") questo duplice potere della ragione umana (Pio XII, Humani Generis, 12 agosto 1950, in A.A.S., 1950).

Così si trova opportunamente precisato, al livello della vita morale, ciò che già affermava il Concilio Vaticano I sul potere della ragione, dichiarandola capace di conoscere da sola l'esistenza di Dio, origine e insieme termine dell'universo creato, in particolare Creatore e fine ultimo dell'uomo, cfr. Concilio Vaticano I, Sess. III, 24 aprile 1870, c. II: "Sancta mater Ecclesia tenet et docet, Deum, rerum omnium principium et finem, naturali humanae rationis lumine e rebus creatis certo cognosci posse" (DENZINGER H., Enchiridion Symbolorum, Herder, Fribourg, n. 1875). Si può notare che gli schemi preparatori di questa III sessione precisavano esplicitamente la possibilità per la ragione umana di conoscere Dio e la legge naturale: "in iis etiam quae de Deo et de lege naturali humanae rationi impervia non sunt" (MANSI, MARTIN e PETIT, Amplissima collectio Conciliorum, Arnhem (Olanda) e Leipzig, 1924, t. 50, col. 62.

 

Da questa serie di affermazioni si può concludere, come ha sempre fatto la tradizione cattolica, che agli occhi della Chiesa ogni uomo, anche non credente, può e deve pervenire alla conoscenza della legge naturale, o diritto naturale. Le norme universali della convivenza sono "accettabili da tutti", dichiara la Mater et Magistra (Cfr. A.A.S., cit., p. 453 (P.V., n. 232). In altri termini, secondo l'insegnamento costante della Chiesa, l'uomo può scoprire, nell'analisi della propria natura, l'insieme degli obblighi morali essenziali ai quali deve sottostare per agire in conformità a ciò che egli è e deve divenire. Questa "legge della natura umana" è insieme inerente alla natura umana e fondata in Dio, Sommo Bene.

Validità universale del diritto naturale.

Nei documenti pontifici che ci interessano più direttamente, i Papi insistono particolarmente sui caratteri oggettivi di questo diritto che la ragione può e deve scoprire: essi parlano della stabilità, dell'immutabilità, dell'universalità del suo contenuto. Il diritto naturale è la "norma di moralità universale" che si impone a tutte le istituzioni umane:

"La radice profonda ed ultima dei mali, che deploriamo nella società moderna, è la negazione e il rifiuto di una norma di moralità universale sia della vita individuale sia della vita sociale e delle relazioni internazionali, il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l'oblio della stessa legge naturale, la quale trova il suo fondamento in Dio" (Pio XII, Enc. Summi Pontificatus).

Similmente Giovanni XXIII denuncia l'equivocità dei concetti più fondamentali, particolarmente del concetto di giustizia ("Vero è che il termine "giustizia" e la dizione "esigenze della giustizia" continuano a risuonare sulle labbra di tutti. Però quel termine e quella dizione assumono negli uni e negli altri contenuti diversi, assai spesso anzi contraddittori. Perciò nei loro appelli ripetuti e appassionati alla giustizia e alle esigenze della giustizia, i responsabili politici non solo non si intendono sul senso delle parole, ma spesso trovano in esse occasione di aspri contrasti" (A.A.S., cit., p. 450 - P.V., nn. 217-218), e oppone ad essa "una legge di verità e di onestà, trascendente le circostanze e gli uomini, necessaria, universale, valida per tutti" (Ibidem, p. 449), da porre a fondamento della comprensione fra gli uomini e dell'intera vita sociale.

 

Diritto naturale fondamento del diritto positivo.

In virtù di questa sua obiettività e universalità, il diritto naturale si distingue dalle istituzioni e dal diritto positivi; ne costituisce però il fondamento, perché diritto positivo e istituzioni particolari devono uniformarsi alle sue norme fondamentali ed essere giudicati in rapporto ad esse.

1. "Alla luce delle norme di questo diritto naturale, - diceva Pio XI ­ ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell'adempimento. Quelle leggi umane che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna" (PIO XI, Mit brennender Sorge).

2. Pio XII ha ripreso la stessa distinzione a proposito del diritto internazionale: "Il cammino verso la comunità dei popoli e la sua costituzione non ha come norma unica ed ultima la volontà degli Stati, ma piuttosto la natura, ossia il Creatore. Il diritto all'esistenza, il diritto al rispetto e al buon nome, il diritto a un carattere e a una cultura propri, il diritto allo sviluppo, il diritto all'osservanza dei trattati internazionali, e diritti equivalenti, sono esigenze del diritto delle genti dettato dalla natura. Il diritto positivo dei popoli, indispensabile anche esso nella Comunità degli Stati, ha l'ufficio di definire più esattamente le esigenze della natura e di adattarle alle circostanze concrete [...]. In questa comunità dei popoli ogni Stato è dunque inserito nell'ordinamento del diritto internazionale, e con ciò nell'ordine del diritto naturale, che sostiene e corona tutto" (1).


Diritto naturale non "formale" ma "contenutista".

Opponendosi al diritto positivo e al contenuto delle istituzioni umane come ciò che è meno determinato a ciò che lo è di più, il diritto naturale di cui parlano i Sommi Pontefici non si riduce, tuttavia, al solo principio formale dell'obbligo giuridico o morale, come invece avviene in certi sistemi giuridici o filosofici nei quali appare immutabile e universale solo il principio imperativo dell'obbligazione, mentre tutte le altre determinazioni sono lasciate all'ordinamento positivo.

Il diritto naturale al quale si riferisce la dottrina sociale della Chiesa comporta, invece, un certo numero di determinazioni. Queste, tuttavia, non sono determinazioni positive, poiché sono immutabili e universali: "criteri universali rispondenti alla natura delle cose", atti a "ricomporre i rapporti della convivenza", come si esprime la Mater et Magistra (A.A.S., cit., p, 453, P.V., n. 232). Un insegnamento sempre attuale rende questi criteri universali "rispondenti alla natura delle cose e agli ambiti diversi della società e ai caratteri dell'epoca contemporanea" (ibidem). Concernono, insomma, delle caratteristiche strutturali della natura umana e della società, quali appaiono in qualunque situazione storica e che si impongono ad ogni istituzione positiva determinata.


Contenuti essenziali: famiglia, proprietà, comunità minori, Stato.

Raccogliendo delle indicazioni sparse nell'insegnamento pontificio è possibile, infine, tentare l'enumerazione di alcuni di questi elementi strutturali costituenti altrettante determinazioni del diritto naturale come tale.

1. Tre di essi sono spesso presentati congiuntamente: la famiglia, la proprietà, lo Stato, indicati quali fondamento dell'"ordine naturale".

"Perché - afferma Pio XII - questa solidarietà di quanti si trovano senza tranquillità e nel pericolo non dovrebbe divenire per tutti la via sicura, donde può venire la salvezza? Perché questo spirito di solidarietà non dovrebbe essere come il perno dell'ordine sociale naturale nelle sue tre forme essenziali: famiglia, proprietà, Stato, per ricondurle alla loro organica collaborazione, adattata alle condizioni del presente?" (Pio XII, Messaggio di Natale 1950, In A.A.S., 1951, p. 56).

Pio XII prende posizione altrove contro chiunque misconosca queste determinazioni essenziali e pretenda garantire la sicurezza dell'uomo pur rinunciando a promuovere istituzioni ad esse conformi:

"Nulla vieta che si stabilisca la sicurezza, utilizzando anche i dati della tecnica e dell'industria; occorre però resistere alla tentazione di far sorreggere l'ordine e la sicurezza dal suaccennato metodo puramente quantitativo, che non tiene in alcun conto l'ordine della natura, come vorrebbero coloro che confidano tutto il destino dell'uomo all'immenso potere industriale della presente epoca. Essi credono di fondare ogni sicurezza sulla sempre crescente produttività e sull'ininterrotto corso della sempre maggiore e feconda produzione dell' economia nazionale. [...].

"Per stabilire la sicurezza, essi concludono, non sarà perciò più necessario il ricorso alla proprietà, sia privata che collettiva, sia in natura che in capitali. [...]. In questo troppo artificiale sistema la sicurezza dell'uomo per la sua vita è pericolosamente separata dalle disposizioni e dalle energie per l'ordinamento della comunità, inerenti alla stessa vera natura umana, e le quali soltanto rendono possibile una unione solidale degli uomini. In qualche modo, sebbene col necessario adattamento ai tempi, la famiglia e la proprietà debbono restare tra i fondamenti della libera sistemazione personale. In qualche modo le comunità minori e lo Stato debbono poter intervenire come fattori complementari di sicurezza" (Pio XII, Messaggio di Natale 1955, in A.A.S., 1956, pp. 31 s.).


2. Si noterà che intervengono qui, a fianco della famiglia, della proprietà e dello Stato, "le comunità minori", più vaste della famiglia e meno estese dello Stato. Il diritto d'associazione privata è infatti uno dei punti più frequentemente annoverati dai Sommi Pontefici tra le esigenze del diritto naturale. Lo si trova messo in particolare rilievo nella Rerum Novarum e nella Quadragesimo Anno (Cfr. Leone XIII, Rerum Novarum, cit., p. 664; Pio XI, Quadragesimo Anno, 15 maggio 1931, in A.A.S., 1931, p. 188).


3. In ragione degli attacchi di cui è fatto oggetto e al fine di sfatare le interpretazioni tendenziose che se ne danno, i Sommi Pontefici sono indotti a insistere più spesso sul diritto naturale di proprietà.

Secondo la Rerum Novarum, la proprietà privata e personale è di diritto naturale (Cfr. LEONE XIII, Rerum Novarum, cit., p. 643).

"Non è dalle leggi umane, bensì dalla natura che deriva il diritto di proprietà individuale; l'autorità pubblica non può quindi abolirla; può soltanto temperarne l'uso e armonizzarlo con il bene comune" (Ibidem, p. 663).

Ugualmente Pio XII parla spesso, per spiegarne l'esatto significato, del "diritto naturale di proprietà" (V., ad es., Pio XII, Messaggio del 1° settembre 1944, in A.A.S., 1944, p. 252); e Giovanni XXIII lo riafferma (Giovanni XXIII, Mater et Magistra, cit., p. 427).

"Strutture naturali" immutabili e "forme istituzionali" mutabili.

La famiglia, la proprietà, le comunità minori e lo Stato sono qui evidentemente considerati elementi dell'ordine naturale solo in quanto strutture costitutive dell'esistenza umana, e non già in quanto forme istituzionali particolari e positive corrispondenti a tali strutture.

Famiglia e proprietà sono dunque strutture sociali immutabili, ma ciò non esclude il "necessario adattamento ai tempi" (PIO XII, Messaggio di Natale 1955, cit., p. 32). Pio XII dichiarava ancora:

"Vi è, cioè, un ordine naturale, anche se le sue forme mutano con gli sviluppi storici e sociali; ma le linee essenziali furono e sono tuttora le medesime: la famiglia e la proprietà, come base di provvedimento personale; poi come fattori complementari di sicurezza, gli enti locali e le unioni professionali, e finalmente lo stato" (Ibidem, p. 30).

Il diritto naturale, di cui parla la dottrina sociale della Chiesa, ha dunque veramente un contenuto, pur non intendendosi con ciò delle determinazioni positive e istituzionali troppo particolari, le quali dipendono dalle trasformazioni storiche e sociali.

Alle istituzioni positive conviene opporre le "strutture" essenziali dell'esistenza umana che fanno loro da substrato. Tali strutture, che possono manifestarsi in forme istituzionali diverse secondo i tempi e i luoghi, sono le sole a costituire il diritto naturale in senso stretto.


Dalle strutture dell'ordine naturale alle norme del diritto naturale.

1. Né si obietti che in virtù d'una tale teoria il diritto naturale è di nuovo votato all'astrazione e al formalismo, come nelle teorie che non gli riconoscono altro contenuto tranne il principio universale dell'obbligazione al di fuori di ogni determinazione. Esso invece si presenta con un contenuto ben determinato, anche se ridotto agli aspetti fondamentali della natura umana - che sottendono di essa natura tutte le manifestazioni storiche e concrete -, colti con una conoscenza globale di carattere filosofico ed essenziale.

Le strutture non si incontrano mai allo stato puro o isolato nel mondo storico, ma come suo substrato. Correlativamente, esse si trasformano in norme per l'azione libera che l'uomo è chiamato a svolgere in questo mondo storico, le cui caratteristiche esistenziali ed empiriche non sono mai di primo tratto adeguate alle strutture essenziali.

2. Questo passaggio dalla descrizione delle strutture dell'ordine naturale alla determinazione delle norme del diritto naturale, si osserva in molti documenti pontifici. Tali norme si configurano ora come esigenza o comando della legge naturale, ora, invece, come proibizione o dichiarazione di inaccettabilità presentata in nome della legge naturale.

La norma negativa è evidentemente meno ricca, ma di forma più assoluta, vincolante, come si dice, "semper et pro semper". Così certe realtà saranno dichiarate - in forma permissiva soltanto o imperativa, secondo i casi, ma più spesso imperativa - "conformi alla natura" o all'ordine naturale; mentre certe altre realtà, situazioni e istituzioni saranno dichiarate contrarie alla natura, "non naturali".


Esempi di norme positive.

1. Pio XII, ad esempio, afferma in forma positiva che la costituzione di una "comunità di lavoro", ai diversi livelli della vita economica, è "conforme all'ordine naturale". Malgrado l'imprecisione del testo, sembra vi si debba vedere un carattere imperativo piuttosto che semplicemente permissivo.

"Voi, coltivatori, - egli dice - costituite con le vostre famiglie una comunità di lavoro. Voi volete, insomma, formare con tutti i gruppi professionali del popolo una grande comunità di lavoro. Ciò è conforme all'ordine naturale stabilito da Dio; è il vero concetto cattolico di lavoro" (Pio XII, Discorso ai coltivatori diretti, 15 novembre 1946, in A.A.S., 1946, p. 436).

2. Allo stesso modo Leone XIII formulava, in nome del diritto naturale, l'esigenza di un'armonia fra le classi sociali. È conforme alla natura che le classi della società siano unite:

"L'errore fondamentale in questa questione è credere che le due classi siano nemiche l'una dell'altra, come se la natura avesse armato i ricchi e i poveri affinché si combattessero vicendevolmente in un duello ostinato [...] le due classi sono destinate dalla natura a unirsi armoniosamente e a mantenersi in un perfetto equilibrio. L'una ha assolutamente bisogno dell'altra" (Leone XIII, Rerum Novarum, cit., p. 648).

Queste affermazioni sono da accostare alla seguente, tolta dalla medesima enciclica: "I poveri né più né meno dei ricchi, sono di diritto naturale cittadini (sunt nimirum proletarii pari jure cum locupletibus natura cives)" (Ibidem, p. 656).


Esempio di norma negativa.

Prendiamo ora un esempio di norma negativa, assoluta, desunta dal diritto naturale. Esso concerne una "situazione sociale", in altri termini un regime, in cui una parte della popolazione è votata ad un'esistenza economica perennemente precaria. Pio XII scriveva nel 1944:

"Il valore e la dignità della natura umana, redenta ed elevata all'ordine superiore dal sangue di Gesù e dalla grazia divina che destina al cielo, stanno permanentemente innanzi agli occhi della Chiesa e dei cattolici, che sono sempre gli alleati e i propugnatori di ciò che è secondo natura; e perciò hanno ritenuto ognora come fatto innaturale che una parte del popolo - chiamato con duro nome, che ricorda distinzioni romane antiche, "proletariato" - debba rimanere in una continua ed ereditaria precarietà di vita" (Pio XII, Discorso ai predicatori della Quaresima, 22 febbraio 1944, in A.A.S., 1944, p. 85).

Queste espressioni hanno il carattere assoluto delle leggi negative. Il loro senso è chiaro: le situazioni sodali così denunciate sono intollerabili e devono assolutamente essere modificate.

Conclusione.

l. Bisognava qui insistere sul contenuto tanto normativo che descrittivo del "diritto naturale" secondo l'insegnamento sociale della Chiesa. Si trattava di distinguerlo nettamente dal diritto naturale quale viene inteso in tutte quelle concezioni secondo le quali esso avrebbe solo una consistenza formale, in quanto principio dell'obbligazione, mentre tutte le determinazioni sarebbero di ordine positivo.

Senza attribuire al diritto naturale un contenuto che sarebbe in realtà positivo - perché troppo determinato e corrispondente a modalità particolari -, la Chiesa riconosce che esso fissa un certo numero di determinazioni essenziali, corrispondenti alle strutture costitutive della natura dell'uomo e della società. Così inteso, il diritto naturale comporta dei comandi imperativi o permissivi così come delle leggi negative assolute.

2. In virtù sia di questi divieti sia di questi comandi esso si distingue dal diritto positivo e ha funzione di misurarlo e giudicarlo. Non si deve per altro supporre che esso sia riducibile ai diritti soggettivi degli individui opposti allo Stato e al suo diritto, poiché lo Stato stesso è considerato struttura fondamentale dell'ordine naturale. In pratica tuttavia, dato che lo Stato è, nelle nostre società attuali, il legislatore positivo per eccellenza, accadrà che il diritto naturale si configuri come il complesso dei diritti innati della singola persona anteriori allo Stato.

3. Occorre notare che mentre frequenti sono i riferimenti al contenuto del diritto naturale, scarse invece sono le considerazioni sul diritto naturale come fonte formale, cioè sul modo in cui il suo contenuto viene conosciuto e appreso. Viene affermato tuttavia ch'esso è "inscritto sulle tavole del cuore umano" e "può essere conosciuto dalla sana ragione". Osservazioni, queste, di capitale portata, sufficienti a fornire una definizione della fonte di conoscenza del diritto naturale.
 

 

NOTE

(1) PIO XII, Discorso all'Unione dei giuristi cattolici italiani, 6 dicembre 1953, in A.A.S., 1953, pp. 795 s. (GIORDANI, o. c., n. 3, p. 995). Poiché il diritto positivo è il più sovente quello promulgato dallo Stato, principale fonte delle leggi e delle norme di diritto nelle nostre società moderne, l'opposizione tra diritto naturale e diritto positivo prenderà frequentemente l'aspetto di una opposizione tra diritti inerenti alla persona, o diritti Innati dell'uomo, e diritti od obbligazioni formulati dallo Stato. Così, tra i punti di cui il Papa, parlando a dei giuristi, raccomandava l'importanza, si legge il seguente: "riconoscimento e realizzazione diretta e indiretta dei diritti innati dell'uomo che, in quanto inerenti alla natura umana, sono sempre conformi all'interesse comune; anzi, sono essi che devono essere presi come elementi essenziali di questo bene comune; ne consegue che è dovere dello stato proteggerli e promuoverli, e che in nessun caso possono essere sacrificati a una pretesa ragione di Stato" (Pio XII, Allocuzione al Congresso internazionale di diritto privato, 15 luglio 1950, in Pio XII, Discorsi..., cit., vol. 12, p. 155). Queste osservazioni non sono evidentemente In contraddizione con le affermazioni solenni con cui i Sommi Pontefici presentano lo Stato come una delle forme essenziali dell'"ordine naturale", Indicando così che la sua esistenza e la sua funzione sono ugualmente di diritto naturale imprescrittibile.

