21 novembre: Benedetto XVI incontra gli artisti per un dialogo tra arte e fede

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Caterina63
00giovedì 10 settembre 2009 13:57

21 NOVEMBRE: DIALOGO CON L'ARTE DI BENEDETTO XVI


Il 21 novembre nella Cappella Sistina Benedetto XVI rilancerà l'alleanza tra arte e fede

Incontro agli artisti

A 45 anni dall'incontro di Paolo VI con gli artisti e a 10 anni dalla lettera a essi indirizzata da Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI ha invitato il mondo dell'arte per un dialogo che si svolgerà il 21 novembre nella Cappella Sistina. L'appuntamento viene presentato giovedì 10 settembre alle ore 11.30, presso la Sala Stampa della Santa Sede. Pubblichiamo i testi dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del direttore dei Musei Vaticani.

di Gianfranco Ravasi

La grande sfida dell'artista è quella di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità".
Così, il 7 maggio 1964, Paolo VI nella cappella Sistina si rivolgeva agli artisti da lui convocati per riprendere un dialogo, anzi, per ristabilire - come egli ribadiva - un'alleanza nuova tra l'ispirazione divina della fede e l'ispirazione creatrice dell'arte.

Come confessava il grande pittore catalano Joan Miró, l'arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l'Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che "l'Arte è l'Inconnu, l'Ignoto, il Mistero". Si deve, invece, riconoscere che da tempo l'alleanza tra fede e arte si è infranta.

L'arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade "laiche" della contemporaneità.
Ha abbandonato la concezione secondo la quale l'opera artistica incarna una visione trascendente dell'essere, anzi, "crea un mondo" per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con l'attesa di una nuova epifania di bellezza e di mistero.
Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all'arido taglio della tela operato da Lucio Fontana che si trasformava, però, in "uno spiraglio per intravedere l'Assoluto".

Ora questo non accade più perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell'arte a un messaggio, a una "verità", a una "bellezza". Il pittore Georges Braque in modo folgorante affermava nel suo saggio Il giorno e la notte che "l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura".

Ora l'arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull'abisso dell'Infinito, dell'Oltre, dell'Altro.

Di fronte a questa divaricazione tra la fede - o più genericamente la trascendenza - e l'arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto riproporre - nelle attuali coordinate culturali lontane quasi un mezzo secolo da quelle del 1964 - un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma variegata che tale termine comporta e che ora va oltre pittori, scultori, architetti, letterati, musicisti, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art e così via. Il 21 novembre prossimo, nello stesso fondale della Sistina, che ammutolisce e incanta con la sua testimonianza di bellezza e di spiritualità suprema, il Papa intesserà un dialogo nella speranza che risorga "un'alleanza feconda", sulla scia anche di un'altra memoria particolare. Infatti, dieci anni fa, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava una sua Lettera agli artisti, "per confermare la sua stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa".

Noi adesso, in attesa di raccogliere le linee che Benedetto XVI vorrà suggerire lanciando quasi la prima battuta di un dialogo che avrà nei mesi e negli anni avvenire le risposte molteplici degli artisti, espresse anche e soprattutto attraverso le loro opere, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia". Essa è stata, infatti, l'atlante iconografico per eccellenza, l'"immenso vocabolario" della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel.

È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d'arte: "Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede".
Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d'Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta: "Se un pagano viene e ti dice: "Mostrami la tua fede!" tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri".

Questo incontro dell'arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell'Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia così: Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d'arte, di letteratura, di musica e persino di un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce "all'etterno dal tempo", per usare un'icastica formula dantesca (Paradiso, xxxi, 38).

Certo, non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all'iconoclasmo dell'VIII secolo in Oriente o alla reticenza "ascetica" della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell'arte anche in una certa teologia, timorosa di derive "idolatriche".

D'altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a "non farsi immagine alcuna" di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è necessaria.
Ma si è andati oltre. Teologia e teologi si sono non di rado votati esclusivamente alla sistematica speculativa, spazzando via segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.

In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del XII secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono "soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri "luoghi" teologici". Alla radice di questo c'è il cuore stesso del messaggio cristiano, l'Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua èik0n, la sua "icona-immagine" perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa umanità l'"immagine e la somiglianza divina" (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (VIII-IX secolo) non esitava, seguendo la logica dell'Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, "se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato".

E Dionigi l'Areopagita, pseudonimo di un originale teologo del V-VI secolo, riconoscendo che in Gesù Cristo si ha "il visibile dell'Invisibile", preparava in un certo senso l'analogia dell'arte così come la concepirà Miró nella frase che abbiamo sopra citato. Alla luce di quanto si è detto, si comprendono, allora, le parole della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II: "In un certo senso, l'icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell'Incarnazione. Proprio per questo la bellezza dell'icona può essere soprattutto gustata all'interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce".

Tra l'altro, questo è quanto osservava il grande cultore delle icone, oltre che teologo e scienziato, Pavel Florenskij, quando ricordava il nesso tra icona e culto: "Il loro oro barbaro, pesante, futile nella luce del giorno, si ravviva con la luce tremolante di una lampada o di una candela, poiché sfavilla di miriadi di scintille, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste".

Ritorniamo, così, al punto di partenza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra l'artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell'essere, a svelare l'epifania del mistero, a conquistare l'infinito e l'eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. "Estetica", infatti, deriva dal greco àisthesis che è la "percezione": ecco, è discernere il lato spirituale di ogni atto sensibile, è decifrare il "senso spirituale" che si cela in ogni gesto, evento, realtà che vengono percepiti ed espressi "sensibilmente".

È ciò che lo scrittore Hermann Hesse delineava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio".

(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2009)


Caterina63
00giovedì 10 settembre 2009 15:34
CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’INCONTRO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI CON GLI ARTISTI IL 21 NOVEMBRE 2009

Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha luogo la Conferenza Stampa di presentazione dell’Incontro del Papa con gli artisti il 21 novembre 2009, nel decennale della Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti (4 aprile 1999) e nel 45° anniversario dell’Incontro di Paolo VI con gli artisti nella Cappella Sistina (7 maggio 1964).

Intervengono: S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa; il Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani; Mons. Pasquale Iacobone, Incaricato del Dipartimento Arte&Fede del Pontificio Consiglio della Cultura.

Pubblichiamo di seguito una Nota informativa sulla preparazione all’Incontro:


NOTA INFORMATIVA

In occasione del Decennale della Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II (4 aprile 1999), e a 45 anni dallo storico incontro di Paolo VI con gli artisti, tenutosi nella Cappella Sistina (7 maggio 1964), il Pontificio Consiglio della Cultura promuove e organizza l’Incontro del Papa con gli Artisti, che si terrà, sempre nella Cappella Sistina, il 21 novembre 2009. L’Incontro intende rinnovare l’amicizia e il dialogo tra la Chiesa e gli Artisti e suscitare nuove occasioni di collaborazione.

Gli illustri Artisti invitati, provenienti dai diversi continenti, per il prestigio di cui godono e per l’alta qualità professionale del loro impegno rappresentano le diverse categorie di cui si compone il mondo delle arti (pittori, scultori, architetti, scrittori e poeti, musicisti e cantanti, registi e attori di cinema e teatro, ballerini…). Il numero degli invitati è necessariamente limitato, in funzione degli spazi ridotti offerti dalla Cappella Sistina.

L’Incontro col Santo Padre è preceduto da un momento preliminare. Il pomeriggio del 20 novembre gli Artisti sono stati invitati a visitare la Collezione di Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, realizzata per volere di Paolo VI. Al termine della visita si terrà un ricevimento in loro onore, offerto dallo sponsor unico dell’evento, la Martini e Rossi.

Nella mattinata del 21 novembre gli Artisti si ritroveranno nella Cappella Sistina per incontrare Sua Santità Benedetto XVI. Sono previsti brevi interventi musicali di apertura e chiusura dell’Incontro. S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, rivolgerà al Santo Padre un indirizzo di saluto, anche a nome degli Artisti presenti. Quindi saranno letti alcuni brani della Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II.

Sua Santità Benedetto XVI pronuncerà allora il suo Discorso agli Artisti.

Dopo il commiato del Santo Padre ai partecipanti all’Incontro, si terrà, nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani, un ricevimento conclusivo dell’evento, offerto dalla Martini e Rossi.

* * *

Dallo scorso mese di luglio sono stati spediti circa 480 Inviti ad altrettanti Artisti, di diversi paesi e continenti. Precedentemente si era proceduto ad elaborare gli elenchi dei possibili invitati, con l’aiuto prezioso ed indispensabile di alcuni consulenti ed esperti nei diversi settori interessati.

Gli Artisti proposti sono stati inseriti in cinque grandi gruppi, per facilitare il lavoro organizzativo: 1) pittori e scultori, 2) architetti, 3) scrittori e poeti, 4) musicisti e cantanti, 5) registi e attori di cinema e teatro fotografi ballerini etc.

La scelta degli invitati è stata effettuata, appunto con l’aiuto dei consulenti, soprattutto in base al livello artistico da loro raggiunto, tenendo anche conto della provenienza da contesti geografici e culturali diversi.

Lo svolgimento dell’Incontro nella Cappella Sistina, luogo altamente simbolico ed evocativo, motiva il numero ridotto degli invitati, chiamati a rappresentare le diverse categorie di Artisti. La logistica, pertanto, ha condizionato inevitabilmente la scelta degli invitati: non era pensabile una lista di invitati più o meno completa per ogni categoria e che non escludesse qualcuno, pur famoso o affermato.

Il termine fissato per l’adesione all’evento è il 30 settembre.

Finora sono giunte 100 risposte, di cui 76 positive e 23 negative: in tutte si dice l’apprezzamento per l’iniziativa e il piacere/l’onore di prendere parte ad un evento così particolare, o il dispiacere di non potervi partecipare per motivi assolutamente importanti.

Un ringraziamento speciale va rivolto al Presidente della Martini e Rossi, Dott. Maurizio Cibrario, per la collaborazione offerta nella realizzazione dei due ricevimenti previsti.



Caterina63
00giovedì 10 settembre 2009 20:22
Fu allora che il Papa chiese perdono riconoscendo il reciproco abbandono tra Chiesa e artisti

E Paolo VI disse: 
«Rifacciamo la pace? quest'oggi? qui?»


Il 7 maggio 1964, nella solennità dell'Ascensione, Papa Montini celebrò una messa per gli artisti nella Cappella Sistina. Pubblichiamo integralmente il testo dell'omelia da lui pronunciata che segnò, dopo le aperture di Pio XII, la ripresa di un dialogo fra la Chiesa e il mondo dell'arte.


Cari Signori e Figli ancora più cari! Ci premerebbe, prima di questo breve colloquio, di sgombrare il vostro animo da certa apprensione, da qualche turbamento, che può facilmente sorprendere chi si trova, in una occasione come questa, nella Cappella Sistina. Non c'è forse luogo che faccia più pensare e più trepidare, che incuta più timidezza e nello stesso tempo ecciti maggiormente i sentimenti dell'anima.

Ebbene, proprio voi, artisti, dovete essere i primi a togliere dall'anima la istintiva titubanza, che nasce nell'entrare in questo cenacolo di storia, di arte, di religione, di destini umani, di ricordi, di presagi. Perché? Ma perché è proprio, se mai altro c'è, un cenacolo per gli artisti, degli artisti. E quindi dovreste in questo momento lasciare che il grande respiro delle emozioni, dei ricordi, dell'esultazione, - che un tempio come questo può provocare nell'anima - invada liberamente i vostri spiriti. 


Paolo VIVi può essere un altro turbamento, quasi un'altra paralizzante timidezza; ed è quella che può portare non tanto la Nostra umile persona, quanto la Nostra presenza ufficiale, il Nostro ministero pontificio:  è qui il Papa!, voi certo pensate. Sono mai venuti gli artisti dal Papa? È la prima volta che ciò si verifica, forse. O cioè, sono venuti per secoli, sono sempre stati in relazione col Capo della Chiesa Cattolica, ma per contatti diversi. Si direbbe perfino che si è perduto il filo di questa relazione, di questo rapporto.

E adesso siete qui, tutti insieme, in un momento religioso, tutto per voi, non come gente che sta dietro le quinte, ma che viene veramente alla ribalta di una conversazione spirituale, di una celebrazione sacra. Ed è naturale, se si è sensibili e comprensivi, che ci sia una certa venerazione, un certo rispetto, un certo desiderio di capire e di tacere. Ebbene, anche questa sensibilità, se dovesse in questo momento legare le vostre espressioni interiori di liberi sentimenti, Noi vorremmo sciogliere, perché, se il Papa deve accogliere tutti - perché di tutti è Padre e per tutti ha un ministero, e per tutti ha una parola -, per voi specialmente tiene in serbo questa parola; ed è desideroso, ed è felice di poterla quest'oggi esprimere, perché il Papa è vostro amico.

E non lo è solo perché una tradizione di sontuosità, di mecenatismo, di grandezza, di fastosità circonda il suo ministero, la sua autorità, il suo rapporto con gli uomini, e perché ha bisogno di questo quadro decorativo e espressivo per dire a chi non lo sapesse chi lui è, e come Cristo lo abbia voluto in mezzo agli uomini. Ma lo è per ragioni più intrinseche, che sono poi quelle che ci tengono oggi occupati e che interessano il nostro spirito, e, cioè:  sono ragioni del Nostro ministero che Ci fanno venire in cerca di voi. Dobbiamo dire la grande parola che del resto voi già conoscete? Noi abbiamo bisogno di voi.

Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile, dell'ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. E non solo una accessibilità quale può essere quella del maestro di logica, o di matematica, che rende, sì, comprensibili i tesori del mondo inaccessibile alle facoltà conoscitive dei sensi e alla nostra immediata percezione delle cose. Voi avete anche questa prerogativa, nell'atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito:  di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo.

Questo - coloro che se ne intendono lo chiamano Einfühlung, la sensibilità, cioè, la capacità di avvertire, per via di sentimento, ciò che per via di pensiero non si riuscirebbe a capire e ad esprimere - voi questo fate! Ora in questa vostra maniera, in questa vostra capacità di tradurre nel circolo delle nostre cognizioni - et quidem di quelle facili e felici, ossia di quelle sensibili, cioè di quelle che con la sola visione intuitiva si colgono e si carpiscono - ripetiamo, voi siete maestri. E se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l'arte.

Ora, se questo è, il discorso si dovrebbe fare grave e solenne. Il luogo, forse anche il momento, si presterebbero; non tanto il tempo che Ci è concesso, e non tanto il programma che abbiamo prefisso a questo primo incontro amichevole. Chi sa che non venga un momento in cui possiamo dire di più. Ma il tema è questo:  bisogna ristabilire l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Non è che l'amicizia sia stata mai rotta, in verità; e lo prova questa stessa manifestazione, che è già una prova di tale amicizia in atto. E poi ci sono tante altre manifestazioni che si possono addurre a prova di una continuità, di una fedeltà di rapporti, che testimoniano che non è mai stata rotta l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Anche perché, come dicevamo, la Chiesa ne ha bisogno e poi potremmo anche dire di più, leggendovi nel cuore. Voi stessi lo andate cercando questo mondo dell'ineffabile e trovate che la sua patria, il suo recapito, il suo rifornimento migliore è ancora la Religione.
 
Quindi siamo sempre stati amici. Ma, come avviene tra parenti, come avviene fra amici, ci si è un po' guastati. Non abbiamo rotto, ma abbiamo turbato la nostra amicizia. Ci permettete una parola franca? Voi Ci avete un po' abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre.

Avremmo altre osservazioni da fare, ma non vogliamo questa mattina turbarvi ed essere scortesi. Voi sapete che portiamo una certa ferita nel cuore, quando vi vediamo intenti a certe espressioni artistiche che offendono noi, tutori dell'umanità intera, della definizione completa dell'uomo, della sua sanità, della sua stabilità. Voi staccate l'arte dalla vita, e allora... Ma c'è anche di più. Qualche volta dimenticate il canone fondamentale della vostra consacrazione all'espressione; non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte anche voi:  ne segue un linguaggio di Babele, di confusione. E allora dove è l'arte? L'arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità. Voi non sempre ce le date questa facilità, questa felicità e allora restiamo sorpresi e intimiditi e distaccati.

Ma per essere sincero e ardito - accenniamo appena, come vedete - riconosciamo che anche Noi vi abbiamo fatto un po' tribolare. Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi - vi si diceva - abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v'è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose, non vi abbiamo introdotti nella cella segreta, dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell'uomo di gioia, di speranza, di letizia, di ebbrezza.

Non vi abbiamo avuti allievi, amici, conversatori; perciò voi non ci avete conosciuto.

E allora il linguaggio vostro per il nostro mondo è stato docile, sì, ma quasi legato, stentato, incapace di trovare la sua libera voce. E noi abbiamo sentito allora l'insoddisfazione di questa espressione artistica. E - faremo il confiteor completo, stamattina, almeno qui - vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all'"oleografia", all'opera d'arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate; e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l'arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di Dio sono stati male serviti.

Rifacciamo la pace? quest'oggi? qui? Vogliamo ritornare amici? Il Papa ridiventa ancora l'amico degli artisti? Volete dei suggerimenti, dei mezzi pratici? Ma questi non entrano adesso nel calcolo. Restino ora i sentimenti. Noi dobbiamo ritornare alleati. Noi dobbiamo domandare a voi tutte le possibilità che il Signore vi ha donato, e, quindi, nell'ambito della funzionalità e della finalità, che affratellano l'arte al culto di Dio, noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci. E voi dovete essere così bravi da interpretare ciò che dovrete esprimere, da venire ad attingere da noi il motivo, il tema, e qualche volta più del tema, quel fluido segreto che si chiama l'ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma dell'arte. E, a Dio piacendo, ve lo daremo. Ma dicevamo che questo momento non è fatto per i lunghi discorsi e per fare le proclamazioni definitive.

Però noi abbiamo già, da parte nostra, Noi Papa, noi Chiesa, firmato un grande atto della nuova alleanza con l'artista. La Costituzione della Sacra Liturgia, che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo ha emesso e promulgato per prima, ha una pagina - che spero voi conosciate - che è appunto il patto di riconciliazione e di rinascita dell'arte religiosa, in seno alla Chiesa cattolica. Ripeto, il Nostro patto è firmato. Aspetta da voi la controfirma.

Per ora dunque Ci limitiamo a dei rilievi molto semplici, ma che però non vi faranno dispiacere.

