27 agosto 1978 il primo Angelus e ricordando Albino Luciani - Giovanni Paolo I

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Caterina63
00mercoledì 16 settembre 2009 00:01



In quest'Angelus Papa Luciani spiega la scelta del nome: Giovanni Paolo


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Caterina63
00giovedì 25 agosto 2011 21:20
Trentatré anni fa l'elezione di Giovanni Paolo I

Non solo Papa del sorriso


 

di VINCENZO BERTOLONE
Arcivescovo di Catanzaro-Squillace

Rivolgendosi al collegio cardinalizio, Paolo VI ebbe a dire che "la Chiesa, nel duplice simbolo della pietra e della nave, esprime splendidamente la dialettica dei suoi doveri e dei suoi destini". Il suo successore Albino Luciani era nel collegio cardinalizio, ascoltò le parole del Papa e ne fece motivo di attenta riflessione. È vero, pensò: gli estranei vedono la pietra e non vedono la nave, scorgono l'immobilità e non l'avventura della fede. Ma il segno dei tempi spostava sempre più la prospettiva verso il viaggio, grazie anche a Giovanni XXIII e allo stesso Paolo VI.

Ne era consapevole, papa Giovanni Paolo I, anche quel 26 agosto del 1978. Da allora molti anni sono passati: 33, lo stesso numero dei giorni del suo breve pontificato, vissuto nel segno dell'amore. "È legge di Dio che non si possa fare del bene a qualcuno se prima non gli si vuole bene", affermava già nel 1969, nell'eco di un altro patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, il futuro Pio X.

Questi, infatti, nel 1893 aveva detto al suo nuovo popolo: "Cosa sarebbe di me, veneziani, se non vi amassi?". Proseguendo in questo dialogo a distanza tra due patriarchi della cattedra di Marco, prendendo possesso di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di Roma, papa Luciani confidò ai "suoi romani": "Posso assicurarvi che vi amo, che desidero solo entrare al vostro servizio e mettere a disposizione di tutti le mie povere forze, quel poco che ho e che sono". Poche parole per un concetto talmente profondo, bello nella sua semplicità e ricco nella sua umiltà, che ben descrive la figura del Papa del sorriso, appellativo conquistato per il suo atteggiare il volto nello scambio comunicativo a un'espressione di gioia mite e serena che conferiva alla sua persona un aspetto lieto e piacevole. Motivazioni influenti, ma affatto sufficienti a dar conto delle origini e della forza del sorriso di papa Luciani, del quale Aldo Palazzeschi avrebbe detto che mostrava "la faccia sorridente di amor fraterno", che fa anche pensare al "sorriso della primavera".

Nel suo dialogare, in effetti, spesso anche le parole erano sorridenti, così come intende Dante quando parla di "sorrise parolette brevi", capaci di spiegare un concetto o di chiarire un dubbio in modo piano e veloce. In Albino Luciani sorridere era parte e strumento della comunicazione e quindi della catechesi, nella quale era maestro. Psicologia e sociologia dimostrano che molte sono le cose che possono parlare: le pietre, ad esempio ("grideranno le pietre", Luca 19, 40); una statua ("Perché non parli?", chiede Michelangelo al suo Mosè); le stesse parole ("Le parole sono pietre", scrive Primo Levi in Se questo è un uomo). E, naturalmente, a parlare bastano il sorriso (come nel nostro caso), oppure l'ira, o lo sdegno, o la gioia, il dolore e ogni altro sentimento che alberga nel cuore dell'uomo.
Ma in Luciani oltre a ciò il sorriso era anche qualcosa d'altro. Lui, che aveva dimestichezza con i letterati, non ignorava François Rabelais - il cinquecentesco romanziere francese autore di Gargantua e Pantagruel -, anche se mai gli indirizzò una delle sue lettere. Ebbene, Rabelais detestava coloro che non sorridono, anzi neppure ridono. Gli facevano paura, perché non dotati da madre natura di spirito e di umorismo.

È questo il concetto che egli stesso esprime nella lettera a santa Teresa d'Avila: "La Teresa mistica dei rapimenti in Dio è pure una vera Teresa". Albino Luciani parlava del famoso gruppo marmoreo che si trova in Roma nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, nella quale il grande Bernini la riproduce nell'atto di essere raggiunta dalla freccia del serafino. E aggiunge: "Ma è vera anche l'altra Teresa, che mi piace di più [...]: è la Teresa della vita pratica, che prova le stesse nostre difficoltà e le sa superare con destrezza, che sa sorridere, ridere e far ridere, che si muove con spigliatezza, in mezzo al mondo ed alle vicende più diverse e tutto ciò in grazia delle abbondanti doti naturali, ma più ancora della sua costante unione con Dio".
Umorismo e sorriso, dunque, come sapienza di vita; ottimismo come carità. Perfino la visibile amabilità di Albino Luciani era governata dal desiderio di sorreggere, incoraggiare, valorizzare i suoi interlocutori. Non è da dimenticare che egli sia stato e sia ricordato come un grande catecheta. Certo, si ispirava a grandi esempi, ma di suo ci metteva l'amore per la semplicità, per l'essenzialità: l'una come l'altra ancelle della verità.

Tutti abbiamo nella mente e nel cuore quel suo andare al segno usando espressioni efficaci, anche se, o forse proprio per questo, mai artificiosamente lunghe e retoriche. Tutti ricordiamo come riuscisse a coinvolgere gli auditori più eterogenei, dai fanciulli agli accademici, dai lavoratori agli intellettuali, dalle gerarchie alle persone del popolo. Aveva identificato la conversazione, ovvero l'espressione più diretta di comunicazione interpersonale, con la catechesi. "La conversazione - affermava - ci mette vicino agli altri e ci dà un profondo senso di noi stessi [...]. Sono triste? La simpatia di chi conversa con me mi conforta. Mi sento solo?

La conversazione fa cessare la solitudine". E qui citava il più grande dei comunicatori: "Nella conversazione ha trovato sollievo anche Gesù; per toccarlo con mano, basta leggere in san Giovanni le confidenze fatte ai suoi apostoli durante l'ultima Cena. Della conversazione Gesù ha fatto spessissimo il veicolo del suo apostolato: parlava camminando lungo le strade, passeggiando sotto i portici di Salomone; parlava nelle case, con le persone attorno, con Maria seduta ai Suoi piedi, e con Giovanni che reclinava la testa sul suo petto".
I concetti anche più alati restano tuttavia ben poca cosa se chi li comunica non li fa arrivare alla testa e al cuore di chi li riceve. Come Albino Luciani, appunto.