Calvez - Perrin, Augusto del Noce - IL DIRITTO NATURALE nel Magistero Pontificio
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
12/05/2011 22:36
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Giustizia e disuguaglianza cristiana

Giustizia e disuguaglianza cristiana
Per una definizione di "destra" e di "sinistra"
Articolo apparso sul n. 54 di Cristianità

Il quotidiano della sera brasiliano Jornal da Tarde del 9-6-1979 ha accolto diversi contributi di uomini di pensiero e di cultori di scienze politiche, allo scopo di illuminare - se possibile - i concetti di "destra" e di "sinistra", in uso, a ogni proposito, nel linguaggio corrente. Offriamo ai nostri lettori la traduzione dell'intervento del professor Plinio Corrêa de Oliveira, presidente del consiglio nazionale della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradiçâo, Familia e Propiedade (TFP), comparso con il titolo A justicia stá na desigualdade cristâ.

 

E' corrente l'uso dei vocaboli "destra" e "sinistra" per qualificare posizioni assunte sui più svariati temi: fondamentalmente su questioni politiche, sociali o economiche, ma anche su modi di sentire o di essere, come pure in letteratura, a proposito delle arti, ecc.

Un esame dei diversi significati di questi termini mostra, subito a prima vista, un caos tale da far dire a molti osservatori che quei vocaboli hanno perso qualsiasi valore come etichette qualificanti atteggiamenti ideologici, culturali o morali.

Nonostante il talento, la cultura e la influenza propagandistica di molti di coloro che già da tempo pensano in questo modo, "destra" e "sinistra" rimangono tuttavia parole di uso corrente e, si direbbe, indispensabili per chi svolga abitualmente analisi ideologiche.

Questo fatto sembra provare che, nel cuore di esse, vi è qualcosa di sostanziale e di veramente significativo. Persino di insostituibile, almeno fino a quando l'uso comune non consacrerà altri vocaboli che li sostituiscano.

Mi propongo di analizzare in questa sede questo "qualcosa di sostanziale", per verificare con i lettori se il mio modo di sentire corrisponde al loro, cioè a quello del grande pubblico. Lo farò molto riassuntivamente, date le naturali limitazioni di questo studio giornalistico.

 

l. "Sinistra", ugualitarismo, liberalismo e anarchismo

Comincio facendo notare che, nel significato di queste due parole correlate, non tutto è impreciso. In esso vi è una zona chiara. Avendola definita, sarà possibile trovare, de proche en proche, il bandolo della matassa che conduce, attraverso i significati meno chiari, fino a una spiegazione finale su quanto vogliono dire "destra" e "sinistra".

La zona chiara è nella parola "sinistra". Di fronte alla triade della Rivoluzione francese, ancora oggi l'opinione generale non esita a qualificare come perfettamente e compiutamente di sinistra chi si dichiari a favore non di una libertà, di una uguaglianza e di una fraternità qualsiasi, ma della libertà totale, della uguaglianza totale e anche della fraternità totale. Insomma, chiunque sia un anarchico, nel senso etimologico e radicale della parola (dal greco an privativo, e arché, governo), con o senza una connotazione di violenza o di terrorismo. Gli uomini di "sinistra" moderati qualificano come utopistico ("purtroppo utopistico", sono soliti dire) il sogno del loro correligionario integrale. Tuttavia nessuno di essi negherà la piena autenticità di "sinistra" di questa utopia.

In funzione di questo marchio di sinistrismo assoluto è facile discernere come - all'interno della scala di valori di "sinistra" - un programma o un metodo può essere qualificato come più o meno di "sinistra". Cioè sarà tanto più o tanto meno di "sinistra", quanto più si avvicinerà o si allontanerà dall'"an-archismo" totale.

Così, per esempio, il socialista è tanto più di "sinistra" quanto più è effettiva e generale la uguaglianza che rivendica. E sarà integralmente di "sinistra" chi rivendicherà la uguaglianza totale.

Analoga affermazione si deve fare in relazione a un altro "valore" della triade del 1789. Mi riferisco in modo particolare al liberalismo politico. Esso sarà tanto più di "sinistra", quanto più reclamerà la libertà totale.

Ben inteso, vi sono certe contraddizioni tra socialismo e liberalismo. E questo fatto porta a facili obiezioni contro quanto ho appena affermato. Così, il totalitarismo economico distrugge facilmente la libertà politica. E viceversa. Ma questa contraddizione esiste solamente nelle tappe intermedie che non sono ancora l'anarchismo totale, benché predispongano a esso. Intatti, si può giungere a quest'ultimo tanto attraverso una libertà assoluta, quanto - e principalmente - attraverso una uguaglianza assoluta. La libertà assoluta favorisce l'offensiva generale di quanti sono o hanno meno, contro quanti sono o hanno di più. E, a sua volta, la uguaglianza completa comporta la negazione di ogni autorità, e quindi di ogni legge. Queste due vie così diverse non sono parallele che si incontrano all'infinito. Per quanto siano contraddittorie nella pratica del moderato qualunque di oggi, convergono verso il punto finale "an-archico", nel quale sia l'uno che l'altra si incontrano e si completano.

Così, è certo che, secondo la opinione generale, il sinistrismo ha il suo punto omega e la sua scala di "valori" ben definiti.

2. "Destra" e disuguaglianza cristiana

La questione sta nel sapere se li ha, in modo corrispondente, la "destra".

A questo proposito, la confusione è innegabile. Senza giungere, però, a tagliare il filo conduttore che, analogamente a quanto accade con la "sinistra", porta, de proche en proche, a una classificazione delle sottili sfumature del destrismo.

Le parole "destra" e "sinistra" sono sorte nel vocabolario politico, sociale ed economico dell'Europa del secolo XIX. Il sinistrismo era una partecipazione ideologica del pensiero e dell'opera di qualcosa di ancora recente e di sufficientemente definito nelle sue linee generali, cioè della Rivoluzione francese. La "sinistra" non era solamente una negazione vulcanica di una tradizione che pareva morta, ma anche e sempre di più l'affermazione di un futuro che si sarebbe detto fatale. Di fronte alla Rivoluzione schiacciante, la "destra" si definì solamente a poco a poco, in modo incerto e contraddittorio (1).

Definendosi come un anti-sinistrismo, e a fortiori come un anti-anarchismo, che cosa avrebbe dovuto essere, a completo rigore di logica, la "destra"?

Come ho già detto, è nella essenza dell'anarchismo totale l'affermazione secondo cui ogni e qualsiasi disuguaglianza è ingiusta. Così, quanto minore è la disuguaglianza, tanto minore è la ingiustizia. La libertà è cara all'anarchismo precisamente perché l'autorità è in sé stessa una negazione della uguaglianza.

Il destrismo afferma, quindi, che, in sé stessa, la disuguaglianza non è ingiusta. Che, in un universo nel quale Dio ha creato tutti gli esseri disuguali, compresi e soprattutto gli uomini, la ingiustizia sta nell'imposizione di un ordine di cose diverso da quello che Dio, per ragioni altissime, ha fatto disuguale (2).

Così, la giustizia consiste nella disuguaglianza.

Da questa verità di base - bisogna ricordarlo di passaggio - non si deduce che la giustizia è tanto più perfetta, quanto maggiore è la disuguaglianza. In materia di sinistrismo, è logica l'affermazione antitetica (quanto minore la disuguaglianza, tanto minore la ingiustizia). E' chiarissima la asimmetria tra la prospettiva di "sinistra" e quella di "destra".

Infatti, Dio ha creato le disuguaglianze, non terribili e mostruose, ma proporzionate alla natura, al benessere e al progresso di ogni essere, e adeguate all'ordinamento generale dell'universo. E tale è la disuguaglianza cristiana.

Analoghe considerazioni si potrebbero fare a proposito della libertà nell'universo e nella società.

Ma questo modello del destrismo non è la disuguaglianza assoluta, simmetrica e opposta alla uguaglianza assoluta. Ma - bisogna insistere - è la disuguaglianza armonica. Quanto più una dottrina sarà contraria alla triade del 1789 e si avvicinerà a questo modello di disuguaglianze armoniche e proporzionate, tanto più sarà di "destra".

Non sempre l'hanno intesa a questo modo i pensatori o gli uomini di azione che, levandosi nel secolo XIX come nel secolo XX contro la Rivoluzione, sono stati qualificati soltanto per questa ragione come di "destra".

Essi, o quanti li hanno studiati, hanno spesso immaginato che l'etichetta del destrismo potesse giustificare disuguaglianze abissali (politiche e sociali, ma, il più delle volte, economiche). Come se in questo consistesse la punta estrema della coerenza di "destra".

Altri "uomini di destra" hanno fatto, a loro volta, concessioni allo spirito ugualitario, perché erano essi stessi inquinati dai princìpi rivoluzionari che combattevano. O anche per tattica politica, cioé per la conquista e la conservazione del potere. Ho presente il carattere socialista ufficiale del fascismo e quello non solo ufficiale, ma anche marcatissimo, del nazismo.

Per tutte queste ragioni, il vocabolo "destra" non è giunto, nel linguaggio corrente, ad avere un senso tanto chiaro quanto "sinistra" ed è servito per designare non solamente il vero destrismo di ispirazione cristiana, sacrale, gerarchico e armonico (3), ma anche destrismi modellati in parte da tradizioni cristiane, e in parte da princìpi ideologici (così come da esperienze) peculiari.

Tuttavia mi pare certo che, per quanto importanti siano state le caratteristiche socialiste di certe correnti dette di "destra", il linguaggio comune le qualifica di "destra" solo perché immagina di vedere in esse una affinità (maggiore o minore) con il destrismo cristiano ideale che ho più sopra descritto. Il quale, per una tradizione plurisecolare, fa parte delle conoscenze consapevoli o inconsapevoli di tutti.

In sintesi, sia, a "destra" che a "sinistra", all'orizzonte vi è un segno definito, a partire dal quale segue, en degradé, la gamma delle sfumature intermedie.

 

Ho parlato di "sacrale". So che il termine è entrato inopinatamente nell'articolo. E che il limite di esso non mi permette di mostrare qual è, a mio modo di vedere, la funzione centrale della religione nell'autentica concezione i "destra", che ho appena enunciato. E che, ovviamente, è la mia concezione e quella della TFP.

Dico solamente, quasi a titolo di post scriptum, che il destrismo laico o ateo è un assurdo, perché l'universo e l'uomo sono impensabili senza Dio. Il che non comporta che io (e a questo punto allungo un poco il post scriptum), che mi vanto di essere sostenitore, in tesi, della unione della Chiesa e dello Stato, la desideri attualmente in concreto. Anche su questo punto raccomando la lettura del mio saggio citato a chi desideri conoscere il pensiero della maggiore organizzazione civica anticomunista del Brasile contemporaneo.

Plinio Corrêa de Oliveira

(l) Cfr. MICHEL DENIS, Les Royalistes de la Mayenne et le monde moderne (19°-20° siècles), Klincksieck, Publications de l'Université de Haute-Bretagne, 1978.

(2) Cfr. Mt. 25, 14-30; 1 Cor. 12, 28-31, San Tommaso, Summa contra gentiles, 1, III, cap. LXXVII.

(3) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., 3 a ed. italiana accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
12/05/2011 22:44
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

AC(Alleanza Cattolica) News 004-2010
— Fini nel Paese delle meraviglie. Vera e falsa destra



Roma, 18 novembre 2010. Un intervento di Massimo Introvigne utile per meglio comprendere l'attuale dibattito politico.

 

Il giornalista Massimo Gramellini non è certo un uomo di destra. Ma è difficile dargli torto quando, sulla prima pagina de La Stampa del 17 novembre, scrive che quelli proposti da Gianfranco Fini come elenchi dei valori della destra «non erano elenchi, ma frasi fatte». La questione può apparire priva di senso in un’epoca di «dittatura del relativismo» – l’espressione, com’è noto, ricorre spesso nel Magistero di Benedetto XVI – in cui ognuno dà alle parole il significato che più gli aggrada. Il dittatore segreto del mondo che ci circonda è il malvagio Humpty Dumpty di Attraverso lo specchio (1872), il fortunato seguito che Lewis Carroll (1832-1898) diede al suo Alice nel Paese delle meraviglie (1865).

Nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio troviamo questo dialogo fra Alice e Humpty Dumpty:
«Quando io uso una parola, – disse Humpty Dumpty in tono d'alterigia, – essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno.
- Si tratta di sapere, – disse Alice, – se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
- Si tratta di sapere, – disse Humpty Dumpty, – chi ha da essere il padrone. Questo è tutto».

In questa pagina di grande letteratura troviamo un tema sviluppato da Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona del 2006 e nelle encicliche Spe salvi del 2007 e Caritas in veritate del 2009: o la ragione accetta di farsi misurare dalla verità oppure sarà misurata soltanto dal potere. Che cosa sia la verità o che cosa significa una parola sarà deciso dal «padrone», da chi controlla la comunicazione e i media.
Se tutte le parole hanno un padrone, che opera contro la verità, siamo di fronte allo scenario apocalittico evocato da un altro geniale scrittore inglese, don Robert Hugh Benson (1871-1914) nel suo Il Padrone del mondo (1907).
L’Apocalisse e la sacra Scrittura non ci portano lontano dal nostro tema. È qui infatti che troviamo l’origine delle espressioni «destra» e «sinistra». Un commentario alle lettere di san Pietro e alla lettera di san Giuda spiega che dopo l’Ascensione «Cristo è ormai “alla destra” di Dio. Per comprendere tale posizione bisogna ricordare la valenza positiva della “destra” nella Scrittura e nella civiltà antica e il significato negativo della sinistra. […] [Nella Scrittura] la destra assume il significato di lato positivo, fortunato, salvifico, divino, mentre la sinistra assume significato negativo, maledetto e satanico; così i salvati-benedetti saranno collocati da Gesù alla destra e i maledetti alla sinistra (cfr. Mt 25, 31-46)» (Michele Mazzeo, Lettere di Pietro, Lettera di Giuda, Paoline, Milano 2002, p. 141).
Non è dunque un caso se dopo la Rivoluzione francese, restaurata la monarchia, coloro che si opponevano ai principi rivoluzionari andarono a occupare la parte destra dei banchi del Parlamento e coloro che accettavano tali principi o almeno non li condannavano radicalmente la parte sinistra, così dando origine ai moderni concetti politici di «destra» e «sinistra». Agli inizi del secolo XIX che cosa queste parole volessero significare era dunque chiaro. Era di destra chi si opponeva ai principi della Rivoluzione francese. Era di sinistra chi non vi si opponeva.

Ma è necessario un rapido approfondimento. La destra non era costituita da semplici nostalgici della monarchia così com’era esistita prima del 1789. Secondo l’osservazione di un pensatore cattolico della generazione successiva, René de La Tour du Pin (1834-1924), chi avversa la Rivoluzione francese non è interessato a tornare al 1788, perché sa che un anno dopo verrà il 1789. La monarchia del 1788 soffriva già dei morbi dell’assolutismo e del centralismo, che la Rivoluzione non avrebbe curato ma esasperato. L’ordine cristiano della monarchia tradizionale – che è cosa ben diversa dalla monarchia assoluta – riconosceva che sopra al sovrano c’è un limite costituito dalla legge di Dio e dalla legge naturale. Il sovrano non può emanare norme che contraddicano la legge iscritta da Dio nella natura: se lo fa, non si tratta di vere leggi né si è tenuti a rispettarle. Se rispetta questo limite in alto, il sovrano rispetterà anche un limite in basso, costituito dai diritti non del «cittadino» astratto, invenzione dell’Illuminismo, ma delle persone concrete riunite in comunità e corpi intermedi.

La scienza politica formulerà poi questo rispetto del limite in basso come principio di sussidiarietà e come federalismo. Ma non c’è rispetto del limite in basso senza rispetto del limite in alto. La destra si oppone quindi a ogni potere assoluto, solutus ab, sciolto dal limite della legge naturale in alto e quindi sciolta dal limite del rispetto dei diritti delle persone e delle comunità in basso. Come scrive un pensatore cattolico del secolo XX, il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, «l’atteggiamento della “destra” concorda maggiormente con i princìpi di ordine, di gerarchia, di autorità e di disciplina, che contraddistinguono l’ordine medioevale. “Sinistra” significa poi l’allontanarsi da questi princìpi e perciò, ipso facto, l’esser legati ai princìpi opposti» (Prefazione per un’edizione tedesca, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni. Sugarco, Milano 2010, p. 336).
L’«ordine medioevale» però non ha nulla a che fare con la monarchia assoluta, proprio perché non è «assoluto» ma riconosce i limiti in alto e in basso. E la destra non si caratterizza solo per un momento negativo – il rifiuto della Rivoluzione francese, e del processo di allontanamento dalla verità naturale e cristiana che l’ha preceduta e seguita – ma anche per un momento positivo che fa riferimento in alto alla legge naturale, il cui autore è Dio, e in basso ai diritti della persona, dei corpi intermedi e delle comunità locali – di qui il principio di sussidiarietà e la preferenza federalista – garantiti appunto dal rispetto della legge naturale. Le forme di Stato e di governo sono secondarie rispetto a questa definizione di destra, che è primaria. La democrazia, per esempio, può rispettare la legge naturale e il principio di sussidiarietà, ma – come insegna la dottrina sociale della Chiesa, fino a Benedetto XVI – non garantisce affatto in modo automatico tale rispetto.

Se per «Rivoluzione» intendiamo non solo la Rivoluzione francese, ma un processo più ampio che nega la legge naturale iniziato ben prima del 1789 e che continua fino ai nostri giorni, la geografia della politica – continua Corrêa de Oliveira nel brano citato – diventa più chiara. «Vi è stata una Rivoluzione. Anche gli uomini si lasciano classificare secondo tre tendenze: quelli che riconoscono la Rivoluzione – almeno confusamente – e vi si contrappongono: la destra; quelli che sono al corrente della Rivoluzione e la portano a termine rapidamente o lentamente: la sinistra; quelli che non sanno della Rivoluzione in quanto tale, ne percepiscono solo aspetti superficiali e si sforzano, mediante la conservazione dello status quo, di trovare una pacificazione con la Rivoluzione: il centro» (ibid., pp. 336-337). Capita che le necessità della politica impongano alleanze di centro-destra o di centro-sinistra. In tal caso, almeno in tesi, «centro e destra si sforzano di lottare contro la Rivoluzione. Centro e sinistra si sforzano di far progredire la Rivoluzione senza però cadere nell’estremo» (ibid., p. 337).

Ma ben presto arriva Humpty Dumpty, il quale è precisamente qualcuno che pensa di avere un potere «assoluto», sciolto da ogni limite morale, anche sulle parole. Dal momento che la parola «destra», per ragioni che come si è visto sono antiche addirittura quanto la Bibbia, evoca valori che suscitano un certo consenso anche elettorale,  a mano a mano che il processo rivoluzionario avanza nascono quelle che Corrêa de Oliveira chiama «false destre». In particolare, nel corso del secolo XIX emerge una prima «falsa destra», costituita da coloro che accettano i principi liberali nella loro versione del 1789 ma rifiutano il socialismo. E con l’affermazione del marxismo-leninismo nel secolo XX nasce anche una seconda «falsa destra», costituita da quei socialisti che rifiutano il comunismo, pur mantenendo fermi numerosi elementi del pensiero socialista. E così via. Le «false destre» sono innumerevoli, perché il loro orizzonte si sposta continuamente. Rifiutano l’ultima fase, la più estrema, del processo rivoluzionario, ma accettano le fasi precedenti. E queste «destre» sono chiamate a buon diritto «false» perché, a ogni generazione, accettano porzioni sempre più grandi dei principi della sinistra.