Il primo è questo:  che Ci felicitiamo di questa Messa dell'artista e Monsignor Francia ne sia ringraziato; lui e tutti coloro che lo hanno seguito e che ne hanno raccolto la formula. Noi abbiamo visto nascere questa iniziativa, l'abbiamo vista accolta per primo dal Nostro venerato Predecessore Papa Pio xii, Che ha cominciato ad aprirle le vie e a darle cittadinanza nella vita ecclesiastica, nella preghiera della Chiesa; e perciò Ci congratuliamo di quanto è stato fatto su questo filone, che non è l'unico, ma che è buono e che è bene seguire:  lo benediciamo e lo incoraggiamo. Vorremmo che voi portaste fuori, a quanti avete colleghi, imitatori, seguaci, la Nostra Benedizione per questo esperimento di vita religiosa artistica che ha ancora fatto vedere che fra sacerdote e artista c'è una simpatia profonda e una capacità d'intesa meravigliosa.

La seconda cosa è questa, notissima, ma deve, Ci pare, in questo momento essere ricordata; ed è che, se il momento artistico che si produce in un atto religioso sacro - come è una Messa - deve essere pieno, deve essere autentico, deve essere generoso, deve davvero riempire e far palpitare le anime che vi partecipano e le altre che vi fanno corona, ha altresì bisogno di due cose:  di una catechesi e di un laboratorio.
Non Ci diffonderemo ora a discorrere se l'arte venga spontanea e improvvisa, come una folgorazione celeste, o se invece - e voi ce lo dite - abbia bisogno di un tirocinio tremendo, duro, ascetico, lento, graduale. Ebbene, se vogliamo dare, ripetiamo, autenticità e pienezza al momento artistico religioso, alla Messa, è necessaria la sua preparazione, la sua catechesi; bisogna in altri termini farla prendere o accompagnare dalla istruzione religiosa.
Non è lecito inventare una religione, bisogna sapere che cosa è avvenuto tra Dio e l'uomo, come Dio ha sancito certi rapporti religiosi che bisogna conoscere per non diventare ridicoli o balbuzienti o aberranti. Bisogna essere istruiti.
E Noi pensiamo che nell'ambito della Messa dell'artista, quelli che vogliono manifestarsi artisti veramente, non avranno difficoltà ad assumere questa sistematica, paziente, ma tanto benefica e nutriente informazione. E poi c'è bisogno del laboratorio, cioè della tecnica per fare le cose bene. E qui lasciamo la parola a voi che direte che cosa è necessario, perché l'espressione artistica da dare a questi momenti religiosi abbia tutta la sua ricchezza di espressività di modi e di strumenti, e se occorre anche di novità.

E da ultimo aggiungeremo che non basta né la catechesi, né il laboratorio. Occorre l'indispensabile caratteristica del momento religioso, e cioè la sincerità. Non si tratta più solo d'arte, ma di spiritualità. Bisogna entrare nella cella interiore di se stessi e dare al momento religioso, artisticamente vissuto, ciò che qui si esprime:  una personalità, una voce cavata proprio dal profondo dell'animo, una forma che si distingue da ogni travestimento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore; è l'Io che si trova nella sua sintesi più piena e più faticosa, se volete, ma anche la più gioiosa. Bisogna che qui la religione sia veramente spirituale; e allora avverrà per voi quello che la festa di oggi, la Ascensione, Ci fa pensare. Quando si entra in se stessi per trovare tutte queste energie e dar la scalata al cielo, in quel cielo dove Cristo si è rifugiato, noi ci sentiamo in un primo momento, immensamente, direi, infinitamente lontani.

La trascendenza che fa tanto paura all'uomo moderno è veramente cosa che lo sorpassa infinitamente, e chi non sente questa distanza non sente la religione vera. Chi non avverte questa superiorità di Dio, questa sua ineffabilità, questo suo mistero, non sente l'autenticità del fatto religioso. Ma chi lo sente sperimenta, quasi immediatamente, che quel Dio lontano è già lì:  "Non lo cercheresti, se già non lo avessi trovato". Parole di Pascal, vero; ed è quello che si verifica continuamente nell'autentica vita spirituale del cristiano. Se ricerchiamo Cristo veramente dove è, in cielo, lo vediamo riflesso, lo troviamo palpitante nella nostra anima:  il Dio trascendente è diventato, in certo modo, immanente, è diventato l'amico interiore, il maestro spirituale. E la comunione con Lui, che sembrava impossibile, come se dovesse varcare abissi infiniti, è già consumata; il Signore viene in comunione con noi nelle maniere, che voi ben sapete, che sono quelle della parola, che sono quelle della grazia, che sono quelle del sacramento, che sono quelle dei tesori che la Chiesa dispensa alle anime fedeli. E basti per ora così.

Artisti carissimi, diciamo allora una parola sola:  arrivederci!


(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2009)
Caterina63
00giovedì 10 settembre 2009 20:23
Trentacinque anni dopo arrivò la lettera di Giovanni Paolo II

La potenza del bene nascosta nella bellezza


Pubblichiamo uno stralcio della Lettera agli artisti di Papa Wojtyla che reca la data del 4 aprile 1999, Pasqua di Resurrezione. 
  

Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all'alba della creazione, guardò all'opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l'opera del vostro estro, avvertendovi quasi l'eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.

Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.

In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell'essenza stessa sia dell'esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un'opera:  nell'uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).

Qual è la differenza tra "creatore" ed "artefice?" Chi crea dona l'essere stesso, trae qualcosa dal nulla - ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino - e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell'Onnipotente. L'artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell'uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l'uomo e la donna "a sua immagine" (cfr. Genesi, 1, 27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr. Genesi, 1, 28). Fu l'ultimo giorno della creazione (cfr. Genesi, 1, 28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell'evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l'universo. Al termine creò l'uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.

Dio ha, dunque, chiamato all'esistenza l'uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella "creazione artistica" l'uomo si rivela più che mai "immagine di Dio", e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda "materia" della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull'universo che lo circonda. L'Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all'artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l'infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il cardinale Nicolò Cusano:  "L'arte creativa, che l'anima ha la fortuna di ospitare, non s'identifica con quell'arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione".

Per questo l'artista, quanto più consapevole del suo "dono", tanto più è spinto a guardare a se stesso e all'intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l'espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita:  in un certo senso, egli deve farne un'opera d'arte, un capolavoro.

Nel modellare un'opera, l'artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell'umanità. L'artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell'arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d'espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l'artista parla e comunica con gli altri. La storia dell'arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d'arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l'originale contributo da essi offerto alla storia della cultura. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid:  "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere".

Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull'arte. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella. La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi:  kalokagathìa, ossia "bellezza-bontà". Platone scrive al riguardo:  "La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello".



(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2009)
Caterina63
00martedì 29 settembre 2009 19:29
Filosofia estetica e teologia trinitaria

Splendore e mistero
di un sorriso


di Enrico Maria Radaelli

Nel 1963 Harvey Ball, un disegnatore americano, con pochi tratti di penna ideò per un'azienda che aveva bisogno di risollevare il morale dei dipendenti uno smile - una faccina sorridente su fondo giallo - che fece il giro del mondo avendo saputo illustrare la più efficace rappresentazione della positività della vita e dell'allegra fiducia che ne segue:  da allora lo smile di Harvey Ball - Monna Lisa è da sempre fuori concorso - resta tra le immagini più universali del sorriso.

Un anno fa, Papa Benedetto XVI, nella sua omelia per la messa con i malati, sul sagrato della basilica di Notre-Dame du Rosaire a Lourdes, il 15 settembre 2008, pronunciò ventitré volte la parola "sorriso". In particolare tenne a sottolineare come la Vergine Maria fosse apparsa alla giovane Bernadette per farle conoscere "innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse la porta d'accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero". 

Arte Che il sorriso sia un'eminente "porta d'accesso" non solo al mistero divino, ma, in generale, alla vita intelligente, lo constatiamo tutti i giorni anche noi con i nostri sorrisi e, più ancora, in quelli innocenti e aperti dei nostri bambini:  gli occhi brillano, l'intelligenza lì celata palpita viva, e, messa da parte la profonda serietà con cui un bimbo segue le nostre parole con attenzione, quel "lume dell'intelletto" si irradia e straripa nella felicità di averle poi afferrate e comprese.

Sì:  il sorriso è una "porta d'accesso":  vi transita il mistero della vita, e vi transita in entrambi i sensi:  aprendosi l'uscio del sorriso, "esce" dal volto e dagli occhi in tutta la sua purezza e luce l'intelletto che vi è dietro e vi "entra", in certo modo, il nostro, almeno per cogliere il profumo di quella cara vivezza che gli si è aperta davanti, il fiore della sua presenza.

Il sorriso degli occhi è il sorriso del cuore. Dunque non si parla delle mille varietà che può assumere il sorriso allorché diviene strumentale a una qualsiasi delle tante seconde intenzioni di cui può ben essere latore suo malgrado:  per scorrerne il pungente catalogo va goduto Il sorriso. Il sorriso degli dei e degli uomini nell'arte e nella letteratura di Christian de Bartillat (Vicenza, Colla, 2008), ma qui si vuole indicare precisamente, e solo, quella dolce, ineffabile espressione che, mossa persino nei suoi più impercettibili cambiamenti da ben quindici vigili muscoli intorno alle labbra, e ravvivata dal bagliore che si irraggia dai due soli, apre il volto nell'effluvio del suo misterioso, dolcissimo, anche impercettibile splendore:  lo fa bello, e, come nota de Bartillat, moltiplicandolo nelle moltitudini lo fa addirittura divenire "la testimonianza essenziale della civiltà".

Il sorriso dunque. Ma come mai il sorriso è così importante? Dalle parole di de Bartillat parrebbe che davvero esso meriti di essere ritenuto l'espressione massima cui anelare, che sia dunque la manifestazione da raggiungere al sommo della vita:  espressione di gioia e di esistenza da poter guadagnare, come non ritenevano affatto i Greci, con le loro tragiche "ombre".

E in verità è proprio così. Ma il motivo per cui questo è il fine dei nostri sforzi:  riconsegnarci, col sorriso, nella più perfetta somiglianza raggiungibile, a quella divina Imago del Padre che è il suo Figlio diletto, ecco:  il motivo profondo di ciò è che nel Figlio diletto questa divina Imago che ci attende è proprio sorridente. È gioiosamente ab æterno contemplante, nel seno del Padre, l'Essere infuocato d'amore che lo genera.
Ma qui da un sorriso, da un semplice moto di muscoli, si è saliti a realtà somme; quasi imperscrutabili:  si son tirate in ballo cose come "Trinità", "Figlio diletto", Imago, "somiglianza".

Ed è proprio questo che va fatto:  va utilizzato il passaggio aperto da Benedetto XVI con la sua intuizione:  il sorriso, "la porta d'accesso più appropriata alla rivelazione" del mistero di Maria, è per ciò stesso "la porta d'accesso" al mistero della redenzione, e in ultimo quindi al mistero della Santissima Trinità.

Sicché, magari con l'aiuto di dottori come Agostino, Bonaventura, Tommaso - per non dire di padri come Atanasio, del Nazianzeno, dell'Areopagita - sarà ben utile spingerci in qualche modo dal sorriso dei bambini fin nel seno stesso della Santissima Trinità:  spesso nella Trinità si trovano chiarite le cose più importanti che ci circondano, e, come nota Nicola Bux sul rapporto tra noi e Dio, vi troviamo soprattutto questa verità:  "Per capire qualsiasi cosa (della nostra natura) è necessario partecipare della sua natura" (La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Milano, Piemme, 2008). Dal che si rivela conveniente utilizzare i concetti insegnati in quegli augusti De Trinitate:  sono gradini sicuri per quel prudente scalatore che vuole accingersi a superare certe solo apparenti difficoltà e così giungere a importanti conclusioni, a splendidi panorami che proprio "per" e "dalla" loro bellezza gli ridaranno poi più vita.

Nella Trinità, allora.

Primo gradino. Come mai il Figlio - contemplando in Sé la perfezione paterna - è, se così si può dire, di una "serietà lieta e spiritualmente sorridente"? Lo è perché l'Essere essente che lo genera ab æterno è un Io personale e non un essere astratto:  il Padre è una mente-persona che genera il proprio pensiero-persona perché il Padre è, insegnano i grandi dottori con efficace figura, una mente vivente che genera, nella propria spirazione-persona, il proprio eterno pensiero unigenito.

Aggiunge Fulgenzio di Ruspe:  "Il Verbo che nasce dalla Mente non ha nulla di meno di quanto c'è nella Mente in cui nasce, perché quanta è la Mente del generante, tanto pure è il Verbo (generato)" (Ad Monimum, 3, 7).

Nella xii Lectio dell'Ingresso alla bellezza. Fondamenti a un'estetica trinitaria (Verona, Fede & Cultura, 2007) chi scrive illustra le sette più inclite cause per cui l'intelletto "è la letizia di Dio e degli uomini". Esse provengono tutte dal fatto che "una mente che genera un pensiero è già di per sé qualcosa di lieto perché compie qualcosa per la quale è precisamente preposta", sicché la mente del Padre è da se stessa in immane letizia di vita in quanto semplicemente fa quel che deve fare una mente:  genera. Per cui il sorriso, o meglio la letizia, anzi, più ancora, se mi si passa il termine, lo stato di regale "sorridenza", è lo stato d'essere proprissimo della Trinità, allietata di letizia da se stessa medesima nel compimento del proprio eterno, generativo, semplice Actus essendi:  l'atto della Mente che pensa se stessa e, di Sé pensandosi, si diletta.

Ma se è così, se effettivamente lo status trinitario è di per sé un tale positivo, lieto e ricco modo d'essere, la cosa ci riguarda moltissimo, giacché, come ci assicurano le Scritture, noi - secondo appiglio - siamo chiamati unicamente a somigliare alla Trinità; dunque a conformarci intimamente al suo status di beatitudine, alla "sorridenza" che si diceva. "Come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, porteremo anche l'immagine dell'Uomo celeste" (1 Corinzi, 15, 49), porteremo cioè l'immagine di Cristo, il quale, essendo l'immagine del Padre (cfr. Giovanni, 14, 9b), permette a chi gli si conforma di essere immagine del Padre come lui. Infatti "saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è" (1 Giovanni, 3, 2). "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno Specchio la gloria del Signore (ossia riflettendo nello Specchio che è in Cristo la gloria del Padre), veniamo trasformati in quella medesima Immagine (del Padre, attraverso l'Imago del Figlio)" (2 Corinzi, 3, 18), e così via.

Ma se nel nostro sorridere siamo chiamati a uno "stato d'essere" per conformarci allo stato d'essere della vita divina, dobbiamo attuare tale stato già da ora qui sulla terra. Già cioè nella sua costruzione si realizzi il nostro status finale attraverso le pietre da squadrare "ora" per l'edificazione.

Proviamo a salire allora un poco più in alto, per altre ardite e auree rampe di questa mirabile scala che entra nella divina "ebbrezza di letizia" toccata per un attimo.
Il sorriso offre difatti proprio qualcosa di particolare:  nella sua più intima profondità, nel cuore del suo bocciolo, è racchiusa una precisa e speciale qualità divina, che san Tommaso, come d'altronde san Bonaventura, indicano precisamente con uno dei quattro nomi sacri con cui si contraddistinguono aspetti sostanziali dell'Unigenito.
Infatti, che cosa nasce dalla mente del Padre dell'essere? Nasce - primo nome - un Pensiero:  non un pensiero astratto, alla Hegel; ma reale, sostanziale. Infatti con esso nasce anche - secondo nome - un'Immagine:  nasce cioè lo specchio di ciò che il pensiero vede nel Padre, dunque il Pensiero è il Volto del Padre; e non solo nasce un pensiero reale con un suo volto, ma con esso nasce anche - terzo nome - uno Splendore:  nasce la qualità che manifesta al Padre ciò che in lui vede e che Egli stesso è:  lo Splendore è il canto levato dal Verbum al Padre; e come da uno scrigno aperto - la mente è uno scrigno - gli ori e le ricchezze sprigionano e irradiano luce, candore, chiarezza, fulgore, magnificenza, sfarzo, grandiosità, fasto, sontuosità, bellezza massimi, così pure il Pensiero, l'oro dello scrigno:  non solo esso "è" oro, non solo "si vede" che esso è oro, ma anche "abbaglia e irraggia" da oro; infine, quarto e ultimo sacro nome, essendo tutto ciò non da se stesso, ma in quanto generato dal principio, dalla Mente (cfr. Giovanni, 1, 1), l'Unigenito ha nome "Figlio", e "Figlio diletto" perché il Padre si diletta dello splendore irradiato dal volto del proprio pensiero. 


sorriso nell'arte Notiamo che se il Pensiero non fosse anche Splendore della propria Immagine, ma fosse un pensiero senza volto e senza bagliore (Verbum privo di Imago e privo di Splendor, come in tutte le dottrine gnostiche, hegeliane e orientali), non sarebbe affatto dilettevole, perché non lo si vedrebbe, né se ne potrebbe ricevere l'irradiazione di luce.

Ora, qui la scala d'oro su cui ci troviamo si allarga in tre cerchi:  utilizzando infatti tre dei quattro nomi (Verbum, Imago, Filius), vedremo che il quarto (Splendor) si fa passaggio, snodo, porta, per mostrare in essi tre somme qualità di Dio:  verità, beltà e bontà. Il Padre infatti si diletta del suo Unigenito per tre motivi:  "primo cerchio", perché il Verbum che nasce da lui è rilucente di Verità; "secondo cerchio", perché l'Imago che lo rispecchia è circonfuso di abbagliante beltà; "terzo cerchio", perché il Figlio che Egli genera risplende del "tutto sì" a lui Padre con la sua bontà. "È rilucente di verità", "è circonfuso di beltà", "risplende di bontà":  cosa meglio di tre somiglianze per tenere accostate eppur distinte tre qualità così compenetrate tra loro? E come non accorgersi che tutte e tre le somiglianze utilizzano la qualità specifica dello Splendore, che è, come nell'oro, il fatto appunto di comunque risplendere?

Ecco perché, per i due dottori, i nomi dell'Unigenito sono Verbum, Imago, Splendor e Filius. E il sorriso, l'espressione della letizia, va associato a quello dei quattro che gli è più analogo:  è il suo sostanziale, personale, naturale splendore.