(©L'Osservatore Romano 26 agosto 2011)


Caterina63
00martedì 21 agosto 2012 19:16

Albino Luciani inedito (Prima parte)


Intervista a Marco Roncalli, biografo di Giovanni Paolo I


ROMA, lunedì, 20 agosto 2012 (ZENIT.org).- Intervista a Marco Roncalli, autore della prima, completa, biografia critica di Giovanni Paolo I, del quale ricorrono il 34° anniversario della sua elezione a Pontefice (26 agosto), quello della morte (28 settembre) e il centenario della nascita (17 ottobre). La seconda parte verrà pubblicata domani, martedì 21 agosto.

di Renzo Allegri*

Agosto, settembre e ottobre, sono tre mesi con importanti anniversari legati alla vita di Albino Luciani, cioè Papa Giovanni Paolo I: il 26 agosto, si ricorda il trentaquattresimo della sua elezione al soglio pontificio; il 28 settembre, la sua improvvisa morte; il 17 ottobre, i cent’anni della sua nascita.

Per queste ricorrenze, e soprattutto per il centenario della nascita, sono in corso innumerevoli iniziative cattoliche, in Italia e all’estero. Albino Luciani apparteneva a una famiglia poverissima di Canale d’Agordo, in provincia di Belluno, ai piedi delle Dolomiti. Fin da bambino, e anche da sacerdote e da vescovo, fu sempre una persona timida e riservata. Nessuno avrebbe potuto immaginare che a 66 anni sarebbe diventato Papa.

Un Papa che ebbe uno sconcertante destino: quello di restare sulla cattedra di San Pietro per soli 33 giorni, e morire all’improvviso, in circostanze misteriose, che hanno dato origine a voci, dicerie e supposizioni di un omicidio perpetrato nella notte da qualche eminente personalità del Vaticano. Un giallo, sul quale sono stati scritti libri e girati anche dei film, ma che, pur essendo una vicenda drammatica e fosca, mai completamente chiarita, non ha fatto dimenticare alla gente il sorriso gioioso di quel papa, passato alla storia come “Il Papa del sorriso” e come una persona di luminosa santità.

“Quella di Giovanni Paolo I resta una figura fasciata di mistero: quando stai per raggiungerla, ti sfugge”, scrisse Jean Guitton, il celeberrimo filosofo cattolico francese. Ma con questo giudizio non è d’accordo Marco Roncalli, storiografo e saggista, autore di una poderosa biografia di Albino Luciani, la prima, completa biografia critica del 'Papa dei 33 giorni'.

“Il giallo della scomparsa di Papa Luciani”, afferma Roncalli, “ha polarizzato, in modo morboso e per lungo tempo, l’attenzione degli studiosi e dei mezzi di comunicazione impedendo una ricerca serena, ampia e oggettiva. Ma quel giallo ormai ha perso il suo sinistro richiamo. Ora, finalmente, l’attenzione può concentrarsi sulla vita 'vera e concreta', di Albino Luciani, e viene a galla la personalità di un grande e autentico cristiano, la cui fede è stata l’anima che ha giustificato sempre tutte le sue azioni”.

Bergamasco, 53 anni, pronipote di Papa Giovanni XXIII (al quale, nel 2006, ha dedicato un volume di 800 pagine), Marco Roncalli è uno dei maggiori esperti di storia della Chiesa contemporanea. Dotato di una profonda e vasta cultura, si è affermato come un ricercatore di straordinario valore, e soprattutto un illuminato e saggio interprete dei documenti che raccoglie. Alla biografia di Giovanni Paolo I ha dedicato 5 anni di viaggi, di interminabili giornate trascorse in biblioteche, in emeroteche, a colloquio con persone che hanno conosciuto bene Luciani, che hanno lavorato con lui. Ma le cose più importanti e inedite le ha scovate negli archivi, compresi quelli inaccessibili e segreti, che, grazie alla sua fama di studioso, per lui si sono aperti. Ha così portato a casa una montagna di materiale preziosissimo, dal quale ha ricavato un volume di 750 pagine, pubblicato dalle Edizioni San Paolo, che è pieno di notizie, vicende, informazioni sorprendenti e inedite, che dimostrano come quello che bonariamente viene chiamato il 'Papa del sorriso', era un uomo dalla personalità decisa, granitica, fedele servo della Chiesa, duro e irremovibile difensore dei principi, ma tenero e affettuoso con le persone, soprattutto con i meno fortunati. Un ecclesiastico totalmente evangelico, del quale è giustamente in corso il processo di beatificazione.

A Marco Roncalli abbiamo chiesto di parlarci di Papa Luciani e soprattutto di raccontarci le cose nuove e inedite che ha trovato in questi cinque anni di ricerche.

“Quando ho iniziato a lavorare a questo progetto”, dice Marco Roncalli, “mi sono trovato di fronte a un fatto singolare: un papa che aveva regnato soltanto 33 giorni, un tempo brevissimo per aver potuto fare cose importanti, ma che aveva egualmente lasciato nei credenti un fascino straordinario. La sua attività di Pontefice non giustificava quel fascino, bisognava perciò cercarne la causa altrove. Cioè nella vita di Albino Luciani precedente alla elezione a pontefice.

“Un compito difficile, perché l’ampia letteratura fiorita su di lui dopo la morte, riguardava soprattutto il giallo della scomparsa, In realtà, la vita vera di Albino Luciani era tutta da scoprire e da studiare. E, tenendo conto che lui fu sempre un tipo timido, riservato, geloso della propria privacy, ho dovuto affrontare un lavoro di ricerca massacrante. Ma ho avuto la fortuna e la gioia di scoprire un uomo di uno spessore spirituale incredibile”.

Chi erano i genitori di Albino Luciani?

Marco Roncalli: Albino era il primogenito di Giovanni Luciani e Bortola Tancon, una coppia molto povera e molto provata dalla vita. Giovanni, 40 anni, vedovo, aveva avuto, dal primo matrimonio, cinque figli: tre maschi, morti piccoli, e due femmine sordomute, affidate a parenti. A 11 anni aveva iniziato a emigrare per lavoro ed era stato in vari paesi dell’Europa e anche in America. Le difficoltà e le sofferenze avevano indurito il suo cuore: militava nel partito socialista e aveva dimenticato la fede dei suoi padri.

Bortola, 31 anni, aveva trascorso anche lei parte della sua esistenza lontana da casa per lavorare. Conobbe Giovanni a Venezia, dove faceva la cameriera, e si sposarono nel 1911. Bortola era molto credente, praticante, pia, e con la sua bontà riuscì anche a far tornare il marito alla pratica religiosa.