La questione si complica con il «fusionismo». Spesso si pensa che questa espressione sia nata negli Stati Uniti per designare l’idea di mettere insieme tutte le possibili «destre» per sconfiggere la sinistra. In realtà nacque già tra i monarchici francesi alla fine del secolo XIX, dalla proposta della famiglia Orléans di riunire tutti i monarchici – che fossero cattolici ostili al 1789, liberali disposti a difendere almeno alcuni aspetti della Rivoluzione francese e anche massoni e anticlericali –  intorno al comune progetto di restaurare la monarchia in Francia. I fascismi sono, a loro modo, «fusionismi» che cercano di mettere insieme destre diverse: quella vera e quelle false. I cartelli elettorali «fusionisti» spesso funzionano, tanto più nel sistema elettorale degli Stati Uniti. Ma dottrinalmente il «fusionismo» implica un certo relativismo, un certo atteggiamento che fa prevalere l’interesse elettorale sulle idee. E in un clima relativista la falsa destra più omogenea al relativismo fatalmente prevale sulle altre destre e dà il tono a tutto l’insieme. Né va sottovalutata la forza di corruzione del relativismo, nel mettere al suo servizio parole d’ordine apparentemente «di destra», il cui senso è poi sovvertito fino a significare il contrario. «Quando a una parola faccio far tanto lavoro, – disse Humpty Dumpty, – la pago di più» (Attraverso lo specchio, cap. 6).
Che c’entra tutto questo con Gianfranco Fini? C’entra molto, perché chi mi ha seguito fin qui dovrebbe avere ricavato almeno il criterio per distinguere la destra autentica dalle false destre. È vera destra quella che chiede al potere di rispettare un limite in alto costituito dalla legge naturale, quindi – come logica conseguenza – un limite in basso, definito dal principio di sussidiarietà come rispetto da parte dello Stato dei diritti delle persone, dei corpi intermedi e delle autonomie locali. La posizione di Fini è molto confusa quanto al limite in basso. Se talora afferma di non opporsi al federalismo, più spesso difende il centralismo e lo statalismo insieme al pilastro economico che li sorregge, il sistema «tassa e spendi» che caratterizza l’assistenzialismo di Stato.

Come si è visto, c’è un criterio sicuro per prevedere se una certa politica rispetterà il limite in basso. Occorre chiedersi se comincia con il rispettare il limite in alto costituito dal riconoscimento teorico e pratico dell’esistenza di una legge naturale. Nel libro da lui firmato – non importa qui se davvero scritto da lui – Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989 (Rizzoli, Milano 2009) Fini afferma di rifiutare il «dogmatismo […] di tipo religioso» (ibid., 118). Da questo rifiuto fa subito discendere l’affermazione del diritto degli uomini e delle donne all’autodeterminazione in campo bioetico e la forte rivendicazione della posizione a suo tempo assunta in tema di procreazione assistita (ibid., 119), ma anche – perché non si tratta solo di bioetica – un’idea di nazione, quindi di cittadinanza – con riflessi sulla questione degli immigrati – come una realtà dinamica, plastica, plasmabile che continuamente muta e si ridefinisce nel tempo.
A proposito di Eluana Englaro (1970-2009), Fini plaude alla sua soppressione in nome di una presunta «sovranità del singolo […] su se stesso, sulla propria vita e sul proprio lasciare la vita» (ibid., 103). Gli esempi potrebbero continuare – in ogni occasione, Fini insiste sull’urgenza di un riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, anche omosessuali – ma forse non occorre insistere troppo per convincersi che Fini non riconosce nella legge naturale un limite per l’azione dello Stato e delle sue leggi a proposito della vita e della famiglia. Non occorre, come si dice, bere il mare per concludere che è salato.

Non si tratta di problemi secondari: anzi, come ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate sono questi oggi i problemi cruciali della vita sociale e il terreno dove si gioca la battaglia per la definizione della vera libertà e del vero futuro dell’uomo. «Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi – spiega l’enciclica  – quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio» (n. 74); «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Nel momento in cui Fini ribadisce la sua posizione, antitetica a quella cattolica, sulla fecondazione assistita, sul caso Englaro e sulle unioni omosessuali non sta parlando di questioni marginali, ma del «campo primario e cruciale» della politica.

Non si tratta, naturalmente, di affermare che solo un cattolico o un credente può essere «di destra», né di arruolare la dottrina sociale della Chiesa al servizio delle scelte tecniche di una parte politica, il che sarebbe sbagliato e arbitrario. Certo è un fatto storico che la destra nasce cattolica, ma la legge naturale è accessibile alla ragione umana anche a prescindere dalla fede e quindi s’impone a ogni uomo dotato di retta ragione: che sia credente o non credente, che sia cattolico, ebreo o buddhista.  Non si tratta dunque d’indebita ingerenza della Chiesa o del «dogmatismo» religioso – una vecchia espressione massonica, che è significativo vedere ripresa da Fini – ma di riconoscere o meno la legge naturale. Se le parole hanno un senso, e non siamo nel regno di Humty Dumpty, chi riconosce la legge naturale è di destra e chi non la riconosce è di sinistra.
Proprio in tema di fine vita, Fini accusa i sostenitori del mantenimento in vita di Eluana Englaro di essersi mostrati prigionieri di vecchie «linee […] dell’“essere”, vale a dire le linee, in definitiva rassicuranti ma immobili, dell’“identità”» (ibid., 103), mentre si tratta di passare alle «linee contemporanee del “fare”» (ibid.), a una politica giudicata «per ciò che realizza» e non «per ciò che rappresenta» (ibid.). «In principio era l’azione», per dirla con il Faust di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) e con i futuristi tanto cari a Fini. Ma per la vera destra in principio era il Verbo, cioè la verità, e Faust non è un modello ma una semplice vittima del Diavolo.

Né si tratta solo di bioetica, perché quelle di Fini sulla vita e sulla famiglia sono applicazioni di principi generali sull’autodeterminazione, e su una libertà svincolata da una legge morale naturale e non negoziabile, che emergono anche in altri campi. L’evocazione della libertà e del futuro non è specificamente «di destra». Né lo è quella della legalità come obbedienza formale alla legge, a meno che sia accompagnata dalla chiara affermazione secondo cui le leggi che non rispettano i principi del diritto naturale non sono vere leggi. Inoltre, il rispetto della legge naturale e del principio di sussidiarietà non può non accompagnarsi a un giudizio storico preciso su chi ha costruito una politica che ha teorizzato la negazione di quella legge e di quel principio, dai padri della Rivoluzione francese a molti di quelli del Risorgimento, ideologia statalista e centralista da tenere distinta dal fatto storico dell’unità politica dell’Italia. I giudizi storici di Fini vanno precisamente in senso contrario.

In un contesto democratico nessuno può naturalmente vietare a Fini di presentare le sue idee e i suoi programmi all’attenzione degli elettori. Si può però contestare la sua pretesa di spacciarli come «di destra». E si può – anzi, si deve – svolgere un’opera pedagogica che richiami le nozioni di vera e di falsa destra. Humpty Dumpty, quando pretende che il significato delle parole sia indipendente dalla realtà e sia diventato una questione di puro potere, non è soltanto grottesco ma è anche pericoloso. Va combattuto seriamente. Alimentando la speranza con la filastrocca che Alice «ripeteva dolcemente a se stessa:
Humpty Dumpty sedeva sul muro,
Humpty Dumpty cascò sul duro,
tutti i fanti che accorsero tosto
non seppero alzarlo e rimetterlo a posto» (Attraverso lo specchio, cap. 6).


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
13/05/2011 21:06
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Benedetto XVI a un incontro promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia

Il vero significato del corpo


 

Il corpo porta in sé un significato filiale perché ci ricorda la nostra generazione; e nella famiglia l'uomo scopre la sua relazionalità non come individuo autonomo ma come figlio, sposo, genitore. Lo ha detto il Papa questa mattina, venerdì 13 maggio, ai partecipanti a un incontro promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, ricevuti in udienza nella Sala Clementina.

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato
e nel Sacerdozio,
cari Fratelli e Sorelle,

con gioia vi accolgo oggi, a pochi giorni dalla beatificazione del Papa Giovanni Paolo II, che trent'anni fa, come abbiamo sentito, volle fondare contemporaneamente il Pontificio Consiglio per la Famiglia e il vostro Pontificio Istituto; due Organismi che mostrano come egli fosse fermamente persuaso dell'importanza decisiva della famiglia per la Chiesa e per la Società. Saluto i rappresentanti della vostra grande comunità sparsa ormai in tutti i Continenti, come pure la benemerita Fondazione per matrimonio e famiglia che ho creato per sostenere la vostra missione. Ringrazio il Preside, Mons. Melina, per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Il nuovo Beato Giovanni Paolo II, che, come è stato ricordato, proprio trent'anni fa subì il terribile attentato in Piazza San Pietro, vi ha affidato, in particolare, per lo studio, la ricerca e la diffusione, le sue "Catechesi sull'amore umano", che contengono una profonda riflessione sul corpo umano.

Coniugare la teologia del corpo con quella dell'amore per trovare l'unità del cammino dell'uomo: ecco il tema che vorrei indicarvi come orizzonte per il vostro lavoro.

Poco dopo la morte di Michelangelo, Paolo Veronese fu chiamato davanti all'Inquisizione, con l'accusa di aver dipinto figure inappropriate intorno all'Ultima Cena. Il pittore rispose che anche nella Cappella Sistina i corpi erano rappresentati nudi, con poca riverenza. Fu proprio l'inquisitore che prese la difesa di Michelangelo con una risposta diventata famosa: "Non sai che in queste figure non vi è cosa se non di spirito?".

Da moderni facciamo fatica a capire queste parole, perché il corpo ci appare come materia inerte, pesante, opposta alla conoscenza e alla libertà proprie dello spirito. Ma i corpi dipinti da Michelangelo sono abitati da luce, vita, splendore. Voleva mostrare così che i nostri corpi nascondono un mistero. In essi lo spirito si manifesta e opera. Sono chiamati ad essere corpi spirituali, come dice san Paolo (cfr. 1 Cor 15, 44).

Ci possiamo allora chiedere: può questo destino del corpo illuminare le tappe del suo cammino? Se il nostro corpo è chiamato ad essere spirituale, non dovrà essere la sua storia quella dell'alleanza tra corpo e spirito? Infatti, lungi dall'opporsi allo spirito, il corpo è il luogo dove lo spirito può abitare. Alla luce di questo è possibile capire che i nostri corpi non sono materia inerte, pesante, ma parlano, se sappiamo ascoltare, il linguaggio dell'amore vero.

La prima parola di questo linguaggio si trova nella creazione dell'uomo. Il corpo ci parla di un'origine che noi non abbiamo conferito a noi stessi. "Mi hai tessuto nel seno di mia madre", dice il Salmista al Signore (Sal 139, 13). Possiamo affermare che il corpo, nel rivelarci l'Origine, porta in sé un significato filiale, perché ci ricorda la nostra generazione, che attinge, tramite i nostri genitori che ci hanno trasmesso la vita, a Dio Creatore. Solo quando riconosce l'amore originario che gli ha dato la vita, l'uomo può accettare se stesso, può riconciliarsi con la natura e con il mondo. Alla creazione di Adamo segue quella di Eva. La carne, ricevuta da Dio, è chiamata a rendere possibile l'unione di amore tra l'uomo e la donna e trasmettere la vita. I corpi di Adamo ed Eva appaiono, prima della Caduta, in perfetta armonia. C'è in essi un linguaggio che non hanno creato, un eros radicato nella loro natura, che li invita a riceversi mutuamente dal Creatore, per potersi così donare. Comprendiamo allora che, nell'amore, l'uomo è "ricreato". Incipit vita nova, diceva Dante (Vita Nuova I, 1), la vita della nuova unità dei due in una carne.

Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude: la bellezza integrale, l'universo dell'altra persona e del "noi" che nasce nell'unione, la promessa di comunione che vi si nasconde, la fecondità nuova, il cammino che l'amore apre verso Dio, fonte dell'amore. L'unione in una sola carne si fa allora unione di tutta la vita, finché uomo e donna diventano anche un solo spirito. Si apre così un cammino in cui il corpo ci insegna il valore del tempo, della lenta maturazione nell'amore. In questa luce, la virtù della castità riceve nuovo senso. Non è un "no" ai piaceri e alla gioia della vita, ma il grande "sì" all'amore come comunicazione profonda tra le persone, che richiede il tempo e il rispetto, come cammino insieme verso la pienezza e come amore che diventa capace di generare vita e di accogliere generosamente la vita nuova che nasce.

È certo che il corpo contiene anche un linguaggio negativo: ci parla di oppressione dell'altro, del desiderio di possedere e sfruttare. Tuttavia, sappiamo che questo linguaggio non appartiene al disegno originario di Dio, ma è frutto del peccato.

Quando lo si stacca dal suo senso filiale, dalla sua connessione con il Creatore, il corpo si ribella contro l'uomo, perde la sua capacità di far trasparire la comunione e diventa terreno di appropriazione dell'altro.

Non è forse questo il dramma della sessualità, che oggi rimane rinchiusa nel cerchio ristretto del proprio corpo e nell'emotività, ma che in realtà può compiersi solo nella chiamata a qualcosa di più grande?

A questo riguardo Giovanni Paolo II parlava dell'umiltà del corpo. Un personaggio di Claudel dice al suo amato: "La promessa che il mio corpo ti fece, io sono incapace di compiere"; a cui segue la risposta: "Il corpo si rompe, ma non la promessa..." (Le soulier de satin, Giorno III, Scena XIII).

La forza di questa promessa spiega come la Caduta non sia l'ultima parola sul corpo nella storia della salvezza. Dio offre all'uomo anche un cammino di redenzione del corpo, il cui linguaggio viene preservato nella famiglia. Se dopo la Caduta Eva riceve questo nome, Madre dei viventi, ciò testimonia che la forza del peccato non riesce a cancellare il linguaggio originario del corpo, la benedizione di vita che Dio continua a offrire quando uomo e donna si uniscono in una sola carne. La famiglia, ecco il luogo dove la teologia del corpo e la teologia dell'amore si intrecciano. Qui si impara la bontà del corpo, la sua testimonianza di un'origine buona, nell'esperienza di amore che riceviamo dai genitori. Qui si vive il dono di sé in una sola carne, nella carità coniugale che congiunge gli sposi. Qui si sperimenta la fecondità dell'amore, e la vita s'intreccia a quella di altre generazioni. È nella famiglia che l'uomo scopre la sua relazionalità, non come individuo autonomo che si autorealizza, ma come figlio, sposo, genitore, la cui identità si fonda nell'essere chiamato all'amore, a riceversi da altri e a donarsi ad altri.

Questo cammino dalla creazione trova la sua pienezza con l'Incarnazione, con la venuta di Cristo. Dio ha assunto il corpo, si è rivelato in esso. Il movimento del corpo verso l'alto viene qui integrato in un altro movimento più originario, il movimento umile di Dio che si abbassa verso il corpo, per poi elevarlo verso di sé. Come Figlio, ha ricevuto il corpo filiale nella gratitudine e nell'ascolto del Padre e ha donato questo corpo per noi, per generare così il corpo nuovo della Chiesa. La liturgia dell'Ascensione canta questa storia della carne, peccatrice in Adamo, assunta e redenta da Cristo. È una carne che diventa sempre più piena di luce e di Spirito, piena di Dio. Appare così la profondità della teologia del corpo. Questa, quando viene letta nell'insieme della tradizione, evita il rischio di superficialità e consente di cogliere la grandezza della vocazione all'amore, che è una chiamata alla comunione delle persone nella duplice forma di vita della verginità e del matrimonio.

Cari amici, il vostro Istituto è posto sotto la protezione della Madonna. Di Maria disse Dante parole illuminanti per una teologia del corpo: "nel ventre tuo si raccese l'amore" (Paradiso XXXIII, 7). Nel suo corpo di donna ha preso corpo quell'Amore che genera la Chiesa. La Madre del Signore continui a proteggere il vostro cammino e a rendere fecondo il vostro studio e insegnamento, a servizio della missione della Chiesa per la famiglia e la società. Vi accompagni la Benedizione Apostolica, che imparto di cuore a tutti voi. Grazie.



(©L'Osservatore Romano 14 maggio 2011)


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
18/05/2011 10:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

50 anni fa usciva l'enciclica «Mater et magistra»


di Massimo Introvigne da LaBussolaQuotidiana

17-05-2011

Il 16 maggio Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel cinquantesimo anniversario dell’Enciclica Mater et magistra del Beato Giovanni XXIII (1881-1963), datata 15 maggio 1961. Fu un’enciclica che affrontò per la prima volta in modo sistematico il problema della giustizia sociale internazionale ed ebbe grande risonanza anche fuori della Chiesa Cattolica. Il Papa ne propone - come nell’enciclica Caritas in veritate aveva fatto per un’altra enciclica sociale sullo stesso tema, la Populorum progressio (1967) del servo di Dio Paolo VI (1897-1978) - un’interpretazione che ne fa emergere insieme gli elementi di novità e la continuità con il Magistero precedente della Chiesa, secondo un programma di «ermeneutica della riforma nella continuità» che è parte essenziale del pontificato di Benedetto XVI, applicato sistematicamente sia ai documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sia al Magistero dei Papi del Concilio, il beato Giovanni XXIII e il servo di Dio Paolo VI.

Il Papa ha definito la Mater et magistra «un documento che conserva grande attualità anche nel mondo globalizzato». Anzitutto, nell’enciclica di cinquant’anni fa, Benedetto XVI vede una prima rivendicazione - a fronte di critiche che iniziavano a manifestarsi - del ruolo della dottrina sociale della Chiesa. Secondo alcuni, infatti, la dottrina sociale della Chiesa era ormai un vecchiume inadatto al mondo moderno e doveva essere accantonata accogliendo al suo posto nella Chiesa la moderna scienza politica fondata sulle ideologie. Al contrario, spiega Benedetto XVI, Papa Roncalli «ha pensato alla Dottrina sociale - anticipando il beato Giovanni Paolo II [1920-2005] - come ad un elemento essenziale di questa missione, perché “parte integrante della concezione cristiana della vita” (n. 206)». Questa espressione - secondo cui, appunto, la dottrina sociale è «parte integrante» del messaggio cristiano - è insieme molto impegnativa ed è il cuore dell’enciclica.

Inoltre, ricorda Benedetto XVI, con la Mater et magistra «Giovanni XXIII è all’origine delle affermazioni dei suoi Successori anche quando ha indicato nella Chiesa il soggetto comunitario e plurale della Dottrina sociale. I christifideles laici, in particolare, non possono esserne soltanto fruitori ed esecutori passivi, ma ne sono protagonisti nel momento vitale della sua attuazione, come anche collaboratori preziosi dei Pastori nella sua formulazione, grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze». Attraverso la dottrina sociale iniziano a prendere forma quei principi relativi al ruolo proprio dei laici nell’instaurazione cristiana dell’ordine temporale - con un’implicita critica di un certo clericalismo tipico dell’associazionismo cattolico degli anni 1950 e 1960 - che saranno poi consacrati dal Concilio Ecumenico Vaticano II.