Detto ciò, e sapendo che poi si dovrebbero fare sul sorriso - sullo splendore, sulla ricchezza - chissà quante altre, e più alte riflessioni, salire per scale che portano a visioni inusitate, fermiamoci alla considerazione che dunque - già sfolgorante panorama - il sorriso può essere considerato quale prima e sicura fonte di quei tre aspetti che qualificano Dio - verità, beltà e bontà - e da qui qualificano poi il nostro piccolo essere di creature:  sia in Dio che nelle sue creature il sorriso è l'uscio della "verità" (la irradia); è la fonte della "bontà" (ne è l'onda); è la sorgente della "bellezza" (ne è la luce).

In altre parole il sorriso - ma, diciamo meglio:  lo status di letizia o di "sorridenza" - essendo la manifestazione della luce spirituale dell'intelletto, del Lògos, si fa porta alla filosofia, si fa poi varco all'etica e si fa infine fonte dell'estetica:  pensiero, condotta e arte fuoriescono tutti e tre da Splendore, sgorgano dal sorriso dell'Essere divino che nelle tre Persone si irraggia a se stesso e, così irraggiandosi e contemplandosi in Sé, vuole poi manifestarsi alle sue creature, generate intelligenti e libere proprio per parteciparle alla contemplazione di tale suo sostanziale vero, bello e buono status d'essere.

Ed ecco qui mostrarsi i primi straordinari paesaggi.

Attraverso il sorriso, sboccia nel mondo il Pensiero di verità che, disceso in Cristo sulla terra, è il vero Apollo, il Dio della sapienza, pastore e maestro (cfr. Giovanni, 10, 11 e Matteo, 23, 8) sicché, in Lui, possiamo anche tranquillizzarci non solo che "conoscere si può" - lo può Lui, dunque noi in Lui - ma anche che "conoscere si deve":  lui deve farci conoscere il Padre che lo ha inviato (Giovanni, 17, 4), e ancor più possiamo garantirci che "conoscere è bene" - è il nostro fine, a cui il divino Pellicano ci trasporta - perché la conoscenza porta a qualcosa di sicuro:  al Padre. Infine possiamo rinfrancarci che "conoscere è bello" perché ciò a cui la conoscenza porta - la Mente-persona del Padre - è sovrabbondantemente dilettevole, ossia non solo la conoscenza non fa perdere il sorriso, come insegnano in ogni dove i relativisti, i maestri del dubbio, i teorici del problematico, ma lo incoraggia, lo irraggia e lo produce essa stessa al massimo.
 
Che il sorriso, l'espressione dell'anima felice, dunque l'espressione con cui l'anima si esprime al massimo grado, sia un fatto così significativo, così ricco di luminose realtà, fa ritenere che anche la sua manifestazione storica e sociale debba essere pure altrettanto piena e ricca. Ciò si vede sfogliando l'arte della cristianità, ma anche le virtù e le opere dei popoli raccolti dalla Chiesa o a essa introduttivi:  vi è uno straordinario e incessante spargimento di questo sorriso di "verità", e di "beltà", e di "bontà", nelle culture da cui poi è fiorito il Seme divino e che hanno fatto poi da dimora al Santo dei Santi.

La Chiesa, continuazione di Cristo nella storia, sèguita la divina azione del vero Apollo musagete, del vero Conduttore delle leggiadre Muse, a significare la verità mai sufficientemente espressa che l'Arte sempre è condotta dalla Filosofia, buona o cattiva che sia, tanto che proprio nel ii secolo, ai suoi inizi, la Chiesa volle ritrarre il Lògos sia come Apollo giovane e imberbe, a significare l'immediatezza e la semplicità della sua Parola, sia come Filosofo maturo e dalla barba curata, a significare la sua provenienza ab æterno.

Ma le muse, le arti con cui la conoscenza (il Lògos) si dona agli uomini, non danzano e avanzano da sole:  come si vede dal sorriso nostro e dei nostri bambini, o, che è lo stesso, dalla figura del cristico Apollo che le conduce, si affiancano alla loro destra le ancelle della verità e a sinistra le virtù della bontà. Tutte:  muse, ancelle e virtù, portano sul capo i fiori dell'armonia, tutte sono cinte dalla fascia d'oro dell'integrità, tutte sono coperte dai soavi veli della chiarezza.

Armonia, integrità e chiarezza vestono anche sulla terra gli splendori della verità, della bellezza e della bontà elargite dalla Chiesa che avanza pacifica nei secoli. Da due millenni pace e bellezza si spargono sulla terra distribuendo il frutto di Dio, la buona Novella, la letizia e la sorridenza della pace con Dio portata da Cristo in ogni generazione. La Chiesa da duemila anni sparge sovrabbondante bellezza dalle fontane della verità, da duemila anni bontà e bontà zampilla dalla sua beltà.

Ma quale il motivo per cui nella Chiesa è così profondo questo desiderio di elargizione di fragranza e di positività?

Tutto questo armonioso tripudio di miracolosa ricchezza scaturisce unicamente in virtù della divina liturgia, nasce dall'esigenza intima e tutta necessitante della santa Madre di spiegare con amore ai suoi figli il non spiegabile, di dire con benevolenza ai suoi piccoli l'indicibile, di mostrare a tutti con benignità i cieli chiamati tutt'intorno al sacro mistero della presenza reale, nell'ostia consacrata nelle sue chiese.

Sì:  tutta questa elargizione di splendore soprannaturale ha portato bellezza anche nella civiltà; tutta questa bontà divina ha portato anche tra le nazioni amore, e quell'amore:  il perfetto olocausto cruento e visibile compiuto da Cristo sulla croce e rinnovato in memoriam in ogni messa misteriosamente, ma realmente sugli altari ogni giorno nei secoli.

Dall'ostia consacrata la virtù dello splendore, celata nella benignità del sorriso che di fondo ha la grazia di Dio verso gli uomini, ha irradiato nelle civiltà, essa solo, quella che Romano Amerio chiama "cristianesimo secondario":  ha irradiato la "verità", la "beltà" e la "bontà" di un sacro lievito che nei secoli ha spinto le nazioni a esprimersi nel sorriso di una religione in primo luogo, certo, divinizzante, ma poi anche portatore di civiltà.

E tutto ciò, si badi, in mezzo sempre a percosse, barbarie, difficoltà di ogni tipo, in seno e fuori, similmente al famoso elenco paolino:  "Cinque volte ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre fui battuto con le verghe; una lapidato; tre naufragato; una notte e un giorno nell'abisso; (...) e oltre tutti questi mali esteriori il cruccio quotidiano che su me incombe, la cura di tutte le Chiese" (2 Corinzi, 11, 24-25; 28), e ciò a ricordare che verità, beltà e bontà, in una parola il sorriso, non sono di questo mondo, ma si ottengono per grazia - da Paolo o dalla Chiesa - solo dalla divina elargizione posta nella croce.

Anche nella nostra epoca, come già parve il fuoco di Alarico ad Agostino, sembra che bruttezza e barbarie abbiano corroso la conoscenza della bellezza, osteggiato la spinta all'adorazione, frantumato la pace della verità. Come già san Paolo, la Chiesa - e in essa la cristianità fin nei più indifesi e inermi suoi piccoli - sembra ancora una volta dover far fronte a forze superiori, accerchiata dalle espressioni più combattive di quella che Romano Amerio chiama "la dislocazione della divina Monotriade":  la precessione dell'amore, della tecnica, dell'azione, sulla conoscenza e sul Verbo.

Nelle città, in quelli che oggi vengono chiamati burocraticamente "agglomerati urbani" - in verità prigioni al contrario - bruttezza chiama bruttezza, degrado e incuria moltiplicano degrado e incuria:  i criminologi Wilson e Kelling dimostrano, con la teoria delle broken windows (finestre rotte), che insipidità e bruttezza materiali contagiano gli spiriti, straripano dai corpi alle anime, invadono non solo quartieri apocrifi e città, ma, col loro fascino drogato, con le loro contagiose perversioni, infettano i loro abitanti instillando nei cuori, con la trasformazione delle macerie in asocialità, disordine e dispersione morale. Dov'è più il sorriso sui volti dei ragazzi e dei muri lasciati in rovina?

Dov'è mai la relazione, se nelle città sono infranti sotto tutti gli aspetti l'unità, l'armonia e lo splendore su cui si fonda ogni relazione? Se nelle cose viene rotta la possibilità di comunicare, il passaggio di questa frattura ai cuori - almeno ai più fragili - è, per i due criminologi, scontato.

Però:  tanto è vera la teosi funesta delle "finestre rotte", tanto più lo sarà, in forza della spinta alla positività impressa loro, come visto, dalla santissima Trinità, la sequenza contraria delle "finestre riparate", giacché armonia chiama armonia, levatrice della bontà è la bellezza, l'arte contagia l'etica. Per non dire poi quale motore sia (sarebbe, specie ora) allo sviluppo sociale ed economico, fare le cose belle invece che sciatte.

La Chiesa è una madre che mai rigetta la sua natura di madre, e alle anime che, sparse per le strade e le piazze degli immensi "non luoghi" di Marc Augé, si ricordano di lei, essa risponde con amorosa sollecitudine come sempre ha risposto. E nemmeno attende che quelle anime, chiuse nei volti cosificanti delle periferie incasermate, si ricordino di lei, si volgano alla sua bontà di Madre, ma va ella stessa premurosa per prima a loro; e lei per prima chiama a sé chi sempre l'ha coadiuvata nella sua opera di evangelizzazione e nella sua spinta alla santificazione:  letterati, artisti, teologi, architetti, filosofi, asceti, musicisti, educatori, poeti, accorrono tutti gli uomini che, vedendo l'invisibile irradiarsi potente dall'ostia consacrata, hanno imparato cosa dire su verità, bellezza e bontà.


(©L'Osservatore Romano - 30 settembre 2009)
Caterina63
00martedì 6 ottobre 2009 18:49
A colloquio con Timothy Verdon a dieci anni dalla lettera di Giovanni Paolo II

Quando il Papa scrisse
ai suoi colleghi (artisti)



di Fabio Colagrande

A quarantacinque anni dall'incontro di Paolo VI con gli artisti nella cappella Sistina e a dieci dalla lettera a essi indirizzata da Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI ha invitato il mondo dell'arte per un dialogo che si svolgerr il 21 novembre proprio nella cappella affrescata da Michelangelo. Nel corso della presentazione dell'avvenimento, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha spiegato che il Papa intesserr un dialogo "nella speranza che risorga un'alleanza feconda tra arte e fede", nella scia della Lettera agli Artisti firmata dal suo predecessore il giorno di Pasqua del 1999.
Ma quanto fu importante dieci anni fa la pubblicazione di questo documento, che riprendeva temi gir toccati da Papa Montini in chiusura di concilio? Risponde monsignor Timothy Verdon, storico dell'arte e collaboratore de "L'Osservatore Romano".
"In quel momento storico - ci dice - agli artisti sembrava che il rapporto privilegiato che Paolo VI aveva voluto instaurare con loro si fosse ormai perso o fosse stato momentaneamente sospeso. Durante il suo pontificato, infatti, Giovanni Paolo II aveva dovuto affrontare problemi di vasta portata e non aveva apparentemente dedicato grande attenzione alle tematiche dell'arte. Dunque quella lettera fu essenziale per rinnovare l'apertura della Chiesa verso il loro mondo".

Quale fu la prima novità che venne colta?

Mentre Paolo VI si era rivolto agli artisti come amatore, ammiratore e gran conoscitore dell'arte, Giovanni Paolo II si rivolse loro come un artista parla ai suoi "colleghi". Papa Wojtyla scriveva come colui che ha sperimentato interiormente il dono della creatività artistica. Ciò è chiaro fin dalle prime righe e conquistò tutti.

Quale aspetto la colpì di più di quel documento?

Prima di tutto il fatto che l'estetica personale di Giovanni Paolo II fosse aperta all'arte dell'oriente cristiano. Wojtyla cita, per esempio, una frase del filosofo russo Pavel Florenskij dove si evoca lo scintillio delle candele sull'oro delle icone. Ma tutto il tono della lettera è caratterizzato da una dimensione mistica particolare, tipica dell'arte e della spiritualità delle Chiese d'oriente. Inoltre - e ciò non sembri in contraddizione con quanto appena detto - il Papa polacco, provenendo da una cultura che aveva conosciuto il "comunismo pratico", insiste in quel documento sulla funzione "pratica" della creazione artistica. L'arte, nel suo pensiero, deve entusiasmare le persone al lavoro, deve creare lo stato d'animo ideale perché ci si possa poi dedicare alle opere che Dio vuole dall'uomo.

Nella lettera il Papa scriveva che la Chiesa ha bisogno dell'arte e fotografava al tempo stesso un certo distacco che caratterizza l'epoca moderna tra il mondo dell'arte e quello della fede. Cos'è cambiato da allora?

In questi dieci anni, e in particolare oggi nel contesto della crisi economica, molti hanno capito che quello che era sembrato un distacco geneticamente culturale - tra gli obiettivi della Chiesa nel promuovere l'arte sacra antica e quelli che sono stati definiti come obiettivi "autosufficienti" dell'arte del XX secolo - era in realtà artificiale. Man mano che l'impoverimento culturale del secolarismo del nostro tempo ha mostrato tutta l'inadeguatezza di questo approccio per affrontare le sfide attuali, l'uomo dell'inizio del nuovo secolo si è aperto maggiormente a una proposta trascendentale. Oggi, infatti, non si percepisce più, come un tempo, una grande distanza tra i traguardi della società civile e i traguardi spirituali della Chiesa e della sua arte. Sullo sfondo di una crisi non solo economica, ma anche morale e sociale, le persone si rendono conto che le risposte a certi interrogativi possono essere anche di carattere trascendentale.

Nel Novecento sono state costruite più chiese nel mondo che durante i precedenti diciotto secoli di cristianesimo. Molto si discute, però, sul loro livello estetico.

Il concilio Vaticano II ha interrogato la Chiesa sulla sua identità. Modi di concepire la nostra vita ecclesiale che erano in vigore dal concilio di Trento, e in molti casi da molto tempo prima, sono stati messi in discussione. Ciò non ha determinato una perdita di identità della Chiesa, perché la Chiesa sa bene chi è, ma ha provocato una difficoltà - che definirei "salutare" - nell'articolare in termini tradizionali questa identità. La Chiesa che dopo il concilio aveva dovuto articolare di nuovo il suo rapporto con Dio, con se stessa, con la società, con i non-credenti, doveva anche trovare un linguaggio architettonico e artistico per comunicare con immediatezza questi nuovi atteggiamenti ecclesiali. Ma questo tentativo è tutt'ora in corso.

È per lo stesso motivo che l'arte figurativa sacra sembra a volte stentare nel trovare un linguaggio moderno?

Per questo, ma anche per un altro motivo. Il grande linguaggio del passato era il linguaggio figurativo. Sin dal IV e dal V secolo la Chiesa ha riabbracciato il linguaggio del corpo umano e delle emozioni umane che era stato affinato dal paganesimo antico, dalla cultura greca e romana. Oggi, a ogni livello delle arti, si riscontra un grande disagio nel comunicare attraverso il figurativo. Già nell'Ottocento l'arte non cristiana aveva abbandonato la figurazione, anche se la Chiesa aveva continuato a utilizzarla. Oggi però ci si rende conto che rappresentare il sacro attraverso le figure crea una serie di problemi. Questo probabilmente anche perché noi, a differenza dei cristiani di altre epoche, viviamo ogni giorno in una società assolutamente satura di immagini spesso banali: fotografiche, televisive, digitali. L'immagine sacra deve invece portare in qualche modo il credente, o colui che aspira a trovare in un'immagine ragioni di fede, oltre il quotidiano, verso un Dio che rimane sull'orizzonte dell'esperienza. Quindi gli artisti sperimentano oggi l'imbarazzo di chi cerca, senza trovarlo, un linguaggio rispettoso del passato eppure capace di proiettare il credente verso quelle cose che "orecchio non ha sentito e occhio non ha mai visto" come hanno detto Isaia e san Paolo.

Rifacendosi a Paolo VI, lei ha affermato che comunicare nell'arte un sacro non generico, ma specificamente cristiano, è una vocazione paragonabile al sacerdozio. Quanti artisti sentono oggi questa vocazione?

Molti. All'interno della Chiesa sono moltissimi quelli che vivono il dono del loro talento artistico esattamente come una vocazione a rendere comprensibili le verità di fede. Molti artisti sentono di essere chiamati, come diceva Papa Montini, a carpire dall'alto ciò di cui parlano i sacerdoti ordinati e quasi come sacerdoti della materia, trasfigurare quest'ultima per comunicare concetti di fede che altrimenti resterebbero per molte persone astratti e difficili. Ci sono addirittura artisti al di fuori della Chiesa che, cercando di capire il mistero della loro creatività, arrivano a rendersi conto che il loro talento va molto oltre la mera figurazione del reale, oltre quella sorta di sottile compiacimento del bello impuro che oggi ci circonda nella pubblicità. La Chiesa ha oggi veramente l'obbligo di aiutare questi artisti a trovare la luce che Dio ha messo nei loro cuori, a riconoscere questa spinta, ad andare al di là di ciò che l'arte commerciale può offrire, a cogliere l'invito di Dio a rendere visibile il suo volto.



(©L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009)


La Passione di Cristo descritta da James Tissot nei suoi eccellenti acquerelli




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Caterina63
00venerdì 23 ottobre 2009 18:21
Verso l'incontro di Benedetto XVI con gli artisti

L'armonia
è l'altro volto del bene


di Gianfranco Ravasi

"La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice". Questa deliziosa annotazione dei Saggi di Francesco Bacone è una salutare sferzata sia a un'arte che si raggomitola su se stessa seguendo canoni stilistici sempre più indecifrabili, sia a una critica che adotta un esoterismo oracolare tale da impedire, piuttosto che facilitare, l'accesso al senso profondo dell'opera d'arte. Alle soglie dell'incontro tra Benedetto XVI e gli artisti, che si svolgerà il 21 novembre prossimo in quella vera "ricca gemma" che è la Cappella Sistina, non vogliamo ora riproporre il tema centrale di quell'evento, ossia il rinnovato dialogo tra fede e arte, ritessendo un'alleanza che in quest'ultimo secolo si è infranta, nonostante il vigoroso appello che 45 anni fa, nel 1964, Paolo VI aveva rivolto agli artisti di allora nella stessa straordinaria cornice spaziale.


