2005 - 2013 ma anche 2015 dieci anni con Benedetto XVI

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Caterina63
00martedì 3 febbraio 2015 13:13
[SM=g1740717] Noi non festeggiamo la "rinuncia", piuttosto vogliamo ricordare e vivere e trasmettere questi 8 anni di Pontificato eccezionale a due anni dal tragico evento, il cui dolore, ancora non è lenito.

Quest'anno sono dieci anni dalla elezione di Benedetto XVI, il più grande Dottore della Chiesa del nostro tempo:

"Questo spirito, lungi dallo sgretolarsi con l’andare del tempo, apparirà di generazione in generazione sempre più grande e potente, Benedetto XVI è un grande Papa."
(Papa Francesco 27.10.2014)

www.youtube.com/watch?v=CL6fRwkXPyg&feature=youtu.be






[SM=g1740738]

Caterina63
00giovedì 5 febbraio 2015 10:41










      




Caterina63
00venerdì 20 febbraio 2015 16:36

  LE FRASI DI BENEDETTO XVI


LA SAPIENZA DI UN GRANDE DOTTORE DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO




 

 



-“Vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi” (omelia per l’inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005).

-“Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera” (omelia per l’inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005).

-“La libertà umana è sempre una libertà condivisa, un insieme di libertà. Soltanto in un’ordinata armonia delle libertà, che dischiude a ciascuno il proprio ambito, può reggersi una libertà comune” (omelia per la Messa di Pentecoste, 15 maggio 2005).

-“Non possiamo comunicare con il Signore, se non comunichiamo tra noi. Se vogliamo presentarci a Lui, dobbiamo anche muoverci per andare gli uni incontro agli altri. Per questo bisogna imparare la grande lezione del perdono: non lasciar lavorare nell’animo il tarlo del risentimento, ma aprire il cuore alla magnanimità dell’ascolto dell’altro, aprire il cuore alla comprensione nei suoi confronti, all’eventuale accettazione delle sue scuse, alla generosa offerta delle proprie” (omelia della Messa di chiusura del XXIV Congresso Eucaristico nazionale, Bari, 29 maggio 2005).

-“L’idea genericamente diffusa è che i cristiani debbano osservare un immensità di comandamenti, divieti, principi e simili e che quindi il cristianesimo sia qualcosa di faticoso e oppressivo da vivere e che si è più liberi senza tutti questi fardelli. Io invece vorrei mettere in chiaro che essere sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione non è un fardello ma sono ali e che è bello essere cristiani” (intervista a Radio Vaticana, 14 agosto 2005).

-“Prima si pensava e si credeva che, accantonando Dio ed essendo noi autonomi, seguendo solo le nostre idee, la nostra volontà, saremmo divenuti realmente liberi, potendo fare quanto volevamo senza che nessun altro potesse darci alcun ordine. Ma dove scompare Dio, l’uomo non diventa più grande; perde anzi la dignità divina, perde lo splendore di Dio sul suo volto. Alla fine risulta solo il prodotto di un’evoluzione cieca e, come tale, può essere usato e abusato. È proprio quanto l’esperienza di questa nostra epoca ha confermato. Solo se Dio è grande, anche l’uomo è grande” (omelia per la Messa nella solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, 15 agosto 2005).

-“La perseveranza nel bene, anche se incompresa e contrastata, alla fine giunge sempre ad un approdo di luce, di fecondità, di pace” (catechesi nell’udienza generale del 17 agosto 2005).

-“Libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni” (omelia per la Messa conclusiva della XX Giornata Mondiale della Gioventù, Colonia, 21 agosto 2005).

-“La tolleranza, che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e della nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia” (omelia per l’apertura del Sinodo dei Vescovi, 2 ottobre 2005).

-“La fede non si riduce a sentimento privato, magari da nascondere quando diventa scomoda, ma implica la coerenza e la testimonianza anche in ambito pubblico in favore dell’uomo, della giustizia, della verità” (Angelus, 9 ottobre 2005).

-“Il progresso tecnico, pur necessario, non è tutto; vero progresso è solo quello che salvaguarda la dignità dell’essere umano nella sua interezza e consente ad ogni popolo di condividere le proprie risorse spirituali e materiali, a beneficio di tutti” (discorso ai partecipanti alla 33ma conferenza della FAO, 24 novembre 2005).

-“Più la persona umana si dona, più trova se stessa” (omelia per la Messa dell’Immacolata, 8 dicembre 2005).

-“All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (lettera enciclica Deus caritas est, n. 1, 2005).

-“Trattandosi di un bene ‘indisponibile’, l’uomo non è il padrone della vita; ne è piuttosto il custode e l’amministratore” (omelia nella Messa del 5 febbraio 2006).

-“Chi non dà Dio dà troppo poco” (messaggio per la Quaresima 2006).

-“L’uomo non può comprendere se stesso in modo pieno se prescinde da Dio. È questa la ragione per la quale non può essere trascurata la dimensione religiosa dell’esistenza umana nel momento in cui si pone mano alla costruzione dell’Europa del terzo millennio (discorso ai partecipanti al seminario promosso dalla Congregazione per l’Educazione cattolica, 1 aprile 2006).

-“Non troviamo la vita impadronendoci di essa, ma donandola” (omelia per la Messa della Domenica delle Palme, 9 aprile 2006).

-“Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?” (discorso in occasione della visita al campo di Auschwitz, 28 maggio 2006).

-“Tutte le risposte che non giungono fino a Dio sono troppo corte” (omelia per la celebrazione dei Vespri nella cattedrale di Monaco, 10 settembre 2006).

-“Sia l’amore che la verità non si impongono mai: bussano alla porta del cuore e della mente e, dove possono entrare, apportano pace e gioia” (Angelus del 26 novembre 2006).

-“La pace è la meta a cui aspira l’intera umanità! Per i credenti ‘pace’ è uno dei più bei nomi di Dio” (omelia in occasione della celebrazione dei primi Vespri della I Domenica di Avvento, 2 dicembre 2006).

-“Non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito” (discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Legge morale naturale, 12 febbraio 2007).

-“La presenza della fede nel mondo è un elemento positivo, anche se non si converte nessuno; è un punto di riferimento” (incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 7 febbraio 2008).

-“Sono frequenti e talora inquietanti [gli] interrogativi, che in verità sul piano semplicemente umano non trovano adeguate risposte, poiché il dolore, la malattia e la morte restano, nel loro significato, insondabili per la nostra mente. Ci viene però in aiuto la luce della fede. La Parola di Dio ci svela che anche questi mali sono misteriosamente ‘abbracciati’ dal disegno divino di salvezza; la fede ci aiuta a ritenere la vita umana bella e degna di essere vissuta in pienezza pur quando è fiaccata dal male” (discorso durante l’incontro con gli ammalati, 11 febbraio 2009).

-“Oggi non è facile parlare di vita eterna e di realtà eterne, perché la mentalità del nostro tempo ci dice che non esiste nulla di definitivo: tutto muta, e anche molto velocemente. ‘Cambiare’ è diventata, in molti casi, la parola d’ordine, l’esercizio più esaltante della libertà, e in questo modo anche voi giovani siete portati spesso a pensare che sia impossibile compiere scelte definitive, che impegnino per tutta la vita. Ma è questo il modo giusto di usare la libertà?
È proprio vero che per essere felici dobbiamo accontentarci di piccole e fugaci gioie momentanee, le quali, una volta terminate, lasciano l’amarezza nel cuore? Cari giovani, non è questa la vera libertà, la felicità non si raggiunge così. Ognuno di noi è creato non per compiere scelte provvisorie e revocabili, ma scelte definitive e irrevocabili, che danno senso pieno all’esistenza. Lo vediamo nella nostra vita: ogni esperienza bella, che ci colma di felicità, vorremmo che non avesse mai termine. Dio ci ha creato in vista del ‘per sempre’, ha posto nel cuore di ciascuno di noi il seme per una vita che realizzi qualcosa di bello e di grande. Abbiate il coraggio delle scelte definitive e vivetele con fedeltà!” (discorso in occasione dell’incontro con i giovani nella cattedrale di Sulmona, 2 maggio 2010).

-“La cultura consumistica attuale tende ad appiattire l’uomo sul presente, a fargli perdere il senso del passato, della storia; ma così facendo lo priva anche della capacità di comprendere se stesso, di percepire i problemi, e di costruire il domani. Quindi, cari giovani e care giovani, voglio dirvi: il cristiano è uno che ha buona memoria, che ama la storia e cerca di conoscerla” (discorso in occasione dell’incontro con i giovani a Torino, 4 luglio 2010).

-“La Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla «sua» Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr 1Cor 12,12). La Chiesa non vive di se stessa, bensì del Signore. Egli è presente in mezzo ad essa, e le dà vita, alimento e forza” (omelia per la Messa conclusiva della XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, Madrid, 21 agosto 2011).

-“Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico tutti di cuore” (tweet del 12 dicembre 2012). -“Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. (…) Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice” (declaratio dell’11 febbraio 2013).

-“Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra” (saluto ai fedeli della diocesi di Albano, 28 febbraio 2013).










Caterina63
00mercoledì 18 marzo 2015 23:17



Il collaboratore di due papi intervistato dal settimanale Oggi: «Ma non si dedica più a scritti teologici. Dice di non avere più le forze per scrivere». Vatileaks? «Mi sento responsabile per non aver vigilato»

REDAZIONE
ROMA - 17.3.2015

 

In un'intervista al settimanale Oggi, monsignor Georg Gaenswein parlando di Benedetto XVI, di cui è segretario dal 2003, ricorda di aver pianto quando il Papa emerito ha lasciato il Palazzo apostolico per Castel Gandolfo, dopo la rinuncia al pontificato. «Mi sono commosso. Non sono di pietra. Dopo otto anni passati lì come segretario, stavo vivendo un momento storico. Invece, Papa Benedetto era sereno. Quella sera del 28 febbraio, tutte le emozioni trattenute fino ad allora sono diventate lacrime», dice.

E racconta la giornata di Benedetto XVI («Sta bene, per la sua età»), che ogni pomeriggio fa la sua passeggiata nei Giardini vaticani. «Lo accompagno di solito io. Recitiamo insieme il Rosario. Camminiamo una mezz'oretta. Papa Benedetto, che ha sempre avuto un passo svelto, adesso, su consiglio del medico, usa il girello durante la passeggiata e in casa il bastone. Le giornate cominciano sempre con la messa, e io concelebro con lui tutte le mattine. Durante il giorno prega, legge, studia, risponde alle tante lettere e, non raramente, la sera suona il pianoforte». E aggiunge: «Non si dedica più a scritti teologici o scientifici. Dice che, con i tre volumi su Gesù di Nazaret, ha concluso la sua opera teologica. Dice di non avere più le forze per scrivere. Nella santa messa della domenica tiene sempre un'omelia, senza appunti scritti. Ha un'ottima memoria».

Gaenswein riflette anche sul  suo ruolo, senza precedenti, di collaboratore di due papi. «Ho cominciato questo percorso con grande fede, energia, ma anche un po' di tremore. Ora, dopo due anni, è più facile. All'inizio ero più insicuro. Anche perché, in un primo momento, qualcuno non aveva ben accolto la presenza del Papa emerito in Vaticano. Poi l'atteggiamento accogliente di Papa Francesco verso Benedetto XVI è stato, ed è, esemplare. Tra i due c'è davvero un rapporto molto cordiale e rispettoso», dice.

Ricordando lo scandalo Vatileaks e la rinuncia al pontificato di Ratzinger, l'arcivescovo Georg Gaenswein, spiega così il suo stato d'animo: «Umanamente è stato un periodo difficile, ho vissuto una delusione, mi sono sentito tradito. Ma la fiducia di Papa Benedetto nei miei confronti non è mai mancata. Io mi sono sentito, in un certo senso, responsabile per non aver vigilato in modo adeguato, per aver dato fiducia a chi non la meritava. Certo, anche tra gli apostoli c'è stato chi ha tradito. Ma quando ho capito che a farlo era stata una persona così vicina al Papa, sono rimasto molto scosso... Quando ci ripenso, sento fitte nel cuore».



Caterina63
00martedì 14 aprile 2015 19:32

  Benedetto XVI, un cuore bavarese, cronaca di un incontro





Caterina63
00venerdì 15 maggio 2015 18:40

  BENEDETTO XVI «SONO LA FINE DEL VECCHIO E L'INIZIO DEL NUOVO»



 


 

 

Il nostro ultimo incontro risale a ben dieci settimane prima della storica rinuncia. Il Papa mi aveva accolto nel Palazzo Apostolico per proseguire i nostri colloqui finalizzati al lavoro sulla sua biografia. L’udito era calato; l’occhio sinistro non vedeva più; il corpo smagrito, tanto che i sarti facevano fatica a tenere il passo con nuovi abiti. È diventato molto delicato, ancora più amabile e umile, del tutto riservato. Non appare malato, ma la stanchezza che si era impossessata di tutta la sua persona, corpo e anima, non si poteva più ignorare.


Abbiamo parlato di quando ha disertato dall’esercito di Hitler; del suo rapporto con i genitori; dei dischi su cui imparava le lingue; degli anni fondamentali sul «Mons doctus», il monte dei dotti di Freising dove da 1.000 anni l’élite spirituale del Paese viene introdotta ai misteri della fede. Qui aveva tenuto le sue primissime prediche davanti a un pubblico di scolari, da parroco aveva assistito gli studenti e nel freddo confessionale del Duomo aveva dato ascolto alle pene della gente. 

Ad agosto, durante un colloquio a Castel Gandolfo, durato un’ora e mezzo, gli avevo chiesto quanto lo avesse colpito l’affare Vatileaks. «Non mi lascio andare a una sorta di disperazione o di dolore universale – mi ha risposto – semplicemente mi appare incomprensibile. Anche considerando la persona (Paolo Gabriele, ndr ), non capisco cosa ci si possa aspettare. Non riesco a penetrare la sua psicologia». Sosteneva tuttavia che l’evento non gli aveva fatto perdere la bussola né gli aveva fatto sentire la stanchezza del suo ruolo, «perché può sempre accadere». L’importante per lui era che nell’elaborazione del caso «in Vaticano sia garantita l’indipendenza della giustizia, che il monarca non dica: adesso me ne occupo io!».