«Per il beato Giovanni XXIII - ha proseguito Benedetto XVI - la Dottrina sociale della Chiesa ha come luce la Verità, come forza propulsiva l’Amore, come obiettivo la Giustizia (cfr n. 209), una visione della Dottrina sociale, che ho ripreso nell’Enciclica Caritas in veritate, a testimonianza di quella continuità che tiene unito l’intero corpus delle Encicliche sociali». Anche la Mater et magistra dev’essere interpretata dunque all’interno di una «continuità» della dottrina sociale. Nella Caritas in veritate Benedetto XVI aveva insistito sul fatto che «non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all'insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare [o - potremmo dire - precedente al beato Giovanni XXIII] e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale».

In omaggio al principio d’interpretazione del Magistero che ha proposto per il Concilio Ecumenico Vaticano II, che fa riferimento non a una mera continuità ma a una «riforma nella continuità», Benedetto XVI nota anche gli elementi d’innovazione della Mater et magistra rispetto a documenti precedenti. Il beato Giovanni XXIII si trovò di fronte a una particolare situazione di squilibrio crescente fra Paesi ricchi e Paesi poveri, risultato di processi che già anticipavano la globalizzazione. E in effetti «la verità, l’amore, la giustizia, additati dalla Mater et magistra, assieme al principio della destinazione universale dei beni, quali criteri fondamentali per superare gli squilibri sociali e culturali, rimangono i pilastri per interpretare ed avviare a soluzione anche gli squilibri interni all’odierna globalizzazione».

La soluzione del problema degli squilibri, indicava il beato Giovanni XXIII con un insegnamento che rimane attuale ancora oggi, non può essere semplicemente tecnica. No: «a fronte di questi squilibri c’è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l’etica. Senza un pensiero morale che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo d’oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano». Se la ragione sia determinata dal vero oppure soltanto dall’utile rimane la questione di fondo per impostare anche i problemi dell’economia.

Ultimamente però - è un tema caro a Benedetto XVI, che lo ritrova nella Mater et magistra - una ragione orientata alla verità e non al mero utilitarismo nel contesto attuale può operare e portare i suoi frutti solo aprendosi al senso religioso e all’incontro con Gesù Cristo. «Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita e potenziata ed è possibile accedere ad una visione più adeguata dello sviluppo, dell’economia e della politica secondo la loro dimensione antropologica e le nuove condizioni storiche. Ed è grazie ad una ragione ripristinata nella sua capacità speculativa e pratica che si può disporre di criteri fondamentali per superare gli squilibri globali, alla luce del bene comune».

Questo ancoraggio razionale è indispensabile per non accostarsi ai problemi dell’economia nazionale e internazionale con un atteggiamento meramente sentimentale. Infatti, «senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo […]; la giustizia perde la sua “misura” fondamentale; il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato», creando ingiustizie e distorsioni di ogni genere. Fra questi, come già aveva fatto nella Caritas in veritate, il Papa ha voluto menzionare «i fenomeni legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà. Analogamente, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente ricerca di energie alternative guidata, talvolta, da interessi esclusivamente economici di corto termine, finiscono per avere conseguenze negative sull’ambiente, nonché sull’uomo stesso».

La Mater et magistra ci ha insegnato che la questione sociale è diventata «questione di giustizia sociale mondiale», e dunque «questione di distribuzione equa delle risorse materiali ed immateriali, di globalizzazione della democrazia sostanziale, sociale e partecipativa». Prendendo come base l’enciclica del beato Giovanni XXIII «è indispensabile che la nuova evangelizzazione del sociale evidenzi le implicanze di una giustizia che va realizzata a livello universale. Con riferimento alla fondazione di tale giustizia va sottolineato che non è possibile realizzarla poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale. Per quanto concerne il piano della realizzazione, la giustizia sociale va attuata nella società civile, nell’economia di mercato (cfr Caritas in veritate n. 35), ma anche da un’autorità politica onesta e trasparente ad essa proporzionata, pure a livello internazionale (cfr ibid., n. 67)».

Perché la dottrina sociale sia conosciuta e messa in pratica la Chiesa, insegnava il beato Giovanni XXIII e ricorda Benedetto XVI, conta «sull’opera di annuncio e di testimonianza dei christifideles laici (cfr Mater et magistra, 206-207)». Ma i laici «debbono essere preparati spiritualmente, professionalmente ed eticamente. La Mater et magistra insisteva non solo sulla formazione, ma soprattutto sull’educazione che forma cristianamente la coscienza ed avvia ad un’azione concreta, secondo un discernimento sapientemente guidato. Il beato Giovanni XXIII affermava: “L’educazione ad operare cristianamente anche in campo economico e sociale difficilmente riesce efficace se i soggetti medesimi non prendono parte attiva nell’educare se stessi, e se l’educazione non viene svolta anche attraverso l’azione” (nn. 212-213)».

Il beato Giovanni XXIII agli inizi degli anni 1960 iniziava a rendersi conto che fra i cattolici, anche in materia di dottrina sociale, esistevano diverse scuole. Il Magistero non abbraccia nessuna scuola in particolare: tiene conto delle indicazioni di tutte, le discerne e se del caso le assume e le coordina. Da questo punto di vista, nota Benedetto XVI, «ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito “[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro per un’azione tempestiva ed efficace: non ci si logori in discussioni interminabili e, sotto il pretesto del meglio e dell’ottimo, non si trascuri di compiere il bene che è possibile e perciò doveroso” (n. 219)».

Infine, «il beato Giovanni XXIII, nella Mater et magistra, rammentava che si possono cogliere meglio le esigenze fondamentali della giustizia quando si vive come figli della luce (cfr n. 235)». Può sembrare che questi richiami delle encicliche siano atti dovuti o clausole di stile tipiche dei documenti pontifici. Non è così. La Chiesa sa che solo laici «sostenuti dall’amore pieno di verità che abita in Gesù Cristo, Verbo di Dio fattosi uomo» possono prendere sul serio l’insegnamento sociale della Chiesa. Senza una buona vita spirituale non ci sarà neppure ascolto e messa in pratica della dottrina sociale.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
15/09/2011 12:54
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

[SM=g1740733]PRO MEMORIA

Dal 16 al 18 settembre si svolgerà a Verona il I Festival della Dottrina Sociale, un'iniziativa nata "dall'intreccio relazionale dei soggetti promotori e dai numerosi confronti con le molte persone che vivono la loro attività lavorativa con serietà e onestà", come scrivono gli organizzatori.

L'intento è di "evidenziare idee, azioni e persone che rischiano di stare dentro le cose per costruire un futuro positivo".

Perché un festival? - "La parola festival è di solito abbinata a tematiche di spettacolo molto popolari. L'abbiamo scelta volutamente perché vogliamo portare in piazza il patrimonio della Dottrina Sociale e non lasciarlo al chiuso delle stanze di chi la conosce già. La Dottrina Sociale è stata concepita per essere un lievito, non può stare separata dalla farina della vita quotidiana".

E la Dottrina Sociale?
- "La Dottrina Sociale è il nostro punto di riferimento condiviso - aggiungono -. Essa esprime un pensiero sull'uomo, sulla società e sull'attività umana. Formula un pensiero vero che coniuga ragione e fede. In forza della verità in essa contenuta fa crescere l'azione sui sentieri della giustizia e della pace, motiva all'azione, orienta al bene.
Trasmette il fascino della passione per la sperimentazione di cose nuove che, innestate nella continuità di una tradizione e di una storia, favoriscono lo sviluppo dei singoli e dell'umanità nel rispetto dell'originaria dignità".


Cosa possono fare i giovani?
- "I giovani saranno i protagonisti del Festival in tutte le sue fasi, dalle conferenze in Fiera fino ai momenti culturali e ludici nel centro di Verona. Ai giovani sarà data la responsabilità di interloquire in maniera diretta con esponenti del mondo culturale, economico, politico e sindacale del Paese sui grandi temi della nostra attualità.
Partecipare è un'occasione da non perdere per poter costruire un futuro improntato sul bene comune e sostenuto dalle solide fondamenta della Dottrina Sociale della Chiesa. Insieme ai propri genitori e dirigenti scolastici, i giovani testimonieranno la loro volontà di far parte della comunità educante, in cammino con gli adulti e i propri coetanei, che cresce e si apre alla società".

Auguri!
Per ulteriori informazioni sull'iniziativa e sul programma: http://www.festivaldsc.it/





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
14/10/2011 20:16
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


CITTA' DEL VATICANO, 14 OTT. 2011 (VIS). "La funzione civile è talmente eminente e insigne da rivestire un carattere quasi 'sacro'; pertanto essa richiede di venire esercitata con grande dignità e con un vivo senso di responsabilità", ha affermato il Santo Padre nel corso dell'udienza ai Prefetti d'Italia, accompagnati dal Ministro degli Interni, On. Roberto Maroni, in occasione delle celebrazioni dell'anniversario dei 150 anni dell'unità d'Italia.

 In tutto il Paese, ha sottolineato il Papa nel suo discorso, "si possono osservare le tracce che la fede cristiana ha impresso nel costume del popolo italiano, dando vita a nobili e radicate tradizioni religiose e culturali e a un patrimonio artistico unico al mondo". Anche oggi la Chiesa cattolica è "una presenza significativa, caratterizzata da prossimità alla gente, per coglierne i bisogni profondi nella logica della disponibilità al servizio".

  "Consapevole che 'tutti dipendiamo da tutti', come scriveva il beato Giovanni Paolo II, essa desidera costruire, insieme con gli altri soggetti istituzionali e le varie realtà territoriali, una salda piattaforma di virtù morali, su cui edificare una convivenza a misura d'uomo. In questa sua missione, la Chiesa sa di poter contare sulla collaborazione fattiva e cordiale dei Prefetti, che svolgono funzioni di impulso e di coesione sociale e di garanzia dei diritti civili".

 
 Citando la Dottrina Sociale della Chiesa, Benedetto XVI ha ricordato che: "Il ruolo di chi lavora nella pubblica amministrazione non va concepito come qualcosa di impersonale o burocratico, bensì come un aiuto premuroso per i cittadini, esercitato con spirito di servizio". Nell'osservare che il ruolo istituzionale dei Prefetti "è reso ancora più complesso e gravoso dalle presenti circostanze di incertezza sociale ed economica", il Papa ha avuto per loro parole di esortazione invitandoli ad essere "sempre pronti a trattare le questioni a voi affidate con grande senso del dovere e con prudenza, non venendo mai meno all'ossequio alla verità e al coraggio della difesa dei beni supremi. (...) Anche voi, quali alti rappresentanti dello Stato, nell'esercizio delle vostre responsabilità siete chiamati ad unire autorevolezza e professionalità, soprattutto nei momenti di tensione e di contrasti".

  Infine il Pontefice ha invitato i Prefetti a seguire la testimonianza del loro Patrono Sant'Ambrogio "affinché il vostro lavoro possa essere ogni giorno al servizio della giustizia, della pace, della libertà e del bene comune. Iddio non mancherà di assecondare i vostri sforzi, arricchendoli di frutti abbondanti, per una sempre più ampia e capillare diffusione della civiltà dell'amore".


Il Papa ai Prefetti: Sant’Ambrogio, nel suo commento al Vangelo di san Luca, afferma: “l’istituzione del potere civile deriva così bene da Dio, che colui che lo esercita è egli pure ministro di Dio”. Da qui consegue che anche la funzione civile è talmente eminente e insigne da rivestire un carattere quasi “sacro”; pertanto essa richiede di venire esercitata con grande dignità e con un vivo senso di responsabilità

Vedi anche:

Ai prefetti d'Italia il Papa ricorda che la funzione civile va esercitata con dignità e responsabilità (O.R.)

Il Papa: la funzione civile è quasi sacra, richiede dignità ed impegno. Nelle difficoltà di oggi le istituzioni imitino Sant'Ambrogio (Izzo)

Il Papa: i valori cristiani danno vigore all'impegno nella vita pubblica. In Italia la Chiesa è profondamente radicata fra la gente. Per il ministro Maroni Benedetto ha ragione: senza etica lo Stato scade a banda di ladri (Izzo)

Il Papa ai prefetti italiani: siete importante punto di riferimento (Sir)

Il Papa: La Chiesa "desidera costruire, insieme con gli altri soggetti istituzionali e le varie realtà territoriali, una salda piattaforma di virtù morali, su cui edificare una convivenza a misura d'uomo"

Ogni funzione civile va esercitata con grande dignità e responsabilità: così il Papa ai prefetti d'Italia (Radio Vaticana)

Il Papa: incarichi pubblici sono "sacri", richiedono grande dignità (Asca)

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Illustri Prefetti,

Sono lieto di incontrarmi con voi, in particolare quest’anno in cui - come è stato ricordato – ricorrono i 150 anni dell’unità d’Italia, e a tutti rivolgo il mio saluto deferente e cordiale, ben consapevole dell’importanza della funzione prefettizia nell’articolazione dello Stato Italiano. Rivolgo un particolare saluto al Signor Ministro dell’Interno, on. Roberto Maroni, ringraziandolo per le cortesi espressioni che ha voluto rivolgermi, interpretando i comuni sentimenti. Voi provenite dalle Province dell’intera Penisola, dove sono innumerevoli le testimonianze della presenza del Cristianesimo, che nel corso dei secoli ha fecondato la cultura italiana, suscitando una civiltà ricca di valori universali. Ovunque, infatti, si possono osservare le tracce che la fede cristiana ha impresso nel costume del popolo italiano, dando vita a nobili e radicate tradizioni religiose e culturali e a un patrimonio artistico unico al mondo.

Portatrice di un messaggio di salvezza valido per l’uomo di tutti i tempi, la Chiesa cattolica è ben radicata ed operante, in modo capillare, nel territorio italiano. È una realtà viva e vivificante, come il lievito di cui parla il Vangelo (cfr Mt 13,33); una presenza significativa, caratterizzata da prossimità alla gente, per coglierne i bisogni profondi nella logica della disponibilità al servizio. Tante sono le esigenze e le attese alle quali devono corrispondere l'annuncio del Vangelo e le iniziative della solidarietà fraterna. Quanto più urgono le necessità, tanto più la presenza della Chiesa si sforza di essere sollecita e ricca di frutti. Rispettosa delle legittime autonomie e competenze, la Comunità ecclesiale considera suo preciso mandato rivolgersi all’uomo in ogni contesto: nella vita culturale, del lavoro, dei servizi, del tempo libero. Consapevole che “tutti dipendiamo da tutti”, come scriveva il beato Giovanni Paolo II (Sollicitudo rei socialis, 38), essa desidera costruire, insieme con gli altri soggetti istituzionali e le varie realtà territoriali, una salda piattaforma di virtù morali, su cui edificare una convivenza a misura d'uomo. In questa sua missione, la Chiesa sa di poter contare sulla collaborazione fattiva e cordiale dei Prefetti, che svolgono funzioni di impulso e di coesione sociale e di garanzia dei diritti civili, costituendo un importante punto di riferimento per le varie componenti territoriali. A tale riguardo, nel sottolineare con vivo compiacimento i rapporti di stretta vicinanza e di proficua cooperazione che le Prefetture intrattengono con le Diocesi e le parrocchie, desidero incoraggiare ciascuno a proseguire nel solco di questa mutua intesa nell’interesse dei cittadini e del bene comune.

Illustri Prefetti, so che voi vi sforzate di adempiere il vostro alto e qualificato servizio alla Nazione con sincera dedizione alle Istituzioni e, in pari tempo, con attenzione alle esigenze degli enti locali e alle diverse problematiche aziendali, familiari e personali. Infatti, la figura del Prefetto è sempre più percepita dall’opinione pubblica come punto di riferimento territoriale per la soluzione dei problemi sociali e come istanza di mediazione e di garanzia dei servizi pubblici essenziali. Nella vostra responsabilità, a livello provinciale, riguardo all’ordine e alla sicurezza pubblica, voi siete posti quali referenti unitari e principali promotori e garanti del criterio di leale collaborazione in un sistema pluralistico. Al riguardo, non dimenticate che “la pubblica amministrazione, a qualsiasi livello, quale strumento dello Stato, ha come finalità quella di servire i cittadini…. Il ruolo di chi lavora nella pubblica amministrazione non va concepito come qualcosa di impersonale o burocratico, bensì come un aiuto premuroso per i cittadini, esercitato con spirito di servizio” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 412).

Il vostro delicato ruolo istituzionale costituisce, inoltre, quasi un presidio per le categorie più deboli, ed è reso ancora più complesso e gravoso dalle presenti circostanze di incertezza sociale ed economica. Non scoraggiatevi di fronte alla difficoltà e alle incomprensioni, ma siate sempre pronti a trattare le questioni a voi affidate con grande senso del dovere e con prudenza, non venendo mai meno all’ossequio alla verità e al coraggio della difesa dei beni supremi. A tale proposito, mi viene spontaneo andare con la mente alla luminosa figura di sant’Ambrogio, vostro celeste patrono, che all’improvviso - come sapete - fu chiamato all’Episcopato, dovendo abbandonare una brillante carriera di alto funzionario pubblico; e non era ancora battezzato! Questo santo Vescovo ammirava e amava l’Impero romano che aveva servito lealmente e generosamente fino ai 35 anni di età, prima di essere scelto come Pastore della Chiesa Ambrosiana. Tale considerazione per la legittima Autorità, coltivata fin dalla giovinezza, è uscita rinvigorita dalla grazia del Battesimo, al punto che egli amava appassionatamente la Chiesa non soltanto nella ricchezza spirituale di verità e di vita, ma anche nella concretezza dei suoi Organismi e degli uomini che la compongono, soprattutto i poveri e gli ultimi. Egli seppe, in un certo senso, trasferire nell’esercizio del ministero pastorale i tratti sostanziali di quell’habitus, che lo distinse e lo pose all’ammirazione di molti quale integerrimo funzionario civile. D’altra parte, diventato Vescovo, seppe indicare ai responsabili delle Istituzioni civili quei valori cristiani che danno nuovo vigore e nuovo splendore all’opera di quanti sono impegnati nella vita pubblica.

Sant’Ambrogio, nel suo commento al Vangelo di san Luca, afferma: “l’istituzione del potere civile deriva così bene da Dio, che colui che lo esercita è egli pure ministro di Dio” (In Lc. 4,29). Da qui consegue che anche la funzione civile è talmente eminente e insigne da rivestire un carattere quasi “sacro”; pertanto essa richiede di venire esercitata con grande dignità e con un vivo senso di responsabilità. Questo santo Vescovo e Dottore della Chiesa, animato da grande amore e rispetto tanto per le Istituzioni statali quanto per quelle ecclesiali, costituisce uno straordinario esempio di rettitudine, specialmente il suo lealismo alla legge e la fermezza contro le ingiustizie e le oppressioni, come pure per la sua parresia, con la quale richiamava anche i potenti, e a tutti insegnava i principi dell’autentica libertà e del servizio. Scriveva: “l’Apostolo [Paolo] mi ha insegnato ciò che va oltre la stessa libertà, che cioè è libertà anche il servire. «Pur essendo libero, dice, io mi sono fatto servo di tutti» [1Cor 9,19]… Per il sapiente, dunque, anche il servire è libertà” (Ep. 7,23-24).