È nostra intenzione, invece, suggerire una modesta e semplificata analisi su quel "grande codice" della nostra arte che è pur sempre la Bibbia, l'atlante iconografico sfogliato per secoli e ora relegato sullo scaffale polveroso dell'oblio negli atelier degli artisti. Non punteremo però su un'analisi dell'influsso esercitato dalle Scritture Sacre sull'esercizio artistico espresso in un immenso catalogo di opere, quanto piuttosto su un argomento molto delicato e anch'esso accantonato ai nostri giorni, quello della bellezza. Le stesse cattedre o i saggi di estetica cercano di star lontani dall'interrogarsi su questo soggetto così fluido e inafferrabile, anche perché ogni definizione o verifica risulterebbe simile a uno stampo freddo che congela l'incandescenza della bellezza. Aveva ragione Ezra Pound quando nel suo Artista serio osservava che "non ci si mette a discutere su un vento d'aprile:  semplicemente gli si va incontro e si è rianimati. Lo stesso accade quando ci si imbatte in un pensiero di Platone che vola veloce o in un affascinante profilo di un volto o di una statua".

Consapevoli di questo limite, ci accontenteremo di vedere come la Bibbia riesce a dire a suo modo qualcosa sul bello, ovviamente lasciando tra parentesi il bello che tanti autori sacri hanno manifestato attraverso le loro opere "ispirate" (un nome per tutti, Giobbe). "In confronto col pensiero greco colpisce anzitutto la scarsa importanza che il concetto del bello ha nell'Antico Testamento. Complessivamente questo problema non riscuote l'interesse del pensiero biblico". Così scriveva Walter Grundmann nella voce kalòs, "bello", di uno dei monumenti dell'esegesi tedesca, il Grande Lessico del Nuovo Testamento. A lui faceva eco Joachim Wanke quando, in un altro strumento importante come il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, osservava che "in entrambi i Testamenti il bello nel senso della concezione platonica ed ellenistica non è preso in considerazione". Anzi, lo stesso autore - evocando indirettamente le parole paoline sulla croce "scandalo" e "stoltezza" per la cultura ambiente nella quale il cristianesimo è sbocciato e fiorito - notava che "la croce è certo la più radicale dissoluzione del concetto classico di perfezione e bellezza".

Ora, è indubbio che il mondo greco-latino - sia pure in forme molto variegate - ha dedicato al tema del bello riflessioni di straordinaria intensità e fascino, anche se in senso stretto la filosofia estetica è una branca del sapere piuttosto recente, essendo stata codificata - almeno a livello terminologico - solo nel Settecento col pensatore tedesco Alexander Baumgarten. È evidente, però, che la grande metafisica greca e la sua gnoseologia avevano già offerto le basi per esaltare il nesso tra essere, vita e bellezza, così da poter affermare col filosofo Plotino che il bello è "la fioritura dell'essere", la sua perfezione. Inoltre la contemplazione pura e libera dell'armonia delle forme costituiva una componente dell'arte e della letteratura di quella civiltà.
Tutto questo - bisogna riconoscerlo - non appassiona gli autori sacri dai quali è assente l'atteggiamento "romantico" di chi si sofferma abbacinato e affascinato davanti alle meraviglie cosmiche o allo splendore delle forme (anche se qualche eccezione, come vedremo, è possibile). Si ha, infatti, una concezione molto più funzionale del bello, al punto tale che si verifica già a livello lessicale un fenomeno molto significativo. Il principale termine estetico ebraico è tôb:  esso ricorre 741 volte e ha significati molto fluidi che vanno dal "buono" al "bello", all'"utile" e al "vero", al punto tale che la stessa antica traduzione greca della Bibbia detta "dei Settanta" è ricorsa ad almeno tre aggettivi greci diversi per rendere questo vocabolo (agathòs, "buono", kalòs, "bello" e chrestòs, "utile").

Similmente nel greco neotestamentario il termine kalòs, che ricorre 100 volte, è normalmente sinonimo dell'altra parola greca, agathòs, "buono", tranne in un unico caso, quando Luca (21, 5) ricorda che, davanti al tempio erodiano di Gerusalemme, "alcuni parlavano delle sue belle pietre (lìthoi kaloì)". Il vocabolo è destinato, invece, sempre a delineare le qualità morali di un atto o di una persona o di una realtà, oppure la sua capacità operativa. Così, tanto per fare qualche esempio, si parla di "opere buone", di "buona condotta", di "buona coscienza", usando sempre l'aggettivo kalòs. Cristo, come è noto, si autodefinisce nel Vangelo di Giovanni (10, 11.14) come "pastore kalòs", ma il significato primario - come si ha nelle versioni - è quello di "buon pastore", e così accade in altri usi di quell'aggettivo ("buon diacono, buon soldato, buoni amministratori, buon maestro").

San Paolo usa il verbo kalopoièin per dire "fare il bene" (2 Tessalonicesi, 3, 13) ed è suggestiva l'esclamazione della folla che, di fronte ai miracoli di Gesù, esclama:  "Ha fatto kalôs ogni cosa!" (Marco, 7, 37), laddove è evidente che quel "bello" è in realtà un "bene". Potremmo andare avanti a lungo in queste esemplificazioni per scoprire sempre che il "bello" neotestamentario - anche su influsso dell'Antico Testamento e dell'ebraico - altro non è che il "buono", il "bene", la bravura, la legittimità o anche l'utilità come "il buon frutto, seme, perla, pesce, albero", sempre espressi con l'aggettivo kalòs. Detto questo, bisogna, però, fare un ulteriore passo. Non è che gli autori sacri ignorino la bellezza in quanto tale, tant'è vero che esiste un altro termine ebraico, jafeh, che significa "stupendo, incantevole, bello" in senso stretto, come na'weh è "affascinante". Solo che raramente la finalità di questa ammirazione è meramente estetica.

Così, quando il salmista "contempla il Tuo (di Dio) cielo, opera delle Tue dita, la Luna e gli astri che tu hai fissato", apparentemente abbandonandosi alla scoperta della bellezza imponente degli spazi siderali, la domanda che si pone rivela la vera finalità di quella contemplazione che è, invece, di taglio teologico-esistenziale:  "Che cos'è mai l'uomo perché te ne ricordi, l'essere umano perché te ne curi?" (Salmo, 8, 4-5). Anche il profeta Geremia - che pure è considerato da alcuni come il poeta biblico più attento alla bellezza della natura e ai suoi ritmi - quando, ad esempio, si sofferma ad ammirare "un ulivo verde e maestoso" o "un tamerisco nella steppa, in luoghi aridi e desertici e in una terra di salsedine" (11, 16; 17, 6), lo fa con un atteggiamento "morale" e non estetico, pronto com'è a cavarne subito una lezione etica per Israele.

Similmente la straordinaria e potente evocazione presente nelle 16 interrogazioni rivolte da Dio a Giobbe nel primo dei due discorsi divini finali di quel libro non ha lo scopo di dipingere un meraviglioso arazzo di scene cosmiche e animali quasi "a colori" - come sembrerebbe al lettore immediato - bensì di rivelare all'uomo l'esistenza di una 'esah, di un "progetto" trascendente insito al creato e di affermarne la legittimità, la coerenza, nonostante l'apparente incomprensibilità per la razionalità umana. Anche un libro che nasce in piena atmosfera greca come quello della Sapienza (siamo verso la fine del I secolo prima dell'era cristiana) non ha dubbi sul fatto che "belle sono le realtà che si contemplano" (13, 7) ma l'autore premette subito questa limpida considerazione:  "Dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per  analogia  si  contempla il loro artefice" (13, 5).  È  quella che la filosofia definirà  appunto  come "l'analogia" per risalire dal creato al Creatore attraverso un percorso di conoscenza "naturale".

Era ciò che appariva simbolicamente in una pagina poetica mirabile, il Salmo 19. Lo sfolgorare del sole, comparato a uno sposo che esce all'alba dalla stanza nuziale o a un eroe atletico che si scatena nella corsa lungo la sua orbita è in realtà epifania di una parola divina cosmica:  "I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l'opera delle sue mani. Il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la conoscenza" (19, 2-3). La colossale coreografia cosmica che il Salmo 148 suppone non è tanto una sfilata di 22 (o 23) creature, tante quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico, da ammirare con stupore; è, invece, un coro di alleluia che si leva al Creatore all'interno di una sorta di cattedrale cosmica. Lo stesso si deve ripetere per altri testi salmici, a prima vista simili a "uno schizzo del mondo, dipinto in pochi tratti", come definiva il Salmo 104 il padre della moderna climatologia e oceanografia, Alexander von Humboldt (1769-1859):  in realtà, anche in quel caso il poeta biblico vuole esaltare l'opera del Creatore  che "manda il suo spirito" per dar origine alla vita e "rinnovare la Terra".

In questa stessa linea dobbiamo collocare anche quella straordinaria capacità narrativa svelata dalle 35 parabole di Gesù (72, se si allarga l'elenco anche alle immagini o alle metafore sviluppate). Sappiamo, infatti, che Cristo è un oratore affascinante. Egli parte dal mondo dei suoi uditori fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di erbacce e di messi, di vigne e di fichi, di pecore e di pastori, di cagnolini, di uccelli, di gigli, di cardi, di senapa, di pesci, di scorpioni, serpi, avvoltoi, tarli, di venti, di scirocco e tramontane, di lampi balenanti e piogge o arsure. Ci sono nei suoi discorsi bambini che giocano sulle piazze, cene nuziali, costruttori di case e di torri, braccianti e fittavoli, prostitute e amministratori corrotti, portieri e servi in attesa, casalinghe e figli difficili, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri ridotti alla fame, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, ci sono monete piccole e grandi, ci sono tesori nascosti e mense con cibi puri e impuri secondo le regole kasher dell'ebraismo e altro ancora.

Tuttavia, noi sappiamo che Cristo non si ferma davanti ai voli degli uccelli o alla fragranza delicata e sontuosa dei gigli del campo per comporre una lirica, bensì per condurre chi li sta contemplando verso altre mete. Non per nulla le parabole iniziano spesso così:  "Il Regno dei cieli è simile a". L'estetica è, quindi, funzionale all'annunzio, bellezza e verità s'intrecciano, l'armonia è un altro volto del bene. In questo senso si ammonisce l'annunciatore a dire Dio in modo bello (quanto questo monito è stato disatteso nella storia della predicazione e lo è ancor oggi, ad esempio, nell'arte sacra!). Non per nulla già il salmista esortava i fedeli così:  "Cantate a Dio con arte!" (Salmi, 47, 8). E la "gloria" divina è sempre raffigurata nella Bibbia come immersa nello splendore della luce e nella pienezza della perfezione.

Dobbiamo, però, riconoscere che si assiste anche a un processo in cui la bellezza acquista un suo spazio rilevante, sia pure sempre nella cornice di quella finalità teologica a cui l'autore biblico tende. È significativo il caso della creazione descritta nel capitolo 1 della Genesi. Là, infatti, al termine dei singoli atti creativi di Dio è apposta una "formula di approvazione", ribadita sette volte (1, 4.10.12.18.21.25.31), che suona così:  "Dio vide che era tôb". Sappiamo già che questo termine significa sia "buono" sia "bello". È evidente che qui l'aspetto estetico, a nostro avviso, ha un certo primato. La "visione" stessa, la soddisfazione per l'opera compiuta, l'immagine del Creatore-artista inducono a rendere quella frase così:  "Dio vide che era bello", oppure:  "Dio vide:  era bello!". Certo, non si esclude la positività dell'essere creato, ma è indubbio che la qualità estetica - come annotava un esegeta, Claus Westermann - "non è qualcosa di aggiunto alla creazione, ma appartiene al suo stesso statuto e alla sua struttura".

Dopo tutto, anche la Bibbia riconosce che "belle" erano Rebecca, Sara, Betsabea, la regina persiana Vasti, Ester, Giuditta, come lo erano anche il piccolo Mosè, Davide, il suo figlio Adonia, i giovani ebrei di Babilonia. È su questa scia che dobbiamo porre quel gioiello poetico che è il Cantico dei cantici nel quale l'accento sulla dimensione estetica della natura e della persona umana è marcato, sia pure senza mai dimenticare la finalità dell'esaltazione dell'amore, la realtà superiore e trascendente celebrata da quei versi mirabili. Al centro, infatti, si ha un "giardino chiuso", anzi, un "paradiso" (pardes) vegetale (4, 13), che spesso si trasforma in vigne lussureggianti con viti in fiore; si ha un vero e proprio "erbario" dominato dal giglio rosso palestinese (o forse l'anemone), accompagnato dal narciso, mentre folto è il bosco dell'amore con cedri, ginepri, meli, melograni, palme, alberi odorosi, fichi, mandragore, rovi, alberi selvatici, noci e così via. Monti, colline, rupi, valli, deserti, campi, sorgenti, fiumi, acque, laghi, fiamme, scintille si stendono davanti al lettore. Su questa terra, avvolta in una dolce primavera (2, 8-17), vola la colomba, l'uccello-simbolo per eccellenza, emblema di amore, tenerezza, bellezza e fedeltà, corrono gazzelle e cerbiatti, altrettanto rilevanti a livello simbolico, appaiono i greggi, i cavalli, i leoni, i leopardi, le volpi, i corvi, mentre latte e miele rimandano a vacche e api.

Ma è soprattutto il corpo umano, femminile e maschile, dipinto in tavole colme di eros (4, 1-5; 5, 10-16; 6, 4; 7, 10), a costituire il vertice della bellezza creata, come è attestato dall'esclamazione stupita e reiterata:  "Quanto sei affascinante (jafah), compagna mia, quanto sei affascinante! (...) Quanto sei affascinante, mio amato, quanto sei incantevole (na'îm)" (1, 15-16). "Tutta affascinante (jafah) sei, compagna mia, difetto non c'è in te!" (4, 7). La stessa natura è descritta nella sua bellezza attraverso una sorta di transfert:  il paesaggio, infatti, si trasforma in uno specchio dell'anima e delle sue sensazioni di felicità, di armonia, di pienezza. Tuttavia, come già si affermava, la dimensione somatica non è mai meramente estetica, ma è il punto di partenza e d'arrivo di un reticolo di relazioni interpersonali, di sensazioni interiori, di esperienze psicologiche e spirituali. Sta di fatto, però, che questa meta trascendente è raggiunta attraverso un'intensa e creativa contemplazione estetica ed estatica della corporeità che, nel mondo biblico, non è mai solo fisicità ma unità psico-fisica della persona.

L'esaltazione della bellezza nelle sue epifanie cosmiche ha, però, una sua espressione particolare in una pagina biblica tarda, all'interno di un inno collocato nella sezione finale dell'opera del Siracide, un sapiente del II secolo prima dell'era cristiana. L'inno inizia in 42, 15 e si conclude in 43, 33. La prospettiva, da noi sempre sottolineata, dell'intreccio tra estetica e teologia permane, ma è evidente il fiorire limpido della contemplazione lirica della bellezza del creato. L'aspetto teologico è esplicito in apertura e chiusura del canto allorché Dio si leva sull'universo con l'efficacia della sua parola, lo splendore della sua gloria, la sua trascendenza e onniscienza. Per la Bibbia la natura è sempre "creato", è un "cosmo"  ordinato  che  risponde a un progetto e a un disegno capace di riflettere il suo autore:  "Come il Sole che  sorge  illumina  tutto  il creato, così della gloria del Signore è piena la sua opera" (42, 16).

Per questo, di fronte all'architettura cosmica, l'uomo non può che esclamare:  "Egli è tutto!" (43, 27).

Il Siracide, però, rivela in modo più esplicito rispetto alla precedente tradizione un atteggiamento lirico. Egli s'affaccia con stupore sulle meraviglie dell'universo e le fa sfilare davanti ai suoi occhi abbacinati da tanta bellezza. È questo il contenuto della parte centrale, vero cuore poetico dell'inno. Questa sequenza, che è quasi pittorica o filmica, parte dal firmamento limpido e luminoso, nel quale irrompe innanzitutto il Sole a cui è riservato un bozzetto che marca l'incandescenza del suo irraggiarsi (43, 1-5). Subentra naturalmente il quadretto dedicato alla Luna, celebrata soprattutto nella sua funzione "cronologica", essendo la matrice del calendario lunare liturgico e civile (43, 6-8). A essa si associano le stelle, concepite come sentinelle che vegliano nella notte (43, 9-10). Ecco, subito dopo, irrompere maestoso l'arcobaleno, tracciato nel cielo dalla stessa mano divina (43, 11-12). La serie successiva, pur connettendosi alla volta celeste, ha una sua autonomia:  entra, infatti, in scena la meteorologia col suo apparato di fulmini, dotati di "raggi giustizieri", delle nubi che "volano come uccelli da preda", dei chicchi di grandine simili a polvere, del tuono che fa sobbalzare la terra, dei venti impetuosi (43, 13-17).

Sempre lungo il filo dei fenomeni meteorologici, una sorta di deliziosa miniatura è dedicata alla neve la cui caduta lieve è comparata al volo degli uccelli e degli stormi di cavallette:  "il suo candore abbaglia gli occhi e, al vederla fioccare, il cuore rimane estasiato" (43, 18). A essa è associata la brina, simile a grani di sale che rendono brillanti come cristalli i rami su cui essi si posano (43, 19). Queste immagini invernali trascinano con sé l'evocazione della gelida tramontana che fa ghiacciare le superfici delle acque, rivestendole quasi di una corazza (43, 20). Paradossalmente la scena del gelo ha effetti analoghi a quelli estivi perché anch'esso brucia la vegetazione come accade quando domina l'arsura (43, 21):  in tal modo il poeta riesce a trasferire il lettore nell'estate infuocata, ove è attesa la rugiada che feconda la terra riarsa (43, 22). L'ultima sequenza di immagini ci sposta sul mare ove sono "piantate" come oasi o fiori le isole. Del suo mistero fatto di abissi, di tempeste imponenti, di mostri e terrori, ben noti alla cosmologia biblica, restano le testimonianze dei naviganti che possono solo affidarsi alla parola divina che salva (43, 23-26).

L'esclamazione iniziale dell'inno, scandita da un interrogativo retorico, è l'ideale espressione di un'ammirazione lirica che scopre il fulgore della bellezza:  "Ogni opera supera la bellezza dell'altra:  chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?" (42, 25). La dimensione estetica è, quindi, riconosciuta, anche se - lo ripetiamo ancora una volta - essa non è mai del tutto fine a se stessa ma diventa sempre, più o meno esplicitamente, una via pulchritudinis, un percorso bello e glorioso per approdare al Creatore, al suo progetto e alla sua opera. E la stessa bellezza letteraria di molte pagine bibliche ha come meta ultima la proclamazione dell'infinita bellezza e verità della Parola divina.