Mai lo avevo visto così esausto, così prostrato. Con le ultime forze rimaste aveva portato a termine il terzo volume della sua opera su Gesù, «il mio ultimo libro», come mi ha detto con sguardo triste al momento dei saluti. Joseph Ratzinger è un uomo incrollabile, una persona capace sempre di riprendersi rapidamente. Mentre due anni addietro, malgrado i primi disturbi dell’età, appariva ancora agile, quasi giovanile, ora percepiva ogni nuovo raccoglitore che approdava sulla sua scrivania da parte della Segreteria di Stato come un colpo.


«Cosa ci si deve ancora aspettare da Sua Santità, dal Suo pontificato?», gli ho chiesto. «Da me? Da me non molto. Sono un uomo anziano e le forze mi abbandonano. Penso che basti ciò che ho fatto». Pensa di ritirarsi? «Dipende da cosa mi imporranno le mie energie fisiche». Lo stesso mese ha scritto a uno dei suoi dottorandi che il successivo incontro sarebbe stato l’ultimo. Pioveva a Roma, nel novembre del 1992, quando ci incontrammo per la prima volta nel Palazzo della Congregazione per la dottrina della fede. La stretta di mano non era di quelle che ti spezzano le dita, la voce piuttosto insolita per un «panzerkardinal», mite, delicata. Mi piaceva come parlava delle questioni piccole, e soprattutto delle grandi; quando metteva in discussione il nostro concetto di progresso e chiedeva di riflettere se davvero si potesse misurare la felicità dell’uomo in base al prodotto interno lordo.
Gli anni lo avevano messo a dura prova. 

Veniva descritto come un persecutore mentre era un perseguitato, il capro espiatorio da chiamare in causa per ogni ingiustizia, il «grande inquisitore» per antonomasia, una definizione azzeccata quanto spacciare un gatto per un orso. Eppure nessuno l’ha mai sentito lamentarsi. Nessuno ha sentito uscire dalla sua bocca una cattiva parola, un commento negativo su altre persone, nemmeno su Hans Küng. Quattro anni dopo abbiamo trascorso insieme molte giornate, per parlare del progetto di un libro sulla fede, la Chiesa, il celibato e l’insonnia. Il mio interlocutore non camminava in giro per la stanza, come fanno abitualmente i professori. Non c’era in lui la minima traccia di vanità, né di presunzione. Mi colpivano la sua superiorità, il pensiero non al passo coi tempi ed ero in qualche modo sorpreso di udire risposte pertinenti ai problemi del nostro tempo, apparentemente quasi irrisolvibili, tratte dal grande tesoro di rivelazione, dall’ispirazione dei padri della Chiesa e dalle riflessioni di quel guardiano della fede che mi sedeva di fronte. Un pensatore radicale – questa era la mia impressione – e un credente radicale che tuttavia nella radicalità della sua fede non afferra la spada, ma un’altra arma molto più potente: la forza dell’umiltà, della semplicità e dell’amore.

Joseph Ratzinger è l’uomo dei paradossi. Linguaggio sommesso, voce forte. Mitezza e rigore. Pensa in grande eppure presta attenzione al dettaglio. Incarna una nuova intelligenza nel riconoscere e rivelare i misteri della fede, è un teologo, ma difende la fede del popolo contro la religione dei professori, fredda come la cenere.
Così come egli stesso è equilibrato, così insegnava; con la leggerezza che gli era propria, con la sua eleganza, la sua capacità di penetrazione che rende leggero ciò che è serio, senza privarlo del mistero e senza banalizzare la sacralità. Un pensatore che prega, per il quale i misteri di Cristo rappresentano la realtà determinante della creazione e della storia del mondo, un amante dell’uomo che alla domanda, quante strade portino a Dio, non ha dovuto riflettere a lungo per rispondere: «Tante quanti sono gli uomini».

È il piccolo Papa che con la matita ha scritto grandi opere. Nessuno prima di lui, il massimo teologo tedesco di tutti i tempi, ha lasciato al popolo di Dio durante il suo Pontificato un’opera altrettanto imponente su Gesù né ha redatto una cristologia. I critici sostengono che la sua elezione sia stata una scelta sbagliata. La verità è che non c’era un’altra scelta. Ratzinger non ha mai cercato il potere. Si è sottratto al gioco degli intrighi in Vaticano. Conduceva da sempre la vita modesta di un monaco, il lusso gli era estraneo e un ambiente con un comfort superiore allo stretto necessario gli era completamente indifferente.
 
Ma restiamo alle presunte piccole cose, spesso molto più eloquenti delle grandi dichiarazioni, dei congressi e dei programmi. Mi piaceva il suo stile pontificale; che il suo primo atto sia stata una lettera alla Comunità ebraica; che abbia tolto la tiara dallo stemma, simbolo anche del potere terreno della Chiesa; che ai sinodi vescovili chiedesse di parlare anche agli ospiti di altre religioni – anche questa una novità.

Con Benedetto XVI per la prima volta l’uomo al vertice ha preso parte al dibattito, senza parlare dall’alto verso il basso, bensì introducendo quella collegialità per la quale si era battuto nel Concilio. Correggetemi, diceva, quando presentava il suo libro su Gesù che non voleva annunciare come un dogma o apporvi il sigillo della massima autorità. L’abolizione del baciamano è stata la più difficile da attuare. Una volta ha preso per un braccio un ex studente che si inchinava per baciare l’anello, dicendogli: «Comportiamoci normalmente». Tante prime volte. Per la prima volta un Papa visita una sinagoga tedesca (e successivamente più sinagoghe nel mondo di tutti i papi prima di lui messi assieme). Per la prima volta un Papa visita il monastero di Martin Lutero, un atto storico senza eguali.

Ratzinger è un uomo della tradizione, si affida volentieri a ciò che è consolidato, ma sa distinguere quello che è davvero eterno da quello che è valido solo per l’epoca da cui è emerso. E se necessario, come nel caso della messa tridentina, aggiunge il vecchio al nuovo, poiché insieme non riducono lo spazio liturgico, bensì lo ampliano.
Non ha fatto tutto giusto, ma ha ammesso gli errori, anche quelli (come lo scandalo Williamson) di cui non aveva alcuna responsabilità. Di nessun fallimento ha sofferto di più che di quello dei suoi preti, anche se da prefetto aveva già avviato tutte le misure che consentivano di scoprire i terribili abusi e punire i colpevoli. Benedetto XVI se ne va, ma la sua eredità resta. Il successore di questo umilissimo Papa dell’era moderna seguirà le sue orme. Sarà uno con un altro carisma, un proprio stile, ma con la stessa missione: non incentivare le forze centrifughe, ma coloro che tengono insieme il patrimonio della fede, che restano coraggiosi, annunciano un messaggio e fanno una testimonianza autentica.
 
Non è un caso che il Papa uscente abbia scelto il Mercoledì delle Ceneri per la sua ultima grande liturgia. Vedete, vuole dimostrare, era qui che vi volevo portare fin dall’inizio, questa è la via. Disintossicatevi, rasserenatevi, liberatevi dalla zavorra, non fatevi divorare dallo spirito del tempo, non perdete tempo, desecolarizzatevi! Dimagrire per aumentare di peso è il programma della Chiesa del futuro. Privarsi del grasso per guadagnare vitalità, freschezza spirituale, non da ultimo ispirazione e fascino. E bellezza, attrattiva, in fondo anche forza, per far fronte a un compito diventato tanto difficile. «Convertitevi», così disse con le parole della Bibbia quando segnò la fronte di cardinali e abati con la cenere, «e credete al Vangelo».«Lei è la fine del vecchio – chiesi al Papa nel nostro ultimo incontro – o l’inizio del nuovo?». La sua risposta fu: «Entrambi».
 
Peter Seewald
 
 FONTE Corriere della sera, 18 febbraio 2013, pagina 17




Caterina63
00venerdì 29 maggio 2015 23:54

Benedetto XVI e la crisi economica

Solo uomini nuovi
cambieranno i vecchi strumenti


È stato appena pubblicato l'Annale 2010 della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), dal titolo Un'economia per l'uomo. Ragioni dell'etica e provocazioni della fede, a cura di Luca Bilardo ed Emanuele Bordello (Roma, Edizioni Studium, 2011, pagine 199, euro 16). Pubblichiamo ampi stralci del contributo del presidente dell'Istituto per le opere di religione.

 

di ETTORE GOTTI TEDESCHI

È da quando ho ultimato gli studi universitari, nel 1971, che, alla fine di una crisi economica - e personalmente ne ho viste tante - viene proposta come soluzione l'imposizione di nuove regolamentazioni e di nuovi controlli. La crisi in questo modo diventa ancora più complessa: quando si è in difficoltà e si stabiliscono sistemi di controllo si irrigidisce tutto il sistema. Resta poi una domanda che non trova mai risposta: chi controlla i controllori? Non è lo strumento che fa marciare i processi, ma è l'uomo. Max Weber distinse, in modo opportunistico e machiavellico, l'etica personale della responsabilità dall'etica della convinzione.
Secondo il sociologo tedesco vi è quindi un'etica di chi ha la responsabilità di un determinato settore e quella di chi ne è veramente convinto. Come è possibile avere la responsabilità e praticarla, se non si è convinti? Il convincimento, cioè il riferimento a qualcosa di forte, di stabile, di vero, è determinante per poter ottenere risultati. Non esiste l'etica degli strumenti, l'etica del mercato, l'etica del capitalismo: esiste un uomo che dà senso etico ad ogni comportamento.

Le famiglie americane, a causa della crisi, hanno perso circa il 50 per cento dei propri investimenti, percentuale corrispondente al valore del crollo della ricchezza americana. Questo perché negli ultimi venticinque anni è stata gonfiata del 50 per cento tutta l'economia statunitense. Le famiglie hanno avuto il dimezzamento del valore della casa, dei risparmi, del fondo pensione, di fronte ora hanno un futuro fatto di debiti da pagare e di un alto rischio di disoccupazione.

Perché si è dovuto gonfiare per oltre dieci anni il Pil della più grande economia del mondo? La risposta corretta non la si trova di frequente, ma il Papa la fornisce nell'enciclica Caritas in veritate: perché trent'anni fa il sistema del mondo occidentale (Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone) ha smesso di fare figli.

Quando si afferma che l'origine della crisi è nell'uso sbagliato di strumenti finanziari, nell'avidità dei banchieri o nella mancanza dei controlli si dicono falsità. Perché l'economia è stata costretta a espandere il credito senza controllarlo? Perché si era inceppata negli anni Ottanta la crescita economica, il Pil dei Paesi occidentali cresceva troppo poco ed era legato alla crescita zero della popolazione.
Se la popolazione non cresce, non può crescere l'economia e quindi bisogna accontentarsi. Il mondo occidentale, ricco, avido di cose ed egoista, ha deciso di non accontentarsi e si è quindi inventata la crisi economica.

Benedetto XVI salverà il mondo: lo farà perché sta proponendo un radicale cambiamento culturale per l'uomo. Leggendo l'introduzione alla Caritas in ventate, si coglie come il Papa rimandi al primo comandamento del Decalogo, distinguendo esplicitamente e implicitamente verità e libertà.

Nella cultura dominante la libertà, che dall'Illuminismo si condisce con positivismo, relativismo, fino all'odierno nichilismo, precede la verità. L'uomo deve essere libero di trovare la verità, ma così facendo, non solo non la trova, ma la confonde con la libertà stessa.
Benedetto XVI invece ribadisce che occorre cambiare gli uomini, e non gli strumenti. Saranno infatti gli uomini nuovi a cambiare gli strumenti vecchi. La verità precede la libertà e non esiste vera libertà responsabile che non si riferisca ad una verità assoluta. Il Papa distrugge il pensiero nichilista, che porta l'uomo ad essere un animale intelligente, il quale orienta il suo agire solo all'appagamento dei bisogni materiali.

Se l'uomo infatti vivesse solo di questo genere di soddisfazioni oggi dovrebbe esultare, perché le conquiste della scienza e della tecnologia lo hanno portato a livelli mai raggiunti in passato. Se l'uomo è solo figlio del caos o del caso, quale dignità potrà mai pretendere? Quella di vivere il più a lungo possibile, magari senza malattie, ma nulla più. Il Papa può salvare l'uomo, nel senso che gli riapre gli occhi sulla sua reale dignità di Figlio di Dio.
Gli strumenti, in generale, sono tutti neutri. Le grandi iniquità che sono state compiute nel mondo della finanza non sono dovute soltanto a cattive interpretazioni o applicazioni delle regole della finanza. In più occasioni anche i Governi hanno sostenuto l'infrazione di alcune regole. Gli abusi veri ci sono perché si è permesso che ci fossero, non perché mancavano le strutture di controllo.
Esistono 23 boards, strutture di regolamentazione dei mercati finanziari, dal Financial stability board fino a quelle più periferiche che riguardano determinate aree geografiche. Un istituto finanziario oggi deve sottoporsi a 23 nuove regolamentazioni immediate con la minaccia di sanzioni fortissime.

Queste regole c'erano anche prima, ma non sono mai state rispettate. È l'uomo infatti che deve crescere da un'etica di responsabilità ad una nella quale crede veramente in quello che compie. Ecco perché oggi si parla di emergenza educativa, perché c'è bisogno di essere formati.
Nel sesto capitolo dalla Caritas in veritate troviamo un passaggio chiave, in modo diverso, ma con lo stesso spirito, già presente nella Sollicitudo rei socialis. Giovanni Paolo II si domandava come può l'uomo tecnologico, che cresce enormemente nella capacità di elaborare tecniche e strumenti sempre più sofisticati, gestire tali conoscenze nell'immaturità che lo caratterizza. Ancora una volta Benedetto XVI mette in guardia l'uomo del nostro tempo dalla deriva etica, la definitiva autonomia morale degli strumenti.



(©L'Osservatore Romano 1° maggio 2011)






 


Un incontro con il cardinale Georges Cottier

Vi spiego come leggere Ratzinger

 

di SILVIA GUIDI

"I libri noiosi esistono, come sappiamo tutti, ma non è questo il nostro caso, per fortuna". Il cardinale Georges Cottier, teologo emerito della Casa Pontificia sta spiegando "Come leggere Joseph Ratzinger". L'incontro, organizzato dalla Libreria Editrice Vaticana e coordinato da Neria De Giovanni e don Giuseppe Costa, si è svolto venerdì 18 febbraio nella Libreria Internazionale Paolo VI a Roma; lo spazio della libreria dedicato alle conferenze non è stato sufficiente a contenere tutte le persone presenti e molte sedie supplementari sono state aggiunte al piano terra, in mezzo agli scaffali dei libri, davanti a uno schermo che ha permesso a tutti di seguire il raffinato excursus del cardinale.