Anche voi, quali alti rappresentanti dello Stato, nell’esercizio delle vostre responsabilità siete chiamati ad unire autorevolezza e professionalità, soprattutto nei momenti di tensione e di contrasti. La testimonianza di Sant’Ambrogio vi sia di stimolo e di incoraggiamento, affinché il vostro lavoro possa essere ogni giorno al servizio della giustizia, della pace, della libertà e del bene comune. Iddio non mancherà di assecondare i vostri sforzi, arricchendoli di frutti abbondanti, per una sempre più ampia e capillare diffusione della civiltà dell'amore. Con questi auspici, e a loro convalida, invoco su tutti la benedizione dell'Onnipotente.
Grazie.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
13/11/2011 21:01
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

[SM=g1740722] Mons. Negri: Dottrina sociale l’alternativa sconosciuta
22 Dic 2010

Dottrina sociale l’alternativa sconosciuta
Mons. Luigi NEGRI, Vescovo di San Marino
* * *
Strumento di evangelizzazione, baluardo di libertà, difesa dal totalitarismo: la Dottrina Sociale della Chiesa è ancora poco conosciuta. Spunti per una riflessione.
* * *

In epoca moderna si è imposto un progetto culturale, sociale e politico che ha concentrato i valori più alti (religiosi, morali, culturali, civili) nello Stato totalitario. Gli esiti sono stati, a dir poco, drammatici e funesti: basti pensare al regime marxista-leninista dell'Unione Sovietica, al fascismo italiano e al nazismo tedesco. Non v'è da stupirsi più di tanto se tale progetto, sostanzialmente ateistico, consideri la Chiesa una scomoda presenza, una acerrima nemica da relegare all'opposizione, limitare nella libertà o, nei casi estremi, persine da eliminare.
* * *

Ciò premesso, si comprende bene come la Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) nasce, innanzitutto, dalla sua consapevolezza di rappresentare una concezione cristiana e cattolica “tradizionale” che vuoi farsi presente concretamente, in aperta dialettica con quella laicista “moderna” e contemporanea. Proprio con la DSC, la Chiesa si assume il compito di affermare l'esistenza di un modo diverso di considerare la persona umana, la ragione, la famiglia, la società e lo Stato.
È compito della Chiesa affermare con chiarezza e sostenere con forza quella visione dell'uomo e della realtà, attestata da una tradizione di fede due volte millenaria e radicata addirittura nella Rivelazione divina in Cristo. E poiché nella politica si gioca l'intera visione dell'uomo, è ovvio che la Chiesa subisca l'attacco da parte di chi vuole imporre un progetto totalmente estraneo alla sua. Resta il fatto che la DSC è il più serio tentativo della presenza missionaria della Chiesa: essa mira a far incontrare con la fede l'uomo concreto, con le sue problematiche storiche, personali e sociali. Se non l'avesse fatto, avrebbe vanificato la fede e tradito l'uomo. La DSC attinge dalla Sacra Scrittura, “utile - scrive san Paolo - per insegnare, convincere, correggere e formare, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tim 3,16). E la Tradizione vivente della Chiesa trova nella Parola scritta insegnamenti fondamentali che riguardano la persona umana e la sua irrinunciabile dimensione sociale.
* * *

Pur tenendo conto dei diversi contesti socio-culturali nei quali si sono venuti a trovare il popolo dell'Antica Alleanza, Gesù e la Comunità primitiva, il teologo morale trova nella Legge, nella Profezia e nella Sapienza, contenute nella Parola rivelata e nella Tradizione ecclesiale, molti punti acquisiti e qualificanti il Magistero Sociale della Chiesa. Gli esempi non mancano: la sacralità di ogni persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, la sua natura sociale, la carità come legge nuova del discepolo che perfeziona la giustizia; l'esigenza di spazi adeguati per vivere liberamente la propria sequela di Cristo anche con tutti i fratelli della comunità ecclesiale; la dignità e i significati del lavoro, la destinazione universale dei beni e il diritto di proprietà; il primato del Regno di Dio nei confronti di ogni realtà o istituzione terrena, la reale possibilità della Chiesa di svolgere la sua missione dando a Dio quel che è di Dio, ecc.
* * *

Dunque, come si può ben intuire, la DSC si radica nella specifica missione evangelizzatrice della Chiesa e costituisce strumento imprenscindibile e parte integrante della “nuova evangelizzazione”. La DSC appartiene all'ambito della teologia morale, riceve la sua originale identità dalla Rivelazione stessa e assume da questa peculiare disciplina teologica fonti e metodo. Ne consegue che i principi di riflessione, le direttive d'azione, i criteri di giudizi contenuti nella DSC non appartengono, dunque, al campo ideologico delle elaborazioni, teorie o sistemi socio-politici; e non forniscono soluzioni tecniche ai problemi sociali di ogni tempo e luogo. Essa consiste, insegna Papa Giovanni Paolo II, nella “accurata formulazione dei risultati di una attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo e della società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o la difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo sull'uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente: per orientare, quindi, il suo comportamento cristiano” (Sollicitudo rei socialis, 41).


Si può capire facilmente, allora, come la DSC, già contenuta nell'insegnamento apostolico e senz'altro in quello dei Padri della Chiesa e dei teologi medioevali, si è sviluppata con il susseguirsi degli avvenimenti storici. Per sua natura poi, essa realizza la sua efficacia storica nella misura in cui tutta la comunità ecclesiale diviene responsabile testimone della rilevanza sociale del Vangelo: “Tale insegnamento diventa tanto più accettabile per gli uomini di buona volontà quanto più profondamente ispira la condotta dei fedeli” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2422).
* * *

Anche in questo campo, infatti, è accertata convinzione della Chiesa che la “natura” e la “grazia”, la “ragione” e la “fede” non si contrappongono, ma si esigono, si illuminano e si rafforzano a vicenda. Le società mutano in continuazione, ma la Chiesa non può rinunciare ad essere presente ed esercitare la sua missione. In tal senso, la DSC altro non è che uno strumento della sempre “nuova evangelizzazione”, che mira a far si che ogni uomo possa trovare in Cristo la propria verità e salvezza. Alla “nuova creatura”, nata dall'incontro con Cristo, è dato anche un nuovo orizzonte di conoscenze e di azione, entro il quale potrà dare soluzione anche ai suoi problemi sociali; non senza una seria elaborazione culturale e in costante corretto dialogo con ogni uomo di buona volontà.
* * *

Purtroppo, nella rigorosa scristianizzazione operata nella società moderna e contemporanea, l'Avvenimento salvifico cristiano è stato sistematicamente sostituito con la concezione dell'uomo che basta a se stesso e che si realizza in un “progetto ateistico” (Centesimus annus, n. 23). A tale impostazione antropologica non potevano che opporsi gli interventi del Magistero ecclesiale dell'ultimo secolo. L'hanno fatto con la denuncia e con la proposta; seguendo un metodo più deduttivo o più induttivo, esortando al discernimento e a partire dall'uomo. L'hanno fatto ribadendo punti fondamentali, che costituiscono un “corpus” articolato e organico di tutto rispetto. Li richiamiamo in estrema sintesi. In primo luogo: priorità della persona sulla società. La persona umana consiste ed è ben definita solo a partire dal suo rapporto con Dio, al quale è naturalmente aperta e del quale è creata immagine e somiglianza. Creata per se stessa, non può mai essere ridotta a mezzo; ha dignità infinita, è soggetto di diritti inalienabili; deve restare alla radice, al centro e al vertice di ogni forma di socialità. Dall'incontro con Cristo, la persona riceve una novità ontologica e un nuovo principio di conoscenza e di azione. Tutto ciò evita che sia ridotta a frammento della materia fisica o a numero anonimo di qualsiasi colletti-vismo. Le situazioni culturali, socio-economiche e politiche, dei diversi tempi e luoghi, poco o tanto la condizionano; ma non la determinano mai del tutto. Con la sua libertà creativa intrattiene relazioni e costruisce una società al suo servizio. Una società e uno Stato sono realmente democratici nella misura in cui riconoscono e si pongono al servizio della libertà di questo tipo di uomo, e innanzitutto della libertà di professare anche comunitariamente la propria religione.
In secondo luogo: preminenza della società sullo Stato. La persona umana per sua natura è anche un essere sociale, data la sua innata indigenza e la sua connaturale tendenza a comunicare con gli altri. Ne consegue che per la crescita integrale della persona è necessaria la partecipazione e l'integrazione sociale; ma qualsiasi forma di società civile deve restare sempre al servizio della persona. Le persone si esprimono e crescono, dando liberamente origine a diverse forme di società dette “organismi intermedi”: famiglia, associazioni el forme di cooperazione educative e lavorative, enti locali, ecc. Il potere politico, il diritto e le strutture economiche sono al loro servizio e ne integrano le insufficienze in vista dell bene comune.
* * *

Ne deriva che lo Stato liberale non deve confinare nella sfera privata el individuale i valori etici, religiosi, ideali del cittadino; lo Stato totalitario non deve asservire, concentrare, dominare ogni valore ed iniziativa sociale; lo Stato sociale, del benessere, assistenziale, non può tollerare un vuoto istituzionale, giuridico e politico.
In terzo luogo: la Chiesa non è subordinata allo Stato. La sbandierata formula “libera Chiesa in libero Stato” è servita, di fatto, ad intendere la distinzione e la separazione della Chiesa dallo Stato come assorbimento della Chiesa nello Stato. Lo Stato liberale (e ancor più quello totalitario) ha preteso di concedere diritto ad esistere e di normare ogni espressione ed opera esterna e sociale dell popolo cristiano. La Chiesa è stata ridotta ad una funzione pedagogica e morale, sempre all'interno dello Stato, come parte integrante di esso, come “strumento del regno”. Ciò è avvenuto dai tempi di Machiavelli, della formula “cuius regis, eius et religio”, della Costituzione civile del clero, dei recentemente caduti regimi dell'Est europeo, ecc.
* * *

La Chiesa ha sostenuto la distinzione tra Chiesa e Stato dai tempi del Decreto di Papa Gelasio I (+ 496) al Concilio Vaticano II. La dimensione religiosa e quella politica non sono realtà omogenee. Quella religiosa appartiene alla libertà di coscienza delle persone; non tocca mai allo Stato laico stabilire cosa si deve credere o modificare, tanto meno impedire di professare la propria fede. Se ciò avvenisse, il cristiano è tenuto ad obbedire prima a Dio che agli uomini (cfr At 4,19). Sostenendo questo la Chiesa ha rappresentato in questo ultimo secolo la più tenace alternativa al totalitarismo di Stato, teorizzato e tragicamente realizzato. Sono in molti, pertanto, a doverle gratitudine.
* * *
 
 
BIBLIOGRAFIA

Luigi Negri, Chiesa e missione, Itaca, Castel Bolognese (RA) 1999.
Luigi Negri, Il magistero sociale della Chiesa, Jaca Book, Milano 1994.
Giovanni Paolo II, Centesimus annus, Città del Vaticano 1991.
Giovanni Paolo II, Sollicitudo nei socialis, Città del Vaticano 1987.
* * *



IL TIMONE – N.6 - ANNO II - Marzo/Aprile 2000  - pag. 16-17-18

[SM=g1740733]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
28/01/2012 14:48
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

[SM=g1740717] Padre Serra, la difesa della verità

di Mario Palmaro
28-01-2012


Con la morte di Padre Angelo Serra, avvenuta a Roma nella notte del 20 gennaio, la comunità scientifica perde uno dei più importanti genetisti, e il mondo cattolico perde uno dei più seri e rigorosi bioeticisti italiani. Serra rappresenta un raro esempio di studioso nel quale si univano una grande preparazione scientifica, una modestia sincera e sorprendente, e un rigore dottrinale e morale assoluto.


Ho conosciuto Padre Serra nel 1995, da studente, quando frequentavo il corso di specializzazione in Bioetica presso l’Istituto Scientifico del San Raffaele di Milano. Si trattava di un corso organizzato con serietà, guidato da docenti intelligenti e preparati, ma all’interno di una visione morale piuttosto elastica, disposta a sconfinare dai contorni netti della dottrina cattolica sulla vita e sulla medicina. Fra i docenti si susseguivano monsignor Sgreccia e, appunto, Padre Serra; ma anche Edoardo Boncinelli (“per me – ci diceva – la ricerca scientifica è una cosa, la riflessione morale un’altra”) e Fernanda Pivano, che fu invitata a tenere una lezione sull’eutanasia parlando del suicidio dell’amico Hernest Haminguay. Il tema dell’aborto fu affidato, tanto per dare un’idea, al professor Giovanni Berlinguer, relatore della legge 194 al parlamento italiano.


In quella giornata al San Raffaele, a Serra non ci volle molto per accorgersi che, a dispetto della cornice in cui avveniva la sua lezione, non stava “giocando in casa”: che l’embrione fosse un essere umano fin dal concepimento, che la fecondazione artificiale fosse incompatibile con il rispetto di quell’uomo, che il Rapporto Warnock dicesse delle corbellerie, era tanto chiaro per Serra quanto discutibile per alcuni dei suoi allievi. Sulle prime ebbi l’impressione che quel gesuita, piccolo di statura, dal tratto delicato e gentile, incapace di alzare la voce, con lo sguardo che ti voleva bene a ogni costo; ebbi l’impressione, insomma, che quel buon prete sarebbe stato del tutto inadeguato a far fronte alle obiezioni, talvolta sarcastiche di una platea così provocatoria. Una specie di don Abbondio in mezzo ai “vasi di ferro” della bioetica cattolica-possibilista.

Si trattava, in fondo, di una platea che aveva fatto già perdere la pazienza a Sgreccia, che alla fine della sua burrascosa lezione mi aveva confidato “Io qui non ci vengo più, mi attaccano sempre”. Ma la mia valutazione di Padre Serra si rivelò presto del tutto sbagliata: Padre Angelo, con quell’aria serafica e impassibile, difese le posizioni senza mollare di un millimetro, impugnando di volta in volta le armi della biologia, della genetica, della filosofia, della logica elementare.

Non ci fu niente da fare: più lo provocavano, e più ne veniva fuori con calma e con forza. Ne rimasi molto colpito, anche perché Serra non godeva, né godette negli anni successivi, di quella fama che avrebbe meritato, anche nel mondo cattolico. Era schivo, e non cercava i riflettori; e con quelle idee ortodosse che si ritrovava, tanto meno venivano a cercarlo i responsabili di giornali e Tv, anche cattolici.


Rividi Padre Angelo molti anni dopo, per una circostanza della vita assai strana: insieme ad altri amici, avevamo fondato un’associazione pro life – il Comitato Verità e Vita – spinti dalla necessità di dire pubblicamente che la fecondazione artificiale, anche nella sua forma omologa, quella legalizzata dalla legge 40 del 2004, rimane una pratica inumana, immorale e contraria al diritto naturale. Una pratica che dovrebbe essere vietata dalle leggi di uno stato civile. Una pratica che dovrebbe essere sempre estranea a un medico e a un ospedale cattolico.

Non immaginavamo che questa iniziativa ci avrebbe tirato addosso così tanti guai proprio da parte del mondo cattolico; ma non immaginavamo nemmeno che questa scelta ci avrebbe fatto incontrare tante persone straordinarie, spesso sconsociute ma qualche volta autorevoli e prestigiose, contagiate esse stesse da una certa “emarginazione” culturale per via dell’amicizia con “quelli di Verità e Vita”. Padre Angelo fu uno di questi: quando si trattò di mettere in luce l’altissima abortività indotta dalla fecondazione artificiale, non ebbe esitazioni, e iniziò a tenere pubbliche conferenze, organizzate anche da noi, per spiegare a tutti come stessero le cose.


Ovviamente sarebbe riduttivo limitare a questo snodo bioetico la ricchezza di vita di Padre Serra. Genovese, 93 anni dei quali 78 trascorsi nella Compagnia di Gesù, padre Serra è stata una figura di primissimo piano nel campo della genetica, interpretata sempre nel rispetto della dignità di ogni essere umano. Era uno studioso apprezzato in tutto il mondo: nel 1964 ha insegnato alla Harvard Medical School di Boston. Tornato in Italia, per 30 anni ha risieduto nella comunità della Civiltà Cattolica ed è stato docente presso la facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma dove ha fondato e diretto l’istituto di genetica umana. Presidente della Confederazione italiana dei consultori di ispirazione cristiana, negli ultimi anni padre Serra è stato membro della Pontificia Accademia per la Vita e del Pontificio Consiglio per la Salute.


Penso che la sua morte sia una grave perdita per la comunità scientifica, per la Chiesa e per la famiglia della Compagnia di Gesù. Ma è una perdita molto grave anche per l’esiguo (e talvolta tiepido) fronte pro life italiano. Padre Angelo Serra è sempre stato un fiero avversario delle tecniche antiumane applicate alla genetica, e un trasparente nemico delle leggi ingiuste che permettono l’aborto, la fecondazione artificiale, la sperimentazione sugli embrioni umani. Una posizione difficile da sostenere verso il mondo laico dei colleghi; ma per paradosso, difficile da sostenere anche rispetto a certe derive della bioetica e della sanità “cattoliche”.

Per questo mi sembra giusto ricordare di lui questo profilo che lascia a tutti noi una sorta di “testamento bioetico”: Serra sostenne sempre la illiceità di ogni tecnica di fecondazione artificiale extracorporea, e la profonda ingiustizia di una legge come quella italiana, la 40 del 2004, che – fatte salve le buone intenzioni e il contesto in cui venne votata - permette di produrre l’uomo in provetta. Più di una volta, Padre Angelo mi ha confidato la sua sofferenza profonda per la confusione diffusa anche nel mondo cattolico sui temi della bioetica; non capiva i silenzi, i compromessi, le ambiguità, i veri e propri errori, i silenzi intorno alla fecondazione artificiale, e in particolare il clima di generalizzata “difesa” della fivet omologa a norma di legge 40.

Il suo sorriso è la grande lezione che ci rimane più impressa: imparare ogni giorno a difendere la verità, senza odiare nessuno.

[SM=g1740717]
http://ubipetrusibiecclesia.myblog.it/media/01/00/3178841890.jpeg


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
01/05/2012 14:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE AI PARTECIPANTI ALLA XVIII SESSIONE PLENARIA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA DELLE SCIENZE SOCIALI, 30.04.2012


Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato al Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Prof. Mary Ann Glendon, e ai partecipanti alla XVIII Sessione Plenaria della Pontificia Accademia (27 aprile - 1° maggio 2012) sul tema: "The Global Quest for Tranquillitatis Ordinis. Pacem in terris, Fifty Years Later":


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE


A Sua Eccellenza la Professoressa Mary Ann Glendon
Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali


Sono lieto di salutare lei e tutti coloro che si sono riuniti a Roma per la XVIII Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Avete scelto di celebrare il cinquantesimo anniversario della Lettera enciclica Pacem in terris del beato Giovanni XXIII esaminando il contributo dato da questo importante documento alla dottrina sociale della Chiesa.
Al culmine della guerra fredda, quando il mondo stava ancora venendo a patti con la minaccia costituita dall'esistenza e dalla proliferazione di armi di distruzione di massa, Papa Giovanni scrisse quella che è stata definita «una lettera aperta al mondo».