Perché al loro primogenito diedero il nome insolito di Albino?

Marco Roncalli: Giovanni aveva dato quel nome anche ai tre maschi avuti dal primo matrimonio e morti subito dopo la nascita perché Albino era il nome di un suo compagno di emigrazione, morto giovane in un incidente in cantiere. Quel nome gli ricordava i sacrifici terribili che aveva affrontato in giro per il mondo. Dopo Albino, la coppia ebbe altre tre figli, ma solo due sopravvissero.

Che cosa si sa di Albino Luciani bambino?

Marco Roncalli: Fin dall’infanzia dovette affrontare situazioni di vita difficili, che lasciarono nel suo animo segni profondi. Crebbe, praticamente, senza padre. Già nel 1913, quando Albino aveva un anno, suo padre era in Argentina. Rientrò per la guerra 1915-1918, e poi ripartì. Fu la madre a crescere e ad educare il figlio e a trasmettergli i valori cristiani. “La mamma è stata la mia prima maestra di catechismo”, ricordava Luciani.

Gli anni della guerra furono particolarmente duri, in quella zona del Veneto. Il fratello di Albino, Edoardo, ricordava: “C’erano solo erba e le radici delle piante da bollire… Ogni tanto un pezzo di pane fatto di crusca e di segatura degli alberi….”. Albino, gracile per costituzione, portò per tutta la vita le conseguenze di quegli anni di miseria. Lui stesso raccontava di essere stato in sanatorio, otto volte ricoverato in ospedale e di aver subito quattro interventi chirurgici.

Che tipo di scuola aveva seguito?

Marco Roncalli: Le elementari al suo paese natale, e poi era entrato in seminario. A scuola era bravo. Amava leggere e il parroco e altri sacerdoti lo aiutarono prestandogli dei libri. Aveva una grande facilità di scrittura. Si conserva una preghiera che scrisse in quarta elementare e che è importante perché rivela il suo stile chiaro e concreto, che lo caratterizzerà poi da adulto. “Signore, tu che sai tutto e che puoi tutto, aiutami a vivere. Io sono ancora un ragazzo, non ho studi, sono povero, ma desidero conoscerti. Adesso non so veramente chi sei e non so se ti voglio bene, mi piace il Pater noster, mi piace tanto l’Ave Maria, prego per i miei morti e per i miei cari. Aiutami a capire. Sono il tuo Albino. Amen”.

Quando decise di diventare sacerdote?

Marco Roncalli: La vocazione sbocciò spontanea, quando era ancora bambino. Sembra che desiderasse diventare frate francescano, o gesuita. Ma il parroco consigliò il Seminario, dove avrebbe potuto studiare e valutare, in età più matura, se proseguire per il sacerdozio. A 11 anni entrò nel seminario di Feltre. Da vescovo scriverà: “Quando ci si chiama fra noi uomini, la chiamata è chiarissima… Quando chiama Dio, la cosa è diversa; niente di scritto o di forte o di evidentissimo: un sussurro lieve, un sottovoce, un 'pianissimo' che sfiora l’anima”.

In pratica visse sempre lontano dal mondo reale.

Marco Roncalli: Ma sempre attento a ciò che accadeva nel mondo reale. Anche in seminario arrivavano, attraverso i professori, le idee politiche, religiose, culturali che si dibattevano in quegli anni. Albino Luciani era una spugna. Ascoltava, pensava, elaborava. E soprattutto leggeva. Non solo libri di carattere religioso, ma soprattutto libri di letteratura, che non sempre erano reperibili in Seminario e non erano neppure ben visti. Se aveva qualche soldo, li comperava, ordinandoli direttamente dall’editore, altrimenti se li faceva prestare. Durante gli anni soprattutto del liceo, lesse libri di Molière, Verne, Walter Scott, Mark Twain, Dikens, Dovstoievskij, Tolstoi, Puskin, Camus, Silone, Peguy, Bernaons, Claudel, Pascal, Erasmo, Montaigne, Chesterton, Goethe, Petrarca, Eliot, Trilussa, Goldoni, Papini, Freud, Darwin, Haine, Nietzsche, Max, Lenin eccetera. Durante i mesi estivi, si dedicò a mettere in ordine l’antica biblioteca parrocchiale del suo paese i cui libri stavano ammucchiati nella soffitta della canonica. Compilò le schede di oltre 1200 volumi, indicando di ognuno l’autore, il titolo, il luogo e la data di edizione, seguiti da una breve sintesi del contenuto e un sintetico giudizio, realizzando un volumetto manoscritto di 100 pagine che ancora si conserva.

Aveva quindi una straordinaria cultura anche profana...

Marco Roncalli: Certamente. E’ difficile ritenere che possa aver trovato tutti quei libri in Seminario. Ma nella sua sfrenata passione per la lettura, cercava ovunque, e quella passione sfrenata provocò una pericolosa crisi interiore che mise in serio pericolo la sua vocazione. Ad aiutarlo a superare quel difficile momento fu un frate cappuccino, san Leopoldo Mandic, che per un certo periodo confessava in quel seminario. I consigli di quel santo furono provvidenziali per il giovane Luciani e da allora egli portò, per tutta la vita, una foto di padre Leopoldo, nel portafoglio, accanto a quella della madre.

Il giovane Luciani non si interessava solo di letteratura, ma anche di cinema, di arte, di giornalismo. Amava scrivere e dirigeva anche un giornalino, dimostrando fin da allora quelle qualità di chiarezza, di sintesi, che contraddistinsero poi i suoi libri.

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*Renzo Allegri è giornalista, scrittore e critico musicale. Ha studiato giornalismo alla “Scuola superiore di Scienza Sociali” dell’Università Cattolica. E’ stato per 24 anni inviato speciale e critico musicale di “Gente” e poi caporedattore per la Cultura e lo Spettacolo ai settimanali “Noi” e “Chi”. Da dieci anni è collaboratore fisso di “Hongaku No Tomo” prestigiosa rivista musicale giapponese.

Ha pubblicato finora 53 libri, tutti di grandissimo successo. Diversi dei quali sono stati pubblicati in francese, tedesco, inglese, giapponese, spagnolo, portoghese, rumeno, slovacco, polacco, cinese e russo. Tra tutti ha avuto un successo straordinario “Il Papa di Fatima” (Mondatori).