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)


Caterina63
00domenica 1 novembre 2009 14:10

IL TESORO DELL'ARTE


L’arte è un tesoro di catechesi inesauribile, incredibile. Per noi è anche un dovere conoscerla e capirla bene. Non come fanno qualche volta gli storici dell’arte, che la interpretano solo formalmente, secondo la tecnica artistica. Dobbiamo piuttosto entrare nel contenuto e far rivivere il contenuto che ha ispirato questa grande arte. Mi sembra realmente un dovere — anche nella formazione dei futuri sacerdoti — conoscere questi tesori ed essere capaci di trasformare in catechesi viva quanto è presente in essi e parla oggi a noi.

(Benedetto XVI - Incontro del Santo Padre con i parroci e il clero della Diocesi di Roma - 22 Febbraio 2007)

APPELLO AL PAPA PER RITORNARE ALL'ARTE SACRA VERA ED AUTENTICA

Il Papa ci salvi dalle brutte chiese

Francesco Borgonovo

Quando a Foligno è stata inaugurata la chiesa a forma di cubo progettata da Massimiliano Fuksas, i cittadini umbri hanno tempestato il web di messaggi per protestare contro l’opera, da alcuni considerata tra gli edifici più brutti d’Italia.
Quel caso ha permesso che fra critici e architetti si aprisse un dibattito, di cui ha dato conto su queste pagine Caterina Maniaci qualche tempo fa.
Ora la questione viene sollevata nientemeno che di fronte a Papa Benedetto XVI, tramite
un appello che sarà reso pubblico il prossimo 4 novembre, in previsione dell’incontro con gli artisti provenienti da tutto il mondo che si terrà il 21 del mese.
Il documento sta ancora circolando fra gli esperti, ma finora pare abbia raccolto adesioni importanti. Per esempio quella dello scrittore Martin Mosebach, autore di Eresia dell’informe, del giornalista Sandro Magister, dell’architetto Ciro Lomonte, del filosofo Enrico Maria Redaelli. E ancora compaiono lo storico Paul Badde (corrispondente del giornale Die Welt), il filologo Francesco Colafemmina, il teologo Michele Loconsole e l’editore Manuel Grillo.

Strutture poco amate dai fedeli

Il fatto è che molte delle nuove chiese - come quella di Dio Padre Misericordioso nel quartiere di Tor Tre Teste a Roma, quella di San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano o quella di Gesù Redentore a Modena ideata da Mauro Galantino - non spiccano per bellezza e, soprattutto, non sono amate dai fedeli.
«Vediamo crescere di giorno in giorno edifici sacri spogliati del sacro e costruiti senza alcuna cognizione della liturgia, ma modellati sul funzionalismo o sull’estro inconsulto e arbitrario dell’architetto creatore», recita l’appello. «Vediamo le nostre chiese pullulare di immagini e simbolismi più genericamente “religiosi”, ma che non illustrano alcuna realtà genuinamente cattolica». Secondo gli estensori, «l’arte e l’architettura sacre oggi non sembrano favorire l’incontro dolce e vivificante» con Dio, ma piuttosto «ostacolano e pervertono costantemente».
Di chi è la responsabilità se i credenti si devono raccogliere in edifici orrendi? Non solo degli architetti che li progettano, ma anche di chi commissiona le opere.
Ecco che, su questo punto, l’appello fa riferimento al Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinal Gabriele Paleotti, risalente al 1582, secondo il quale «gli abusi non sono tanto da ascrivere agli errori che gli artisti commettono nel dar forma alle immagini, quanto piuttosto agli errori dei signori che le commissionano e che trascurano di commissionarle come si dovrebbe: essi sono le vere cause degli abusi, in quanto gli artisti non fanno che seguire le loro indicazioni».
Insomma, anche i committenti si fanno spesso incantare dalle sirene della moda, motivo per cui si affidano ad archistar come Massimiliano Fuksas o Renzo Piano, forse senza pensare che i trend passano, ma gli edifici restano.
«L’opera artistica e architettonica», scrivono Lomonte e gli altri, «a differenza della liturgia, permane anche dopo la conclusione della liturgia stessa. Essa ha perciò il compito aggiuntivo di essere eco della liturgia, una volta che questa sia terminata. Pertanto la decorazione della chiesa e la sua struttura architettonica debbono rivendicare una inalienabile funzione pedagogica e protrettica verso la fedeltà al messaggio evangelico e liturgico».

Il sito internet per le adesioni

Dunque basta con le chiese che assomigliano a capannoni o cubi di cemento, meglio qualcosa di più semplice, che però si adatti al ruolo che gli edifici sacri devono svolgere.
Il documento, come dicevamo, sarà disponibile online dal prossimo 4 novembre sul sito internet
http://www.appelloalpapa.blogspot.com/.

Per aderire, invece, basta scrivere una email all’indirizzo appelloalpapa@gmail.com. Chissà che Benedetto XVI non decida di prendere personalmente in mano la questione.

© Copyright Libero, 1° novembre 2009

Caterina63
00mercoledì 4 novembre 2009 20:09
Ricorando a tutti questo appello:

ATTENZIONE: APPELLO AL PAPA (serio) PER DIFENDERE L'ARTE NELLE CHIESE

interessante l'articolo che segue....

Una monografia sull'architetto Andrea Vici morto nel 1817

I tecnici
cascano sempre in piedi



di Antonio Paolucci

Quando nel 1817 Andrea Vici muore a settantaquattro anni d'età al culmine del successo professionale, della notorietà e del prestigio - principe dell'Accademia di San Luca, primo architetto di San Pietro e delle fabbriche lauretane, ingegnere capo delle acque a Roma e nello Stato, celebre in Italia e in Europa per le sue opere di ingegneria idraulica e di bonifica agraria nella cascata delle Marmore, lungo il corso dell'Aniene, nella Val di Chiana pontificia - quando, dicevano, il celebre professionista muore, il "Diario di Roma" gli dedica un elogio funebre tanto sintetico quanto intelligente.

Sono poche parole che rappresentano assai bene il carattere, il temperamento e anche il destino del personaggio. Parole che possono essere assunte a emblema della personalità umana e professionale di Andrea Vici, il marchigiano di Arcevia che era arrivato a Roma diciassettenne nel 1760 e che Roma aveva conquistato e affascinato sotto l'antico regime, sotto la rivoluzione, sotto l'impero e sotto la restaurazione.

Uomo di "edificante spirito di cristiana pietà, di probità inalterabile e del complesso delle più gradevoli qualità sociali". Così il "Diario di Roma" del 10 settembre 1817 e non si poteva dire meglio a sintesi della vita del grande architetto e ingegnere.

Della "cristiana pietà" non abbiamo motivo di dubitare. Andrea Vici veniva da una famiglia di salda tradizione cattolica, da generazioni al servizio della Chiesa. Aveva un fratello prete, gli artefici del suo successo professionale e della sua non piccola fortuna economica erano stati cardinali, legati pontifici, monsignori di curia, rettori di monasteri, di conventi, di confraternite.


"La probità inalterabile" intesa come etica professionale, competenza, efficienza, capacità di valutare esattamente il rapporto costi-benefici e di arrivare al risultato migliore nel tempo più breve e con il massimo risparmio, tutto questo era il vero punto di forza di Andrea Vici, la ragione "tecnica" del suo successo.

Egli era "il pratico giudizioso architetto" di cui parla il marchigiano Amico Ricci, uno dei suoi primi estimatori. Era il professionista perfetto, versatile, intelligente, efficiente e onesto che ogni ministro dei lavori pubblici vorrebbe avere.

C'era dell'altro, però, e fa bene l'autore del necrologio a sottolinearlo. Andrea Vici era uomo dotato "delle più gradevoli qualità sociali". Erano qualità che si rivelarono importanti e addirittura preziose negli anni difficili che chiudono il XVIII secolo e aprono il nuovo. Cordiale, affidabile e adattabile, Andrea Vici si trovò a suo agio con i cardinali dell'antico regime come con i giacobini del 1798, con i commissari francesi come con i notabili della restaurazione.

Quando a Roma arrivò la rivoluzione, i triumviri del Governo provvisorio lo confermarono in tutti i suoi incarichi "per attaccamento alla Repubblica e per competenza". Che il clericale Andrea Vici nutrisse particolare affezione alla Repubblica scomunicata dal Papa è lecito dubitare. Ma la "competenza" c'era e gli veniva riconosciuta. Questa era la cosa davvero importante. Perché la politica cambia ma i mestieri e i saperi restano.

Così ragionava il grande tecnico Andrea Vici. Non diversi, in quegli anni, dovevano essere i pensieri dell'amico Antonio Canova il quale servì, con equanime generosità, il Papa e Napoleone, i granduchi russi e i milord inglesi, i principi polacchi e il presidente della giovane America democratica e virtuosa.

Ad Andrea Vici è stata dedicata una monografia (Andrea Vici. Architetto e ingegnere idraulico, Milano, Silvana Editoriale, 2009, pagine 287) curata da Maria Luisa Polichetti con la collaborazione di Angela Montironi. È un'opera che vede la presenza di parecchi autori:  specialisti di architettura italiana del Settecento come Elizabeth Kieven, Jörg Garms, Loretta Mazzoni, Ester Donninelli e così via, e anche studiosi che hanno ereditato la professione e il nome dell'avo quali Clemente Busiri Vici e Francesco Saverio Folchi Vici.

Perché in assenza di discendenti maschi, Barbara, figlia di Andrea, ebbe il privilegio di conservare il cognome del padre così che, sposando prima un Busiri poi un Folchi, diede origine a due dinastie di noti professionisti romani.
Nel libro, presentato recentemente all'Accademia di San Luca, la personalità e l'attività professionale di Andrea Vici sono analizzate in ogni loro parte. Lo vediamo ingegnere idraulico nelle paludi della Val di Chiana che veniva bonificata nel suo segmento umbro in accordo con il granduca di Toscana. Lo vediamo collaboratore del Vanvitelli nella Reggia di Caserta e partecipe del suo studio a Roma ma anche commissario al terremoto nella Camerino devastata dal sisma terribile del 1799.

Al termine della vita lo vediamo sensibile, come nessun altro a quei giorni, ai problemi pratici della edilizia moderna. Quando, presidente dell'Accademia di San Luca, convince i colleghi a dibattere i cosiddetti "quesiti di architettura" e cioè indici di fabbricabilità, questioni legali, contenziosi condominiali e così via. È la modernità che, sulla scia dell'Enciclopedia e del Codice napoleonico, entra nell'universo tardo barocco all'interno del quale l'ingegnere architetto aveva avuto la sua prima educazione.

Andrea Vici si era formato in seguito nella Roma del Goethzeit, negli anni classicheggianti e protoromantici di Canova, di Piranesi, di Angelica Kauffmann, di Hackert, di Gavin Hamilton. Il suo immaginario estetico e quindi la sua sensibilità e il suo gusto si  collocano  fra  le Antichità romane del Piranesi (1757) e il monumento funebre di Antonio Canova a Clemente xiv ai Santi Apostoli (1787).

I capolavori di architettura che stanno agli estremi cronologici della sua storia professionale sono la Reggia di Caserta del Vanvitelli e la Piazza del Popolo di Valadier.

Come architetto egli non seppe essere né scopertamente barocco (sia pure nella variante razionalizzata e semplificata del Vanvitelli) né pienamente neoclassico. Questo spiega perché egli non abbia mai avuto in Roma commesse di particolare rilievo.

Con maggiore libertà e con esiti di raffinato compromesso poté esprimere il meglio del suo talento nella patria marchigiana alla quale rimase sempre legato da interessi familiari ed economici. La gran parte del libro monografico - schede di Angela Montironi e Loretta Mozzoni - è un accurato e prezioso censimento delle architetture che fra Macerata e Loreto, fra Osimo e Camerino, fra Morovalle Treia e Offagna, Andrea Vici realizzò nel corso degli anni. Sono edifici di servizio e di abitazione (canoniche, palazzi pubblici, dimore patrizie, ville di campagna), sono chiese, cappelle, porzioni di monasteri e di conventi, caratterizzati sempre da garbo, sobrietà, inserimento perfetto nel contesto urbano e nel paesaggio.


(©L'Osservatore Romano - 5 novembre 2009)

Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 10:01
Presentato il programma dell'incontro di Benedetto XVI del prossimo 21 novembre

La proposta di dialogo
della Chiesa al popolo dell'arte


Nel decennale della Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti e nel 45° anniversario dell'incontro con Paolo VI, il prossimo 21 novembre Benedetto XVI rinnoverà la proposta di dialogo della Chiesa al popolo dell'arte. Le motivazioni e i contenuti dell'iniziativa, che avrà luogo nella cappella Sistina, sono stati presentati nella mattina di giovedì 5, nella Sala Stampa della Santa Sede, dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, dal professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, e da monsignor Pasquale Iacobone, incaricato del dipartimento arte e fede del dicastero della Cultura.

Nel corso di questa seconda conferenza - la prima si era tenuta il 10 settembre scorso - sono stati resi noti l'elenco degli oltre 250 artisti che hanno risposto positivamente all'invito, e il programma di massima dell'avvenimento. Cinque le categorie presenti - pittura e scultura; architettura; letteratura e poesia; musica e canto; cinema, teatro, danza e fotografia - con invitati che arriveranno dai contesti geografici, culturali e religiosi più disparati. "Appartengono a tutte le arti - ha puntualizzato monsignor Ravasi - e non saranno solo cattolici, anche se questi ultimi saranno rappresentati in maniera sostanziale. Vengono senza ricevere sussidi né committenze - ha aggiunto - e qualcuno ha anche rinunciato a precedenti impegni pur di esserci".

L'incontro intende rinnovare l'amicizia e il dialogo tra la Chiesa e gli artisti e suscitare nuove occasioni di collaborazione. Non un punto d'arrivo, dunque, ma un inizio, "un seme, un germoglio, un momento - ha spiegato il presidente del Pontificio Consiglio - rappresentativo della volontà di dialogo tra la Chiesa e il mondo delle arti, che dovrà necessariamente svilupparsi in diverse tappe e con diverse modalità, valorizzando di volta in volta le molteplici componenti come anche le istituzioni nazionali o territoriali". Del resto per l'arcivescovo appare evidente il "divorzio" consumatosi nel tempo tra la Chiesa - che dopo aver promosso grandi rivoluzioni in campo artistico "sembra aver finito con l'accontentarsi di luoghi comuni o del pur nobile artigianato" - e gli artisti stessi, sempre più "tentati da sperimentazioni autoreferenziali e provocazioni". Ecco allora la necessità di "ritrovare un punto d'incontro", per "un dialogo comune".

Monsignor Iacobone, da parte sua, si è soffermato sugli aspetti organizzativi. "Prima dell'estate sono stati spediti cinquecento inviti - ha spiegato - ad artisti dei cinque continenti, selezionati da un'apposita commissione in base al prestigio di cui godono, all'alta qualità professionale e al loro impegno. Dopo l'estate sono cominciate ad arrivare le risposte, che hanno permesso di stilare l'elenco attuale. Nonostante i tempi ristretti - ha proseguito - le adesioni sono state al di sopra di ogni previsione", per quello che sarà un vero e proprio incontro e non una semplice udienza. Lo testimonia il programma che si apre nel pomeriggio di venerdì 20, con l'accoglienza dei partecipanti, i quali potranno visitare la Collezione di arte moderna e contemporanea dei Musei Vaticani, realizzata per volere di Paolo VI.

In proposito il professor Paolucci ha fatto riferimento al ruolo di Papa Montini. "La questione che Benedetto XVI affronta - ha ricordato - viene da lontano, dal cuore del Novecento, da quel grande intellettuale che fu Giovanni Battista Montini". Un Pontefice - ha aggiunto - che non esitò a esporsi in prima persona intraprendendo con coraggio e lungimiranza un cammino di riavvicinamento. Un Pontefice che il 7 maggio 1964 ricevette proprio nella Sistina gli artisti del tempo, come farà sabato mattina, 21 novembre, Benedetto XVI. Il direttore dei Musei Vaticani ha anche sottolineato la necessità di distinguere tra arte liturgica e arte religiosa, perché è soprattutto quest'ultima che deve cercare contiguità, assonanza con il mondo.

L'incontro degli artisti con Joseph Ratzinger, in quel luogo altamente simbolico ed evocativo in cui egli è stato eletto Papa, sarà scandito da momenti animati dalla cappella musicale pontificia Sistina, che eseguirà due mottetti di Pier Luigi da Palestrina.

Al saluto iniziale rivolto al Pontefice da monsignor Ravasi a nome dei presenti, seguiranno la lettura di brani tratti dalla Lettera agli artisti di Papa Wojtyla (4 aprile 1999) e il discorso di Benedetto XVI.

Alla fine gli artisti si ritroveranno nel braccio nuovo dei Musei Vaticani, dove verrà offerta loro, a nome del Papa, una medaglia appositamente coniata per l'occasione.
Al termine della conferenza stampa, rispondendo alle domande postegli dai giornalisti, l'arcivescovo Ravasi è intervenuto anche sulla discussione di questi giorni seguita alla sentenza della Corte europea di Strasburgo riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. "Spero ci sia la possibilità di riproporre questo che è uno dei grandi simboli della cultura occidentale" ha detto il presule, sottolineando come "L'Osservatore Romano" abbia rievocato giustamente l'intervento di Natalia Ginzburg a difesa del crocifisso pubblicato su "l'Unità" nel 1988. "La Ginzburg - ha concluso - parlava del crocifisso come simbolo culturale e religioso".


(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2009)

Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 11:45

L'ARTISTA CATTOLICO

El taller de San José - Opera del geniale artista spagnolo Arìstides Artal

di Francesco Colafemmina

C'era una volta un artista cattolico che viveva in una sperduta località della Spagna. In quel paesello sulla collina Miguel Encantado dipingeva continuamente opere sincere e splendide che rilucevano di una propria luce ed abbagliavano i fedeli della piccola chiesetta dedicata alla Madonna del Pilar, da lui affrescata nel corso di venti lunghi anni.

In una brumosa località della Renania viveva invece un mite organista cattolico, Hans Ritter. Smunto ed ossuto, il signor Hans si recava ogni sabato a provare la messa mattutina della domenica successiva. Suonava Frescobaldi e Bach, senza disdegnare Buxtheude ed Haendel.

L'artista romagnolo Cesare Michelotti invece, trascorreva le sue notti insonni a scolpire statue eteree e massicce, piene di linee schizzanti verso l'eterno e di forme che le ancoravano al sensibile. Amante di Canova e del Bernini i suoi angeli erano opere maestose, incarnazioni del sublime.