Era un appello sentito di un grande Pastore, vicino al termine della propria vita, affinché la causa della pace e della giustizia venisse promossa con vigore in ogni settore della società, a livello nazionale e internazionale. Mentre lo scenario politico globale è notevolmente cambiato nel mezzo secolo trascorso da allora, la visione proposta da Papa Giovanni ha ancora molto da insegnarci mentre lottiamo per affrontare le nuove sfide per la pace e per la giustizia nell'era post guerra fredda, tra la continua proliferazione degli armamenti.

«Infatti non si dà pace fra gli uomini se non vi è pace in ciascuno di essi, se cioè ognuno non instaura in se stesso l'ordine voluto da Dio» (Pacem in terris n. 88). Al centro della dottrina sociale della Chiesa c'è l'antropologia che riconosce nella creatura umana l'immagine del Creatore, dotata d'intelligenza e di libertà, capace di conoscere e di amare. Pace e giustizia sono frutto del giusto ordine, che è iscritto nella creazione stessa, scritto nel cuore umano (cfr. Rm 2, 15) e pertanto accessibile a tutte le persone di buona volontà, a tutti i «pellegrini di verità e di pace». L'enciclica di Papa Giovanni era ed è un forte invito a impegnarsi in quel dialogo creativo tra la Chiesa e il mondo, tra i credenti e i non credenti, che il concilio Vaticano II si è proposto di promuovere. Offre una visione profondamente cristiana del posto che occupa l'uomo nell'universo, fiduciosa che così facendo propone un messaggio di speranza a un mondo che ha fame di essa, un messaggio che può risuonare tra le persone di ogni credo e di nessun credo, poiché la sua verità è accessibile a tutti.
In questo stesso spirito, dopo che gli attacchi terroristici hanno scosso il mondo nel settembre 2001, il beato Giovanni Paolo II ha ribadito che «non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002).

Il concetto di perdono deve inserirsi nel dibattito internazionale sulla risoluzione dei conflitti, al fine di trasformare il linguaggio sterile della reciproca recriminazione, che non conduce da nessuna parte.

Se la creatura umana è fatta a immagine di Dio, un Dio di giustizia che è «ricco di misericordia» (Ef 2, 4), allora queste qualità devono riflettersi nella conduzione degli affari umani. È la combinazione di giustizia e perdono, di giustizia e grazia, a essere al centro della risposta divina al peccato umano (cfr. Spe salvi n. 44), al centro, in altre parole, dell'«ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris n. 1). Il perdono non è negazione del male, ma partecipazione all'amore salvifico e trasformatore di Dio, che riconcilia e guarisce.
Quanto è stata eloquente, dunque, la scelta del tema dell'Assemblea Speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi del 2009: «La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace». Il messaggio portatore di vita del Vangelo ha recato speranza a milioni di africani, aiutandoli a superare le sofferenze inflitte loro da regimi repressivi e conflitti fratricidi. In modo analogo, l'Assemblea del 2010 sulla Chiesa in Medio Oriente ha sottolineato i temi della comunione e della testimonianza, l'unità del pensiero e dell'anima che caratterizza coloro che s'impegnano a seguire la luce della verità.

I torti storici e le ingiustizie possono essere superati solo se gli uomini e le donne sono ispirati da un messaggio di guarigione e di speranza, un messaggio che offre una via per andare avanti, per uscire dall'impasse che spesso imprigiona le persone e le nazioni in un circolo vizioso di violenza. Dal 1963 alcuni conflitti che all'epoca sembravano irrisolvibili sono diventati storia. Facciamoci coraggio, dunque, mentre lottiamo per la pace e la giustizia nel mondo attuale, fiduciosi che la nostra ricerca comune dell'ordine stabilito da Dio, di un mondo in cui la dignità di ogni persona umana riceva il rispetto che le è dovuto, può dare frutto e lo darà.


Affido le vostre deliberazioni alla guida materna di Nostra Signora, Regina della Pace. A lei, Monsignor Sánchez Sorondo, e a tutti i partecipanti alla XVIII Sessione Plenaria, imparto volentieri la mia Benedizione Apostolica.


Dal Vaticano, 27 aprile 2012


BENEDICTUS PP. XVI

[SM=g1740771]


******************************************

Il radiomessaggio di Pio XII: una vera "enciclica sociale"


Il saluto di Monsignor dal Covolo ai partecipanti al convegno della Lateranense dedicato a papa Pacelli


ROMA, mercoledì, 16 maggio 2012 (ZENIT.org) - Riportiamo di seguito il saluto di monsignor Enrico dal Covolo, Rettore della Pontificia Università Lateranense, durante l'incontro Pio XII, la questione antropologica e l’ordine sociale. Ricordando il radiomessaggio del 1942, svoltosi oggi nell'Aula Paolo VI dell'Ateneo.

***

Eminenza Reverendissima,

Illustri Ospiti,

Professori e Studenti,

Amici tutti,

esprimo un sincero compiacimento agli organizzatori di questo convegno, in particolar modo al drappello dei membri, solerti e attivi, del “Comitato Papa Pacelli – Associazione Pio XII”, che da tempo, oramai, e con iniziative diverse, contribuiscono alla conoscenza dei poliedrici insegnamenti di questo venerabile Pontefice che – come auspichiamo – presto la Chiesa onorerà come beato.

Ancor oggi, purtroppo, quando si parla del venerabile Pio XII si solleva la questione del suo presunto “silenzio” durante la tragedia dell’Olocausto. Anche se gli storici seri, di qualsiasi orientamento ideologico e di qualunque appartenenza religiosa, hanno mostrato l’infondatezza di questa obiezione – come sicuramente ci ricorderà anche il dottor Tornielli –, l’argomento rischia di far passare in oblio altri aspetti importantissimi dell’attività e del magistero di questo Papa, nonostante il pur cospicuo numero di simposi di vario genere e di pubblicazioni registrato cinque anni fa, in occasione del cinquantesimo anniversario del suo pio transitus.

Il convegno odierno si colloca dunque in un ampio contesto, scientificamente pregevole, di riscoperta degli insegnamenti di Papa Pacelli.

In particolar modo, il tema affrontato è Pio XII, la questione antropologica e l’ordine sociale. Ricordando il radiomessaggio del 1942. Ritengo che ricordare, a distanza di 70 anni, questo messaggio sia di non poca importanza per il vissuto ecclesiale e per le sfide culturali e sociali che stiamo affrontando.

1. Anzitutto, quel famoso radiomessaggio è di non poca importanza per il vissuto ecclesiale. Ne spiego la ragione che, a me, appare duplice.

In primo luogo perché esso rappresenta una delle fonti più ricche e articolate di quella forma del sapere cristiano, che conosciamo come “Dottrina sociale della Chiesa”. I temi affrontati nel radiomessaggio del 1942 spaziano dall’economia ai rapporti tra gli stati, dai fondamenti dell’ordinamento giuridico nazionale ed internazionale, fino alla pace tra i popoli e nella compagine sociale.

Si trattò di un intervento così poderoso, da potersi paragonare a una sorta di “enciclica sociale” non scritta da parte di Papa Pacelli. Non ci sorprende, dunque, che il documento più completo in materia di Dottrina sociale della Chiesa, ossia il “Compendio della Dottrina sociale della Chiesa” citi per sei volte riferimenti al radiomessaggio del 1942.

Vi è anche un’altra ragione, che rende significativo il radiomessaggio del 1942 per il vissuto ecclesiale odierno.

Come è noto, la Chiesa intera celebra il cinquantesimo anniversario della celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, e anche la PUL si è attivata con una serie di iniziative di notevole livello scientifico. Orientati dai moniti del Papa Benedetto XVI, tutti desideriamo evitare di adoperare la cosiddetta “ermeneutica della discontinuità”, sostenuta da opposte fazioni, per adottare, invece, quella – teologicamente più convincente – della “continuità”.

In effetti, un’ammirevole continuità collega il magistero di Pio XII a non pochi dei documenti conciliari. Se ciò è noto per i legami che sussistono, ad esempio, tra la Mediator Dei e la Sacrosanctum Concilium, tra la Mystici Corporis e la Lumen Gentium, credo che pure la cosiddetta “apertura al mondo”, che costituisce una delle scelte conciliari più rilevanti, non sarebbe stata pensabile senza il cospicuo magistero sociale del Papa Pio XII.

Oserei dire: senza il radiomessaggio del 1942, cui si associano quelli non meno considerevoli del 1941 e del 1944, non avremmo avuto elementi dell’impalcatura dottrinale della stessa costituzione Gaudium et Spes.

Auspico che il convegno odierno e altre iniziative, che seguiranno, possano illuminare tale aspetto e consolidare così l’approccio ermeneutico al Concilio Vaticano II, tanto raccomandato dal Papa Benedetto XVI.

2. Inoltre,l’argomento affrontato nel convegno di quest’oggi è significativo per le sfide che la società tout court sta affrontando drammaticamente. Nel 1942 l’umanità era sconvolta dalla tragedia della seconda guerra mondiale e il Papa Pio XII, mentre ancora non si intravedeva l’esito di quel conflitto di proporzioni mai sperimentate nella storia fino a quel momento, levò la sua voce autorevolissima per indicare principi e criteri per la ricostruzione spirituale, morale, economica e giuridica della società.

Oggi la società mondiale non è dilaniata da un conflitto armato, ma è percorsa da una crisi finanziaria, i cui sbocchi appaiono incerti e preoccupanti. La Chiesa, esperta in umanità, offre il suo contributo di azione e di pensiero, affermando che ogni soluzione non potrà ignorare, pena il fallimento dei tentativi, la dimensione etica e spirituale delle operazioni di rinnovamento, proprio come il Papa Pio XII ricordò ai belligeranti e agli uomini di buona volontà nel 1942.

Inoltre, quel celebre radiomessaggio egli costituì – e non uso un’espressione iperbolica – la magna charta del personalismo cristiano, ponendo a fondamento della società la persona umana, con la sua dignità inalienabile e i suoi diritti fondamentali, soprattutto in quanto lavoratore e in quanto membro di una famiglia fondata sul matrimonio.

Dalla ricchissima dottrina del personalismo, formulata ai tempi di Pio XII da pensatori del calibro di Gilson, Mounier, Maritain, purificata in qualche suo elemento meno convincente proprio dal magistero di Papa Pacelli, poi destinata a svilupparsi in concetti quali quello dell’ “umanesimo integrale”di Paolo VI, possiamo trarre motivi di speranza e di rinnovamento per rispondere anche alle gravissime sfide dei nostri giorni.

Mi piace perciò concludere il mio saluto, sinceramente affettuoso per ciascuno di voi, con una citazione tratta dal radiomessaggio del 1942: “Origine e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della persona umana”.


[SM=g1740722]

[Modificato da Caterina63 20/05/2012 00:54]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
19/05/2012 16:12
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Il Papa: Il lavoro non è solo strumento di profitto individuale, ma momento in cui esprimere le proprie capacità spendendosi, con spirito di servizio, nell’attività professionale, sia essa di tipo operaio, agricolo, scientifico o di altro genere


UDIENZA AL MOVIMENTO ECCLESIALE DI IMPEGNO CULTURALE, ALLA FEDERAZIONE ORGANISMI CRISTIANI DI SERVIZIO INTERNAZIONALE VOLONTARIO E AL MOVIMENTO CRISTIANO LAVORATORI, 19.05.2012


Alle ore 12.15 di oggi, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre riceve in Udienza i membri del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC), della Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario (FOCSIV) e del Movimento Cristiano Lavoratori (MCL), in occasione dei diversi anniversari di fondazione delle rispettive associazioni.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti nel corso dell’Udienza:


DISCORSO DEL SANTO PADRE


Cari fratelli e sorelle!


Sono lieto di accogliervi stamane in questo incontro che vede insieme il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, la Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario e il Movimento Cristiano Lavoratori.
Saluto con affetto i Fratelli nell’Episcopato che vi sostengono e vi indirizzano, i Dirigenti e Responsabili, gli Assistenti ecclesiastici e tutti i soci e simpatizzanti.
Quest’anno le vostre associazioni festeggiano gli anniversari di fondazione: ottant’anni il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, quarant’anni la Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario e il Movimento Cristiano Lavoratori.
E tutte e tre queste realtà sono debitrici della sapiente opera del Servo di Dio Paolo VI, che, in qualità di Assistente Nazionale, ha sostenuto i primi passi del Movimento Laureati di Azione Cattolica nel 1932, e, da Pontefice, il riconoscimento della Federazione degli Organismi Cristiani di Volontariato e la nascita del Movimento Cristiano Lavoratori, nel 1972. Al mio Venerato Predecessore va il nostro ricordo riconoscente per l’impulso dato a tali importanti associazioni ecclesiali.

Gli anniversari sono occasioni propizie per ripensare al proprio carisma con gratitudine e anche con sguardo critico, attento alle origini storiche e ai nuovi segni dei tempi. Cultura, volontariato e lavoro costituiscono un trinomio indissolubile dell’impegno quotidiano del laicato cattolico, che intende rendere incisiva l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa, tanto nell’ambito privato quanto nella sfera pubblica della società. Il fedele laico si mette propriamente in gioco quando tocca uno o più di questi ambiti e, nel servizio culturale, nell’azione solidale con chi è nel bisogno e nel lavoro, si sforza di promuovere la dignità umana. Questi tre ambiti sono legati da un comune denominatore: il dono di sé.

L’impegno culturale, soprattutto quello scolastico ed universitario, teso alla formazione delle future generazioni, non si limita, infatti, alla trasmissione di nozioni tecniche e teoriche, ma implica il dono di sé con la parola e con l’esempio. Il volontariato, risorsa insostituibile della società, comporta non tanto il dare delle cose, ma il dare se stessi in aiuto concreto verso i più bisognosi.

Il lavoro infine non è solo strumento di profitto individuale, ma momento in cui esprimere le proprie capacità spendendosi, con spirito di servizio, nell’attività professionale, sia essa di tipo operaio, agricolo, scientifico o di altro genere.

Ma per voi tutto questo ha una connotazione particolare, quella cristiana: la vostra azione deve essere animata dalla carità; ciò significa imparare a vedere con gli occhi di Cristo e dare all’altro ben più delle cose necessarie esternamente, donargli lo sguardo, il gesto d’amore di cui ha bisogno. Questo nasce dall’amore che proviene da Dio, il quale ci ha amati per primo, nasce dall’intimo incontro con Lui (cfr Deus Caritas est, 18). San Paolo, nel discorso di congedo dagli anziani di Efeso, ricorda una verità espressa da Gesù: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Cari amici, è la logica del dono, una logica spesso bistrattata, che voi valorizzate e testimoniate: donare il proprio tempo, le proprie abilità e competenze, la propria istruzione, la propria professionalità; in una parola, donare attenzione all’altro, senza aspettare contraccambio in questo mondo; e vi ringrazio per questa grande testimonianza. Così facendo non solo si fa il bene dell’altro, ma si scopre la felicità profonda, secondo la logica di Cristo, che ha donato tutto se stesso.

La famiglia è il primo luogo in cui si fa esperienza dell’amore gratuito; e quando ciò non accade, la famiglia si snatura, entra in crisi. Quanto viene vissuto in famiglia, il donarsi senza riserve per il bene dell’altro è un momento educativo fondamentale per imparare a vivere da cristiani anche il rapporto con la cultura, il volontariato e il lavoro.

Nell’Enciclica Caritas in veritate ho voluto estendere il modello familiare della logica della gratuità e del dono a una dimensione universale. La sola giustizia non è di fatto sufficiente. Perché vi sia vera giustizia è necessario quel «di più» che solo la gratuità e la solidarietà possono dare: «La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti, quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» (n. 38).
La gratuità non si acquista sul mercato, né si può prescriverla per legge. E, tuttavia, sia l’economia, sia la politica hanno bisogno della gratuità, di persone capaci di dono reciproco (cfr ibid. 39).

L’incontro di oggi evidenzia due elementi: l’affermazione da parte vostra della necessità di continuare a camminare sulla via del Vangelo, nella fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa e nella lealtà verso i Pastori; e il mio incoraggiamento, l’incoraggiamento del Papa, che vi invita a proseguire con costanza nell’impegno in favore dei fratelli.
Di questo impegno fa parte anche il compito di evidenziare le ingiustizie e di testimoniare i valori su cui si fonda la dignità della persona, promuovendo le forme di solidarietà che favoriscano il bene comune. Il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, alla luce della sua storia, è chiamato ad un rinnovato servizio nel mondo della cultura, segnato da sfide urgenti e complesse, per la diffusione dell’umanesimo cristiano: ragione e fede sono alleate nel cammino verso la Verità.
La Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario continui a confidare soprattutto nella forza della carità che viene da Dio portando avanti il suo impegno contro ogni forma di povertà e di esclusione, in favore delle popolazioni più svantaggiate. Il Movimento Cristiano Lavoratori sappia portare luce e speranza cristiana nel mondo del lavoro, per conseguire anche una sempre maggiore giustizia sociale. Inoltre guardi sempre al mondo giovanile, che oggi più che mai cerca vie di impegno che sappiano coniugare idealità e concretezza.

Cari amici, auguro a ciascuno di voi di proseguire con gioia nell’impegno personale e associativo, testimoniando il Vangelo del dono e della gratuità. Invoco su di voi la materna intercessione della Vergine Maria e vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica, che estendo a tutti i soci e ai familiari. Grazie per il vostro impegno, per la vostra presenza.

*************************************

La "Concezione cattolica della politica"


Come fare per riportare Dio nella società


di Fabio Trevisan

ROMA, sabato, 19 maggio 2012 (ZENIT.org).- Si deve alla meritoria revisione e cura di P. Arturo A. Ruiz Freites dell’Istituto del Verbo Incarnato (I.V.E.) se è stata pubblicata (Edizione Settecolori) questa poderosa opera di P. Julio Ramon Meinvielle (1905-1973): “Concezione cattolica della politica”.

Scritta nel 1932 dal grande filosofo e teologo argentino, il cui pensiero si formò alle fonti sempre vive del Magistero della Chiesa e di San Tommaso d’Aquino, rimane ancora ai nostri giorni un’opera fresca ed estremamente utile per la chiarezza e lucidità delle intuizioni e delle riflessioni esposte.

Appena ordinato sacerdote (dicembre 1930), P. Meinvielle intraprese con tenacia e passione, umiltà e rispetto, la lettura e l’analisi approfondita degli scritti del Dottore Angelico, anche in forza, come ha ben rilevato P. Ruiz, della fedeltà al Magistero della Chiesa che, da Leone XIII con la Aeterni Patris (1879) a S. Pio X col Motu Proprio Doctoris angelis (1914), fino al Codice di Diritto Canonico del 1917 insistevano e stimolavano che “gli studi della filosofia razionale e della teologia fossero trattati secondo il metodo, la dottrina ed i principi del Dottore Angelico”. All’osservanza del Magistero della Chiesa ed alle opere di San Tommaso d’Aquino, P. Julio Meinvielle si è sempre attenuto, contrapponendo la dottrina sociale della Chiesa, da esse scaturita, alle ideologie ed alle filosofie e teologie erronee della modernità o post-modernità (dal liberalismo al collettivismo, dall’individualismo allo statalismo).