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Caterina63
00martedì 21 agosto 2012 19:17

Albino Luciani inedito (Seconda parte)


Intervista a Marco Roncalli, biografo di Giovanni Paolo I


ROMA, martedì, 21 agosto 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda parte dell'intervista a Marco Roncalli, autore della prima, completa, biografia critica di Giovanni Paolo I, del quale ricorrono il 34° anniversario della sua elezione a Pontefice (26 agosto), quello della morte (28 settembre) e il centenario della nascita (17 ottobre). La prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 20 agosto.

di Renzo Allegri*

E dopo il Seminario?

Marco Roncalli: Venne ordinato sacerdote a 23 anni. Per due anni lavorò in parrocchia come aiutante del parroco, svolgendo “quell’apostolato spicciolo tra la gente che mi piaceva tanto”. E poi tornò di nuovo in Seminario, come insegnante e come vicedirettore. Altri dieci anni di Seminario, dal 1937 al 1947. Sono gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Anni difficili, drammatici, soprattutto per l’Italia, Egli li visse intensamente, impegnandosi in attività anche fuori del Seminario. Riuscì, in quegli anni, anche a conseguire una laurea, summa cum laude, in teologia, alla Gregoriana di Roma. Ma studiava soprattutto gli eventi che stavano accadendo nel mondo, la vita degli uomini che erano fuori dal Seminario, per i quali egli stava preparando le guide spirituali del futuro.

Poi, nel 1947, arrivò la stagione dell’agire. In un momento difficile per la sua salute, perché, proprio in quel periodo aveva problemi gravi e fu ricoverato in sanatorio. Ma la stima dei suoi superiori era grande e fu egualmente nominato provicario della diocesi, poi vicario generale e, nel 1958, vescovo di Vittorio Veneto. Prese, come motto del suo stemma vescovile, la parola Humilitas, spiegando: “Io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto”. Non ebbe mai grande considerazione di se stesso. Scrisse: “Alcuni vescovi assomigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali ad alto livello; io appartengo alla categoria dei poveri scriccioli che, nell’ultimo ramo dell’albero ecclesiale, squittiscono”.

Nel 1962 iniziò il Concilio Vaticano II. Luciani era già vescovo, come lo visse?

Marco Roncalli: Con grandissimo entusiasmo, ma nel nascondimento. Non si conoscono suoi interventi diretti, ma fu sempre presente a tutte le sezioni. Guardava a quell’evento con stupore. Ne parlava esprimendosi con un linguaggio sportivo, paragonandolo a una “partita straordinaria” dove giocano “oltre 2000 vescovi” e “arbitro è il Papa”. Ma quell’evento ebbe un significato enorme per lui. Scrisse: “Il Concilio mi ha obbligato a farmi ancora studente e a convertirmi anche mentalmente”. Dopo il Concilio, la sua azione pastorale ebbe un’impennata di iniziative nuove, forti, che molti giudicarono, a volte, addirittura rivoluzionarie.

In che senso?

Marco Roncalli: Erano anni di cambiamenti, di progresso anche economico e nella vita dei cristiani si affacciavano molti problemi nuovi. Luciani si dimostra un vero pastore, che rifiuta di farsi incasellare nei soliti stereotipi di “conservatore” o di “progressista”. Fermo, quanto a dottrina e principi, ma pieno di comprensione per la fragilità umana, vicino ai problemi reali delle famiglie.

Uno dei problemi più scottanti in quegli anni, e lo è ancora oggi, riguarda il controllo delle nascite. La contraccezione era ed è proibita dalla Chiesa. Ma sono molte le coppie credenti che, avendo già dei figli e, per ragioni varie e anche gravi, non possono averne altri, ricorrono alla contraccezione vivendo in stato di peccato. Luciani soffriva per questa situazione. In varie discussioni espresse parole che dimostravano una sua prudente ma precisa apertura. Ipotizzava e auspicava un’evoluzione della dottrina cattolica su questo problema. Poi, però, arrivò l’enciclica di Paolo VI Humanae vitae che ribadiva la condanna della contraccezione e si adeguò. Era un innovatore, ma sempre pronto a obbedire alla Chiesa.

Era aperto anche al problema delle “coppie di fatto”. Scrisse: “Tutelata una volta la famiglia legittima e fatto ad essa un posto d’onore, non sarà possibile riconoscere, con tutte le cautele del caso, qualche 'effetto civile' alle 'unioni di fatto'?”.

Già allora erano in crescita nel nostro Paese le presenze di emigrati appartenenti a varie religioni. E lui guardava con il cuore di un padre anche a quelle persone. Scrisse: “Qualche vescovo si è spaventato: ma allora, domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda?… Oppure: ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea? Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare”.

Comprensivo, disponibile, aperto, ma anche inamovibile quanto a rigore dottrinale e disciplina. Ha ribadito sempre l’inconciliabilità tra cristianesimo e marxismo. Ha condannato gli abusi di quanti rischiavano di far diventare il Concilio “un’arma per disobbedire, un pretesto per legittimare tutte le ‘stramberie’ che passano per la testa”. Fu sempre duro con i movimenti cattolici del dissenso. A Venezia, da cardinale, quando gli studenti universitari della FUCI si schierarono per il no alla abrogazione della legge sul divorzio, sciolse l’associazione. Proibì tassativamente ai gruppuscoli uniti da nostalgie preconciliari di celebrare la Messa in latino. Affermava: “Non esigiamo – situati a destra – che la Chiesa conservi oggi, in un mondo profondamente cambiato, tali e quali gli atteggiamenti e i riti, che andavano bene nel medioevo… Viceversa cerchiamo di non essere – situati a sinistra – troppo audaci e di non compromettere l’unità della fede e della Chiesa”.

Se Luciani avesse avuto un pontificato lungo, quali cambiamenti, secondo te, avrebbe realizzato allinterno della Chiesa?

Marco Roncalli: Durante i 33 giorni del suo pontificato ha continuato a comportarsi nella semplicità più assoluta, come aveva sempre fatto. Quando, subito dopo l’elezione, i cardinali gli chiesero che nome avrebbe voluto da Papa, scelse quello dei due Pontefici che lo avevano preceduto, per indicare che voleva mettersi nella scia della continuità. Alla domanda rituale rispose. “Mi chiamerò Giampaolo I”. Ma i cardinali gli fecero notare che quel nome, “Giampaolo”, era di tipo troppo “familiare” per un Papa, e così si adattò a cambiarlo in quello solenne di “Giovanni Paolo I”. Le sue prime parole ai cardinali furono: “Cosa avete fatto? Dio vi perdoni!”. Nei vari discorsi dei suoi 33 giorni di pontificato, continuò a richiamarsi alla essenzialità del messaggio evangelico, con sottolineature alla povertà e al retto uso della proprietà. Aveva per davvero metabolizzato la Popolorum progressio di Paolo VI e avrebbe certamente sistemato un po' la questione delle ricchezze vaticane, promuovendo una Chiesa più solidale con i poveri e una maggior comunione e condivisione ai vertici.