Nel centro storico di Licata abitava invece un anziano intagliatore, Calogero Cambiano. Le sue mani ruvide e nodose erano in grado di creare dei trionfi lingnei ineguagliabili. Sembrava un autentico ricamatore del legno, e mentre creava le sue opere per la cattedrale dei Santi Antonio e Vincenzo, pareva che le geometrie floreali, le superfici dorate dai riflessi cangianti, fossero già lì nel legno pronte ad esultare per la gloria di Dio.

Fra i campi di lavanda della Borgogna anche Philippe de Saint Michel lavorava nella sua bottega. Preparava le nuove vetrate policrome per l'abbazia di Saint Germain di Auxerre. In quella fumosa bottega avevano preso forma meravigliosi ricettacoli di luce, schermi capaci di trasferire la luce solare in un raggio di divina maestà.



Sono solo alcuni dei tanti, numerosissimi artisti cristiani sparsi per il mondo. Artisti umili, senza grandi nomi, capaci di vivere nell'ombra, lontani dalle cerimonie pompose e dagli happenings che sembrano andare tanto di moda negli ultimi anni.
Faticano a sbarcare il lunario, contrattano le proprie commesse risicate con parroci e vescovi che di arte non ci capiscono nulla e sono disposti a pagare di più un orrenda serie di stufe a funghetto da piazzare fra i banchi della loro fredda cattedrale, che l'opera del genio artistico da loro stessi commissionata.
Faticano a trovare un posto al sole, forse perchè non lo cercano. Sono artisti pronti a "servire" la loro Chiesa talvolta ingrata e sprezzante, senza attendersi un particolare riconoscimento che non sia quello di Dio.
Quando realizzano una loro opera e vanno dal parroco del paese a chiedergli di acquistarla, il parroco li maltratta, dice di non avere soldi, mentre in realtà ha appena sottoscritto un contratto per un nuovo auditorium nel quale ospitare il cineforum organizzato da un gruppo di arzille catechiste.
Altre volte fanno un dono al proprio Vescovo e dopo anni scoprono che è rimasto in uno scantinato, abbandonato. Mentre il vescovado trabocca delle luride opere di qualche artista contemporaneo strapagato ma incapace di esprimere alcun anelito artistico o spirituale.

Fermiamoci per un attimo e guardiamoli in volto questi artisti. Contempliamo i loro volti che molto spesso avremo visto nei nostri paesi e nelle nostre città, magari sbirciando in una oscura bottega, in un sottano polveroso, pensando che da quegli ambienti fosse impossibile trarre dei capolavori.
Guardiamoli e vedremo un riverbero di San Giuseppe, che non era certo il proprietario di un grande atelier, ma l'emblema dell'artigiano puro e semplice. Oggi l'artista è modaiolo, spesso è illetterato sotto il profilo della tecnica, ma il suo nome viene immediatamente legato all' "arte" perchè è a metà strada fra il fancazzismo e il libertinismo spirituale e materiale. Oppure soltanto perchè aderisce alle congreghe dei famosi, delle star... Ecco come si diventa artisti. Manovrati dai manager, dagli agenti, sponsorizzati qua e là pur di avere un ruolo importante indipendentemente da ciò che si va a realizzare.

Oggi che ci si appresta a celebrare in Vaticano l'Happening offerto dalla Martini e Rossi, happening nel quale l'udienza dal Papa sembra essere svilita ad un momento della gita culturale di questa scolaresca di nomi a la page, tutti gli artisti cattolici del mondo si sentono un po' rinnegati ed offesi. Trascurati in nome di coloro che fanno un'arte diversa e per nulla cristiana.
Trascurati in nome della moda e della notorietà.

Ma loro, i veri artisti che annaspano in mezzo alle difficoltà, continueranno a creare capolavori e meraviglie per la Gloria del Signore. Chi è se non proprio Lui che soffia in loro la forza di andare avanti, di dar vita a quell'armonia e quella perfezione che nel creato si sviluppano grazie all'opera creatrice di Dio?

Continueranno a farlo perchè forse, anche a differenza di taluni prelati, hanno ancora chiaro che l'arte non è mai alla moda, perchè essa non si rapporta alla caducità dell'uomo ma soltanto all'eternità del Signore.

Caterina63
00giovedì 12 novembre 2009 18:18
Com'è stata giudicata la "Cathedra Petri" realizzata dal geniale artista nella basilica Vaticana

Quando la critica illuminista
stroncava Bernini


Si conclude il 13 novembre nell'Aula del Sinodo in Vaticano il convegno internazionale "La basilica di San Pietro:  fortuna e immagine" curato da Vittorio Casale, Giovanni Morello e Sebastian Schütze. Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni.

di Maria Antonia Nocco
Università di Roma Tre

Il carattere eccezionale della basilica Vaticana si manifesta particolarmente, al di là delle forme e delle dimensioni, attraverso le sue opere; tra esse vi è la Cattedra di San Pietro. L'atteggiamento e il modo di porsi nei confronti della singolare opera, del suo autore e di riflesso verso il momento storico teatro della sua origine, è il modus operandi adottato per la sua riscoperta o fortuna critica attraverso i secoli. Nelle testimonianze di retori, dignitari ecclesiastici, nobildonne, coinnesseurship e studiosi si registrano non solo simpatie, interessi e idiosincrasie ma altresì curiosità e stravaganze; dal gesuita Filippo Bonanni al conte Leopoldo Cicognara, da Filippo Baldinucci a Francesco Cancellieri, da Francesco Milizia a lady Sydney Morgan fino a giungere a Jacob Burckardt.

Nella commissione di teologi nominati dal Pontefice per verificare l'autenticità della sedia petrina figura anche Francesco Maria Febei che, in realtà, mostra di ignorare il monumento che pur tante preoccupazioni aveva suscitato nell'animo di Alessandro vii, il quale già dalle prime fasi di lavorazione, aveva espresso il desiderio di voler l'opera in bronzo e realizzata quanto prima, quod quanto cintius (sic) fiat ornamentum aeneum magnificentissimum come registrava l'economo della Fabbrica di San Pietro.

Dal disinteresse della corte pontificia al sarcasmo pungente che si registra tra i diplomatici di stanza o di passaggio a Roma; dall'analisi dei carteggi ufficiali conservati negli Archivi di Stato di Venezia, Torino, Firenze e Genova, pubblicati da Giacomo Gorrini, possiamo trarre il giudizio dei delegati presso la Santa Sede, più attenti a condannare gli sprechi economici del papato che non ad apprezzare i valori estetici delle opere realizzate.

Lontano da ogni apprezzamento anche il pensiero del teorico Francesco Milizia che, nel 1781, illustrando la Cattedra avrebbe - più di ogni altra cosa - considerato determinante il contributo di Andrea Sacchi; secondo l'episodio narrato da Lione Pascoli il pittore avrebbe suggerito a Bernini il rifacimento delle statue dei Dottori, risultati inadeguati dopo la prima prova in situ. Il critico settecentesco colora l'episodio di toni cabarettistici, per usare una locuzione dei nostri tempi; descrive Bernini come un pover'uomo che si reca a casa di Sacchi e lo implora di accompagnarlo a San Pietro per giudicare l'opera:  il pittore, "che era burbero non voleva prendersi questo incomodo; ma alle pressanti ed umili preghiere del Bernini finalmente condiscese, e così com'era per casa, in pianelle e in berrettino montò in carrozza".

Rivolgendo un accorato appello alla memoria del pittore della Divina Sapienza, Milizia avrebbe sentenziato:  "Omonimo mio, e non potevi dirgli che quelle erano statue di ballerine anziché di Papi?". È evidente che Milizia intendeva riferirsi al movimento ondeggiante e apparentemente instabile dei quattro Dottori della Chiesa. Le sue considerazioni rimandano a un contesto più ampio:  l'atteggiamento culturale e mentale che il XVIii secolo, con i "puristi dello stile" ostenterà nei confronti di Bernini, Borromini, Pietro da Cortona e tutto l'universo barocco in generale. Nonostante la dicotomia esistente tra arte barocca e Settecento razionalista o, se vogliamo, tra illuminismo "miliziano" e artificio berniniano, bisogna riconoscere che Milizia sia nella prima parte che a conclusione delle Memorie mostra di considerare, tutto sommato, favorevolmente l'opera. L'atteggiamento critico che si delinea tra le pagine di Milizia raggiungerà i toni di una vera e propria invettiva nel 1813, allorché il conte Leopoldo Cicognara pubblicava una monumentale Storia della scultura.

Per conoscere la sua presa di posizione sarebbe sufficiente soffermarsi sui sottotitoli di alcuni capitoli - in questo caso sul primo - che ci riportano immediatamente alla nostra ricerca:  "Osservazioni sulle cause principali della decadenza delle arti". Senza citare il destinatario egli inveisce contro gli scultori nel "voler trattare nei marmi i soggetti convenienti al pennello, e comporre, e panneggiare le figure nello stesso modo che appartiene di farlo al pittore". È certamente una accusa, anche se in modo indiretto, al pittoricismo plastico dell'arte berniniana e, per riflesso, anche alla Cattedra.
Nelle pagine successive del volume si accanirà proprio sull'opera berniniana considerando che ispira pessimo gusto, e che tanto nuoce alla maestà di quel santuario; per poi notare, in seguito, che è una delle opere meglio pensate "pel concetto, e peggio condotte pel gusto e l'esecuzione".

Al di là dell'evidente accusa vi è un elemento fondamentale in tale dichiarazione:  è probabilmente la prima volta, nella storia critica sulla Cattedra, che si considera molto importante il concetto che soggiace alla sua realizzazione. Di fatto, analizzando il testo di Cicognara si deduce come egli stesso ne travisi il senso immaginando il trono, come lo definisce, non realizzato per l'apostolo ma per situarvi il libro degli Evangeli. Solo in questo modo, secondo lo storico, sarebbe plausibile l'azione di non palese affaticamento dei quattro Dottori nel sostenere la Cattedra; una spiegazione che, ancora una volta, ci conferma la moltitudine di illazioni, interpretazioni e supposizioni errate che si sono susseguite nei secoli nel tentativo di far luce sul significato intrinseco dell'opera:  Bernini sarebbe "barbarico" perché ha osato far trasportare dai quattro gloriosi santi un modesto pescatore.

"Giganti, colossi, statue di ballerine, parti di un gigante in delirio" e ancora mostruosi "idoli neri e neri fantasmi" sono stati definiti, di volta in volta, i bronzei Dottori presi di mira anche da Cicognara che critica "le pieghe, che ingombrano così sconciamente quei colossi, crude, taglienti e senza alcuna sorta di naturalezza". Cicognara e i neoclassicisti in genere contro l'invasione di arabeschi, di volute, di colonne arzigogolate - di quello stile barocco che tanto smaniava alla ricerca di originalità e capriccio - proponevano l'aurea semplicità, il dolce riposo dei classicisti. Ma come abbiamo già accennato a proposito della crociata neoclassica di Milizia in chiave illuministica, osserviamo come si è sviluppato l'atteggiamento negativo del XVIii e in parte del xix secolo nei riguardi della Cattedra, di Bernini e, per estensione, del Barocco tout court. Ecco infatti gli eruditi archeologi settecenteschi che lanciano le loro scomuniche contro "i capitelli bisbetici, i cornicioni bastardi, infranti, a onde, a salti acutangolissimi, le colonne torse, panzute, ravvolte, ingarbugliate", contro "le volute, curve e cartocci dello stile il più grottesco che mai fosse impiegato dal momento che le arti deviarono dal buon sentiero" come tuonerà Cicognara in un altro dei suoi sermoni, sottolineando come più di ogni cosa, sia la forma della Cattedra che più offende l'occhio. Le opere di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona vengono bollate come "peste del gusto".

Il fanatismo polemico dello storico settecentesco nascondeva, in realtà, altri obiettivi:  la sua intransigenza verso l'arte barocca era neppure tanto velatamente un j'accuse verso la politica pontificia simbolo di quell'ancien régime che il Settecento illuminista e lo storico, fautore di quelle istanze politico-sociali, tentavano di smantellare.

Ritornando alla Cattedra abbiamo visto come le critiche che Milizia muove verso la stessa non siano scevre da ingerenze politiche oltre che da fattori di gusto estetico. Ciò manifesta la stretta relazione che intercorre tra l'opera berniniana e la società, la cultura, la morale del XVIi secolo, e che pertanto un atteggiamento contrario a queste categorie diventa, di riflesso, condanna verso la Cattedra medesima. Senza dimenticare il programma iconografico sotteso:  quell'insieme di pensiero religioso, dogmatismo e politica papale che legano a sé la Cattedra attraverso un sottile e indissolubile cordone ombelicale.

I teorici neoclassici avevano in gran parte interpretato l'arte barocca come manifestazione anticlassica:  la colpa più grave che i nostalgici vagheggiatori settecenteschi del kalòs kài agathòs hanno imputato agli artisti barocchi e a Bernini in particolare, "sfrenatissimo corruttore dell'arte".
Summa di tutte le critiche e condanne antiberniniane è un manoscritto anonimo, rinvenuto da Stanislao Fraschetti e pubblicato da Giovanni Previtali, che potrebbe prefigurare o riassumere, secondo quest'ultimo, l'ostilità di Bellori se - invece di trascurare Bernini nelle Vite - avesse espresso esplicitamente il suo pensiero polemico. L'anonimo accusatore oltre a paragonare la statua di Costantino a una scimmia e il suo cavallo, troppo grande rispetto al cavaliere, a un cammello, non usa mezzi termini per definire l'altra opera vaticana di Gian Lorenzo "di quella cattedra scaricata, come peso insopportabile, su le spalle di que' Greci facchini, e per due ligaccie appoggiata su le dita di due Latini".

Dalla sua introduzione nell'involucro berniniano a oggi la Cattedra, custodia bronzea o falsa reliquia, ha attirato da sempre curiosità e ammirazione ma nelle testimonianze relative alle fonti antiche si è riscontrata l'assenza di figure femminili. Tra i resoconti moderni un'interessante rarità è data dalla presenza di lady Sydney Morgan,  nobildonna e intellettuale di origine irlandese  vissuta  a  cavallo tra XVIii e xix secolo.

Scrittrice di romanzi, di poesie e di una biografia su Salvator Rosa, la Morgan durante uno dei suoi soggiorni a Roma ebbe la fortuna di assistere alla festa della Cattedra di San Pietro nella Basilica Vaticana. Era il 18 gennaio 1820 e qualche anno più tardi, dalla descrizione che ne fa la nobildonna nel suo diario di viaggio, si diffonde una avvincente vicenda che coinvolge ecclesiastici e archeologi internazionali. La scrittrice sostiene che nel trono "sostenuto da quattro figure gigantesche" è custodita "la vera e rozza cattedra di legno, ossia la cattedra di Maometto, donata alla chiesa dai Crociati".

Dal feuilleton fantastico e romantico della nobildonna ottocentesca si passa al tono censorio e agli attacchi di Jacob Burckhardt che, con Il cicerone, fa ripiombare in pieno clima neoclassico. Lo storico svizzero aveva cominciato col rimproverare a Bernini l'atteggiamento "volgare" - e al tempo stesso "eroico" - delle figure maschili nonché la "grassezza molle" di quelle giovanili, combinata alla "disgraziata abitudine" della levigatura bollata come ripugnante.

"È questa l'opera più rozza del maestro:  esclusivamente decorazione ed improvvisazione. Avrebbe dovuto avere almeno la prudenza di non provocare il confronto (così spontaneo a causa della vicinanza) col monumento funebre di Urbano viii, con un lavoro suo di un periodo anteriore e tanto più serio di questo".



(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2009)
Caterina63
00lunedì 16 novembre 2009 10:24
ATTENZIONE: APPELLO AL PAPA (serio) PER DIFENDERE L'ARTE NELLE CHIESE


LA CROIX INTERVISTA MONS. RAVASI


di Francesco Colafemmina

Qui sotto troverete una intervista a Mons. Ravasi pubblicata ieri da La Croix sull'incontro del 21 Novembre. L'intervista è interessante perchè Ravasi, uomo di grande onestà intellettuale, esprime candidamente la sua idea di arte e di arte sacra.

Le premesse

Premessa fondamentale del discorso ravasiano sull'arte è l'assoluta "storicizzazione" dell'espressione artistica, secondo un processo tipicamente hegeliano. L'arte del passato appartiene al passato e così con l'arte di ogni epoca. Tutto è condizionato e limitato alle condizioni storiche e sociali che hanno partorito ogni specifica tipologia artistica. Ognuno di noi sa bene che così non è. Che un'arte vissuta a compartimenti stagni è pura creazione accademica. E inoltre ciascuno comprende perfettamente che questa visione "evoluzionistica" dell'arte parte dalla premessa della caducità e della morte di ogni espressione artistica proveniente dal passato o ispirata all'arte del passato (per passato intendendo anche gli albori del XX secolo).

Ulteriore premessa è questa fiducia totale nell'intellettualismo spiritualista degli artisti. Ovvero in quella opinione fallace in base alla quale tutti gli artisti sarebbero fruitori dello "spirito" (in senso chiaramente hegeliano) e quindi avrebbero la possibilità di accedere a brandelli di verità e di bellezza, insomma a brandelli di "senso". Perciò l'arte non ha bisogno di essere cristiana per essere "vera". E soprattutto non ha bisogno di esprimersi con un linguaggio che sia universalmente comprensibile.

Quindi, finale premessa, i linguaggi possono comunicare "spiritualità" indipendentemente dalla loro universalità. Ovvero l'arte contemporanea che non crea semplicemente un "messaggio" ma crea un nuovo linguaggio che finisce per predominare sul "messaggio" stesso, è per il fatto stesso di essere in grado di creare linguaggi nuovi un'arte dialettica. E dalla dialettica evolve lo spirito.

Gnosi anticristiana

Tutte queste premesse costituiscono il fulcro di un nuovo "manifesto artistico" della Chiesa, del quale Ravasi vorrebbe farsi promotore. Manifesto che dovrebbe escludere nominalmente "l'artigianato" e il "recupero di stili del passato". Su questo aspetto degli stili ci si potrebbe dilungare. Gli stili infatti sono caduchi, ma il linguaggio artistico, la sua sintassi e la sua grammatica precedono gli stili ed è proprio questa lingua con la sua sintassi e la sua grammatica che la Chiesa dovrebbe incentivare e difendere.
Tornando dunque a questo fulcro modernista possiamo leggere nell'intervista a Ravasi che gli artisti non hanno bisogno - per essere in armonia con la Chiesa - di farsi "catechisti". Come dire che la loro capacità di assorbire "lo spirito" li rende già per questo in armonia con la Chiesa.