"Io suggerirei di prendere alla lettera il Papa - ha spiegato Cottier, parlando degli scritti e del pensiero del teologo diventato Benedetto XVI, dalle prime opere fino all'ultimo avvincente libro-intervista con Peter Seewald, Luce del mondo - la teologia è il tentativo umano, e quindi perfettibile, di indagare il mistero di Dio. Il teologo ha il suo punto di vista, può sbagliarsi e cambiare opinione. Il carisma del successore di Pietro, invece, ha il ruolo di mantenere nella Chiesa l'unità e la rettitudine del messaggio rivelato. Quando il Papa si firma Joseph Ratzinger intende ribadire questo; sembra una distinzione ovvia, ma temo non sia stata sufficientemente capita".

"Nell'opera del cardinale Ratzinger - continua Cottier - ci sono dei temi ricorrenti, uno di questi è il "divorzio" tra fede e ragione, un tema cruciale della modernità. La fede è stata ridotta a superstizione o sentimento, senza avere più niente a che fare con la verità. Ma la ragione è presente nella Bibbia, nella teologia cristiana, in Agostino, Tommaso, abbiamo grandissimi pensatori nella nostra tradizione. Il problema della nostra epoca è una ragione che pretende di essere sufficiente a se stessa e nega, ignora o bolla come irragionevole tutto ciò che non riesce a raggiungere con le proprie forze".

In ambito esegetico, un'analoga frattura è nata tra il "Cristo storico" e il "Cristo della fede". Il metodo storico-critico in esegesi - spiega il cardinale - "ha portato a risultati preziosi, ma bisogna diffidare di quelle "vite di Gesù" che tradiscono tale metodo e nelle quali l'autore parla più di se stesso che del Nazareno".

Se il Settecento aveva la ragione filosofica come misura, adesso è la ragione scientifica a proporsi come unico criterio di conoscenza. "I grandi spiriti pensano alle cose più evidenti che noi non vediamo - chiosa Cottier, continuando la sua "visita guidata" ai temi principali della teologia di Ratzinger - è il Verbo, il Lògos fatto carne di cui parla il Vangelo di Giovanni il ponte fra la ragione umana e la ragione divina. Dio si è rivelato, mi ha raggiunto, questo significa il Verbo si è fatto carne".

"Quello che stupisce di più di Benedetto XVI - conclude il teologo - è che rimane un uomo felice. Il tema della gioia è molto presente, anche nelle prediche, e tanti lettori sono rimasti colpiti dall'autenticità e dalla semplicità delle cose dette dal Papa in Luce del mondo. La gente si è chiesta: ma è lo stesso uomo di cui parlano i giornali, la stessa persona che viene trasformata dai media in una caricatura di cattivo gusto? In molte pagine del libro si riconosce un Papa rilassato, fiducioso, che si esprime con libertà senza nascondere niente. Prende atto senza censure della secolarizzazione e del relativismo che prevalgono nel vissuto reale di tanti. Davanti a questo, la sua serenità non sembra appoggiarsi su qualche sua trovata, o su qualche ricetta particolare; ripete semplicemente che a tenere accesa nella Chiesa la fiamma viva della fede è Gesù stesso".



(©L'Osservatore Romano 20 febbraio 2011)






Caterina63
00sabato 30 maggio 2015 01:51


Joseph Ratzinger e la teologia politica nel volume "L'unità delle nazioni.
Una visione dei Padri della Chiesa"

Senza verità la politica
è culto dei demoni

Nell'autunno del 1962 Joseph Ratzinger tenne una conferenza alla settimana della Salzburger Hochschule. Un breve estratto ne venne pubblicato nella rivista dei laureati cattolici "Der katholische Gedanke" (19, 1963, pp. 1-9) e una parte più vasta era stata già stampata in precedenza in "Studium Generale" (14, 1961, pp. 664-682). I due articoli vennero poi rielaborati nel volume Die Einheit der Nationen (1971), tradotto in Italia nel 1973 e ora riedito a cura del nostro direttore:  L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 120). Qui sotto pubblichiamo uno stralcio dell'ultimo capitolo del volume, l'introduzione del curatore e la recensione del libro scritta da uno dei maggiori studiosi di patristica e di storia del cristianesimo.

Come presso Origene, anche presso Agostino il punto di aggancio per la teologia della realtà politica risulta da una necessità della polemica. La caduta di Roma nell'anno 410 per opera di Alarico aveva chiamato in campo di nuovo la reazione pagana:  dove sono mai le tombe degli Apostoli? si gridava. Essi manifestamente non erano stati in grado di difendere Roma, la città che era rimasta invitta finché si era affidata alla tutela dei suoi dèi patri. La sconfitta di Roma dimostrò con evidenza palmare che il Dio creatore, che la fede cristiana adorava, non si prendeva cura delle vicende politiche; questo Dio poteva essere competente per la beatitudine dell'uomo nell'aldilà; che non fosse competente per l'ambito della realtà politica, l'avevano appena mostrato efficacemente gli eventi.

La politica aveva manifestamente la propria struttura di leggi, che non concerneva il Dio sommo, doveva quindi avere anche la propria religione politica. Ciò cui la massa aspirava, piuttosto per una sensibilità generale, voglio dire che, accanto alla religione elevata si dovesse dare anche una religione delle cose terrene, e specialmente di quelle politiche, era cosa che si poteva motivare pure più profondamente ancora partendo dalle convinzioni filosofiche dell'antichità.

Bastava solo ricordarsi dello assioma del pensiero platonico formulato da Apuleio:  "Tra Dio e l'uomo non v'è nessuna possibilità di contatto". Il platonismo era convinto nel senso più profondo della distanza infinita tra Dio e mondo, tra spirito e materia; che Dio si occupasse direttamente delle cose del mondo, doveva apparirgli del tutto impossibile. Il servizio divino per il mondo era curato da esseri intermedi, da forze di natura diversa, a cui ci si doveva attenere, quando si trattava delle cose di questo mondo.

In questa accentuazione eccessiva della trascendenza di Dio, che significava segregarlo dal mondo, escluderlo dai concreti processi di vita d'esso, Agostino scorgeva a ragione il nucleo vero e proprio della resistenza contro la rivendicazione di totalità da parte della fede cristiana, che non poteva mai tollerare un'emarginazione della realtà politica dall'ordine dell'unico Dio. Alla reazione pagana che tendeva a una restaurazione del rango religioso della pòlis e in tal modo a relegare la religione cristiana dell'aldilà nell'ambito  puramente  privato, egli contrappose anzitutto due precisazioni fondamentali.

La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore della consuetudine, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana - Scevola, Varrone, Seneca. Ci si assoggetta a pagare la tradizione con quanto si oppone alla verità. Il riguardo alla pòlis e al suo bene giustifica l'attentato contro la verità. Ciò vuol dire:  il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere delle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità.

Qui Agostino vede scoppiare in tutta la sua asprezza il contrasto vero e proprio:  secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata a esso.

Non è un assoluto il quale sia indipendente dagli interessi dei gruppi che la rappresentano, ma è un valore strumentale rispetto allo "Stato" assoluto. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta,  che quindi non viene istituita dallo  Stato,  ma ha istituito per se stessa  una  nuova  comunità,  la  qua- le   abbraccia  tutti  quanti  vivono  della verità di Dio. Partendo di qui, Agostino  ha  concepito la fede cristiana come liberazione:  liberazione per la verità dalla costrizione della consuetudine.

La religione politica dei Romani non ha alcuna verità, ma al di sopra di essa esiste una verità, e tale verità è che l'asservimento dell'uomo a consuetudini ostili alla verità lo pone in balìa delle potenze antidivine, che la fede cristiana nomina demoni. Perciò il servizio agli idoli ora non è, invero, solo uno stolto affaccendarsi senza oggetto, ma, consegnando l'uomo in balìa della negazione della verità, diviene servigio ai demoni:  dietro gli dèi irreali sta il potere sommamente reale del demone e dietro la schiavitù alla consuetudine v'è il servaggio agli ordini degli spiriti malvagi.
In ciò sta la vera profondità a cui scende la liberazione cristiana e la libertà conquistata in essa:  liberando dalla consuetudine affranca da un potere, che l'uomo ha egli stesso dapprima creato, ma che di gran lunga si è levato al di sopra del suo capo e ora è signore su di lui; è divenuto un potere oggettivo, indipendente da lui, breccia d'invasione da parte della potenza del male come tale, che lo sopraffà, cioè dei "demoni".

La liberazione dalla consuetudine per attingere la verità è emancipazione dalla potestà dei demoni che stanno dietro la consuetudine. In ciò il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione:  elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà. In ciò, il processo di pensiero di Agostino s'incontra con quello di Origene.

Come questi aveva inteso l'assolutezza religiosa dell'elemento nazionale quale opera degli angeli demoniaci delle genti e l'unità sovranazionale dei cristiani come liberazione dalla prigionia contro il fattore etnico, così anche Agostino riporta la realtà politica nel senso antico, cioè la divinizzazione della pòlis, alla categoria del demoniaco e nel cristianesimo vede il superamento del potere demoniaco della politica, che aveva oppresso la verità.

Anche per lui gli dèi dei pagani non sono vuote illusioni, ma la maschera fantastica, dietro la quale si celano potestà e dominazioni, che precludono all'uomo l'accesso ai valori assoluti, rinserrandolo nel relativo. E anch'egli nell'elemento politico scorge il dominio vero e proprio di queste potenze. È vero che Agostino ha riconosciuto il suo valore di verità all'idea di Evemero che tutti gli dèi siano stati in origine una volta uomini, cioè che ogni religione (dei pagani) poggi su una iperbolizzazione di sé da parte dell'uomo, ma ha visto al tempo stesso che l'enigma delle religioni pagane, con questa ammissione, non è affatto risolto. Le potenze, che apparentemente l'uomo fa scaturire e proietta da se stesso, presto si dimostrano oggettive ipostasi di potere,  "demoni", che esercitano su di lui  una signoria sommamente reale. Da  esse  può liberare solo Colui che ha potere su tutte le potestà:  Dio medesimo.

Se qui, a conclusione, ci chiediamo quale sia la risultanza complessiva dell'indagine, dobbiamo constatare che anche Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro.
Quanto sia precaria la causa di un cristiano, glielo aveva mostrato l'anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase "Stato terreno" e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse.

Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo Stato "scitico"; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest'età del mondo,  da  desiderare  un rinnovamento dell'Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un'entità  provvisoria  e  non  cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana,  ma lascia che esso sia mondo,  che  deve  tendere  lottando  a conseguire il proprio relativo ordinamento.

In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, "rivoluzionario", poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio assoluto e all'unico mediatore tra Dio e l'uomo:  Gesù Cristo.



(©L'Osservatore Romano 23 gennaio 2011)






LA LETTURA
Giovanni Paolo II
 

La morte di Giovanni Paolo II e don Luigi Giussani; il cardinal Ratzinger che denuncia "la sporcizia nella Chiesa" e poi viene eletto Papa; la battaglia sulla Legge 40 e il "modello Zapatero" per la distruzione della famiglia; Abu Mazen eletto presidente palestinese e le prime elezioni in Iraq del dopo Saddam; gli attentati di Londra e le guerre ed epidemie in Africa.

In dieci anni il mondo è molto cambiato, ma per noi il vero Padrone del mondo è il Nostro Signore Gesù Cristo...

di Enrico Cattaneo

Attentati di Londra 2005

Fare memoria è anche un modo per leggere la storia e comprendere meglio il nostro presente. Penso ai giovani che oggi hanno vent’anni, e dieci anni fa erano ancora dei ragazzi che non potevano sapere e comprendere tutto quello che allora accadeva. 

L’anno 2005 è stato molto importante per la Chiesa Cattolica. Infatti il 2 aprile, terminava il suo viaggio terreno il Papa Giovanni Paolo II (Karol Jósef Wojtyła), all’età di 85 anni, dopo un pontificato durato 26 anni, 5 mesi e 17 giorni, uno dei più lunghi della storia dei 264 papi di Roma. Era il sabato, vigilia della II domenica di Pasqua, che egli stesso volle che fosse chiamata “Domenica della divina Misericordia”. Nove anni più tardi, il 27 aprile 2014, egli sarebbe stato proclamato santo da Papa Francesco, assieme a papa Giovanni XXIII (clicca qui). L’8 aprile si svolsero i suoi funerali, alla presenza dei principali capi di Stato di tutto il mondo. L’omelia fu tenuta dal card. Ratzinger. Nei giorni precedenti si calcola che una folla dai 3 ai 5 milioni di persone abbiano reso omaggio al suo feretro. Quell’anno la Pasqua cattolica era caduta il 27 marzo, e la consueta Via Crucis al Colosseo nel Venerdì Santo fu guidata dal card. J. Ratzinger, mentre Giovanni Paolo II era già molto grave. Fu in quella circostanza che l’allora Prefetto della Congregazione della Fede scrisse quelle parole che suonarono a molti troppo severe: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!». E ancora: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Poteva sembrare una critica al pontificato di Giovanni Paolo II, ma non è possibile pensarlo; era piuttosto la constatazione di quanto nella Chiesa fosse venuta meno l’obbedienza sincera e piena al Magistero, dal momento che molti, più o meno direttamente, stavano in realtà “remando contro”.

Il 19 aprile proprio il Card. Joseph Ratzinger veniva eletto Papa alla quarta votazione, assumendo il nome di Benedetto XVI. Nel suo primo messaggio ai cardinali elettori, Benedetto XVI disse: «Se è enorme il peso della responsabilità che si riversa sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza divina su cui posso contare». In quell’anno, Giovanni Paolo II nell’ottobre del 2004 aveva indetto l’Anno dell’eucaristia, che sarebbe terminato nell’ottobre del 2005. Nel frattempo a Colonia (Germania) dal 16 al 21 agosto si tenne la XX Giornata Mondiale della Gioventù, che aveva come tema “Siamo venuti per adorarlo”, ed ebbe la presenza di papa Benedetto XVI. Nella veglia con i giovani, il Papa disse queste forti parole: «I santi... sono i veri riformatori... Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l'intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d'orientamento. L'assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l'uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l'amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l'amore?».