Fu il primo papa a chiedere di poter parlare alla folla al primo affacciarsi dalla loggia di San Pietro, impedito dall’allora maestro delle cerimonie Virgilio Noè; che rifiutò l’incoronazione, la tiara, come Paolo VI, e la sedia gestatoria, sulla quale qualche volta lo obbligarono nelle udienze generali.. Per parlare con spontaneità, accantonava i testi ufficiali, allarmando ambienti della curia romana e della diplomazia. Per dare lezioni di umanità, nelle udienze chiamava i bambini a dialogare con lui come ai tempi di Vittorio Veneto e di Venezia. Quei 33 giorni bastarono per creare un imprevedibile cambiamento di clima nella Chiesa, e, bandendo ogni forma di retorica, indicare con parole e gesti, la bellezza del cristianesimo. Se avesse avuto un pontificato lungo, avrebbe certamente lasciato un segno forte e inconfondibile.

Qual è la tua opinione sul giallo della morte di Papa Luciani?

Marco Roncalli: Dai documenti che ho esaminato, sono certo che la morte sia avvenuta per cause naturali. Certo al cento per cento. Ci sono state però tante ipocrisie: la prima a trovare morto il Papa nella sua camera da letto, fu la suora che gli portava il caffè, cioè una donna, cosa che parve disdicevole, per cui si cominciarono a raccontare frottole, ad aggiustare la verità, a emettere pasticciati comunicati stampa, e nacque una confusione che, insieme ad altri dettagli e inopportune dichiarazioni, alimentò l’ipotesi del complotto e dell’avvelenamento.

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*Renzo Allegri è giornalista, scrittore e critico musicale. Ha studiato giornalismo alla “Scuola superiore di Scienza Sociali” dell’Università Cattolica. E’ stato per 24 anni inviato speciale e critico musicale di “Gente” e poi caporedattore per la Cultura e lo Spettacolo ai settimanali “Noi” e “Chi”. Da dieci anni è collaboratore fisso di “Hongaku No Tomo” prestigiosa rivista musicale giapponese.

Ha pubblicato finora 53 libri, tutti di grandissimo successo. Diversi dei quali sono stati pubblicati in francese, tedesco, inglese, giapponese, spagnolo, portoghese, rumeno, slovacco, polacco, cinese e russo. Tra tutti ha avuto un successo straordinario “Il Papa di Fatima” (Mondatori).



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Caterina63
00venerdì 24 agosto 2012 23:43

Intervista con il cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia

«Grazie, monsignor disturbato…»


Così Giovanni Paolo I, al termine di quella che sarebbe stata la sua ultima udienza, congedò monsignor Rigali, all’epoca semplice officiale della Segreteria di Stato. I suoi ricordi di quei trentatré giorni come “interprete” di papa Luciani


di Gianni Cardinale 30giorni novembre 2004


Giovanni Paolo I durante un’udienza nell’Aula Paolo VI

Giovanni Paolo I durante un’udienza nell’Aula Paolo VI

Giovanni Paolo I . Udienza generale del mercoledì, 6 settembre 1978

«Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico…»

«Quanta misericordia bisogna avere! E anche quelli che sbagliano... Bisogna veramente essere a posto con noi stessi. Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore: ha detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi».


Il cardinale Justin Francis Rigali

Il cardinale Justin Francis Rigali


«Giovanni Paolo I era un papa di profonda umiltà e di profonda pace. Forse non si trovava perfettamente a suo agio nei Palazzi apostolici ed era un po’ spaesato per i molteplici impegni che comportava il pontificato, ma era cosciente che era il Signore a condurlo per mano e questo gli procurava una profonda pace interiore. Come dice il libro della Sapienza: “Consummatus in brevi, explevit tempora multa”». Il cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia con radici toscane, ha un ricordo ancora molto vivo del pontificato di Albino Luciani. Il porporato statunitense, infatti, prima di essere nominato arcivescovo di Saint Louis nel 1994 e di Philadelphia nel 2003, e di ricoprire importanti incarichi nella Curia romana (prima ancora è stato presidente della Pontificia Accademia ecclesiastica e segretario della Congregazione per i vescovi), ha lavorato in Segreteria di Stato tra il 1964 e il 1966 e poi dal 1970 al 1985. E in questi periodi tra le sue mansioni c’è stata anche quella di interprete del papa nelle udienze concesse a ecclesiastici e personalità di lingua inglese. «Sia Paolo VI, pontefice di cui conservo una somma ammirazione, sia Giovanni Paolo I» ci dice, «parlavano sì l’inglese, ma preferivano tenere la conversazione in italiano per poter meglio colloquiare con l’interlocutore o gli interlocutori. E io, in questi casi, lasciavo il mio ufficio in Terza loggia e partecipavo alle udienze come interprete». Il cardinale Rigali quindi è un testimone particolare del breve pontificato di Giovanni Paolo I. E ha volentieri accettato di raccontare quella sua esperienza a 30Giorni. «Innanzitutto» ci dice l’arcivescovo di Philadelphia «devo dire che papa Luciani aveva un modo di parlare davvero molto simpatico. Al primo Angelus da Pontefice, ad esempio, raccontò con grande candore come i cardinali che gli stavano vicini nel conclave lo incoraggiassero a non avere paura quando si stava profilando per lui “il pericolo” di essere eletto al Soglio di Pietro… In un’udienza del mercoledì poi invitò tutti a non mettersi in mostra, ma di stare “bassi, bassi”…».

Eminenza, fece spesso da interprete a papa Luciani?
JUSTIN FRANCIS RIGALI: Abbastanza spesso. È capitato anche più volte nello stesso giorno. Inoltre partecipai alle quattro catechesi che tenne durante le udienze generali del mercoledì.

Qual è il ricordo più caro che ha di quegli incontri?
RIGALI: L’incontro più vivo nella mia memoria è quello che ebbi l’ultimo giorno della sua vita terrena. Feci infatti da interprete all’ultima udienza del suo pontificato, quella concessa ad un gruppo di vescovi filippini in visita ad limina nella tarda mattinata del 28 settembre. E fui l’ultimo a congedarmi da lui.