Questa grave concezione spiritualista dell'arte, tra l'altro sempre in bilico sul baratro del nulla, della provocazione anticristiana, del riversamento in positivo di ciò che è sempre stato negativo per la Chiesa, è oltremodo esaltata da Mons. Ravasi.

C'è da dire, in conclusione, che chiunque lo leggerà non potrà notare con un certo "fastidio" il continuo ricorso al "borderline", insomma l'evocazione di temi, autori, posizioni, concezioni che sono in bilico fra gnosticismo ed esistenzialismo sartriano.

Il culturalismo radical-chic

Come riassumere questa intervista. Bene, io la definirei una intervista intrisa di culturalismo radical chic, di chi per essere contemporaneo ha bisogno di citare non il Vangelo e neppure i Padri della Chiesa, nè tantomeno autori o artisti cristiani, ma Chagall ed Henry Miller. Una intervista di chi vorrebbe "svecchiare" la Chiesa, farle superare l'ottusità retriva che sembra contraddistinguerla agli occhi del mondo, e trasformarla in una sorta di fucina di sperimentalismo artistico in grado di creare un "nuovo corso". Il tutto fa un po' tristezza, soprattutto al pensiero che questo "nuovo corso" potrebbe avere in Milano il suo centro fra qualche mese. Allora sì che Renzo Piano potrà trasformare piazza Duomo in un boschetto, magari pieno di installazioni di Jannis Kounellis, mentre nel futuristico arcivescovado si proietterà il nuovo film di Nanni Moretti che psicanalizza un Papa stanco di fare il Papa... Peccato però che lo stesso Mons. Ravasi ritenga opportuno farsi riprendere ogni domenica dalle telecamere di Canale 5, mentre seduto al centro di qualche chiesa settecentesca o davanti ad una pala d'altare del '500 tiene le sue lezioni sui testi sacri. Non sappiamo cosa penserebbero i telespettatori nel vederlo parlare davanti un'opera rigorosamente senza titolo di Kounellis o dentro un cubo di Botta...

Ora però, godetevi l'intervista!


La Croix : Benedetto XVI ha dichiarato recentemente: « La bellezza deve essere in armonia con la verità e la bontà». Va forse contro corrente rispetto alla creazione artistica contemporanea?

Mgr Gianfranco Ravasi : Un grande artista americano mi diceva recentemente: « gli artisti contemporanei escludono due cose: la bellezza e il messaggio». E' questo orizzonte contemporaneo che vogliamo considerare, tale quale esso è. Su questo punto si può davvero parlare di divorzio con la Chiesa. Perchè l'arte contemporanea sembra per gran parte aver esplorato tutte le vie della decostruzione, del nichilismo, per portarci a constatare l'inconsistenza dell'essere, dimostrando che ormai più nulla vale qualcosa, giocando con la provocazione sull'assenza di senso nella nostra realtà. Ma di fronte a questo itinerario questa stessa arte si trova automaticamente sul punto di distruggersi, perchè l'obiettivo ultimo non può essere che il silenzio della morte, del suicidio.

Il quadro è così nero?

Dinanzi a questa situazione ci siamo interrogati. Constatiamo che il cinema per parte sua persiste a interrogarsi liberando un messaggio. Stanley Kubrick,anche se le sue ultime opere sembrano essere molto disperate, continua a raccontare a voler dire qualcosa. O ancora un Giuseppe Tornatore (Nuovo Cinema Paradiso) – senza dimenticare Buñuel, Bresson e altri. Allo stesso modo, il cineasta americano Bill Viola, che sarà presente nella Sistina, lavora sull'acqua come simbolo di purificazione, sulla luce come simbolo di trascendenza; si interessa alla morte, alla vita dopo la morte. Ognuno può esservi sensibile. Ci è dunque sembrato che fosse giunto il momento per una nuova proposta: impegnare gli artisti a riappropriarsi dei granti simboli, delle grandi narrazioni, dei grandi temi, delle grandi figure. Claudel vedeva nella Bibbia un "grande lessico" e Chagall ne parlava come di "un alfabeto tinto nella speranza nella quale gli artisti di tutti i tempi hanno intinto i loro pennelli". Così la Santa Sede inviterà degli artisti alla Biennale de Venise, proponendogli di lavorare sugli undici primi capitoli della Genesi, che portano in sè tutta la vita dell'umanità.

Inciterete gli artisti a farsi catechisti?

Niente affatto. L'artista non deve fare un'opera direttamente catechetica. L'estetica autentica, allorchè tocca i grandi temi, può interrogarsi ed interrogarci sul senso della vita, anche se non prende in conto il messaggio evangelico. Un'autentica estetica artistica, per sua natura, tocca l'etica. Henry Miller diceva: "L'arte non serve a niente, se non a spiegare il senso della vita". Forse successivamente raggiungeremo dei risultati nell'arte sacra, propriamente religiosa o liturgica, ma non è questo il nostro obiettivo primario. Sarà una tappa ulteriore che darà ragione a questo pensiero di Herman Hesse: "l'arte è mostrare Dio in tutte le cose".

Giovanni Paolo II evocava una "nuova alleanza" con la Chiesa? E' il vostro progetto?

Si. Noi crediamo alla possibilità di un incontro fra fede e arte, premesso che l'arte esca dalla sua impotenza provocatrice. Allo stesso modo la Chiesa non deve più tenere ad un recupero azzardato degli stili antichi e a produzioni artigianali prive di ambizione. Deve accettare il contronto con queste nuove grammatiche, con queste nuove modalità d'espressione. Questo dialogo sarà fecondo per la Chiesa.

Sarà una novità?

Niente affatto. Nel corso dei secoli la Chiesa ha sempre cercato di esprimersi attraverso nuovi linguaggi. Ai suoi tempi il canto polifonico è stata una vera rivoluzione. Allo stesso tempo la teologia cristiana si è sviluppata tenendo conto delle grandi tradizioni filosofiche pagane dei suoi tempi. Le nuove espressioni artistiche contemporanee devono così essere prese in considerazione per una nuova espressione del messaggio evangelico. Prendiamo ad esempo la musica contemporanea a partire dalla dodecafonia. Ella propone una nuova grammatica, una stilistica ardua che necessita di un autentico lavoro. Noi dobbiamo prenderla in considerazione.

Quale disciplina artistica le sembra oggi più adatta ad entrare in dialogo con la Chiesa?

Penso specialmente all'architettura. La maggiorparte dei grandi architetti ha già costruito una chiesa. Si può citare Renzo Piano (chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo), Richard Meyer (chiesa a Tor Tre Teste, vicino Roma), Massimiliano Fuksas (Foligno), Tadao Ando (che ha realizzato diverse chiese in Giappone), etc. E non dimentichiamo Le Corbusier con Ronchamp. Tutti si sono impegnati a modellare lo spazio nella sua nutidtà, giocando sulla sua luce, sull'intimità... Ma con una carenza: l'allontanamento delle altre espressioni artistiche. Perchè se una chiesa contemporanea presenta spesso un interno magnifico, si constata che l'architetto non è sempre preoccupato dell'oggetto del culto. E' così che si vedono altari, statue e mobilio molto disparati, isnufficentemente pensati per questo spazio che pure è magnifico. Mentre al contrario un Francesco Borromini, il rivale del Bernin qui a Roma, proponeva con le sue chiese un insieme coerente ed armonico. Ecco una sfida per l'oggi.

La Chiesa può accettare una parte di provocazione?

Si. Buñuel provoca pur senza essere blasfemo. Il limite è la provocazione del vuoto che ci blocca in un cerchio mortifero. Una tale provocazione è votata alla propria fine. Un'altra cosa è un grido o una protesta che possono essere stimolanti, fecondi. Rilegga Nietzsche!

Il vostro sentimento è condiviso dal Papa?

Quando gli ho proposto il principio di un tale incontro con gli artisti Benedetto XVI ha immediatamente accettato. Egli auspica un autentico dialogo. Sa che non siamo più i bambini dell'antichità classica, del classicismo. Noi non possiamo più ascoltare Stockhausen come si ascolta Mozart. Ciò ci richiede un lavoro. Il Papa è fondamentalmente curioso di tutti i tentativi per comprendere questo nuovo mondo. E' pronto ad essere sorpreso. Noi siamo all'inizio di un nuovo dialogo.

Perchè organizzare questo incontro in Cappella Sistina?

Anzitutto perché è lì che ebbe luogo, quarant'anni fa, il primo incontro fra Paolo VI e gli artisti: il suo discorso in quell'occasione è rimasto memorabile. In secondo luogo, la Sistina è forse il simbolo più forte dell'incontro fra arte e fede. Infine è il luogo per eccellenza nel quale la Chiesa si rigenera, perchè è lì che viene eletto il Santo Padre.

Frédéric MOUNIER, Roma

 firmate l'appello a Sua Santità: www.appelloalpapa.blogspot.com



ATTENZIONE: APPELLO AL PAPA (serio) PER DIFENDERE L'ARTE NELLE CHIESE



Interessanti gli interventi dal Blog:



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raffaele savigni ha detto...


Io invece approvo quanto dice Ravasi. Senza nergare il valore di esperienze di arte sacra come quelle del Beato Angelico e di Andrej Roublev, o la fecondità (ai suoi tempi) dell'opera del card. Gabriele Paleotti, credo che sia giusto aprire le nostre chiese a espressioni artistiche che, per quanto non facciano direttamente catechesi, esprimono in vari modi l'anelito dell'uomo all'infinito, il suo desiderio di Dio, la sua tormentata ricerca della verità, le sue domande di "senso". Così, sul piano letterario, le poesie di Giacomo Leopardi (un non credente) esprimevano una profonda domanda religiosa. Lo comprese bene un grande mistico, don Divo Barsotti, che scrisse un libro su "La religiosità di Giacomo Leopardi".

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Francesco Colafemmina ha detto...
 


Scusi dottor Savigni,

ma mi spiega cosa c'entra l'anelito religioso leopardiano con Nanni Moretti e i Pooh?

O con Calatrava e Portoghesi?

O con Margaret Mazzantini e Castellitto?

Siamo seri! Se lei è uno storicista vuol dire che lei ritiene non fruibile e dunque ormai silenziosa ed incapace di svolgere la sua funzione spirituale e liturgica l'arte del Beato Angelico o di Rublev cui fa riferimento.

Invece oggi guardare Caravaggio e restare folgorati dalla potenza della sua arte nonchè convertiti da quella profondità spirituale è possibile e doveroso.

A guardare Rupnik invece si rischia di deformare la realtà... idem dicasi per i vari Kounellis e Pomodoro...


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Anonimo ha detto...


Io non capisco come mai non dovrebbe essere possibile riproporre i meravigliosi modelli artistici del passato, almeno fintanto che non apparirà un vero artista cioè uno che, riproponendo la bellezza del creato, sappia innalzare l'uomo a Dio?



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Anonimo ha detto...


Nel commento di Raffaele c'è un equivoco macroscopico. Si confonde l'arte sacra con l'arte religiosa. La prima ha un fine, serve alla celebrazione. Il parametro per stabilirne la riuscita e la qualità è verificare come raggiunge tale scopo.
La seconda è qualunque espressione che contenga un afflato per il trascendente.
C'è poi un'altra questione: è vera arte quella contemporanea? Se non cerca la bellezza, se vuole essere astrusa e comunicabile solo attraverso i filtri della critica, se si crogiuola nell'investigare le regioni più tormentate e oscure dell'essere umano, che cos'è? Non sarà forse una trovata fra le altre in un mondo ebbro di pubblicità?
E se si tratta di teatro (del genere più strumentale) che spazio può avere nella liturgia? Nessuno!
Tornare all'arte autentica non significa copiare, vuol dire impiegare oggi gli strumenti di sempre.
Esempi ce ne sono e sono stati presentati in questo blog di recente.


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Caterina63 ha detto...


Rispondo all'utente raffaele del
14 novembre 2009 17.26


lei dice:

credo che sia giusto aprire le nostre chiese a espressioni artistiche che, per quanto non facciano direttamente catechesi, esprimono in vari modi l'anelito dell'uomo all'infinito, il suo desiderio di Dio, la sua tormentata ricerca della verità, le sue domande di "senso".

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Ratzinger da 40 anni si affatica davvero a spiegare che il CULTO Cattolico NON è luogo per le sperimentazioni...suggerisco di meditare sul film IL TORMENTO E L'ESTASI...
Nello splendore dell'Italia rinascimentale, il geniale artista Michelangelo Buonarroti viene incaricato dal Papa Giulio II di realizzare un affresco nella Cappella Sistina.

Ma durante la lavorazione dell'opera, la geniale creatività di Michelangelo si scontra con la curia romana e con il Papa che vorrebbe costringere l'artista a seguire la sua volontà.

Preso dallo sconforto e dal dubbio, Michelangelo troverà nella sua opera la forza per andare contro le convenzione del suo tempo.

^__^ d'accordo, è un film...ma forse aiuta anche a comprendere di cosa si DEVE parlare parlando di arte CATTOLICA...altrimenti con il ragionamento che lei fa, possiamo commissionare le nostre chiese a musulmani, atei, anche ad anticattolici purchè artisti...fregandocene dell'essenza di cosa deve essere il luogo di culto Cattolico...
ma anzi, perchè spendere i soldi allora? a questo punto non ci serve più neppure l'arte...

Se non erro fu considerata ARTE anche i barattoli esposti contenenti le feci dell'autore ^__^

e non aggiungo altro!
invito solo a riflettere sul fatto che l'arte del passato ha sempre contribuito alla nostra IDENTITA' CATTOLICA...
se questa identità, oggi, viene a mancare, non abbiamo più LUOGHI DI CULTO, ma semplicemente luoghi in cui i vari artisti si esibiscono SPERIMENTANDO UNA IDENTITA' CHE CON IL CATTOLICESIMO e con il suo Culto, non ha nulla ache spartire...



leggo infatti dall'intervista:

Quale disciplina artistica le sembra oggi più adatta ad entrare in dialogo con la Chiesa?


Penso specialmente all'architettura. La maggiorparte dei grandi architetti ha già costruito una chiesa. Si può citare Renzo Piano (chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo), Richard Meyer (chiesa a Tor Tre Teste, vicino Roma), Massimiliano Fuksas (Foligno), Tadao Ando (che ha realizzato diverse chiese in Giappone), etc. E non dimentichiamo Le Corbusier con Ronchamp. Tutti si sono impegnati a modellare lo spazio nella sua nutidtà, giocando sulla sua luce, sull'intimità... Ma con una carenza: l'allontanamento delle altre espressioni artistiche. Perchè se una chiesa contemporanea presenta spesso un interno magnifico, si constata che l'architetto non è sempre preoccupato dell'oggetto del culto. E' così che si vedono altari, statue e mobilio molto disparati, isnufficentemente pensati per questo spazio che pure è magnifico. Mentre al contrario un Francesco Borromini, il rivale del Bernin qui a Roma, proponeva con le sue chiese un insieme coerente ed armonico. Ecco una sfida per l'oggi.

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bè, se non altro mons. Ravasi è stato intellettualmente onesto facendo anche i nomi di artisti e chiese nuove, riconoscendo un vuoto...che riporto con le sue parole:

con una carenza: l'allontanamento delle altre espressioni artistiche. Perchè se una chiesa contemporanea presenta spesso un interno magnifico, si constata che l'architetto non è sempre preoccupato dell'oggetto del culto.

e se lo dice Ravasi...eh!


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Caterina63
00mercoledì 18 novembre 2009 16:46

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha incentrato la sua meditazione sulle Cattedrali europee nel Medioevo cristiano.

Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.

Al termine dell’Udienza Generale, il Papa ha pronunciato un appello alla Comunità internazionale in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera e di Azione per i Bambini.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.



CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA



Cari fratelli e sorelle!

Nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale. Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede. Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano.


Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario. Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: "Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione. Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli" (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3,4).


Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza. Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità.

Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi. Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali.

Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa. Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.


Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità. Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore. Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio. Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse - scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.


Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede. La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una "Bibbia di pietra", rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore. In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.

Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le manifestazioni "laiche" dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti.

Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia. Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: "Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta".


Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia".
Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile. Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati Predecessori, in particolare dai Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: "Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?" (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).


Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.


[01703-01.01] [Testo originale: Italiano]



                                              Pope Benedict XVI (C) delivers his weekly general audience on November 18, 2009  in Paul VI Hall at The Vatican.

Caterina63
00venerdì 20 novembre 2009 21:23
A colloquio con Bruno Cagli, tra gli invitati all'incontro del Papa con gli artisti

Non si può abbandonare la musica sacra all'improvvisazione



di Marcello Filotei

Certe volte le cose entrano nel mito per una dimenticanza. È il caso del convegno che si tenne nel 1985 all'abbazia di Fossanova sul tema "Musica sacra nella società attuale", uno di quegli eventi che chiunque si occupi dell'argomento si sente continuamente citare da quanti hanno avuto la fortuna di assistervi. Purtroppo non esistono gli atti, e questa è la dimenticanza, ma la lista dei partecipanti è di un livello talmente alto che non si fa fatica a credere che le mirabolanti ricostruzioni siano veritiere. Tra i promotori di quell'iniziativa c'era anche Bruno Cagli, musicologo, scrittore e attuale presidente dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, tra gli invitati il 21 novembre all'incontro del Papa con gli artisti.

Come era 35 anni fa il rapporto tra sacro e musica?

Molto dinamico, ma in un clima di disattenzione da parte delle autorità ecclesiastiche, nel senso che si era aperti a molti esperimenti, ma la riflessione sul sacro in musica era abbastanza limitata. Ad esempio quando organizzavo in quegli anni la messa per la festa di santa Cecilia ci tenevo che fosse cantata in latino. A chi mi chiedeva di scegliere una versione in italiano rispondevo che in repertorio si trovano centinaia di capolavori in latino, mentre ben poco di quel livello è reperibile in volgare. La sproporzione deriva dal fatto che nel passato scrivere musica sacra era un obbligo sociale. Ora non è più così, e questo è un grande vantaggio perché chi oggi affronta la musica sacra lo fa con consapevolezza e per libera scelta. Questo può migliorare sensibilmente il rapporto tra il compositore e il sacro.

In primo luogo, dunque, comprendere a pieno la tradizione.