A proposito di santi, nel 2005 Giovanni Paolo II non fece nessuna canonizzazione. Invece Benedetto XVI ne fece cinque (il 23 ottobre):  Giuseppe Bilczewski (1860-1923), arcivescovo di Leopoli; Gaetano Catanoso (1879-1963), sacerdote, fondatore delle Suore Veroniche del Volto SantoZygmunt Gorazdowski(1845-1920), sacerdote, fondatore delle Suore di San GiuseppeAlberto Hurtado (1901-1952), sacerdote gesuita, cileno, fondatore del movimento Hogar de Cristo; Felice da Nicosia (1715-1787), laico professo dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.

Intanto la Chiesa cattolica in Italia dal 21 al 29 maggio del 2005 aveva celebrato il suo XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, con il tema “Senza la domenica non possiamo vivere”. Intervennero molti relatori, tra i quali i cardinali Ruini (allora Presidente della CEI), Betori (allora Segretario generale), Kasper (allora presidente del Pontif. Cons. Unità dei Cristiani) e Tettamanzi (allora arcivescovo di Milano). Nella giornata conclusiva intervenne anche Benedetto XVI, il quale nell’omelia finale disse tra l’altro queste parole: «L’Eucaristia – ripetiamolo – è sacramento dell’unità. Ma purtroppo i cristiani sono divisi, proprio nel sacramento dell’unità. Tanto più dobbiamo, sostenuti dall’Eucaristia, sentirci stimolati a tendere con tutte le forze a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel Cenacolo. Proprio qui, a Bari, felice Bari, città che custodisce le ossa di San Nicola, terra di incontro e di dialogo con i fratelli cristiani dell’Oriente, vorrei ribadire la mia volontà di assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Sono cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo. Chiedo a voi tutti di prendere con decisione la strada di quell’ecumenismo spirituale, che nella preghiera apre le porte allo Spirito Santo, che solo può creare l’unità». 

Per quanto riguarda i cattolici italiani, il 22 febbraio 2005 spirava a Milano a 83 anni don Luigi Giussani, il fondatore di “Comunione e Liberazione”. Le esequie nel duomo di Milano furono presiedute il 24 febbraio proprio dall’inviato di Giovanni Paolo II, il Card. Ratzinger, il quale tenne anche l’omelia. In occasione del settimo anniversario della morte, il 22 febbraio 2012 è stato dato l'annuncio della formale richiesta di Nihil obstat alla Santa Sede per dare inizio alla fase diocesana del processo per la causa di beatificazione e canonizzazione di don Luigi Giussani. Dopo l'ottenimento del Nihil obstat, dal 13 aprile 2012 Luigi Giussani è Servo di Dio.

Nel 2005 i cattolici italiani sono stati coinvolti nella questione riguardante la cosiddetta Legge 40 del 19 febbraio 2004 sulla “procreazione medicalmente assistita” (FIVET). Questa legge era finalizzata a «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall'infertilità umana [...] qualora non vi siano altri metodi efficaci per rimuovere le cause di sterilità o di infertilità». Nell’articolo 2 poi si afferma che lo Stato promuove «ricerche sulle cause patologiche, psicologiche, ambientali e sociali dei fenomeni della sterilità e dell'infertilità» e favorisce «gli interventi necessari per rimuoverle nonché per ridurne l'incidenza», ma nel rispetto di «tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Alle tecniche di procreazione assistita possono accedere solo «coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». È vietato il ricorso a tecniche di fecondazione eterologa ed è vietata l'eugenetica.

La legge prevede un limite di produzione di embrioni «comunque non superiore a tre» e con l'obbligo di «un unico e contemporaneo impianto». L'articolo 14 vieta la crioconservazione degli embrioni, per ridurre il soprannumero di embrioni creato in corso di procreazione assistita. La crioconservazione è però consentita per temporanea e documentata causa di forza maggiore, non prevedibile al momento della fecondazione. La promulgazione di questa legge 40 fu vista dalla minoranza parlamentare (di cultura radical-liberale) come una bruciante sconfitta, e così propose un referendum popolare per abrogarla e tornare così alla più totale anarchia. Il referendum fu accettato dalla Corte Costituzionale, e pose i cattolici in un serio dilemma. 

La Legge 40 infatti non si basava certamente sui principi morali della dottrina cattolica, che peraltro in questo campo non fa che applicare la legge naturale, cioè sostenere il concepimento per via naturale (solo all’interno della quale è possibile un intervento di assistenza medica) e il rispetto della vita umana, compresa quella dell’embrione. Ora votare per l’abrogazione della Legge 40 avrebbe significato il ritorno alla discrezionalità più assoluta, mentre votare per il suo mantenimento avrebbe significato dare un’approvazione a ciò che in coscienza i cattolici e gli uomini di retta ragione non potevano approvare. I vescovi, guidati dal Card. Ruini, suggerirono allora la via dell’astensione. Così quando il 12 e 13 giugno 2005 si tenne il referendum, partecipò solo il 25,9% degli aventi diritto, perciò non fu raggiunto il quorum e la Legge 40 rimase. È in quel contesto che nacque l’Associazione Scienza e Vita. Negli anni successivi però ci pensarono i pronunciamenti della Corte Costituzionale a smantellarla, così che oggi si può dire che ben poco di quella legge sia rimasto in piedi (leggi qui).

Su queste tematiche, è bene ricordare che in Spagna, sotto il governo del socialista Zapatero, con la legge n. 13/2005, approvata dalle Cortes Generales il 30 giugno 2005 ed entrata in vigore il 3 luglio dello stesso anno, nell’ordinamento spagnolo si è modificato il diritto di famiglia, in quanto è stata estesa, per la prima volta nel Paese iberico, la possibilità di contrarre matrimonio civile anche alle coppie omosessuali (c.d. ‘matrimonio omosessuale’).

Per completare la panoramica dei principali avvenimenti del 2005, ricordiamo che il 15 gennaio fu eletto Abu Mazen alla presidenza dell'Autorità Nazionale Palestinese, carica precedentemente ricoperta fino alla morte dal leader palestinese Yāser Arafāt. Abu Mazen è il primo presidente palestinese nominato sulla base dell'esito di una tornata elettorale. Pur essendo il suo mandato scaduto il 23 novembre 2008, egli è ancora in carica, poiché ha prorogato unilateralmente la durata del suo mandato al 15 gennaio 2009, in base ad una clausola costituzionale, e poi è rimasto al suo posto alla scadenza di tale proroga.

Il 30 gennaio il popolo iracheno scelse i 275 rappresentanti della nuova Assemblea Nazionale Irachena (a maggioranza sciita). Questo voto rappresentò la prima elezione generale dall'invasione statunitense dell'Iraq nel 2003 e fu un passo importante nel passaggio del controllo del paese della coalizione occidentale agli Iracheni, ma di fatto la guerra intestina tra sunniti e sciiti e quella contro la coalizione occidentale non fece che intensificarsi, fino all’attuale situazione disastrosa, con l’ISIS che occupa gran parte del nord Iraq.

Il 7 luglio avvennero a Londra alcuni attentati suicidi in contemporanea su bus e metro, causando 55 morti e 700 feriti. Essi furono rivendicati dall’organizzazione terroristica islamica Al-Qaida. Il 23 luglio a Sharm el-Sheick, località turistica sul Mar Rosso (Egitto) un attentato suicida di matrice islamica provocò 88 morti e circa 150 feriti. In agosto, gli ultimi coloni israeliani lasciano la striscia di Gaza.

In Africa anche nel 2005, carestie, malattie come malaria e AIDS, guerre civili hanno generato milioni di profughi e rifugiati. Ampie zone del Sudan, della Repubblica Democratica del Congo, dell’Uganda e del Burundi sono state sconvolte da drammatici conflitti nei quali le vittime principali sono stati i civili, e in particolare donne e bambini. Altre tensioni sono nate da conflitti sulla distribuzioni delle risorse, in particolare petrolifere come in alcune zone della Nigeria. In Kenya il 14 luglio fu assassinato monsignor Luigi Locati, vescovo di Isiolo, un uomo forse troppo buono, che però dava fastidio a qualcuno

Può forse essere interessante ricordare che nel febbraio 2005 fu progettato YouTube e messo in rete nell’aprile. Guardando ora a questi ultimi dieci anni, si può dire che il mondo è profondamente cambiato, e certamente non in meglio. Basta ricordare la crisi economica scoppiata nel 2007/8; le cosiddette “primavere arabe” (Tunisia, Egitto, Libia, Siria...) con la caduta dei “dittatori” e quello che ne è seguito; la nascita dell’ISIS (= Islamic State of Iraq and Syria), con le sue decapitazioni, deportazioni, massacri; la diffusione della sua ideologia in Africa (Somalia, Nigeria, Mali...); il martirio dei cristiani; il dramma dei profughi nel Mediterraneo... Era stato profeta Benedetto XVI quando proprio nel 2005 disse che la dittatura del relativismo era la sfida principale che la Chiesa e l'umanità avrebbero dovuto affrontare.

Tutti questi avvenimenti del 2005 avvennero mentre il Presidente degli Stati Uniti era George W. Bush, quello della Russia, Vladimir Putin; in Italia il Capo dello Stato era Carlo Azelio Ciampi, il Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e Antonio Fazio era Governatore della Banca d’Italia (fino al 29 dicembre, quando gli subentrò Mario Draghi). 

Ma per noi il vero Padrone del mondo era ed è il nostro Signore Gesù Cristo, Re di giustizia e di pace, al quale sia gloria ora e per sempre. A Lui si devono tutti gli atti di bontà, di altruismo, dedizione, di impegno per la verità, la giustizia, la solidarietà, tutte cose che non rientrano nelle cronache e nei libri di storia, ma che contribuiscono a rendere il mondo più umano e più divino.

   

 


 

Caterina63
00giovedì 11 giugno 2015 21:55


A Natale cenava qui da noi Ratzinger (*)


«Fino a tre anni fa, il cardinale Ratzinger mangiava qui da noi anche nei giorni delle feste di Natale. Questo è il terzo presepe senza la sua dolce presenza tra i nostri tavoli».

La voce di Roberto Fulvinari, abruzzese, classe 1934, è velata di nostalgia.

Certo, in queste sere il suo ristorante in Borgo Pio, “Al Passetto di Borgo”, è tutto un brindisi, di fedeli italiani e stranieri. Ma lui non si rassegna.

«Sono un po’ testone come mio padre Antonio, un po’ sognatore come mia madre Elvira: facevano i contadini a Capitignano, in provincia dell’Aquila. Prima di passare dalla stalla dei buoi, la mattina, andavano sempre a messa: senza l’aiuto del cielo, dicevano a me e a mia sorella Margherita, non c’è l’allegria nel cuore dell’uomo. E a me, l’aiuto dall’alto, per 25 anni, l’ha dato proprio Ratzinger: prima da vescovo poi da cardinale. Mio cliente fisso di questo locale che avevo preso nel 1962, dopo un tirocinio in una rosticceria durante le Olimpiadi del ‘60».

Anche i giornali stranieri scrivono che il suo è stato davvero il ristorante di Benedetto XVI.

«È la verità, e lo dichiaro a testa alta. Io e mia moglie Augusta ci siamo conosciuti da piccoli a Capitignano. Là ci siamo sposati, e abbiamo sfidato il mondo intero per aprire questo locale a due passi dal Vaticano. Un giorno cucineremo per vescovi e cardinali, ci siamo giurati, e così è stato».

Ma com’è capitato qui il vescovo Ratzinger?

«Per caso, come oggi il cardinale Martins o ieri quello di Boston che stava in carrozzella. I primi tempi veniva con sua sorella Maria, che era più anziana di lui. Con loro c’era sempre il vescovo Mayer e la rispettiva sorella. Mangiavano, e poi chiacchieravano a lungo in tedesco».

Qual era il menu preferito del futuro Papa?

«Spaghetti alla Carbonara, due fettine di vitella, un carciofo alla romana, e un po’ di crostata di marmellata fatta da mia moglie».

Non ha mai scattato una foto a Ratzinger?

«Ho due figli, Antonello, che oramai sta prendendo le redini del locale, e Giulia, che ha una profumeria. Lui è un testone come me: non dobbiamo farci pubblicità con le foto dei clienti, diceva sempre, e oggi gli do ragione!»

Ratzinger ha voluto davvero bene alla sua famiglia.

Anche a Billy...


«Già, Billy era un cagnolino bastardo, dal mantello nero e dal muso bianco e marrone, che ha vissuto con noi per 18 anni. Per rispetto ai clienti, lo tenevo fuori dal locale, ma Ratzinger andava a scovarlo, e se lo coccolava. Tre giorni prima del Conclave, il cardinale è passato di qui: “Come sta cagnolino Billy?”, mi chiese. Gli risposi che era morto, e lui ci rimase malissimo».

Tanti clienti vengono qui a spiare le sue ricette? 

«Soprattutto tedeschi. E vogliono mangiare proprio il menu “papale”, sedersi al suo tavolo preferito».

Da quando Ratzinger è diventato Papa, non l’ha più visto?

«Io no. Gli ho scritto un biglietto: Santità, complimenti, ma se vuole un piatto dei suoi preferiti, io glielo farò avere. Però ha ricevuto in udienza privata mia moglie, che soffre di discopatia alla colonna vertebrale. È strano, ma dopo quel colloquio sta meglio».

Come sarà qui al ristorante, il vostro Natale senza il “cliente” Ratzinger?

«Parleremo tutti di lui, del Papa dolce e buono. Ma al suo tavolo mi siederò io, con mia moglie e i miei tre nipoti». 

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(*) fonte: "Il ciabattino del Papa e altre storie" di Paolo Mosca - 2009


 



Caterina63
00martedì 14 luglio 2015 14:08
 Caste Gandolfo rivive grazie alla presenza di Benedetto XVI



La presenza del Papa emerito a Castel Gandolfo ha portato più turisti, come racconta il primo cittadino. "In questi quattrodici giorni - racconta Milvia Monachesi all’ Adnkrons- c'è stato molto più turismo a Castel Gandolfo. Il 30 giugno scorso, poi, al suo arrivo Ratzinger fece sostare la macchina nella piazza, raccogliendo l'affetto di tanti. Il fatto poi che il portone della residenza estiva sia rimasto aperto in questi giorni con la presenza dei gendarmi ha determinato grande interesse e affluenza e ci ha fatto capire che l'affetto per Benedetto XVI è  ancora molto grande".