Aveva conosciuto Albino Luciani prima che diventasse Papa?
RIGALI: Sì, ma – per così dire – in extremis. Nel senso che ebbi modo di conoscerlo per un caso fortuito poco prima che entrasse in conclave.

Come accadde?
RIGALI: Prima della proclamazione dell’extra omnes ci fu un ricevimento organizzato dalla Segreteria di Stato nel Palazzo Apostolico cui parteciparono i cardinali e il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. A questo appuntamento venni invitato anch’io, insieme ad altri officiali della Segreteria di Stato. Ricordo benissimo che arrivai nel salone del ricevimento con un certo anticipo. E il primo cardinale ad arrivare fu proprio il patriarca Luciani. Per un certo periodo di tempo eravamo tra i pochi ad essere presenti. Così ci mettemmo seduti e avemmo modo di parlare un po’.

Che impressione le fece?
RIGALI: Rimasi colpito dalla sua grande semplicità e dalla sua profonda umiltà. All’epoca non sapevo che il suo motto episcopale era proprio Humilitas, ma si trattava di un motto che veramente rispecchiava la sua personalità.

Pensò che avrebbe potuto diventare Papa?
RIGALI: Devo confessare che mi fece un’ottima impressione per la sua profondità spirituale. Mi accorsi che ero di fronte a una persona davvero speciale.

Delle quattro catechesi del mercoledì di Luciani che cosa la colpì di più?
RIGALI: Rimasi molto impressionato di come il Papa parlò della misericordia divina. Per ben due volte, il 6 e il 20 settembre se non sbaglio [il cardinale cita a memoria e ricorda bene, ndr], parlò dei “vantaggi di essere peccatori”. Non usò proprio queste parole, ma il senso era questo. Quando uno confessa umilmente i propri peccati e scopre la propria miseria umana allora ci sono due vantaggi. Primo, non può pretendere di essere perfetto, non può sentirsi un padreterno ed è quindi anche più comprensivo verso gli altri. Chi ha peccato, poi, può avere un secondo grande vantaggio: quello di poter sperimentare il dolce perdono di Dio, la sua misericordia. Certo papa Luciani usò un linguaggio particolare, un po’ inusuale – «rischio di dire uno sproposito…» disse – ma bellissimo, e molto efficace.

Le parole di Luciani forse ricordano sant’Agostino che parla di felix culpa
RIGALI: «… quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem», recita la bellissima preghiera pasquale dell’Exsultet. In effetti si tratta di una immagine poetica – una colpa di per sé non può essere felice – ma che non a caso è entrata nella più antica liturgia romana. Il peccato originale è una colpa felice non in sé, ovviamente, ma perché ci ha meritato un tale e tanto grande Redentore.

Ricorda qualche altro episodio particolare di quei trentatré giorni?
RIGALI: Sì. La mattina in cui il metropolita ortodosso di Leningrado Nikodim spirò nelle braccia del Papa [5 settembre 1978, ndr]. Quel giorno venni chiamato a fare da interprete prima e dopo quel tragico avvenimento.

Giovanni Paolo I saluta i fedeli dalla loggia centrale della Basilica vaticana

Giovanni Paolo I saluta i fedeli dalla loggia centrale della Basilica vaticana

Torniamo all’ultima udienza, quella del 28 settembre 1978.
RIGALI: Nel suo discorso papa Luciani citò il viaggio che Paolo VI aveva fatto a Manila nel 1970. E ricordò che in quella occasione papa Montini si impegnò, impegnò concretamente la Chiesa, per alleviare le sofferenze dei poveri, per aiutare la loro liberazione economica e sociale, ma allo stesso tempo non rimase silenzioso sui “beni più alti”, sulla pienezza della vita nel Regno dei Cieli. A questo proposito ricordo che Giovanni Paolo I più volte durante le sue udienze fece riferimento al Regno dei Cieli: accadde, ad esempio, anche quando ricevette un gruppo di vescovi statunitensi in visita ad limina e parlò loro della famiglia. Ma torniamo al 28 settembre. In quella occasione papa Luciani riprese la bella immagine delle Filippine come «luce di Cristo nell’Estremo Oriente». Alla fine dell’udienza, della sua ultima udienza nel suo ultimo giorno di pontificato, il Papa mi congedò con una battuta simpatica…

Quale?
RIGALI: Si scusò di avermi disturbato perché sapeva che avevo molto lavoro da fare in ufficio. Risposi che per me era un onore essere chiamato dal Papa. Allora lui rispose con un sorriso e disse: «Grazie, grazie, monsignor disturbato…». Furono le ultime parole che sentii da lui. La mattina dopo la Radio Vaticana annunciò la sua morte. Fu bouleversant, sconvolgente.

Un’ultima domanda. Secondo lei quale può essere il significato del pontificato di Luciani?
RIGALI: Forse Giovanni Paolo I ha avuto un pontificato breve, di transizione, per preparare la Chiesa a un papa polacco. A questo proposito ci sono due coincidenze che possono essere significative. Papa Luciani fu eletto il 26 agosto, giorno in cui in Polonia si festeggia la Madonna di Czestochowa, e morì il 28 settembre, giorno anniversario della consacrazione episcopale di Karol Wojtyla.



Caterina63
00venerdì 24 agosto 2012 23:50

Riflettendo, come in uno specchio, la luce del Signore


La relazione che padre Roberto Busa ha tenuto in occasione della presentazione del libro Mio fratello Albino presso l’Almo Collegio Capranica di Roma l’11 dicembre 2003: «Don Albino era come un vetro trasparente e non come una vetrata colorata. La luce è una realtà misteriosa, umile, che fa vedere non sé stessa ma tutto il resto»


di Roberto Busa S.I.


Padre Busa durante la presentazione del libro su papa Luciani, <I>Mio fratello Albino</I>, edito da <I>30Giorni</I>

Padre Busa durante la presentazione del libro su papa Luciani, Mio fratello Albino, edito da 30Giorni

Non ripeto i doverosi ringraziamenti. Invitato dalla dottoressa Falasca, le ho risposto: «Gentilissima dottoressa, ho ricevuto il suo omaggio... sa che mi ha commosso? Grazie! Lui, maggiore di me di un anno, è già in Paradiso, mentre io tiro ancora la carretta come un mulo di montagna... Il libro è bellissimo! Grazie, grazie!». Poi la dottoressa Falasca mi ha comunicato che il senatore Andreotti mi invitava a questa presentazione del libro, il che mi ha fatto un sacco di piacere. Mi ha poi anche detto che ci sarebbe stato un cardinale, che io non conoscevo... Questo mi ha messo un po’ in soggezione.
Articolerò ciò che vorrei dirvi in tre capitoli. Primo “Un catino di ghiaccio”; secondo: “Cantando sotto la luna”; terzo: “Il tutto e il nulla”. Non abbiate paura, ché non farò filosofia, bensì soltanto una mia traduzione del Todo y nada di san Giovanni della Croce.