Attraverso uno stile chiaro e semplice, pur nella difficoltà delle argomentazioni trattate, P. Meinvielle ha saputo ammaestrare generazioni di giovani (argentini e non) al riconoscimento dei diritti di Dio anche nella politica, nella prospettiva non utopica di una Cristianità, ovvero di una comunità politica posta sotto il regno di Dio. La mente acuta e lucida di P. Meinvielle ha illustrato in un modo pedagogico l’ordine dell’uomo nella società, rispettoso del preminente ruolo di Dio nella storia e della legge naturale quale specchio della lex divina, contro il disordine provocato dall’eresia rivoluzionaria anti-cristiana ed anti-umana.

Riprendendo il concetto ribadito da Pio XII in merito ad un mondo da rifare dalle sue fondamenta: da selvaggio, farlo umano; da umano, farlo divino, secondo il cuore di Dio, P. Julio denuncerà la falsità del mito del Progresso (anteponendolo al vero progresso cristiano) e dell’apostasia del mondo moderno: “Respingendo la necessità di lavorare all’edificazione di un ordine sociale cristiano, i progressisti sono costretti ad accettare la civiltà laicista, liberale, socialista o comunista, della modernità. Qui è radicato il vero errore e la deviazione del progressismo cristiano, che consiste nel cercare l’alleanza della Chiesa con il mondo moderno”.

P. Meinvielle si è preoccupato di definire, onde evitare fraintendimenti, il carattere, la natura della società moderna: “La società moderna è una società che tende a rifiutare Dio e a fare dell’uomo un dio”.

Essendo il Meinvielle, come ha giustamente argomentato P. Ruiz, un uomo di Dio, egli ha voluto preservare con cura la sovranità e la trascendenza di Dio contro il proposito riduzionista ed immanentista che caratterizza il pensiero moderno. Per più di quarant’anni spesi con saggezza e rigore a favore della filosofia perenne, ha così potuto scrivere una ventina di preziosi volumi, alla scuola di S. Tommaso e del suo motto: “Proprio del saggio è il giudicare, non solo il discernere”.

Pur mantenendo uno sguardo prudente e caritatevole, P. Meinvielle ha saputo osservare e giudicare i fatti e gli avvenimenti soprattutto alla luce delle vere cause: Dio, la Sua Provvidenza, l’opera di redenzione di Gesù Cristo e della Sua Chiesa. Con uno sguardo incarnato e soprannaturale, P. Meinvielle ha saputo delineare con profonda chiarezza l’essenza dell’uomo: un essere con necessità materiali, perché ha un corpo, ma soprattutto con necessità intellettuali, morali e spirituali, perché ha un’anima immortale.

Non solo, l’assunto di P.Meinvielle, debitore alla filosofia aristotelica-tomista della nozione di sinolo (unità sostanziale tra anima e corpo), si sviluppa nella concezione dell’uomo soprannaturale, o uomo cattolico, quale uomo di autentica vita nuova, nell’accezione paolina (San Paolo, Lettera ai Romani 6,4).

La sua Concezione cattolica della politica presuppone questo importante significato antropologico, alla luce di Dio, con le parole stesse dell’Autore: “L’uomo cattolico non è uomo e, inoltre, cattolico, come se il fatto di essere cattolico fosse qualcosa di separato dalla sua qualità di uomo o di padre di famiglia. L’uomo cattolico è un’unità”.

Conseguentemente, tanto la scienza politica come la prudenza politica si devono adattare alla vita soprannaturale. Ciò non significa, senza alcun dubbio, che i fatti concreti e reali siano allontanati in questa prospettiva trascendente, ma che piuttosto, ancora con l’espressione felice di P. Julio: “I fatti trovano la loro spiegazione alla luce dei principi ontologici; i fatti politici alla luce dei principi ontologici dell’essere umano”.

La scienza che studia l’essere in quanto essere, la vituperata e tralasciata metafisica, costituisce, al contrario, la chiave di volta per comprendere anche l’azione politica in quanto la metafisica non esclude l’osservazione empirica, anzi l’esige; ma l’esige sostentata in se stessa.

Quando diciamo metafisica, non diciamo qualcosa di inestricabile, irraggiungibile per l’uomo comune; ci riferiamo semplicemente alla saggezza che considera i principi dell’essere. Per Meinvielle, lungi dal considerare la metafisica come qualcosa di nebuloso o astratto, questa argomentazione delucida l’intento irrazionale ed anti-metafisico del mondo moderno: “Il segno più tipico e grave della decomposizione del mondo moderno è, precisamente, questa guerra alla saggezza che contempla i principi dell’essere”.

P. Julio Meinvielle testimoniò fino alla morte il suo amore e la sua dedizione a tutti gli ambiti della vita umana (economica, sociale, storica, politica) ordinandoli e trattandoli alla luce del Vangelo e della Dottrina sociale naturale e cristiana della Chiesa e denunciò senza tregua il grande problema del mondo moderno, “che muore da laicista e da ateo ed ha le sue radici nel fatto che cerca in primo luogo la realtà temporale, e così rimane senza la realtà eterna e finisce addirittura per perdere la realtà temporale”.

In questo straordinario saggio (Concezione cattolica della politica), P. Julio Meinvielle, dopo aver esaurientemente definito l’essenza dell’uomo, spiega come la politica debba essere autenticamente al servizio dell’uomo e di Dio. Nell’annunciare queste verità antropologiche e teologiche, P. Meinvielle denuncia la corruzione della Rivoluzione che, prima di corrompere la politica ed anche l’economia, ha corrotto l’uomo.

Urgente costituisce il richiamo affinché il cattolico conosca la dottrina cattolica sulla politica … la pura erudizione delle teorie e dei fatti politici, quello che si chiama attualità politica è nociva se non si è in possesso dell’autentica filosofia della politica. Per l’Autore la natura morale della politica si attiene alla legge naturale: “Se l’uomo conforma il suo operato alla legge naturale opera virtuosamente, se non lo fa, opera viziosamente … nell’uomo la ragione è come una luce, tramite la quale discerne ciò che è buono o cattivo”.

Il pensiero lungimirante ed acuto di P. Julio Meinvielle può addirittura essere accostato al Magistero di Benedetto XVI, pur a distanza di ottant’anni. Nella Concezione cattolica della politica si possono leggere passaggi che ricordano la recente Caritas in veritate : “Si potrebbe persino dimostrare che se la politica mirasse solo a procurare i beni economici, a detrimento di quelli morali, si corromperebbe a tal punto che sarebbe incapace si procurare quegli stessi beni economici”.

Nel ribadire che la società politica è essenzialmente morale, P. Meinvielle la fa dipendere intrinsecamente dall’ordine teologico, individuando quattro cause (derivate dall’impianto aristotelico-tomista) nella costituzione essenziale della società politica: efficiente, materiale, formale e finale. L’originalità e l’ortodossia del pensiero cattolico di P. Julio Meinvielle si articola nell’elaborazione di queste quattro cause: “ Le famiglie e le altre associazioni naturali e libere che si congregano nell’unità sociale sono la causa materiale … il regime sociale per cui tutte le famiglie vivono congregate nell’aspirazione al bene comune costituisce la causa formale.

Il bene comune temporale, di cui si procura la realizzazione, è la causa finale prossima della società, e gli uomini, spinti dalla legge naturale ad entrare nella società politica, sono la causa efficiente di questa”. La centralità della famiglia quale cellula fondamentale della società è posta sostanzialmente quale primario corpo intermedio, secondo le indicazioni continue del Magistero della Chiesa.

Molti altri aspetti (il problema della sovranità, la strutturazione sociale-statuale della vita politica, le funzioni dell’autorità) sono approfonditi nel pensiero del grande filosofo e teologo argentino e meritano tutti estrema attenzione. Un saggio di sicuro interesse e da leggersi con attenzione, scritto da un uomo che amava profondamente la Verità su Dio e sull’uomo, come si può evincere da quest’ultima citazione: “Il problema primo dell’uomo è il destino eterno dell’uomo. Il problema primo dell’uomo è la situazione dell’uomo verso Dio. E’ un problema interiore, un problema che si trova entro l’anima, che non si risolve dandogli da mangiare, ma si risolve dandogli Dio”.

[SM=g1740722]

[Modificato da Caterina63 19/05/2012 23:55]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
28/08/2012 14:56
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

[SM=g1740733] Dottrina Sociale della Chiesa, partendo dalla Rerum Novarum

 Invitiamo quanti volessero copiare altrove le seguenti riflessioni, a non estrapolare parti dal contesto e di riportare la fonte..... il tutto dovrà essere letto ed interpretato alla luce del Magistero della Chiesa e mai contro di esso....
Grazie!

Se facessimo oggi un breve sondaggio, in tutte le Parrocchie della Chiesa, chiedendo ai fedeli qualche informazione sulla "Rerum Novarum", probabilmente avremmo una profonda delusione nel constatare che l'80% dei fedeli non sa cosa essa sia, o se l'ha sentita nominare, accenna timidamente ad una associazione di idee con la Dottrina Sociale della Chiesa, e nulla più. Forse alcuni, più addentro, potrebbero citare la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, scritta appunto in occasione del centesimo anniversario di questo piccolo capolavoro di Papa Leone XIII, e che definì:  “la magna charta dell’operosità sociale cristiana”.

La Rerum Novarum possiamo dire che è diventata un simbolo della Dottrina Sociale della Chiesa perchè è il primo Documento, sociale appunto, che affronta il problema  non semplicemente da un punto affaristico, monetario, o semplicemente economico, ma inserendolo all'interno del contesto della "dignità umana",  nel rapporto fra  l'operaio e il datore di lavoro, il padrone...

In sostanza vediamo, con l'avanzare della questione Sociale che fino a quel momento era stata affrontata come una lotta nella quale Carlo Marx da origine al "proletariato" contro i padroni, visti solo come sfruttatori,  dall'altra parte, le risposte che venivano imponevano ai padroni sempre più un profilo di superiorità attraverso il quale difendere il diritto dello sfruttamento della mano d'opera. Ecco che qui, Papa Leone XIII viene letteralmente a stravolgere le idee fondamentaliste dei "contenziosi".

 

Vale la pena di ricordare, leggendo la Rerum Novarum che è del 1891, che non era la prima volta che la Chiesa difendeva il diritto dell'operaio, tuttavia è la prima volta che il Papa compone una Enciclica esclusivamente per affrontare il problema.

L'epoca in questione era già avviata verso il trionfo dell'industrializzazione ed era l'epoca, la prima, nella quale si vedevano intere "masse" di persone muoversi verso questo nuovo modo di vivere lavorando, ed alla Chiesa interessano le "persone", e per questo interviene il Papa a difenderne i diritti ma attenzione, ricordando che la questione sociale non si risolve muovendo guerra al padrone il quale per altro garantisce l'industria e paga i salari, bensì "entrando in dialogo con il padrone", per comprendere non tanto le imposizioni quanto le "esigenze dei lavoratori" e, attenzione, anche il lavoratore deve saper comprendere le esigenze del padrone, non può pretendere di mandare in fallimento colui che lo sovvenziona.

E va chiarito che la frase tanto sfruttata dal Vangelo, l'operaio ha diritto alla sua parcella, in verità non parla di diritto, ma di dignità: dignus enim est operarius mercede sua / perché l'operaio è degno della sua mercede (Lc.10,7), questo comporta che laddove è doveroso che l'operaio, il lavoratore, abbia nella sua dignità di lavoratore il giusto compenso, è altrettanto doveroso che l'operaio rispetti la dignità del padrone e non pretenda una parità di guadagni finendo per affamare colui che lo deve sostentare, o che pretenda di guadagnare quanto un'altro operaio che svolge un lavoro diverso e magari più remunerativo.

 

Ma c'è anche un altro aspetto importante di questo testo, è il primo Documento Ufficiale che parlando della questione sociale non si rivolge solo agli "italiani" o solo ai "cattolici" o solo agli "Stati Pontifici". Infatti era già passata la breccia di Porta Pia e nonostante le ferite ancora aperte, la Chiesa scrive un testo che riguarda il mondo intero, riguarda gli uomini e le donne di ogni classe sociale e culturale, di lingua e nazione.

Questa è dunque la chiave di lettura della Rerum Novarum: apertura al dialogo con il padrone e con l'operaio, i quali devono entrare all'interno di un dialogo non fine a se stesso, ma che promuova la dignità della persona nella sua mano d'opera, scrive infatti:

 

"2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell'uomo."

 

Non ci dimentichiamo che Leone XIII era stato Nunzio in Belgio quando le miniere di carbone  erano il sostentamento degli operai come dei padroni, egli aveva ben conosciuto la nuova situazione lavorativa che si andava delineando non solo alla fine dell'800 ma anche all'inizio del nuovo Secolo, il Novecento, e conobbe le "misere condizioni" degli operai quando sovente vi si recava per alleviare le loro sofferenze, il duro lavoro di una dignità poco riconosciuta.

Un altra considerazione che dobbiamo fare è che, soprattutto agli inizi, l'era industriale, definita per certi versi la "nuova età dell'oro", aveva però dato origine anche a moltissimi problemi e non soltanto nel rapporto fra operai e padroni, ma anche problemi edilizi, abitativi, di "spostamenti", qui cominciano infatti i primi esodi di massa di migranti per cercare lavoro, qui cominciano le masse di persone che cercano casa e diventano affittuari, spesse volte c'erano padroni così senza scrupoli che tutto ciò che l'operaio guadagnava, doveva restituire nell'affitto. Ma buttare anche tutte le responsabilità sui padroni, non era giusto, così come era giusto, invece, il salvaguardare l'operaio dai padroni profittatori, di operai più deboli e non difesi da nessuno, l'era industriale aveva infatti generato anche molto degrado umano e  perfino ambientale,  tutto questo spinge la Chiesa a dare delle indicazioni chiarissime.

 

Alla Chiesa, nella Persona del Sommo Pontefice, Vicario di Cristo, interessava innanzi tutto chiarire il pericolo dello "sfruttamento spirituale degli operai".... cosa significa?

Che la "febbre" del lavoro spingeva gli Uomini a non curare più se stessi, ne la propria spiritualità intesa anche come "talento e doti creative", l'operaio, denuncia il Pontefice, rischia di diventare un mezzo per la riproduzione, negli ingranaggi di una industria, "annientandolo nelle sue qualità di uomo pensante"....dalle fabbriche infatti era esclusa ogni iniziativa personale  ed, estromessa, ogni esperienza personale, insomma, l'uomo rischiava di diventare "una macchina per la macchina", e questo la Chiesa non lo poteva accettare!

Così Papa Leone XIII spiega che se per il marxismo la soluzione doveva essere radicale con l'annientamento del padrone e del "privato" e l'operaio doveva diventare semplicemente uno strumento per lo Stato, per la Chiesa tra l'operaio e il padrone doveva innescarsi invece una collaborazione, un dialogo onesto e sincero nel quale l'operaio poteva salvaguardare sia il suo dignitoso stipendio quanto la sua "capacità creativa ed il suo personale talento".

 

Nell'enciclica il Papa rammenta che se è vero che l'operaio è anche strumento di produzione, non va tuttavia dimenticato che egli porta con se un bagaglio spirituale, "egli vive di emozioni e spiritualità, forma una famiglia"  e, di conseguenza, il salario non doveva tenere conto esclusivamente dell'operaio, ma anche della famiglia, delle sue necessità organizzative e quantitative circa il numero dei suoi componenti, per consentirle di vivere dignitosamente.

Insomma, il tema, per Leone XIII non poteva avanzare solo da un punto di vista, quello sociale e per giunta marxista, o esclusivamente economico, ma doveva gioco forza allargarsi a tutto ciò che l'Uomo è, e non soltanto in funzione di ciò che può dare in termini di sfruttamento, sia nel dare quanto nel ricevere economicamente.

Se per il marxismo il salario doveva essere "uguale" per tutti, non così la pensava la Chiesa, e puntando sul più evangelico motto che " l'operaio è degno della sua mercede" Essa difenderà proprio il diritto contrattuale. Per spiegarla in un termine che comprendiamo tutti, possiamo dire che la Chiesa difendeva quel: "tanto mi dai, tanto ti do", ma giustamente regolarizzato da "un contratto" che potesse salvaguardare non soltanto l'operaio nel suo dare e avere, ma anche tenendo conto della sua Famiglia, dei suoi Figli, e di quanti figli dovesse mantenere, alimentando la prima difesa del diritto anche alle cure mediche, ai giorni di malattia. Quanto alle "ferie" ancora non esistevano, ma le "feste comandate" entravano, a buona ragione, all'interno del meccanismo del "riposo" del lavoratore, in tal modo veniva soddisfatto anche il comandamento "ricordati di santificare le feste" e che non riguarda solo la domenica.





[SM=g1740771]  continua............
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
28/08/2012 14:59
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


[SM=g1740758] Leggiamo un'altro passo interessante dell'Enciclica:

"3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l'odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l'eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale."

Questa denuncia e presa di posizione chiara, fu la vera grande rivoluzione della Rerum Novarum e sulla quale si regge, ancora oggi, ogni discussione sul salario sui diritti certo, ma anche sui doveri. Nessuna Istituzione umana era giunta a così alti livelli di spessore sociale validi in ogni tempo.

Sarà La Chiesa stessa a spingere gli operai verso le prime forme di "Aggregazioni lavorative" per affrontare appunto le dinamiche e le discussioni con il "padrone", nascono le aggregazioni "Bianche" per i cattolici che forse molti conoscono di più con il termine del "Mutuo Soccorso", e naturalmente il suo rovescio, quelle Rosse per i socialisti e comunisti, ma furono questi a "rubare" l'idea alla Chiesa e non viceversa come oggi si vuol far credere.

Il primo frutto di questa rivoluzione lanciata dalla Enciclica sono le "Casse Rurali", delle "banche cooperative" (più conosciute oggi in campo comunista come per esempio le Coop), queste furono di fatto un frutto della Dottrina Sociale della Chiesa e non del marxismo...

 

Un dato statistico riporta che nel 1922 le Casse Rurali sono circa 3000 e circa l'80% sono Cattoliche  molte delle quali "fondate da Sacerdoti" che applicarono alla lettera le richieste del Pontefice. Ma non solo Casse Rurali, alla fine dell'800 e primi del Novecento, vista la forte migrazione di ragazze, le donne, spesso sole e indifese, accanto alle fabbriche molti sacerdoti avevano dato il via a dei veri e propri villaggi e Case di accoglienza, meglio conosciute come i "Convitti".

Qui moltissime ragazze poterono essere accolte, ricevere cibi e perfino vestiti e liberarsi dal rischio di essere sfruttate o peggio restare sole per le strade, e spesso qui nei Convitti studiavano, ricevevano l'istruzione necessaria al loro stato, imparavano qualche mestiere, e spesso si preparavano anche per i Sacramenti, quando non l'avessero ancora ricevuti, e comunque sia vivevano una esistenza anche religiosa e che spesso maturava o in ottimi matrimoni cristiani, oppure in forme di vocazione religiosa. C'è da dire che alla base di questi successi c'era l'impegno serio e costante dei Sacerdoti i quali, se è vero che da una parte finirono con il farsi ingannare  dalla moda del "prete operaio e sociale" dall'altra, ed era la maggioranza, facevano davvero i "preti" attraverso il cui ministero, occupandosi principalmente delle anime, finivano naturalmente per occuparsi anche delle questioni materiali risolvendo molti singoli problemi.