Papa Benedetto è ritornato in Vaticano e ha salutato la città di Castelgandolfo che lo ringrazia con un un abbraccio di affetto. Il Papa ha inviato una lettera di ringraziamento ed un libro in dono al sindaco Milvia Monachesi.

"Gentilissima Signora Sindaco - scrive il Papa- non posso ritornare da Castel Gandolfo al mio Monastero a Roma senza aver comunicato a Lei una parola di sincero ringraziamento per il caloroso benvenuto che Lei mi ha trasmesso nel giorno del mio arrivo al Castello.

In queste due bellissime settimane di vacanze ho sentito confermato di nuovo quando avevo detto alcuni anni fa sulla bellezza naturale di Castel Gandolfo nella sintonia tra lago, montagne e mare e l’ospitalità della gente di questa piccola città. Mi sentivo in questi giorni portato dalla simpatia silenziosa degli abitanti di Castel Gandolfo.

Come segno concreto della mia gratitudine Le trasmetto un libro in occasione del X anniversario della mia elezione al soglio di San Pietro.

Con mi miei migliori auguri per Lei e la Sua città e con la mia benedizione". Il Sindaco Monachesi da parte sua ha risposto con una lettera di ringraziamento per le “parole inaspettate e graditissime, per la benedizione che ha voluto regalare a Castel Gandolfo ed ai suoi abitanti e per il prezioso libro di cui ha voluto farmi dono.

Siamo felici che Le sia giunta la nostra vicinanza silenziosa ma carica di affetto e  la nostra grande emozione per la Sua presenza. Il Suo saluto alla cittadinanza dalla macchina che ha fatto sostare sulla piazza, è stato per noi un grande dono e la conferma che di un legame profondo e duraturo. Nella certezza che la bellezza e la tranquillità dei luoghi.

L’abbiano aiutata a ritemprare il fisico e lo spirito, Le auguriamo un buon rientro a Roma, senza nasconderLe però il desiderio e la speranza di poterLa avere presto di nuovo con noi. Ci teniamo infine a farLe sapere, Santità, che ovunque sarà non Le mancherà mai la nostra preghiera e il nostro affetto. Ancora un sentitissimo grazie da tutta la comunità castellana".

Benedetto XVI aveva accettato l’invito di Papa Francesco a trascorrere un periodo nella residenza estiva dei Papi e si era recato il 30 giugno nella cittadina. Francesco, che avrebbe voluto accompagnarlo ma aveva avuto una udienza non prevista ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dall’International Council of Christians and Jews, aveva salutato Papa Benedetto al Monastero Mater Ecclesiale.

La presenza del Papa emerito a Castel Gandolfo ha portato più turisti, come racconta il primo cittadino. "In questi quattrodici giorni - racconta Milvia Monachesi all’ Adnkrons- c'è stato molto più turismo a Castel Gandolfo. Il 30 giugno scorso, poi, al suo arrivo Ratzinger fece sostare la macchina nella piazza, raccogliendo l'affetto di tanti. Il fatto poi che il portone della residenza estiva sia rimasto aperto in questi giorni con la presenza dei gendarmi ha determinato grande interesse e affluenza e ci ha fatto capire che l'affetto per Benedetto XVI è  ancora molto grande".

Alla residenza estiva di Castel Gandolfo, gli abitanti continuano ad attendere con trepidazione anche papa Francesco. "Il 24 scorso - spiega il sindaco - sono stata in udienza in piazza San Pietro. Quando il Pontefice mi ha stretto la mano, simpaticamente si è lasciato andare ad una battuta: 'Lei è arrabbiata con me?', alludendo al fatto che da quando è stato eletto non ha mai fatto vacanze a Castello. "Io ho risposto che la speranza non muore mai e che lo aspettiamo".


   


“Le persone volevano, sì, vedere Benedetto XVI, ma lo volevano soprattutto ascoltare”.É questa la chiave del volume che la Libreria Editrice Vaticana in italiano ha edito per l’Istituto Papa Benedetto XVI di Ratisbona in collaborazione con la editrice Schnell & Steiner. E a dirlo è il segretario personale del Papa emerito, l’arcivescovo Georg Gänswein Prefetto della Casa Pontificia. Un libro che nasce per i dieci anni della elezione di Joseph Ratzinger al Soglio di Pietro. Si la chiave del pontificato del teologo tedesco contemporaneo più significativo è l’ascolto, la parola, il ragionamento cristallino e chiaro, le ampie vedute e la vastità degli argomenti trattati.

Il pensiero di Joseph Ratzinger non può essere rappresentato da una sola voce. Per questo il libro “Benedetto XVI servo di Dio e degli uomini” , che viene presentato oggi in vaticano, è un libro corale. Fatto non solo di voci di chi con lui ha lavorato e ancora lavora, come il cardinale Gerhard Müller che si occupa della edizione della Opera Omnia e che nel 2008 ha fondato l’ Istituto Papa Benedetto XVI. O come padre Stephan Otto Horn, anima dello Schulerkreis che nel libro si occupa delle catechesi incentrate sui Padri della Chiesa che Benedetto XVI ha proposto nelle catechesi del mercoledì. L’interpretazione teologica del Papa emerito si basa anche su una conoscenza approfondita degli scritti e della storia della Chiesa e del mondo. Le catechesi erano un invito ad avvicinarsi allo studio dei Padri e a riscoprirne l’importanza. Benedetto ha sviluppato il proprio pensiero dai Padri. Così come fondamentale è l’amore per la liturgia che lo accompagna ancora oggi nella sua vita quotidiana, frutto dell’interesse per il rinnovamento liturgico nato da teologi come Romano Guardini. E di questo scrive il vescovo Voderholzer.

Ma le voci sono tante. Anche se non tutte conosciute al grande pubblico (una piccola pecca non ci sono riferimenti biografici degli autori).A cominciare da quella di George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, che del legame tra San Giovanni Paolo II e il teologo del suo pontificato scrive definendo il rapporto tra i due “una collaborazione intellettuale straordinaria”. E c’è anche un ampio capitolo dedicato al rapporto tra Benedetto e Francesco. Lo scrive il curatore dell’intero volume dimostrando la grande stima di Papa Bergoglio per la sobrietà e la umiltà del suo predecessore.

Tra i cardinali che affrontano i diversi temi del pontificato, Kurt Koch illustra la conciliarità di Papa Benedetto, mentre Paul-Josef Cordes ha messo al centro il tema dei movimenti e le nuove realtà spirituali, e il cardinale Joachim Meisner mette in luce come le tre virtù teologali siano concretezza nel pensiero di Benedetto XVI: fede, speranza e carità.

Così come la fede del milioni di giovani che a Colonia alla GMG hanno adorato in silenzio il Sacramento sull’ altare invece di farsi stordire da canti e danze. Anche della “generazione Benedetto” si parla nel libro. Come si parla di ecumenismo grazie a Wolfgang Thönissen chetraccia il profilo di un ecumenismo che potrà portare davvero all’unità solo se l’orientamento è dettato da Cristo.

Tra gli autori anche alcuni di coloro che hanno ricevuto il Premio della Fondazione Ratzinger, comeL’abate Stefan Heim che mette al centro della sua riflessione la missione della Chiesa.

Non poteva mancare una lettura del “ Gesù di Nazaret”. Un’opera che Papa Francesco definito un “dono alla Chiesa, e a tutti gli uomini, di ciò che aveva di più prezioso: la sua conoscenza di Gesù, frutto di anni e anni di studio, di confronto teologico e di preghiera.”

Ed è al rabbino Teitelbaum che si deve il capitolo sul dialogo con i “fratelli maggiori di fede” : Fu lui durante la Giornata mondiale della gioventù di Colonia a ricevere il Papa in Sinagoga.

Del rapporto di Benedetto XVI con la politica scrive il cardinale Marx, ripercorrendo i grandi discorsi fatti del Papa nel suo viaggio in Germania, anticipazione di molti dei temi della attuale fase di riforma delle strutture ecclesiastiche.

Uno dei pregi del volume è che ogni testo è agile, snello, divulgative se pur profondo e accurato. 
Ma quello che non ti aspetti da un volume su un grande teologo è di trovare un grande libro fotografico. Sono le foto di un pontificato che in meno di otto anni ci ha raccontato tutto. Anche se mancano le didascalie le foto parlano:il Papa con i bambini, il Papa con i grandi della terra, il Papa con i giovani, il Papa con i poveri, il Papa con i sacerdoti. Foto suggestive e storiche. Come storica è la copia degli appunti di Joseph Ratzinger al Concilio Vaticano II.

Dagli scritti si comprende che Joseph Ratzinger non ha mai messo se stesso al centro delle proprie azioni, piuttosto il suo obiettivo è sempre stato quello di condurre gli uomini a Cristo con molta attenzione e delicatezza, cosa che avviene solo se si riesce a distogliere l’attenzione dalla propria persona, per puntare la luce sui fatti.

Il libro è una occasione per allontanare lo sguardo dalla quotidianità della cronaca, dalle polemiche mediatiche, dalla curiosità banali, per comprendere cosa sono stati questi ultimi dieci anni per la Chiesa. Una occasione per capire anche che cosa ci si aspetta dal futuro non di un Papa, ma del Papato.

  riguardo al libro lo trovate qui ancora in offerta 
http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788820995249/benedetto-xvi-servo-di-dio-e-degli-uomini.html 





Caterina63
00giovedì 6 agosto 2015 16:59

EDITORIALE
Il papa emerito Benedetto XVI
 

Di fronte alle urgenze e alle confusioni del presente diventa a mio avviso sempre più importante non dimenticare la storica lectio magistralis che Benedetto XVI tenne a Ratisbona il 12 settembre 2006. Nota anche come “Discorso di Ratisbona”, centrata sul rapporto tra fede e ragione è oggi ancora più attuale di quando venne pronunciata. 

di Robi Ronza

Di fronte alle urgenze e alle confusioni del presente diventa a mio avviso sempre più importante non dimenticare la storica lectio magistralis che Benedetto XVI tenne a Ratisbona il 12 settembre 2006. Nota anche come “Discorso di Ratisbona”, la lectio fu oggetto di una campagna di disinformazione a causa delle quale in ambiente musulmano si dovettero purtroppo registrare reazioni scomposte e anche cruente.  Ciò provocò tra l’altro un oscuramento del suo sostanziale contenuto che ruota tutto attorno al legame necessario tra fede cristiana, verità e ragione (il riferimento all’Islam, che provocò tanto putiferio, è in effetti un semplice spunto).

Accessibile a chiunque grazie a Internet il discorso di Ratisbona (clicca qui), che riprende in estrema sintesi quanto Giovanni Paolo II nel 1998 aveva scritto nella sua enciclica Fides et Ratio, è oggi ancora più attuale di quando venne pronunciato. Viviamo in un’epoca di disorientamento e di confusione che per molti aspetti è più simile al Tardo Antico che al nostro passato recente. Forse poi  ancor più che in quell’epoca, compresa tra gli ultimi secoli dell’Impero romano e i primi della nuova Europa medioevale, oggi è in crisi la fiducia che grazie alla ragione si possa pacificamente giungere alla verità, ossia a qualcosa di vero e di buono per tutti. Come oggi si vede tutti i giorni, questa crisi giunge purtroppo fin dentro il popolo cristiano, fin dentro la Chiesa. Sorprende per contrasto la fermezza di cui si trova ampia documentazione, ad esempio, ne La conversione al cristianesimo nei primi secoli, la magistrale opera di Gustave Bardy che l’editore milanese Jaca Book ha ripubblicato in traduzione italiana pochi anni fa. 

Tutti gli argomenti che oggi vengono addotti per fare del dialogo non un metodo bensì un contenuto fine a se stesso, nonché per sommergere qualsiasi punto fermo sotto un’alluvione di melassa spacciata per amore all’altro, in quei primi secoli valevano cento volte più di adesso. Eppure, anche a rischio della vita, quegli antichi testimoni documentati nel libro di Bardy si dimostrano ben più capaci di restare fedeli a se stessi di molti che nell’Europa, e in genere nell’Occidente di oggi, al loro confronto rischiano ben poco (almeno per ora, anche se non si sa fino a quando).

È pur vero, tuttavia, che rispetto agli uomini del Tardo Antico noi abbiamo uno specifico svantaggio. Viviamo in un tempo in cui è venuta meno come mai prima la speranza che raggiungere la verità sia possibile. L’epoca che aveva preteso di avere il monopolio della ragione infine l’ha persa per strada. E con essa appunto ha perso anche la speranza della verità. A questo punto tocca sorprendentemente alla fede andare in soccorso della ragione. D’altra parte, sottolinea Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona «La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio», non è soltanto un pensiero greco, ma vale comunque. C’è, aggiunge Benedetto, una «profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia». Una concordanza che nessuna successiva “inculturazione” può rimettere in gioco. Tanto meno, osserviamo noi, l’inculturazione (se mai ce ne fosse bisogno) con l’attuale cultura di massa dell’epoca della globalizzazione, che tra l’altro non è affatto così universale come pretende di essere.

Ciò detto si apre il problema della ricerca di punti di appoggio immediato in una società sempre più “liquida”, ma non è questo il nocciolo della questione. Nella misura in cui non si possono più costruire case sulla roccia si costruiranno case natanti, nuove arche capaci di stare a galla anche sul pelago liquido della post-modernità. Non vale però la pena di scambiare la fede e la ragione con un “volemmose bbene” che non è di aiuto per nessuno, nemmeno per coloro che si vogliono aiutare.

   



XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA
DEL SINODO DEI VESCOVI

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI 
NEL CORSO DELLA PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE

Aula del Sinodo
Lunedì, 8 ottobre 2012

  

Cari Fratelli,

la mia meditazione si riferisce alla parola «evangelium» «euangelisasthai» (cfr Lc 4,18). In questo Sinodo vogliamo conoscere di più che cosa il Signore ci dice e che cosa possiamo o dobbiamo fare noi. E’ divisa in due parti: una prima riflessione sul significato di queste parole, e poi vorrei tentare di interpretare l’Inno dell’Ora Terza «Nunc, Sancte, nobis Spìritus», a pagina 5 del Libro delle Preghiere.