Foto di gruppo del primo anno di liceo al seminario maggiore di Belluno. Albino Luciani è il terzo da sinistra nella seconda fila dall’alto e Roberto Busa è il quinto

Foto di gruppo del primo anno di liceo al seminario maggiore di Belluno. Albino Luciani è il terzo da sinistra nella seconda fila dall’alto e Roberto Busa è il quinto

Primo: “Un catino di ghiaccio”. Dunque, dovete sapere che io sono montanaro, nel senso che mio nonno paterno viene dall’altopiano di Asiago, esattamente da Lusiana. Sono nato a Vicenza e mio padre era un impiegato delle Ferrovie dello Stato e veniva trasferito da una città all’altra: nel ’17 a Genova, durante la guerra, nel ’18 a Bolzano, nel ’21 a Verona. Poi, dopo alcuni passaggi, arrivò a Belluno, e io a Belluno sono entrato in seminario, nel 1928, in prima liceo. E fui in classe proprio con don Albino Luciani. Io vi facevo la figura della mosca bianca: i compagni mi chiamavano “il cittadino”, “il bocio” cioè “il ragazzo”... “Il cittadino”. Perché? Perché tutti gli altri, provenienti dalle valli di Belluno e Feltre, erano nati e vissuti nello stesso paese e anche i loro genitori e i loro nonni erano sempre vissuti nello stesso paese.

Quell’inverno, del ’28-29, fu un inverno di freddo eccezionale. Ricordo a Belluno un metro e mezzo di neve in piazza Campitello. Noi avevamo una fila di letti in uno stanzone, io ero in fondo, ultimo della fila, prima c’era don Dante Cassoli, e poi don Albino.
Ai piedi del letto avevamo catino e brocca, come si usava a quei tempi, e il camerone non era riscaldato. La mattina ci svegliavano alle cinque e mezza, e per lavarci bisognava rompere il ghiaccio che si era formato nel catino... e io per cinque minuti perdevo la vocazione! «No, no, no, non con l’acqua gelata! Torno dalla mamma che mi prepara l’acqua calda!». Per mia fortuna, dopo lavato, tornava subito la vocazione, ogni giorno! Avevamo mezz’ora per vestirci, lavarci e rifare i letti: don Albino faceva tutto in dieci minuti e impiegava gli altri venti minuti a leggere.

Ricordo che leggeva di tutto, per esempio i libri edificanti del padre Croiset, gesuita francese; ma lesse anche tutto Goldoni, che pure, dopo un po’, diventa noioso perché ripete gli stessi tipi di eventi teatrali. E continuò sempre a leggere molti libri, tra cui vari testi di letteratura francese del 1800. Leggeva, ricordava e semplificava. Ossia essenzializzava. E giudicava. Leggeva di corsa e ricordava per sempre. I frutti di queste letture li trovate nel suo libro Illustrissimi.

Albino Luciani, il secondo in piedi da sinistra, con i suoi compagni di studio al liceo nel 1932

Albino Luciani, il secondo in piedi da sinistra, con i suoi compagni di studio al liceo nel 1932

A Venezia, una mattina mi mostrò un articolo di una rivista di teologia (ne leggeva tante) edita da miei confratelli, e mi disse: «Questo non è detto correttamente». Era andato al di là delle parolone altisonanti, e ne aveva centrato il nucleo con quelle semplici, correnti e comuni parole che erano la sua caratteristica.
Ricordo che quando lo seppi Papa, e lessi che qualcuno sui giornali lo aveva definito un “buon parroco di campagna”, mi dissi: «Sì, sì, aspettate che tiri fuori le unghie!», pensando a Eb 4,12:«Vivus est sermo Dei et efficax etpenetrabilior omni gladio ancipiti».

Fatto sta che alla fine di quell’anno scolastico, veramente a me piangeva il cuore a lasciare il seminario per tornare a casa a fare vacanza, perché la compagnia di quei giovani, che erano pulitissimi, intelligenti, birbanti, simpaticissimi, era una cosa meravigliosa.

Secondo: “Cantando sotto la luna”. All’inizio degli anni di Teologia, dal camerone ci trasferirono ognuno in una stanzetta, sotto il tetto, da quella parte del seminario che era confinante con la chiesa di San Pietro. Era una specie di mansarda. In seminario era ovviamente proibito fumare, ma il nostro compagno don Costante Pampanin (già morto anche lui), che noi definivamo “una sagoma”, diceva: «In seminario è proibito fumare, però non fuori!». Allora nelle sere tiepide uscivamo da un abbaino sul tetto, ci sedevamo sulle tegole e cantavamo – che bello! – al riparo del campanile di San Pietro, mentre don Costante fumava. Prediligeva dei pezzi di sigaro.

Vi dirò che in seminario ho imparato a studiare! Perché durante le ore del pomeriggio, in camerata, per non sentire l’appetito ed evitare di domandarsi in continuazione: «Quanto manca alla cena?», bisognava studiare per forza. E lì ho imparato quel metodo di studio al quale attribuisco tutto quello che poi sono riuscito a fare. Il nostro prefetto, subito, durante la prima estate, mi invitò a casa sua per alcuni giorni. Egli era di Vallada, un paese in cima a una piccola valle confluente a Forno di Canale; da Forno si poteva raggiungere Vallada solo a piedi. Per cui si combinò che, arrivando da Belluno, io pernottassi da don Albino. Conobbi casa sua e la sua famiglia. Non ne ricordo nulla. Mi è rimasta solo una vaga immagine di sua madre, che oggi traduco così: due occhi che “trapanavano”, poche e sincere parole che tradivano tanto pensare severo e buono.
A Vallada presi parte anch’io alle fienagioni in montagna: falciando l’erba venivano in luce i buchi fatti dai calabroni: al termine di un cuniculo vi era il favo a sfera, con un miele che ricordo fluido e cristallino come un liquore.