 

La Rerum Novarum ha il privilegio (da qui il concetto della sua unicità) di non avere mai avuto la pretesa di risolvere i problemi in modo tecnico, economico, o burocratico o sindacale, no, la genialità dell'Enciclica sta nel metodo applicativo.

Leone XIII, ben conoscitore dei problemi del suo tempo, da saggio intuisce subito che ciò che mancano non sono le idee, ma il metodo applicativo di tante idee da mettere in ordine, insieme, dialogando, parlandosi e non trattare l'argomento come se dall'altra parte ci fossero dei nemici da abbattere (il nemico non poteva essere il padrone dal quale proveniva il sostentamento economico), piuttosto egli fa comprendere che il dialogare e il trovare soluzioni adatte, fa crescere il prestigio sia dei lavoratori quanto dei padroni e dell'azienda stessa che in un clima favorevole produce di più e meglio.

 

Scrive infatti  il Papa:

"- Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l'efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall'azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani.

Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d'illuminare la mente, ma d'informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l'autorità dello Stato."

 

Non a pochi oggi, che stanno riscoprendo la Rerum Novarum, vien da chiedersi se la Chiesa non si fosse svegliata perfino un pò troppo tardi, può sembrare ma non è così.

Il marxismo che aveva affrontato prima della Chiesa la questione operaia, lo aveva fatto però come una "lotta armata", il cui nemico da abbattere era il padrone, colui che sovvenzionava, dunque una lotta armata di forconi, ma pur sempre belligerante, che di fatto esasperò gli animi sia degli operai quanto dei padroni,  si era finiti in una sorta di vicolo cieco dove per uscirne occorreva sfondare un muro, con molte perdite...

La Chiesa invece, in qualità propria di Mater et Magistra, si prese come è solita fare il suo tempo per vagliare la situazione, e poté rispondere al problema solo quando ebbe sottomano tutti gli elementi per farlo, questa è saggezza, non ritardo sui tempi!

 

Così descrive la situazione il santo Padre Benedetto XVI nella sua meravigliosa Enciclica Spe Salvi:

"20. (...) Dopo la rivoluzione borghese del 1789 era arrivata l'ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con vigore di linguaggio e di pensiero, cercò di avviare questo nuovo passo grande e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza – verso quello che Kant aveva qualificato come il « regno di Dio ». Essendosi dileguata la verità dell'aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell'aldiquà.

La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose.

Con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. La rivoluzione poi si è anche verificata nel modo più radicale in Russia.

21. Ma con la sua vittoria si è reso evidente anche l'errore fondamentale di Marx. Egli ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo. Egli supponeva semplicemente che con l'espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si sarebbe realizzata la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate tutte le contraddizioni, l'uomo e il mondo avrebbero visto finalmente chiaro in se stessi.

Allora tutto avrebbe potuto procedere da sé sulla retta via, perché tutto sarebbe appartenuto a tutti e tutti avrebbero voluto il meglio l'uno per l'altro. Così, dopo la rivoluzione riuscita, Lenin dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessun'indicazione sul come procedere. Sì, egli aveva parlato della fase intermedia della dittatura del proletariato come di una necessità che, però, in un secondo tempo da sé si sarebbe dimostrata caduca.

Questa « fase intermedia » la conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante. Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo – di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli."

 



[SM=g1740771]  continua.........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
28/08/2012 15:01
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


[SM=g1740758] Chi spiega ancor meglio l'interpretazione della Rerum Novarum è il successore di Leone XIII, Papa Pio XI che scrisse la "Quadragesimo anno" ossia, a 40 anni dalla Rerum Novarum, scrivendone un altra per spiegarne l'importanza e l'attualità, aggiornandola.

Quanto scrisse il Papa vale la pena di leggere attentamente per avere la chiave di lettura autentica sulla Rerum Novarum:

"5. Né altrimenti pensavano quei molti cattolici, e sacerdoti e laici, i quali, mossi da un sentimento di una carità certamente ammirabile, si sentivano già da lungo tempo sospinti a lenire l’immeritata indigenza dei proletari, né riuscivano in alcun modo a persuadersi come un così forte e ingiusto divario nella distribuzione dei beni temporali potesse davvero corrispondere ai disegni del sapientissimo Creatore.

"6. In tale disordine lacrimevole della società essi cercavano bensì con sincerità un pronto rimedio e una salda difesa contro i pericoli peggiori: ma per la fiacchezza della mente umana anche nei migliori, vedendosi respinti da una parte quasi perniciosi novatori, dall’altra intralciati dagli stessi compagni di opere buone ma seguaci di altre idee, esitando tra le varie opinioni, non sapevano dove rivolgersi.

"7. In così grande urto e dissenso di animi, mentre dall’una parte e dall’altra si dibatteva, e non sempre pacificamente, la controversia, gli occhi di tutti, come in tante altre occasioni, si volgevano alla Cattedra di Pietro, deposito sacro di ogni verità, da cui si diffondono le parole di salute in tutto il mondo; e accorrendo, con insolita frequenza, ai piedi del Vicario di Cristo in terra, sì gli studiosi di cose sociali, come i datori di lavoro e gli stessi operai, andavano supplicando unanimi perché fosse loro finalmente additata una via sicura.

"8. Tutto ciò il prudentissimo Pontefice ponderò a lungo tra sé al cospetto di Dio, richiese consiglio ai più esperti, vagliò attentamente gli argomenti che si portavano da una parte e dall’altra, e in ultimo, ascoltando "la voce della coscienza dell’ufficio Apostolico", (Enc. Rerum Novarum n. 1). per non sembrare, tacendo, di mancare al proprio dovere, (cf. RN n. 13) deliberò in virtù del divino magistero, a lui affidato, di rivolgere la parola a tutta la Chiesa, anzi a tutta l’umana società."

 

**********

 

Nel sottolineare alcuni punti fondamentali dell'Enciclica, Pio XI sottolinea:

 - ....con animo invitto prende a tutelare egli stesso in persona la causa degli operai che "le circostanze hanno consegnati soli e indifesi alla inumanità dei padroni e alla sfrenata cupidigia della concorrenza", (RN n. 2) senza chiedere aiuto alcuno né al liberalismo né al socialismo, dei quali l’uno si era mostrato affatto incapace di dare soluzione legittima alla questione sociale, l’altro proponeva un rimedio che, di gran lunga peggiore del male, avrebbe gettato in maggiori pericoli la società umana.

-  indicò e proclamò "i diritti e i doveri dai quali conviene che vicendevolmente si sentano vincolati e ricchi e proletari, e capitalisti e prestatori d’opera", (RN n. 1). come pure le parti rispettive della Chiesa, dei poteri pubblici e anche di coloro che più vi si trovano interessati.

(faccio notare che non solo i diritti, ma che tutti abbiamo anche dei doveri anche verso i padroni. Ndr)

- accolsero con giubilo quell’enciclica gli operai cristiani, i quali si sentirono patrocinati e difesi dalla più alta Autorità della terra, e tutti quei generosi, i quali già da lungo tempo sollecitati di recare sollievo alla condizione degli operai, sino allora non avevano trovato quasi altro che la noncuranza degli uni e persino gli odiosi sospetti, per non dire l’aperta ostilità di molti altri. Meritatamente dunque tutti costoro d’allora in poi tennero sempre in tanto onore quell’enciclica che è venuto in uso di commemorarla ogni anno nei vari paesi con varie manifestazioni di gratitudine.

- Tuttavia la dottrina di Leone XIII, così nobile, così profonda e così inaudita al mondo, non poteva non produrre anche in alcuni cattolici una certa impressione di sgomento, anzi di molestia e per taluni anche di scandalo. Essa infatti affrontava coraggiosamente gli idoli del liberalismo e li rovesciava, non teneva in nessun conto pregiudizi inveterati, preveniva i tempi oltre ogni aspettazione; ond’è che i troppo tenaci dell’antico disdegnavano questa nuova filosofia sociale, i pusillanimi paventavano di ascendere a tanta altezza; taluno anche vi fu, che pure ammirando questa luce, la riputava come un ideale chimerico di perfezione più desiderabile che attuabile.

 

*************

 

Approfondiamo un altro passo assai eloquente della Rerum Novarum, dice così Leone XIII:

"- Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l'animo non si eleva ad un'altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l'intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l'edificio della religione: cioè che la vera vita dell'uomo è quella del mondo avvenire.

Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all'eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui.

Se persevereremo, regneremo insieme (7). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha mitigato l'acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l'esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile il patire. Poichè quella che attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria (8).

I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (9); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (10); che dell'uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice."

 

***

Benedetto XVI nell'Enciclica Spe Salvi,  domanda: " Innanzitutto c'è da chiedersi: che cosa significa veramente " progresso "; che cosa promette e che cosa non promette?"

arrivando appunto a denunciare certe pretese dette oggi "progressiste" che non solo non risolvono i problemi sociali, ma che sono spesso la causa delle crisi sociali e culturali (etiche e morali) alle quali l'uomo non riesce a far fronte. Del resto il moderno presupposto essenziale "della fede nel Progresso" è che, la marcia della storia, che è marcia esclusivamente sottoposta alla ragione, conduce infallibilmente a un incremento continuo del bene, ne è la sua sollecitazione purché vi sia chi, continuamente, ne spieghi la sua applicazione e non lo confonda con la fede nel "progressismo". Quando infatti Benedetto XVI scrive che "non è la scienza che redime l'uomo" (n. 26), egli si riferisce a una certa idea della ragione esclusiva che conduce ad un falso progresso e si stagna nell'illusorio progressismo, quello che ispira le diverse forme di scientismo e di relativismo. Significativa è appunto la critica "dell'errore fondamentale di Marx. Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male", che abbiamo riportato sopra.

La crisi economica attuale, aggiunge Benedetto XVI, non può essere disgiunta dalla crisi morale, etica e culturale del nostro tempo e scrive ancora nell'Enciclica:

" 44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. (...)

 Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore.

La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto.

Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore...."

Anche qui il Papa, la Chiesa stessa, non offre la soluzione delle crisi, ma espone il metodo per affrontarle: "Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza. Solo Dio può creare giustizia.."

E questo ci riporta alle parole di Leone XIII nella Rerum Novarum:

" I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (9); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (10); che dell'uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice"...



[SM=g1740771]  continua...........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.989
Sesso: Femminile
28/08/2012 15:04
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota


[SM=g1740758] Leone XIII raccoglieva la difficile eredità di una Chiesa che si era scontrata con gli Stati nazionali borghesi e liberali, animati da un diffuso laicismo e in molti casi da ostilità nei confronti della religione, specialmente da uno ingiustificato fronte anticlericale spesso alimentato dalla massoneria. Nella sua prima enciclica, la Inscrutabili Dei consilio (21 aprile 1878), così descriveva la nuova realtà che aveva sconvolto gli antichi equilibri sociali e politici, promuovendo il socialismo e il marxismo:

"Ci si presenta allo sguardo il triste spettacolo dei mali che per ogni parte affliggono l'uman genere:  questo così universale sovvertimento dei principî dai quali, come da fondamento, è sorretto l'ordine sociale; la pervicacia degl'ingegni intolleranti di ogni legittima soggezione; il frequente fomento alle discordie, da cui le intestine contese, e le guerre crudeli e sanguinose (...) La cagione precipua di tanti mali è riposta, ne siamo convinti, nel disprezzo e nel rifiuto di quella santa e augustissima autorità della Chiesa, che a nome di Dio presiede al genere umano, e di ogni legittimo potere è vindice e tutela".

E' importante sottolineare che il magistero di Leone XIII non si rinchiude solamente nella Rerum Novarum, i suoi moniti spaziano su grandi temi del momento, un anno prima aveva scritto una enciclica missionaria, Catholicae Ecclesiae, del 20 novembre 1890, nella quale invitava i cattolici a sostenere con larghi mezzi le missioni al fine di combattere le pratiche schiaviste e "l'abuso nel commercio degli schiavi". Tra l'altro Leone XIII non mancò di favorire la formazione nei vari paesi di associazioni antischiaviste, davvero le prime nel loro genere.

Il Movimento Missionario cattolico che trova in questo pontificato un nuovo slancio e un nuovo grande fervore, non è altro che la base della Rerum Novarum, l'inizio se vogliamo, della Dottrina Sociale della Chiesa in quanto, per la prima volta, interessava i luoghi e le persone poste al di fuori di ciò che erano stati, fino a quel momento, gli Stati Pontifici.

Da qui una evidente apertura verso il riconoscimento ufficiale dello Stato in quanto tale e in quanto guidato dal "Cesare" di turno al quale non si chiede altro che di poter esercitare liberamente la propria missione.

Con l'enciclica del 1 novembre 1885, Immortale Dei, sulla Costituzione cristiana degli Stati, Leone XIII riaffermava infatti l'accettazione da parte della Chiesa di qualsiasi forma di governo, "purché orientata verso il bene comune dei cittadini".

Nella successiva enciclica Libertas, del 20 giugno 1888, Leone XIII sottolineava l'attenzione della Chiesa per le libertà moderne. L'enciclica rappresentava un chiaro e nuovo sviluppo delle indicazioni della Quanta cura e del famoso e discusso Sillabo, Papa Leone XIII infatti non le cancella, ma le sviluppa, e reclama così anche per la Chiesa quelle libertà che dovevano servire alla difesa della verità e della moralità. Questi documenti pontifici costituirono una non trascurabile base dottrinale, in un armonico progresso, per favorire un riavvicinamento della Chiesa con le nuove istituzioni politiche che si andavano affermando in Europa.

La Rerum Novarum, infatti, fu la presa di coscienza della Chiesa, alla luce delle Scritture e della Tradizione cristiana, di una nuova realtà sociale e di nuovi e gravi problemi presenti nel  mondo  del  lavoro. Le soluzioni che propone non sono dirette all'instaurazione di un nuovo ordine politico né a ribaltare i rapporti di forza tra le classi sociali. Tuttavia, le parole di Leone XIII presentano  una  forte carica  innovatrice  e  un linguaggio nuovo nei documenti della Chiesa che, come abbiamo letto, sollecitava la nascita di associazioni a tutela degli interessi dei lavoratori:  dalle società di mutuo soccorso, perfino alle assicurazioni private di assistenza e previdenza sociale, sino a vere e proprie organizzazioni sindacali, che l'Enciclica chiama "corporazioni", usando la vecchia terminologia medievale, ma interpretata in chiave moderna.

Insomma, scavando all'interno del Magistero Pontificio, possiamo davvero imparare molte cose, e possiamo comprendere che molto di ciò che viene attribuito oggi al comunismo o al socialismo, di fatto era già raccomandato dalla Chiesa e che solo una diabolica e perversa interpretazione degli anni '60, ha tentato di occultare e far dimenticare solo per poter togliere di mezzo Dio, per scristianizzare il mondo.

 

Possiamo anche parafrasare l'esempio e la genialità del cardinale Henry Edward Manning (1808-1892) prete anglicano prima, poi convertitosi proprio come il beato Newman al cattolicesimo, persona davvero religiosa e al tempo stesso non refrattaria dai problemi sociali e culturali del suo tempo,

Per altro fu anche uno fra i cardinali che contribuirono alla formazione dell'Enciclica stessa perché, apriamo una breve parentesi, come dovreste sapere le Encicliche e i Documenti Pontifici, non nascono dal giorno alla notte o da una voglia letteraria di un solo soggetto: il Pontefice individua l'argomento e il tema da trattare e poi lo elabora con diversi collaboratori che lo affiancano nelle ricerche bibliche, della tradizione e della cultura dei popoli, ricerche filosofiche e quant'altro, poi il Papa conclude il Documento dandogli quell'imprimatur dell'infallibilità che gli viene dal ruolo che ricopre, sostenendolo con ciò che chiamiamo "dottrina", e perciò, infallibile, e qui chiudiamo la parentesi.

Dunque, dicevamo di Manning, un prete prima ancora che cardinale, che non restava con le mani in mano, ma andava nelle fabbriche non per fare il "prete operaio" o per rivendicare i diritti (la dignità) dei lavoratori predicando contro la dottrina della Chiesa, al contrario, andava nelle fabbriche per spiegare meglio le ragioni della dottrina sociale della Chiesa, scendeva nelle miniere, visitava le case dei lavoratori portando conforto e conoscenza dei problemi. E quando i suoi sermoni cominciarono ad allarmare i padroni, scandalizzando i conservatori, venne accusato di essere socialista, ma lui paternamente e molto nettamente rispondeva:

"no cari signori, non faccio politica, io faccio del cristianesimo".

La sua perseveranza nella difesa della dottrina sociale della Chiesa fece tremare i trust di Londra, fece aprire le borse ai magnati per far fronte alle crisi del proprio tempo, e tutto questo senza mai alzare una barricata, senza mai usare la violenza, senza incitare mai i lavoratori contro i padroni, senza spingere mai gli operai alle devastazioni, senza mai rivendicare espropriazioni, senza mai invocare alcuna rivoluzione.

Papa Leone XIII, e come del resto tutti i Pontefici ancora fino ad oggi, sosteneva come un assurdo l'antagonismo tra le due forze, quella operaia e quella degli imprenditori, egli sosteneva con santa ragione che soltanto unite, queste due forze, avrebbero potuto davvero progredire per il bene sia dei singoli lavoratori, quanto per l'autentico progresso della società, la quale non potrà mai fare a meno degli imprenditori, così come lo stesso lavoratore ha bisogno dell'imprenditore che gli garantisca "la dignità della sua mercede" (cfr Lc.10,7)

 

Per concludere vi offriamo le parole della Catechesi che Giovanni Paolo II avrebbe dovuto pronunciare in quel 13 maggio 1981 quando fu colpito dal vile attentato. La Catechesi era stata preparata proprio per i 90 anni della Rerum Novarum. Così diceva il Papa:

" Ricordando il 90° anniversario dell’enciclica leoniana, sulla scia e in consonanza con il Magistero dei miei predecessori, desidero pertanto riaffermare l’importanza dell’insegnamento sociale come parte integrante della concezione cristiana della vita. Su questo argomento non ho mancato nei frequenti incontri con i miei fratelli nell’episcopato di raccomandare alla loro pastorale sollecitudine, la necessità e l’urgenza di sensibilizzare i loro fedeli sul pensiero sociale cristiano, affinché tutti i figli della Chiesa siano non solo istruiti nella dottrina, ma anche educati all’azione sociale.
Fratelli e sorelle! Torneremo ancora più a lungo sui vari temi e problemi che l’anniversario dell’enciclica, Rerum Novarum evoca. Per concludere questa mia riflessione odierna voglio rispondere all’interrogativo posto all’inizio.
Sì, l’enciclica Rerum Novarum ha ancora oggi la sua vitalità e validità stimolante e operante per il Popolo di Dio, anche se apparsa nel lontano 1891. Il tempo non l’ha esaurita, ma collaudata; tanto che i cristiani la sentono così feconda da derivarne coraggio e azione per i nuovi sviluppi dell’ordine sociale cui il mondo del lavoro è interessato. Continuiamo dunque a viverne lo spirito con slancio e generosità, approfondendo con amore operoso le vie tracciate dall’attuale Magistero sociale ..."

 

[SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 14:23. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com