La parola «evangelium» «euangelisasthai» ha una lunga storia. Appare in Omero: è annuncio di una vittoria, e quindi annuncio di bene, di gioia, di felicità. Appare, poi, nel Secondo Isaia (cfr Is 40,9), come voce che annuncia gioia da Dio, come voce che fa capire che Dio non ha dimenticato il suo popolo, che Dio, il Quale si era apparentemente quasi ritirato dalla storia, c’è, è presente. E Dio ha potere, Dio dà gioia, apre le porte dell’esilio; dopo la lunga notte dell’esilio, la sua luce appare e dà la possibilità del ritorno al suo popolo, rinnova la storia del bene, la storia del suo amore. In questo contesto dell’evangelizzazione, appaiono soprattutto tre parole: dikaiosyne, eirene, soteria - giustizia, pace, salvezza. Gesù stesso ha ripreso le parole di Isaia a Nazaret, parlando di questo «Evangelo» che porta adesso proprio agli esclusi, ai carcerati, ai sofferenti e ai poveri.

Ma per il significato della parola «evangelium» nel Nuovo Testamento, oltre a questo – il Deutero Isaia, che apre la porta -, è importante anche l’uso della parola fatto dall’Impero Romano, cominciando dall’imperatore Augusto. Qui il termine «evangelium» indica una parola, un messaggio che viene dall’Imperatore. Il messaggio, quindi, dell’Imperatore - come tale - porta bene: è rinnovamento del mondo, è salvezza. Messaggio imperiale e come tale un messaggio di potenza e di potere; è un messaggio di salvezza, di rinnovamento e di salute. Il Nuovo Testamento accetta questa situazione. San Luca confronta esplicitamente l’Imperatore Augusto con il Bambino nato a Betlemme: «evangelium» - dice - sì, è una parola dell’Imperatore, del vero Imperatore del mondo. Il vero Imperatore del mondo si è fatto sentire, parla con noi. E questo fatto, come tale, è redenzione, perché la grande sofferenza dell’uomo - in quel tempo, come oggi - è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole della storia c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? Questa domanda oggi è così attuale come lo era in quel tempo. Tanta gente si domanda: Dio è una ipotesi o no? E’ una realtà o no? Perché non si fa sentire? «Vangelo» vuol dire: Dio ha rotto il suo silenzio, Dio ha parlato, Dio c’è. Questo fatto come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia. Gesù è la sua Parola, il Dio con noi, il Dio che ci mostra che ci ama, che soffre con noi fino alla morte e risorge. Questo è il Vangelo stesso. Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso e questa è la salvezza.

La questione per noi è: Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza? Di per sé il fatto che abbia parlato è la salvezza, è la redenzione. Ma come può saperlo l’uomo? Questo punto mi sembra che sia un interrogativo, ma anche una domanda, un mandato per noi: possiamo trovare risposta meditando l’Inno dell’Ora Terza «Nunc, Sancte, nobis Spìritus». La prima strofa dice: «Dignàre promptus ingeri nostro refusus, péctori», e cioè preghiamo affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi. Con altre parole: noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il «fare» nostro, ma con il «fare» e il «parlare» di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo «ha parlato» è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro. Dio ha parlato vuol dire: «parla». E come in quel tempo solo con l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto il Vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio. Perciò non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire - con Lui e in Lui - evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre, e sempre solo Lui può fare Pentecoste, può creare la Chiesa, può mostrare la realtà del suo essere con noi. Ma dall’altra parte, però, questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività.

Quindi quando facciamo noi la nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio, sta nell’insieme con Dio, è fondata sulla preghiera e sulla sua presenza reale.

Ora, questo nostro agire, che segue dall’iniziativa di Dio, lo troviamo descritto nella seconda strofa di questo Inno: «Os, lingua, mens, sensus, vigor, confessionem personent, flammescat igne caritas, accendat ardor proximos». Qui abbiamo, in due righe, due sostantivi determinanti: «confessio» nelle prime righe, e «caritas» nelle seconde due righe. «Confessio» e «caritas», come i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità, per la sua creatura: «confessio» e «caritas». E sono aggiunti i verbi: nel primo caso «personent» e nel secondo «caritas» interpretato con la parola fuoco, ardore, accendere, fiammeggiare.

Vediamo il primo: «confessionem personent». La fede ha un contenuto: Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella «confessione» che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione. Questo mostrarsi di Dio è tutto una Persona: Gesù come il Verbo, con un contenuto molto concreto che si esprime nella «confessio». Quindi, il primo punto è che noi dobbiamo entrare in questa «confessione», farci penetrare, così che «personent» - come dice l’Inno - in noi e tramite noi. Qui è importante osservare anche una piccola realtà filologica: «confessio» nel latino precristiano si direbbe non «confessio» ma «professio» (profiteri): questo è il presentare positivamente una realtà. Invece la parola «confessio» si riferisce alla situazione in un tribunale, in un processo dove uno apre la sua mente e confessa. In altre parole, questa parola «confessione», che nel cristiano latino ha sostituito la parola «professio», porta in sé l’elemento martirologico, l’elemento di testimoniare davanti a istanze nemiche alla fede, testimoniare anche in situazioni di passione e di pericolo di morte. Alla confessione cristiana appartiene essenzialmente la disponibilità a soffrire: questo mi sembra molto importante. Sempre nell’essenza della «confessio» del nostro Credo, è implicata anche la disponibilità alla passione, alla sofferenza, anzi, al dono della vita. E proprio questo garantisce la credibilità: la «confessio» non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la «confessio» implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione. Questo è proprio anche la verifica della «confessio». Si vede che per noi la «confessio» non è una parola, è più che il dolore, è più che la morte. Per la «confessio» realmente vale la pena di soffrire, vale la pena di soffrire fino alla morte. Chi fa questa «confessio» dimostra così che veramente quanto confessa è più che vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita. Proprio nella dimensione martirologica della parola «confessio» appare la verità: si verifica solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che «porto» la mia vita perché trovo la vita in questa confessione.

Adesso vediamo dove dovrebbe penetrare questa «confessione»: «Os, lingua, mens, sensus, vigor». Da San Paolo, Lettera ai Romani 10, sappiamo che la collocazione della «confessione» è nel cuore e nella bocca: deve stare nel profondo del cuore, ma deve essere anche pubblica; deve essere annunciata la fede portata nel cuore: non è mai solo una realtà nel cuore, ma tende ad essere comunicata, ad essere confessata realmente davanti agli occhi del mondo. Così dobbiamo imparare, da una parte, ad essere realmente – diciamo - penetrati nel cuore dalla «confessione», così il nostro cuore è formato, e dal cuore trovare anche, insieme con la grande storia della Chiesa, la parola e il coraggio della parola, e la parola che indica il nostro presente, questa «confessione» che è sempre tuttavia una. «Mens»: la «confessione» non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro e suppone sempre che il mio pensiero sia realmente collocato nella «confessione». «Sensus»: non è una cosa puramente astratta e intellettuale, la «confessio» deve penetrare anche i sensi della nostra vita. San Bernardo di Chiaravalle ci ha detto che Dio, nella sua rivelazione, nella storia di salvezza, ha dato ai nostri sensi la possibilità di vedere, di toccare, di gustare la rivelazione. Dio non è più una cosa solo spirituale: è entrato nel mondo dei sensi e i nostri sensi devono essere pieni di questo gusto, di questa bellezza della Parola di Dio, che è realtà. «Vigor»: è la forza vitale del nostro essere e anche il vigore giuridico di una realtà. Con tutta la nostra vitalità e forza, dobbiamo essere penetrati dalla «confessio», che deve realmente «personare»; la melodia di Dio deve intonare il nostro essere nella sua totalità.

«Confessio» è la prima colonna - per così dire - dell’evangelizzazione e la seconda è «caritas». La «confessio» non è una cosa astratta, è «caritas», è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore. Il testo descrive, con parole molto forti, questo amore: è ardore, è fiamma, accende gli altri. C’è una passione nostra che deve crescere dalla fede, che deve trasformarsi in fuoco della carità. Gesù ci ha detto: Sono venuto per gettare fuoco alla terra e come desidererei che fosse già acceso. Origene ci ha trasmesso una parola del Signore: «Chi è vicino a me è vicino al fuoco». Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo. La fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere, diventa grande passione del mio essere, e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione: «Accéndat ardor proximos», che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta.

San Luca ci racconta che nella Pentecoste, in questa fondazione della Chiesa da Dio, lo Spirito Santo era fuoco che ha trasformato il mondo, ma fuoco in forma di lingua, cioè fuoco che è tuttavia anche ragionevole, che è spirito, che è anche comprensione; fuoco che è unito al pensiero, alla «mens». E proprio questo fuoco intelligente, questa «sobria ebrietas», è caratteristico per il cristianesimo. Sappiamo che il fuoco è all’inizio della cultura umana; il fuoco è luce, è calore, è forza di trasformazione. La cultura umana comincia nel momento in cui l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco può distruggere, ma con il fuoco può trasformare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione - certamente - che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio.

Così, alla fine, possiamo solo pregare il Signore che la «confessio» sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri; così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro.



 

Caterina63
00lunedì 17 agosto 2015 12:26

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI CARDINALI, ARCIVESCOVI E VESCOVI, PRELATURA ROMANA, 
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

Sala Regia
Lunedì
, 20 dicembre 2010

 

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!

È con vivo piacere che vi incontro, cari Membri del Collegio Cardinalizio, Rappresentanti della Curia Romana e del Governatorato, per questo appuntamento tradizionale. Rivolgo a ciascuno un cordiale saluto, ad iniziare dal Cardinale Angelo Sodano, che ringrazio per le espressioni di devozione e di comunione, e per i fervidi auguri che mi ha rivolto a nome di tutti. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Contempliamo come un’unica famiglia il mistero dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, come ha detto il Cardinale Decano. Ricambio volentieri i voti augurali e desidero ringraziare vivamente tutti, compresi i Rappresentanti Pontifici sparsi per il mondo, per l’apporto competente e generoso che ciascuno presta al Vicario di Cristo e alla Chiesa.

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente nei giorni dell’Avvento. Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”. Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera di Avvento della Chiesa. Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.

Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”: nelle grandi angustie, alle quali siamo stati esposti in quest’anno, tale preghiera di Avvento mi è sempre tornata di nuovo alla mente e sulle labbra. Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettato. In noi sacerdoti e nei laici, proprio anche nei giovani, si è rinnovata la consapevolezza di quale dono rappresenti il sacerdozio della Chiesa Cattolica, che ci è stato affidato dal Signore. Ci siamo nuovamente resi conto di quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare in nome di Dio e con pieno potere la parola del perdono, e così siano in grado di cambiare il mondo, la vita; quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare le parole della consacrazione, con cui il Signore attira dentro di sé un pezzo di mondo, e così in un certo luogo lo trasforma nella sua stessa sostanza; quanto sia bello poter essere, con la forza del Signore, vicino agli uomini nelle loro gioie e sofferenze, nelle ore importanti come in quelle buie dell’esistenza; quanto sia bello avere nella vita come compito non questo o quell’altro, ma semplicemente l’essere stesso dell’uomo – per aiutare che si apra a Dio e sia vissuto a partire da Dio. Tanto più siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita.

In questo contesto, mi è venuta in mente una visione di sant’Ildegarda di Bingen che descrive in modo sconvolgente ciò che abbiamo vissuto in quest’anno. “Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto. Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere. La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo. Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato. Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra. Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: ‘Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato! Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato! Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!’

E proseguì: ‘Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha preso come sua sposa.

Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità’.

E sentii una voce dal cielo che diceva: ‘Questa immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura»’ (Mc 16,15)” (Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotalePL 197, 269ss).

Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato – per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere. È questo anche il luogo per ringraziare di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio. Nei miei incontri con le vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio.

Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un’intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana. L’Apocalisse di san Giovanni annovera tra i grandi peccati di Babilonia – simbolo delle grandi città irreligiose del mondo – il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce (cfrAp 18,13). In questo contesto, si pone anche il problema della droga, che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre – espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l’eccesso nell’inganno dell’ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomo viene minata e alla fine annullata del tutto.

Per opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti ideologici. Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire morale. Questo testo oggi deve essere messo nuovamente al centro come cammino nella formazione della coscienza. È nostra responsabilità rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi criteri come vie della vera umanità, nel contesto della preoccupazione per l’uomo, nella quale siamo immersi.

Come secondo punto vorrei dire una parola sul Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Esso ebbe inizio con il mio viaggio a Ciprodove potei consegnare l’Instrumentum laboris per il Sinodo ai Vescovi di quei Paesi lì convenuti. Rimane indimenticabile l’ospitalità della Chiesa ortodossa che abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri: il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica, la lettura della Scrittura secondo l’ermeneutica della Regula fidei, la comprensione della Scrittura nell’unità multiforme incentrata su Cristo sviluppatasi grazie all’ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa. Così abbiamo incontrato in modo vivo la ricchezza dei riti della Chiesa antica anche all’interno della Chiesa Cattolica. Abbiamo avuto liturgie con Maroniti e con Melchiti, abbiamo celebrato in rito latino e abbiamo avuto momenti di preghiera ecumenica con gli Ortodossi, e, in manifestazioni imponenti, abbiamo potuto vedere la ricca cultura cristiana dell’Oriente cristiano. Ma abbiamo visto anche il problema del Paese diviso. Si rendevano visibili colpe del passato e profonde ferite, ma anche il desiderio di pace e di comunione quali erano esistite prima. Tutti sono consapevoli del fatto che la violenza non porta alcun progresso – essa, infatti, ha creato la situazione attuale. Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita l’unità. Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito essenziale della pastorale.

Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato sull’intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti. Per quanto riguarda i cristiani, ci sono le Chiese pre-calcedonesi e quelle calcedonesi; Chiese in comunione con Roma ed altre che stanno fuori di tale comunione ed in entrambe esistono, uno accanto all’altro, molteplici riti. Negli sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per l’altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell’umanità. Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini ebrei e musulmani. Nel Sinodo abbiamo ascoltato parole sagge del Consigliere del Mufti della Repubblica del Libano contro gli atti di violenza nei confronti dei cristiani. Egli diceva: con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi stessi. Purtroppo, però, questa e analoghe voci della ragione, per le quali siamo profondamente grati, sono troppo deboli. Anche qui l’ostacolo è il collegamento tra avidità di lucro ed accecamento ideologico. Sulla base dello spirito della fede e della sua ragionevolezza, il Sinodo ha sviluppato un grande concetto del dialogo, del perdono e dell’accoglienza vicendevole, un concetto che ora vogliamo gridare al mondo. L’essere umano è uno solo e l’umanità è una sola. Ciò che in qualsiasi luogo viene fatto contro l’uomo alla fine ferisce tutti. Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell’amore riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è il compito principale della Chiesa in quest’ora.