La discussione aperta nel 1985 si basava su differenti interpretazione dei capolavori del passato. Alcuni consideravano troppo teatrali alcune opere come la Messa da Requiem di Verdi o lo Stabat Mater di Rossini, perché avrebbero utilizzato delle tecniche provenienti dalla lirica. Uno degli atteggiamenti compositivi più avversati era l'uso dei melismi, volute melodiche che secondo alcuni sarebbero state di derivazione pagana. Io ho combattuto questo equivoco perché penso che la visione vada ribaltata. Sono stati i canti alleluiatici a introdurre i melismi nella musica occidentale, solo dopo sono stati ripresi dall'opera. Quindi così come il rapporto del compositore con il sacro è oggi una scelta molto più avvertita che nei secoli scorsi, il rapporto con il repertorio sacro deve essere più consapevole e va rivisto.

In che modo?

Con un'ampiezza di vedute che restituisca la possibilità di eseguire le composizioni del passato con le particolarità stilistiche che qualche falso purista ha cercato di obliare. Per esempio Rossini viene accusato di portare in chiesa atteggiamenti teatrali, quando invece fa esattamente il contrario. Per esempio utilizza nelle opere buffe lo stile "a cappella", proveniente dalla musica sacra.

Insomma, chi ha influenzato chi?

L'influenza autentica è quella della tradizione sacra su quella profana, il contrario non è mai accaduto. La tradizione sacra è all'origine della musica occidentale, anche di quella teatrale che è nata molto tempo dopo e non poteva che fare riferimento a quella storia. Su questi argomenti, per migliorare la qualità delle esecuzioni di oggi, sarebbe utile una apertura da parte dei musicologi.

Quindi un malinteso purismo piuttosto che rinverdire gli stili esecutivi del passato ha finito per appiattire il livello delle esecuzioni?

L'approccio filologico deve essere avvertito e intellettualmente aperto se non vuole rischiare di diventare controproducente. Allo stesso tempo non si può abbandonare il sacro all'approssimazione. Mi è capitato qualche anno fa di entrare il giorno di san Francesco nella basilica dei Frari a Venezia e di uscirne perplesso. In una chiesa dove ci sono capolavori figurativi immortali ascoltare musica di basso livello, inadatta al luogo e al testo intonato, era fastidioso.

Accertato che portare il rock in chiesa non corrisponde a un atteggiamento attento alla modernità, cosa significa andare avanti in questo ambito musicale?

Affrontare un rapporto con il testo che sia dinamico, aperto dal punto di vista stilistico, ma rigoroso. Nessuno può immaginare che Verdi o Rossini affrontassero il sacro senza rigore stilistico pur utilizzando le novità del linguaggio del loro tempo.

Quali compositori si stanno misurando oggi in questo modo con il sacro?

Ce ne sono diversi e Arvo Pärt è uno di questi. Nel 2000 sono stato io a proporre di commissionare proprio a lui un lavoro su Santa Cecilia. L'idea è stata poi accolta dal Comitato per il Giubileo e ne è nato un lavoro molto interessante che ha fatto il giro del mondo. Pärt è attentissimo al recupero della tradizione, la fa con rigore ma in maniera personale e a un livello intellettuale alto. La musica sacra deve essere necessariamente dotta, perché elevato è il testo che utilizza. Questo non significa che non può essere divulgata e divulgativa, ma che deve essere affrontata con rigore. Raffaello nel dipingere l'Estasi di santa Cecilia ha indicato tre gradi di comunicazione: in alto il canto con gli angeli, al centro l'organo nelle mani della santa, ai piedi di Cecilia la musica profana. Tutto qui.




(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)


Caterina63
00sabato 21 novembre 2009 13:59
Alle ore 11 di questa mattina, nella Cappella Sistina, il Santo Padre Benedetto XVI incontra gli Artisti.

Nel corso dell’evento, promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura nel decennale della Lettera di Giovanni Paolo II agli Artisti (4 aprile 1999) e nel 45° anniversario dell’Incontro di Paolo VI con gli Artisti (7 maggio 1964), dopo l’indirizzo di omaggio di S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, il Papa rivolge agli ospiti il seguente discorso:


DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Artisti,
Signore e Signori!

Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza.

Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra "quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza".

Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. "Noi abbiamo bisogno di voi - egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità" (Insegnamenti II, [1964], 313).

Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: "E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte" (Ibid., 314). In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di "ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti", e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica "rinascita" dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel "faccia a faccia", in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita.

La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: "A voi tutti - egli proclamò solennemente - la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!" (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo" (Ibid.).

Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: "L’umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui".

Gli fa eco il pittore Georges Braque: "L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé.

Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere" (n. 3). E più avanti aggiunge: "In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione" (n. 10). E nella conclusione afferma: "La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente" (n. 16).

Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di "figure" – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare".

La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: "In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa". Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio". Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte" (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: "L’arte ha bisogno della Chiesa?", sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel "grande codice" che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: "Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza" (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008).

Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

Je suis heureux de saluer tous les artistes présents. Chers amis, je vous encourage à découvrir et à exprimer toujours mieux, à travers la beauté de vos œuvres, le mystère de Dieu et le mystère de l’homme. Que Dieu vous bénisse !

Dear friends, thank you for your presence here today. Let the beauty that you express by your God-given talents always direct the hearts of others to glorify the Creator, the source of all that is good. God’s blessings upon you all!

Sehr herzlich grüße ich euch, liebe Freunde. Mit eurem künstlerischen Talent macht ihr gleichsam das Schöpferwirken Gottes sichtbar. Der Herr, der uns im Schönen nahe sein will, erfülle euch mit seinem Geist der Liebe. Gott segne euch alle.

Saludo cordialmente a los artistas que participan en este encuentro. Queridos amigos, os animo a fomentar el sentido y las manifestaciones de la hermosura en la creación. Que Dios os bendiga. Muchas gracias.


[SM=g1740717] [SM=g1740720]

Caterina63
00sabato 21 novembre 2009 15:37
[SM=g1740733] alcune foto dell'incontro....

Pope Benedict XVI arrives to lead a special meeting with artists in the Sistine Chapel at the Vatican November 21, 2009. Pope Benedict meets up to 500 artists from around the world, as part of efforts to turn the page on the Vatican's sometimes conflicted relationship with the contemporary art world.

si notano Banfi, Venditti, Branduardi, Baglioni...

                             Italian actor Lino Banfi kisses Pope Benedict XVI's hand as he arrives to lead a special meeting with artists in the Sistine Chapel at the Vatican November 21, 2009. Pope Benedict meets up to 500 artists from around the world, as part of efforts to turn the page on the Vatican's sometimes conflicted relationship with the contemporary art world.

                                           Italian actor Lino Banfi kisses Pope Benedict XVI's hand as he arrives to lead a special meeting with artists in the Sistine Chapel at the Vatican November 21, 2009. Pope Benedict meets up to 500 artists from around the world, as part of efforts to turn the page on the Vatican's sometimes conflicted relationship with the contemporary art world.

Pope Benedict XVI leads a special meeting with artists in the Sistine Chapel at the Vatican November 21, 2009. Pope Benedict meets up to 500 artists from around the world, as part of efforts to turn the page on the Vatican's sometimes conflicted relationship with the contemporary art world. Picture taken with fish-eye lens.



Caterina63
00sabato 21 novembre 2009 23:58
Il saluto dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura

Rimosse le macerie delle incomprensioni
la "via pulchritudinis" è ancora aperta


All'inizio dell'udienza l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha rivolto al Papa un saluto. Ravasi

Santità,
è arduo per me dare voce ora a questa folla di artisti provenienti da tutto il mondo, in rappresentanza anche di tanti altri loro colleghi. Un'emozione profonda percorre, infatti, l'animo di tutti davanti a questo grandioso e glorioso fondale michelangiolesco, simbolo supremo dell'incontro tra arte e fede, e di fronte al successore di Pietro che incarna la storia secolare della Chiesa. 

Quarantacinque anni fa, il 7 maggio 1964, in questa stessa straordinaria cornice, il Papa Paolo VI con un appassionato discorso si rivolgeva agli artisti, ricordando loro che la sfida ultima della creazione estetica è quella di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Nello stampo limitato della parola, della forma, dell'immagine, del suono, l'artista cerca, infatti, di far balenare l'infinito e l'eterno. Come affermava uno di loro, il catalano Joan Miró, l'arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile l'Invisibile, si affaccia sugli abissi dell'essere e dell'esistere, varca i confini dell'evidenza immediata per penetrare nelle regioni dell'assoluto e della trascendenza.

Dieci anni fa, Santità, il Suo venerato predecessore Giovanni Paolo II, il giorno di Pasqua del 1999, scriveva la sua Lettera agli artisti "per confermare a loro la stima ma anche per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa", così da rinverdire "quel fecondo colloquio che in duemila anni di storia non si è mai interrotto". Alle nostre spalle c'è, infatti, quell'immensa e mirabile eredità che faceva dire a Goethe:  "La lingua materna dell'Europa è il cristianesimo". Marc Chagall era convinto - come lei ha ricordato Santità lo scorso mercoledì - che per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che erano le pagine bibliche. Ma già nell'VIII secolo il cantore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, non aveva esitato a suggerire:  "Se un pagano viene e ti dice:  Mostrami la tua fede! tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri" (pg, 95, 325).

Questo vincolo così stretto, a partire dal secolo scorso, si è molto allentato. Da un lato, la riflessione spirituale non ha sempre seguito la via dell'"estetica teologica" e in ambito ecclesiale si è spesso ricorso al mero ricalco di stili e generi delle epoche precedenti; oppure non di rado ci si è adattati alla bruttezza che assedia le nuove città. D'altro lato però l'arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure di quel codice culturale che è stato per secoli la Bibbia. Si è spesso dedicata solo all'effimero e a esercizi stilistici sempre più provocatori e autoreferenziali e si è talora asservita a mode e a logiche di mercato.

Eppure c'è in tutti il desiderio di ritessere quel "fecondo colloquio". E gli artisti attendono ora che Lei, Santità, con le Sue parole pronunci la prima battuta di questo nuovo dialogo, nel quale - come Lei già affermava - si possono incrociare "estetica ed etica, bellezza, verità e bontà". Rimosse le macerie delle incomprensioni e delle distanze, la via pulchritudinis è ancora aperta sia davanti al credente sia all'artista. La meta da raggiungere è quella che delineava lo scrittore Hermann Hesse quando - nel suo saggio Klein und Wagner - offriva questa sorprendente definizione:  "Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio", cioè l'Eterno e l'Infinito. È ciò che auspicava Giovanni Paolo II nella sua Lettera:  "L'arte contribuisca all'affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell'eterno". E ora, Santità, mentre La ringraziamo per il dono che ha voluto che, a Suo nome, io consegnassi a ciascun artista al termine di questo incontro, noi tutti La preghiamo di illuminarci su questo cammino di bellezza e di luce, con la Sua parola che ascolteremo con intensa simpatia e viva partecipazione.


(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009)

[SM=g1740733] la risposta del Pontefice è due post sopra...

Caterina63
00lunedì 23 novembre 2009 10:58
[SM=g1740722] Ringrazio Francesco Colafemmina per avermi inviato il collegamento all'intervista che ha rilasciato[SM=g1740721]

Gentilissimi,
 
nell'ambito dell'Appello al Papa per l'arte sacra qui trovate la mia intervista a Tg2 Mizar di ieri notte.
 
http://www.tg2.rai.it/dl/tg2/RUBRICHE/PublishingBlock-4d179a82-04c1-4164-856b-2afc28c38206.html
 
Un caro saluto


[SM=g1740722]
Caterina63
00lunedì 23 novembre 2009 20:09
Le ragioni dell'architettura sacra contemporanea

Costruire la fede



di Maria Antonietta Crippa
Direttore scientifico dell'Istituto
per la storia dell'arte lombarda Associazione Sant'Anselmo

La recente riflessione di Paolo Portoghesi "Lo sforzo di rendere visibile la fede" ("L'Osservatore Romano", 19-20 ottobre 2009) invita a ricordare che, nel corso del XX secolo, non sono stati molti, e non tutti balzati all'onore delle cronache, gli architetti impegnati in opere sacre. Specialmente quelli che hanno applicato non solo un grande rigore interpretativo, ma anche un attento radicamento nella dinamica di continuità che caratterizza il senso della tradizione ecclesiale cattolica secondo l'ermeneutica della riforma promossa dal concilio Vaticano ii, che è "ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato (...) È chiaro che (...) poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi - fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma" (Discorso di Benedetto XVI alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005).

Tale insieme di continuità e discontinuità, a livelli diversi, non può non coinvolgere anche il progetto contemporaneo di chiese e l'arte attuale per le chiese, per la cui comprensione sarebbe necessario ripercorrere quanto è accaduto lungo tutto il Novecento, secolo di grandi rivolgimenti nei modi di vita, nel quale anche la dimora quotidiana degli uomini sulla Terra è stata profondamente stravolta dalle conseguenze di una innovazione tecnologica imponente.
In uno sguardo retrospettivo alla produzione di chiese nell'Occidente nel XX secolo si coglie una diversa caratterizzazione culturale fra prima e seconda metà dello stesso. Fino agli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento infatti, il tema dell'edificio a destinazione liturgica non ha attratto, a parte rare eccezioni, gli architetti di maggior successo. La seconda parte del XX secolo può essere ritenuta, invece, l'arco temporale nel quale è venuta alla luce, in termini sperimentali, una larga attenzione per tale problema da parte di molti artisti e architetti. In ragione anche del rapido variare dell'orizzonte culturale, segnato in ambito ecclesiale dal grande evento del concilio Vaticano ii (1962-65), si è assistito a oscillazioni tra esiti di radicale secolarizzazione e vivace recupero di senso religioso. In generale si è teso a riformare lo spazio liturgico, quindi a riorganizzare le membrature architettoniche dell'edificio ecclesiastico. L'assemblea è rapidamente divenuta fatto primario, in relazione alla volontà di suscitare una piena partecipazione dei credenti all'atto liturgico e per infondere un forte senso comunitario ai fedeli. Alcune tendenze architettoniche radicali hanno mirato a ridurre l'edificio ecclesiastico da "casa di Dio" a "casa del popolo", sottraendogli la tradizionale espressività e il valore di fulcro ordinatore della struttura urbana in cui era inserito, rendendolo uno dei recinti monofunzionali della città contemporanea.

Dagli anni Ottanta, sino a oggi, si assiste a una ripresa del carattere trascendente dell'architettura ecclesiastica, ma in un contesto di profondo disorientamento espressivo. Rara ma importante è stata la ripresa di interesse per l'ontologia del tema, per quella sua "verità" che intreccia liturgia e arte-architettura in stretto dialogo. Molto spesso tuttavia i tradizionali riferimenti spaziali alla verticalità e alla emergenza-monumentalità urbana, alla qualità emozionale-intellettiva della luce sono stati interpretati attraverso il riferimento a segni e immagini di matrice soggettiva, comunque depotenziati sotto il profilo simbolico, mentre si è ritenuto di secondaria importanza l'assetto liturgico dello spazio interno. La messa a punto dell'apparato iconografico ha risposto spesso a criteri compositivi del tutto indifferenti alle necessità di devozione e meditazione dei fedeli.

La costruzione di chiese nel XX secolo nelle diverse nazioni occidentali è avvenuta all'interno di un dibattito ecclesiastico importante, ha spesso visto il concorso di personalità di rilievo tra i vescovi, ha mosso le conferenze episcopali nazionali; i vescovi hanno dato un contributo di promozione volto a rinnovare il processo di evangelizzazione su scala nazionale. Note sono, in particolare, negli anni Trenta in Francia, le iniziative dei "Chantiers du cardinale"; negli anni Cinquanta quelle del cardinale Josef Frings di Colonia; negli anni Sessanta quelle degli arcivescovi di Bologna, Milano, Torino. Negli ultimi decenni l'apertura della Chiesa alle manifestazioni artistiche contemporanee non ha impedito una applicazione imprudente delle novità liturgiche, con accenti diversi a seconda dei liturgisti, in nuove chiese e per l'adeguamento di quelle esistenti.

Portoghesi ha concentrato la propria attenzione sul rapporto polare "Chiesa spirituale chiesa costruita"; il brevissimo excursus qui tracciato segnala un intreccio storico tra i due poli che non è facile dipanare individuando le diverse responsabilità. Tale rapporto polare può essere articolato, innanzitutto tramite la messa in luce dei fondamenti della dinamica della ricerca di architetti e artisti. Esiste infatti una riflessione sul senso del progetto architettonico che viene prima dell'opzione linguistica. Si tratta della relazione dialogica che il progettista o l'artista intrattiene con l'insegnamento e la tradizione ecclesiale, da una parte, con la cultura costruttiva e artistica del proprio tempo, dall'altra, e che prende corpo sostanzialmente nel suo vivo pensare e sentire, manifestandosi nella capacità di dar ragione della speranza che sostiene e qualifica, per sé innanzi tutto, il progetto.

Non è un caso che i più consapevoli architetti costruttori di chiese si siano impegnati nella manifestazione di tali ragioni, non assumendosi il ruolo di pastori o teologi, ma dando limpida testimonianza di profonda immedesimazione nelle ragioni per le quali la Chiesa ha continuamente necessità di chiese parrocchiali, di santuari, di cattedrali, di monasteri. Si pensi, ad esempio al tedesco Rudolf Schwarz (1867-1961), interprete dell'ideazione di un "edificio sacro che può venire solo da realtà sacre", o all'italiano Enrico Castiglioni (1924-2000), per il quale l'edificio della chiesa è episodio limite dell'architettura, in quanto luogo di "inveramento di una Presenza" attiva nei segni, o a dom Hans van del Laan (1904-1991), che ha elaborato una razionale correlazione tra "natura, cultura e liturgia nell'arte sacra". Il cerchio può essere ulteriormente allargato ad altri, da Antoni Gaudì (1852-1926) a Gio Ponti (1891-1979), lungo tutto il XX secolo.

La loro produzione d'architettura e le loro riflessioni, aspetto non secondario di quel dialogo tra Chiesa e artisti invocato da Paolo VI alla chiusura del concilio Vaticano ii, segnala il superamento della penosa e fuorviante polemica, che ha attraversato tutto il secondo Novecento e che serpeggia ancora oggi, relativa all'interrogativo se debbano essere credenti o no gli architetti progettisti di chiese e gli artisti che ne definiscono il programma liturgico. Poiché testimoniano che il problema di una architettura e di un'arte sacra è endogeno, con genesi quindi all'interno della Chiesa, questi architetti invitano alla seria presa d'atto di una responsabilità, di approfondimento e comprensione, del senso e del compito della Chiesa, per corrispondervi con il proprio lavoro.




(©L'Osservatore Romano - 23-24 novembre 2009)

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