Mi piacerebbe parlare dettagliatamente dell’indimenticabile viaggio nel Regno Unito, voglio però limitarmi a due punti che sono correlati con il tema della responsabilità dei cristiani in questo tempo e con il compito della Chiesa di annunciare il Vangelo. Il pensiero va innanzitutto all’incontro con il mondo della cultura nella Westminster Hall, un incontro in cui la consapevolezza della responsabilità comune in questo momento storico creò una grande attenzione, che, in ultima analisi, si rivolse alla questione circa la verità e la stessa fede. Che in questo dibattito la Chiesa debba recare il proprio contributo, era evidente per tutti. Alexis de Tocqueville, a suo tempo, aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato, perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti. Solo se esiste un tale consenso sull’essenziale, le costituzioni e il diritto possono funzionare. Questo consenso di fondo proveniente dal patrimonio cristiano è in pericolo là dove al suo posto, al posto della ragione morale, subentra la mera razionalità finalistica di cui ho parlato poco fa. Questo è in realtà un accecamento della ragione per ciò che è essenziale. Combattere contro questo accecamento della ragione e conservarle la capacità di vedere l’essenziale, di vedere Dio e l’uomo, ciò che è buono e ciò che è vero, è l’interesse comune che deve unire tutti gli uomini di buona volontà. È in gioco il futuro del mondo.

Infine, vorrei ancora ricordare la beatificazione del Cardinale John Henry Newman. Perché è stato beatificato? Che cosa ha da dirci? A queste domande si possono dare molte risposte, che nel contesto della beatificazione sono state sviluppate. Vorrei rilevare soltanto due aspetti che vanno insieme e, in fin dei conti, esprimono la stessa cosa. Il primo è che dobbiamo imparare dalle tre conversioni di Newman, perché sono passi di un cammino spirituale che ci interessa tutti. Vorrei qui mettere in risalto solo la prima conversione: quella alla fede nel Dio vivente. Fino a quel momento, Newman pensava come la media degli uomini del suo tempo e come la media degli uomini anche di oggi, che non escludono semplicemente l’esistenza di Dio, ma la considerano comunque come qualcosa di insicuro, che non ha alcun ruolo essenziale nella propria vita. Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo, l’empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la “realtà” secondo cui ci si orienta. Il “reale” è ciò che è afferrabile, sono le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta.

La forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola “coscienza” si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza – un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a lui. La sua terza conversione, quella al Cattolicesimo, esigeva da lui di abbandonare quasi tutto ciò che gli era caro e prezioso: i suoi averi e la sua professione, il suo grado accademico, i legami familiari e molti amici. La rinuncia che l’obbedienza verso la verità, la sua coscienza, gli chiedeva, andava ancora oltre. Newman era sempre stato consapevole di avere una missione per l’Inghilterra. Ma nella teologia cattolica del suo tempo, la sua voce a stento poteva essere udita. Era troppo aliena rispetto alla forma dominante del pensiero teologico e anche della pietà. Nel gennaio del 1863 scrisse nel suo diario queste frasi sconvolgenti: “Come protestante, la mia religione mi sembrava misera, non però la mia vita. E ora, da cattolico, la mia vita è misera, non però la mia religione”. Non era ancora arrivata l’ora della sua efficacia. Nell’umiltà e nel buio dell’obbedienza, egli dovette aspettare fino a che il suo messaggio fosse utilizzato e compreso. Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al Papa. Ma in questa affermazione, “coscienza” non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della verità: in ciò si fonda il suo primato. Al Papa può essere dedicato il secondo brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della verità.

Devo rinunciare a parlare dei viaggi così significativi a Malta, in Portogallo e in Spagna. In essi si è reso nuovamente visibile che la fede non è una cosa del passato, ma un incontro con il Dio che vive ed agisce adesso. Egli ci chiama in causa e si oppone alla nostra pigrizia, ma proprio così ci apre la strada verso la gioia vera.

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni!”. Siamo partiti dall’invocazione della presenza della potenza di Dio nel nostro tempo e dall’esperienza della sua apparente assenza. Se apriamo i nostri occhi, proprio nella retrospettiva sull’anno che volge al termine, può rendersi visibile che la potenza e la bontà di Dio sono presenti in maniera molteplice anche oggi. Così tutti noi abbiamo motivo per ringraziarLo. Con il ringraziamento al Signore rinnovo il mio ringraziamento a tutti i collaboratori. Voglia Dio donare a tutti noi un Santo Natale ed accompagnarci con la sua bontà nel prossimo anno.

Affido questi voti all’intercessione della Vergine Santa, Madre del Redentore, e a voi tutti e alla grande famiglia della Curia Romana imparto di cuore la Benedizione Apostolica. Buon Natale!







Caterina63
00martedì 25 agosto 2015 13:49



Pubblichiamo un ampio estratto dell’intervista di Wlodzimierz Redzioch a Benedetto XVI contenuta nel libro «Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici & i collaboratori raccontano», appena pubblicato dalle edizioni Ares.

Santità, i nomi di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger sono legati, a vario titolo, al Concilio Vaticano II. Vi siete conosciuti già durante il Concilio? 
Il primo incontro consapevole tra me e il cardinal Wojtyla avvenne solamente nel Conclave in cui venne eletto Giovanni Paolo I. Durante il Concilio, avevamo collaborato entrambi alla «Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», e tuttavia in sezioni diverse, cosicché non ci eravamo incontrati. Nel settembre del 1978, in occasione della visita dei vescovi polacchi in Germania, ero in Ecuador come rappresentante personale di Giovanni Paolo I. La Chiesa di Monaco e Frisinga è legata alla Chiesa ecuadoriana da un gemellaggio realizzato dall’arcivescovo Echevarría Ruiz (Guayaquil) e dal cardinal Döpfner. E così, con mio enorme dispiacere, perdetti l’occasione di conoscere personalmente l’arcivescovo di Cracovia. Naturalmente avevo sentito parlare della sua opera di filosofo e di pastore, e da tempo desideravo conoscerlo. Wojtyla, dal canto suo, aveva letto la mia Introduzione al Cristianesimo, che aveva anche citato agli esercizi spirituali da lui predicati per Paolo VI e la Curia nella Quaresima del 1976. Perciò è come se interiormente attendessimo entrambi di incontrarci. Ho provato sin dall’inizio una grande venerazione e una cordiale simpatia per il metropolita di Cracovia. Nel pre-Conclave del 1978 egli analizzò per noi in modo stupefacente la natura del marxismo. Ma soprattutto percepii subito con forza il fascino umano che egli emanava e, da come pregava, avvertii quanto fosse profondamente unito a Dio.

Che cosa ha provato quando Giovanni Paolo II l’ha chiamata per affidarle la guida della Congregazione per la dottrina della fede? 
Giovanni Paolo II mi chiamò nel 1979 per nominarmi prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica. Erano trascorsi appena due anni dalla mia consacrazione episcopale a Monaco e ritenevo impossibile lasciare così presto la sede di san Corbiniano. La consacrazione episcopale rappresentava in qualche modo una promessa di fedeltà verso la mia diocesi di appartenenza. Pregai dunque il Papa di soprassedere a quella nomina [...]. Fu nel corso del 1980 che mi disse di volermi nominare, alla fine del 1981, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede quale successore del cardinale Šeper. Poiché continuavo a sentirmi in obbligo nei confronti della mia diocesi di appartenenza, per l’accettazione dell’incarico mi permisi di porre una condizione, che peraltro ritenevo irrealizzabile. Dissi che sentivo il dovere di continuare a pubblicare lavori teologici. Avrei potuto rispondere affermativamente solo se questo fosse stato compatibile con il compito di prefetto. Il Papa, che con me era sempre molto benevolo e comprensivo, mi disse che si sarebbe informato su tale questione per farsi un’idea. Quando successivamente gli feci visita, mi spiegò che pubblicazioni teologiche sono compatibili con l’ufficio di prefetto; anche il cardinal Garrone, disse, aveva pubblicato lavori teologici quand’era prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica. Così accettai l’incarico, ben conscio della gravità del compito, ma sapendo anche che l’obbedienza al Papa esigeva ora da me un «sì».

Potrebbe raccontarci come si svolgeva la collaborazione fra voi? 
La collaborazione con il Santo Padre fu sempre caratterizzata da amicizia e affetto. Essa si sviluppò soprattutto su due piani: quello ufficiale e quello privato. Il Papa ogni venerdì, alle sei del pomeriggio, riceve in udienza il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che sottopone alla sua decisione i problemi emersi. Hanno naturalmente la precedenza i problemi dottrinali, a cui si aggiungono anche questioni di carattere disciplinare – la riduzione allo stato laicale di sacerdoti che ne hanno fatto richiesta, la concessione del privilegio paolino per quei matrimoni nei quali uno dei coniugi non è cristiano, e così via. In seguito si aggiunse anche il lavoro in corso per la stesura del Catechismo della Chiesa cattolica. Di volta in volta, il Santo Padre riceveva per tempo la documentazione essenziale e dunque conosceva in anticipo le questioni delle quali si sarebbe trattato. In questo modo, sui problemi teologici abbiamo sempre potuto conversare fruttuosamente. Il Papa era molto ferrato anche sulla letteratura tedesca contemporanea, ed era sempre bello – per ambedue – cercare insieme la decisione giusta su tutte queste cose [...]. Infine, era abitudine del Papa invitare a pranzo i vescovi in visita ad limina, come anche gruppi di vescovi e sacerdoti di diversa composizione, a seconda della circostanza. Erano quasi sempre «pranzi di lavoro» nei quali spesso era proposto un tema teologico. [...] Il gran numero di presenti rendeva sempre varia la conversazione e di ampio respiro. E tuttavia c’era sempre posto anche per il buon umore. Il Papa rideva volentieri e così quei pranzi di lavoro, pur nella serietà che s’imponeva, di fatto erano anche occasioni per stare in lieta compagnia.

Quali sono state le sfide dottrinali che avete affrontato insieme durante il suo mandato alla Congregazione per la dottrina della fede?
La prima grande sfida che affrontammo fu la Teologia della liberazione che si stava diffondendo in America Latina. Sia in Europa che in America del Nord era opinione comune che si trattasse di un sostegno ai poveri e dunque di una causa che si doveva approvare senz’altro. Ma era un errore. La povertà e i poveri erano senza dubbio posti a tema dalla Teologia della liberazione e tuttavia in una prospettiva molto specifica. Le forme di aiuto immediato ai poveri e le riforme che ne miglioravano la condizione venivano condannate come riformismo che ha l’effetto di consolidare il sistema: attutivano, si affermava, la rabbia e l’indignazione che invece erano necessarie per la trasformazione rivoluzionaria del sistema. Non era questione di aiuti e di riforme, si diceva, ma del grande rivolgimento dal quale doveva scaturire un mondo nuovo. La fede cristiana veniva usata come motore per questo movimento rivoluzionario, trasformandola così in una forza di tipo politico. Le tradizioni religiose della fede venivano messe a servizio dell’azione politica. In tal modo la fede veniva profondamente estraniata da se stessa e si indeboliva così anche il vero amore per i poveri. [...] Uno dei principali problemi del nostro lavoro, negli anni in cui fui prefetto, fu lo sforzo per giungere a una corretta comprensione dell’ecumenismo. Anche in questo caso si tratta di una questione che ha un duplice profilo: da un lato, va affermato con tutta la sua urgenza il compito di operare per l’unità e vanno aperte strade che ad essa conducono; dall’altro, bisogna respingere false concezioni dell’unità, che vorrebbero giungere all’unità della fede attraverso la scorciatoia dell’annacquamento della fede. [...]. Da ultimo ci siamo occupati anche della questione relativa alla natura e al compito della teologia nel nostro tempo. Scientificità e legame con la Chiesa a molti oggi sembrano elementi in contraddizione fra loro. E tuttavia la teologia può sussistere unicamente nella Chiesa e con la Chiesa. Su questa questione abbiamo pubblicato una Istruzione.

Fra le molte encicliche di Giovanni Paolo II quale considera la più importante? 
Penso che siano tre le encicliche di particolare importanza. In primo luogo vorrei menzionare la Redemptor hominis, la prima enciclica del Papa, in cui egli ha offerto la sua personale sintesi della fede cristiana [...] In secondo luogo vorrei menzionare l’enciclica Redemptoris missio [...]. In terzo luogo vorrei citare l’enciclica sui problemi morali Veritatis splendor. Ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità. La Costituzione del Vaticano II «sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», di contro all’orientamento all’epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico. Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo, poi andò affermandosi l’opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede. Scomparve così, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell’efficacia, è meglio o peggio. Il grande compito che il Papa si diede in quest’enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell’antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura. Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere. Di grande significato è anche l’enciclica Fides et ratio nella quale il Papa si sforza di offrire una nuova visione del rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica. Da ultimo è assolutamente necessario menzionare la Evangelium vitae, che sviluppa uno dei temi fondamentali dell’intero pontificato di Giovanni Paolo II: la dignità intangibile della vita umana, sin dal primo istante del concepimento.

Quali erano i tratti salienti della spiritualità di Giovanni Paolo II? 
La spiritualità del Papa era caratterizzata soprattutto dall’intensità della sua preghiera e pertanto era profondamente radicata nella celebrazione della Santa Eucaristia e fatta insieme a tutta la Chiesa con la recita del Breviario. Nel suo libro autobiografico Dono e mistero è possibile vedere quanto il sacramento del sacerdozio abbia determinato la sua vita e il suo pensiero. Così la sua devozione non poteva mai essere puramente individuale, ma era sempre anche piena di sollecitudine per la Chiesa e per gli uomini [...]. Tutti noi abbiamo conosciuto il suo grande amore per la Madre di Dio. Donarsi tutto a Maria significò essere, con lei, tutto per il Signore [...].

Santità, Lei ha aperto l’iter per la beatificazione con anticipo sui tempi stabiliti dal Diritto canonico. Da quanto tempo e in base a che cosa si è convinto della santità di Giovanni Paolo II? 
Che Giovanni Paolo II fosse un santo, negli anni della collaborazione con lui mi è divenuto di volta in volta sempre più chiaro. C’è innanzitutto da tenere presente naturalmente il suo intenso rapporto con Dio, il suo essere immerso nella comunione con il Signore di cui ho appena parlato. Da qui veniva la sua letizia, in mezzo alle grandi fatiche che doveva sostenere, e il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile. Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di prim’ordine della santità. Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire anche il suo indefesso impegno pastorale. Si è dato con una radicalità che non può essere spiegata altrimenti. Il suo impegno fu instancabile, e non solo nei grandi viaggi, i cui programmi erano fitti di appuntamenti, dall’inizio alla fine, ma anche giorno dopo giorno, a partire dalla Messa mattutina sino a tarda notte. Durante la sua prima visita in Germania (1980), per la prima volta feci un’esperienza molto concreta di questo impegno enorme. Per il suo soggiorno a Monaco di Baviera, decisi pertanto che dovesse prendersi una pausa più lunga a mezzogiorno. Durante quell’intervallo mi chiamò nella sua stanza. Lo trovai che recitava il Breviario e gli dissi: «Santo Padre, Lei dovrebbe riposare»; e lui: «Posso farlo in Cielo». Solo chi è profondamente ricolmo dell’urgenza della sua missione può agire così. [...] Ma devo rendere onore anche alla sua straordinaria bontà e comprensione. Spesso avrebbe avuto motivi sufficienti per biasimarmi o per porre fine al mio incarico di prefetto. E tuttavia mi sostenne con una fedeltà e una bontà assolutamente incomprensibili. Anche qui vorrei fare un esempio. A fronte del turbine che si era sviluppato intorno alla dichiarazione Dominus Jesus mi disse che all’Angelus intendeva difendere inequivocabilmente il documento. Mi invitò a scrivere un testo per l’Angelus che fosse, per così dire, a tenuta stagna e non consentisse alcuna interpretazione diversa. Doveva emergere in modo del tutto inequivocabile che egli approvava il documento incondizionatamente. Preparai dunque un breve discorso; non intendevo, però, essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il Papa mi chiese ancora una volta: «È veramente chiaro a sufficienza?». Io risposi di sì. Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il Papa aveva prudentemente preso le distanze da quel testo. 

Che cosa prova intimamente oggi che la Chiesa riconosce ufficialmente la santità del "suo" Papa, Giovanni Paolo II, di cui è stato il più stretto collaboratore? 
Il mio ricordo di Giovanni Paolo II è colmo di gratitudine. Non potevo e non dovevo provare a imitarlo, ma ho cercato di portare avanti la sua eredità e il suo compito meglio che ho potuto. E perciò sono certo che ancora oggi la sua bontà mi accompagna e la sua benedizione mi protegge.

http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/benedetto-xvi-ricorda-giovanni-paolo-2.aspx 






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“Dominus Iesus”. Quella volta che papa Wojtyla picchiò il pugno sul tavolo
di Sandro Magister

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In un libro-intervista uscito alla vigilia della beatificazione di Giovanni Paolo II, il cardinale Tarcisio Bertone ha svelato i retroscena della “Dominus Iesus“, la dichiarazione dogmatica pubblicata dalla congregazione per la dottrina della fede il 6 settembre del 2000, che ribadì l’assoluta unicità di Gesù Cristo in ordine alla salvezza di tutti gli uomini.

Quella dichiarazione fu molto criticata fuori e dentro la Chiesa, anche a livelli gerarchici alti. Si diffuse la leggenda che papa Karol Wojtyla, personalmente svogliato, la pubblicò solo per dare soddisfazione al cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della congregazione per la dottrina della fede, di cui Bertone era segretario.

Bertone smantella del tutto questa leggenda. Dice all’intervistatore:

“Un elemento tipico della fermezza dottrinale di Giovanni Paolo II riguarda proprio la sua passione per una cristologia vera, autentica. Il papa stesso ha voluto in prima persona la dichiarazione dogmatica circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, ‘Dominus Jesus’, nonostante le dicerie che hanno attribuito a una ‘fissazione’ del cardinale Ratzinger o della congregazione per la dottrina della fede il fatto di aver voluto questa famosa dichiarazione, dicerie che si erano propagate anche in campo cattolico. Sì, è Giovanni Paolo II stesso che aveva chiesto in prima persona la dichiarazione, perché era rimasto colpito dalle reazioni critiche alla sua enciclica sulla missionarietà, la ‘Redemptoris Missio‘, con la quale voleva incoraggiare i missionari ad annunciare il Cristo anche nei contesti dove sono presenti altre religioni, per non ridurre la figura di Gesù a un qualsiasi fondatore di un movimento religioso. Le reazioni erano state negative, soprattutto in Asia, e il papa ne era rimasto molto amareggiato. Allora, nell’Anno Santo – anno cristologico per eccellenza – disse: ‘Per favore, preparate una dichiarazione dogmatica’. È stata così preparata la ‘Dominus Jesus’, densa, scarna e con un linguaggio dogmatico. Essa permane assai importante nell’attuale temperie della Chiesa perché, partendo dall’analisi di una situazione preoccupante a raggio mondiale, offre ai cristiani le linee di una dottrina fondata sulla rivelazione che deve guidare il comportamento coerente e fedele al Signore Gesù, unico e universale salvatore”.

E all’intervistatore che gli chiede come il Vaticano reagì alle critiche, Bertone prosegue:

“Non solo in campo laico, ma anche in campo cattolico alcuni si allinearono a queste critiche. Il papa rimase doppiamente amareggiato. Ci fu una sessione di riflessione proprio su queste reazioni, soprattutto dei cattolici. Alla fine della riunione, con forza il papa ci disse: ‘Voglio difenderla e voglio parlarne domenica 1° ottobre, durante la preghiera dell’Angelus – eravamo presenti io, il cardinale Ratzinger e il cardinale Re – e vorrei dire questo e quest’altro’. Abbiamo preso nota delle sue idee e abbiamo redatto il testo che lui ha approvato e poi pronunciato. Era la domenica in cui venivano canonizzati i martiri cinesi. La coincidenza aveva suggerito a qualcuno una certa prudenza: «Non conviene – gli suggerivano taluni – che lei parli della ‘Dominus Iesus’ proprio in quel giorno, è meglio che lo faccia in un altro contesto. È meglio che lo rimandi, potrebbe renderlo pubblico l’8 ottobre, nella domenica del giubileo dei vescovi, alla presenza di centinaia di presuli’. Ma il papa rispose così a tali obiezioni: ‘Come? Adesso devo rimandare? Assolutamente no! Ho deciso per il primo ottobre, ho deciso per questa domenica, e domenica lo farò!’”.

All’Angelus di quel 1 ottobre 2000, in effetti, Giovanni Paolo II presentò la “Dominus Iesus” come “approvata da me in forma speciale”.

Il libro:

Tarcisio Bertone, “Un cuore grande. Omaggio a Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2011, pp. 124, euro 14,00.






Caterina63
00sabato 21 maggio 2016 17:02

comunque la si voglia interpretare, e ci vorranno i secoli per chiarire questa situazione, e pur non condividendo noi l'assenza di un canonista per spiegare quanto affermato da mons. Georg che non è affatto "semplice" come la dice lui (perchè si affermerebbe l'ufficializzazione di due Papi, e questo è impossibile perchè lo dice il Vangelo), vi offriamo ugualmente questa notizia.



 Gänswein: nessun corvo o traditore ha spinto Benedetto XVI alla rinuncia

Benedetto XVI saluta prima di partire per Castel Gandolfo, il 28 febbraio 2013 - ANSA

Benedetto XVI saluta prima di partire per Castel Gandolfo, il 28 febbraio 2013 - ANSA

21/05/2016 14:00
 

“Un Pontificato dell’apertura intellettuale e dell’incontro”. Così è definito il ministero di del Papa emerito da don Roberto Regoli, autore del libro “Oltre la crisi”. Il testo, che intende storicizzare gli otto anni del pontificato di Benedetto XVI, è stato presentato a Roma, nell’Università Gregoriana, dall’arcivescovo Georg Gänswein, segretario particolare del Papa emerito, e dallo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Il servizio di Eugenio Murrali:

Quando il suo biografo, Peter Seewald, chiese a Benedetto XVI se si sentisse "la fine del vecchio o l’inizio del nuovo", Ratzinger rispose con perspicacia, “Entrambi”. Da questa constatazione della complessità del ministero di Papa Benedetto prende le mosse l’analisi storica di don Roberto Regoli. Così l’autore spiega il titolo del suo lavoro:

"'Oltre la crisi' dà l’idea di un Pontificato che si confronta su lungo periodo".

La difficoltà maggiore in quest’opera di storicizzazione è derivata dall’impossibilità di accedere ai documenti degli archivi vaticani che, come è noto, vengono aperti solo dopo molto tempo:

"Mi sono dovuto esercitare su una documentazione non archivistica ma accessibile: i discorsi pubblici del Papato, tutti i documenti di Benedetto XVI, quelli della Curia, le interviste dei cardinali e quelle dei grandi protagonisti dell’epoca e tutte le interpretazioni dei giornalisti, facendo però un’analisi critica". 

Nell’incontro alla Gregoriana, mons. Gänswein, commentando il libro, ha offerto una sua sintesi della figura di Benedetto XVI, a partire dalla battaglia contro il relativismo:

"A una dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io, aveva contrapposto il Figlio di Dio e vero uomo come misura del vero umanesimo". 

L’immagine del Pontefice è stata arricchita anche dalle parole con cui Andrea Riccardi ha insistito sul carattere persuasivo del governo di Ratzinger:

"Il grande equivoco: l’immagine "dura" di Ratzinger. Invece, giustamente, Regoli scrive – e sono parole chiave in questa biografia – “Benedetto vuole convincere, non imporre”. Qui appare una caratteristica di Ratzinger che allo stesso tempo è forza e debolezza del suo Pontificato. A pagina 135, secondo me, c’è la svolta interpretativa. È la sua forza gentile, un magistero articolato, persuasivo che – credo – dovrà essere ripreso e approfondito".

La personalità umana del Papa emerito è stata inoltre raccontata nella sua profondità dalla descrizione che mons. Gänswein ne ha fatto:

"Benedetto non è stato un Papa attore e ancor meno un insensibile Papa automa. Anche sul trono di Pietro è stato ed è rimasto uomo. Non fu un libro ingegnoso, fu un uomo con le sue contraddizioni. È così che io stesso l’ho potuto conoscere e apprezzare quotidianamente".

A queste parole, mons. Ganswein ha aggiunto particolari inediti sul dolore di Ratzinger per la scomparsa inattesa di Manuela Camagni:

"L’autore definisce quel 2010 un anno nero per il Papa e precisamente in relazione al tragico incidente mortale occorso a Manuela Camagni, una delle quattro Memores appartenenti alla piccola famiglia pontificia. Posso senz’altro confermarlo. A confronto con tale disgrazia i sensazionalismi mediatici di quegli anni, pur avendo un certo effetto, non colpirono il cuore del Papa tanto quanto la morte di Manuela, strappata così improvvisamente a noi". 

Inoltre, il presule tedesco ha voluto precisare con parresia come la rinuncia al Soglio pontificio sia stata dettata da una profonda riflessione interiore più che dagli eventi esterni:

"È bene che io dica una volta per tutte, con tutta chiarezza, che Benedetto non si è dimesso a causa del povero e mal guidato aiutante di camera oppure a causa delle ghiottonerie provenienti dal suo appartamento che nel cosiddetto affare 'Vatileaks' circolarono a Roma come moneta falsa e che furono commerciate nel resto del mondo come autentici lingotti d’oro. Nessun traditore o corvo o qualsivoglia giornalista avrebbe potuto spingerlo a quella decisione. Quello scandalo era troppo piccolo per una cosa del genere e tanto più grande è stato il ben ponderato passo di millenaria portata storica che Benedetto XVI ha compiuto". 

Il segretario particolare di Benedetto XVI si è quindi soffermato sulla portata rivoluzionaria del gesto di rinuncia:

"Dall’elezione del suo successore, Papa Francesco - il 13 marzo 2016 - non ci sono dunque due Papi, ma di fatto un ministero allargato con un membro attivo e uno contemplativo. Per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca. Per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora 'Santità'. Inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano, come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo Successore e a una nuova tappa della storia del Papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la centralità della preghiera e della compassione posta nei Giardini vaticani".

Gli fa eco don Regoli:

"Forse, solo Ratzinger poteva permettersi una cosa del genere, perché tutti i suoi predecessori ci avevano pensato, almeno da alcune testimonianze che abbiamo, ma nessuno aveva voluto compiere un passo del genere. Lui l’ha compiuto come frutto di una riflessione teologica postconciliare. E anche nelle interpretazioni che vediamo da parte di alcuni teologi, anche nella rinuncia a un ministero attivo quell’uomo investito della funzione di Papa rimane Papa, rimane tale. Questo prima non era possibile". 

Per comporre la sua analisi storica, don Roberto Regoli ha dovuto consultare un’imponentissima bibliografia e confrontarsi anche con le informazioni più delicate, ma, ha spiegato l’autore, l’importante è utilizzare i documenti e non farsi usare da essi.









“Il Papa emerito sta bene e il 29 giugno...”

Georg Gaenswein, il segretario di Ratzinger, spera di organizzare un evento pubblico per i 65 anni di sacerdozio di Benedetto XVI

Keystone
 
Il Papa emerito Benedetto XVI con il suo segretario,
 
20
maggio
2016

ROMA - Il Papa emerito Benedetto XVI "sta bene" anche se debbono essere considerati i suoi 89 anni. "Prega, ama studiare e leggere, si dedica alla corrispondenza, cammina per il rosario nei giardini vaticani, riceve visite".

Lo riferisce il segretario, mons. George Gaenswein, a margine della presentazione di un libro sul pontificato di Joseph Ratzingeralla Gregoriana. "Si potrà vederlo tra non molto", ha aggiunto. Il 29 giugno Ratzinger compie 65 anni di sacerdozio.

"Vedremo che cosa si riuscirà ad organizzare. È un'occasione oggettiva che fa sperare di poterlo vedere e di dimostrare - ha aggiunto Gaenswein scherzando - che la mia frase sulla candela era stupida".

Ad un settimanale italiano infatti il segretario del Papa emerito aveva detto che Benedetto è come una candela che si sta spegnendo piano piano. "Non sapevo che in italiano potesse avere un significato negativo. Dire che è come una candela significa che la forza della sua luce è la stessa", ha spiegato.





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