Dopo cinque anni, in seconda Teologia, nel 1933, chiesi al vescovo, monsignor Giosuè Cattarossi, un friulano forte, di andare missionario gesuita. Mi disse di sì. Anche don Giuseppe Strim, di Falcade, che era già in terza Teologia, glielo chiese e ne ebbe egli pure un sì. Poi anche don Albino, che era parente del celebre padre Felice Cappello dell’Università Gregoriana, chiese al vescovo di farsi gesuita. Ma egli ebbe un “no”: altro esempio di come il Signore gioca con gli uomini così che paia che il loro futuro dipenda da loro.
Lasciai il seminario. Come gesuita fui ordinato sacerdote il 30 maggio 1940 a Chieri, in Piemonte.
Il 14 giugno rividi in seminario a Belluno i miei compagni già sacerdoti e con loro don Albino, già professore in esso.
Poi lo rividi durante la guerra in Roma, all’Università Gregoriana, quando vi venne per la difesa della sua tesi: il papa Pio XII lo aveva dispensato dalla frequenza.
Passarono gli anni.
Da vescovo a Vittorio Veneto egli mi chiamò (15-18 marzo 1960) perché predicassi un ritiro spirituale a suoi seminaristi.
Albino sacerdote novello nel 1935

Albino sacerdote novello nel 1935

A causa dei lavori con la Ibm per l’Index Thomisticus, dal 1967 al 1969 fui a Pisa e poi dal 1969 al 1971 in America, a Boulder, nel Colorado. Da là, nel gennaio 1971 mi trasferii, con trenta tonnellate tra carta e nastri magnetici, a Venezia, dove egli come patriarca era arrivato l’anno prima. Quando il cardinale Giovanni Battista Montini divenne Papa, don Albino, già vescovo a Vittorio Veneto, aveva accettato la presidenza del comitato promotore dell’Index Thomisticus (alla sua morte gli succedette il cardinale Carlo Maria Martini).
Il 2 maggio 1977, a Venezia, presso la Fondazione in San Giorgio, il patriarca Luciani commentò, alla chiusura della cerimonia, il significato dei 56 volumi dell’opera, della quale la allora Banca Cattolica del Veneto, diretta dal dottor Vahan Pasargiklian, gli aveva fatto dono per il seminario.

A Venezia io, assorbito dal completamento dei 56 volumi dell’Index, non presi parte alla vita né cattolica né culturale della città. Gli feci visita parecchie volte: mi dava appuntamento alle 7,30 del mattino, quando, dopo le preghiere, iniziava la sua giornata di lavoro.
Dopo che fu eletto Pontefice, il mercoledì 13 settembre gli presentai in Roma la direzione e le maestranze della ditta Borghi Trasporti (i signori Melloni, Ognibene e Valera) che avevano graziosamente trasportato tutte le sue cose personali da Venezia a Roma (ricordo che con i Carabinieri avevano provveduto a garantirsi contro furti di documenti e di souvenir), così come per trent’anni avevano graziosamente provveduto ai tanti trasporti dell’Index Thomisticus.
Fu l’unico Papa – li conobbi tutti da Pio XI in poi – cui potei dare del “tu”.
Il mattino del 30 settembre, tutti noi compagni di classe eravamo stati convocati per concelebrare in Vaticano con lui nella sua cappella privata: ma egli ci fu compresente dal cuore di quel Dio che è in terra, in cielo, in ogni luogo, quando ciascuno di noi nella sua sede celebrò, addolorato, per lui, defunto il giorno prima.

Terzo: “Il tutto e il nulla”. Per ultimo, chiedo a voi se vi siete accorti che io non ho raccontato alcun aneddoto o fatto particolare su di lui. Ciò è dovuto al fatto che dopo i cinque anni del nostro seminario ci siamo frequentati pochissimo e saltuariamente.
Ma perché anche dei cinque anni non ho ricordi né puntuali né coloriti? La prima volta che la dottoressa Falasca mi intervistò, le dissi che don Albino per me era un vetro trasparente e non una vetrata colorata. Ci ripensavo la notte scorsa. Cos’è la trasparenza? Già Aristotele se lo chiedeva (diapháneia).

E vi ricordate Manzoni in La Pentecoste: «Come la luce rapida / piove di cosa in cosa, / e i color vari suscita / dovunque si riposa…». La luce è una realtà misteriosa, umile, che fa vedere non sé stessa ma tutto il resto: i nostri occhi vedono quei raggi di luce che, rimbalzati su qualcos’altro, arrivano a essi: il cielo è buio di notte, benché nello spazio ci sia luce, quando a noi non ne arriva alcun raggio. Eppure essa è tanto in sé stessa piena di colori da riuscire trasparente.

Giovanni Paolo I appena eletto pontefice, 26 agosto 1978

Giovanni Paolo I appena eletto pontefice, 26 agosto 1978

Se dalle frequenze fisiche e corporee della luce passiamo alla nostra intelligenza, vediamo che anch’essa è trasparenza della realtà, ma non più frequenza fisica, bensì forza del nostro “io” personale e sostanziale. Nel più profondo di ogni “io” che sia in grazia di Dio, vi è la mistura (d’amore) come quella di gocce d’acqua che perse nel vino ne diventano partecipi e potenziate: è il matrimonio della forza teologale della “carità” tra una persona d’uomo e Dio “appropriato” alla Sua Terza Persona, lo Spirito Santo.
Il senatore Andreotti ci ha or ora riferito che qualcuno ha definito “scolorita” la personalità di papa Luciani. Scolorita sì, ma come la luce e la forza della luce. La semplicità sintetica di don Albino era ovviamente una commistione tra la sua personale intelligenza e la invasione in lui dello Spirito Santo: dove il tutto è il nulla, perché non è che amore tra Dio e i suoi figli: tutto l’altro, se non è amore eterno, è nulla, cioè, come dice l’Apocalisse, è la morte seconda.

Ho detto “una commistione”: mi era venuto in mente di dire “un cocktail” ma mi son frenato, perché sarebbe proprio stato irriverente. Ma ora, tra pochi momenti, un vero cocktail è quello che vi aspetta.
Comunque, se la forte, semplice, sintetica e ricca luce che fu don Albino, sia da qualificare entro le realtà mistiche e in quale gradino, non sono io in grado di appurarlo.


Caterina63
00sabato 25 agosto 2012 17:34

«Stà tranquillo e segui la tua strada»


Così padre Leopoldo Mandic, prendendogli il viso tra le mani, disse al giovane seminarista Albino Luciani. Ricordi di Antonia Luciani sul fratello Papa Padova, 27 settembre 1999


Ricordi di Antonia Luciani sul fratello Papa


Prima della testimonianza di Antonia Luciani, è stata letta una frase di papa Luciani e il commento che ne fa don Giussani: «Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’avvenimento di Cristo con delle regole». Commenta Giussani:«È una mirabile frase di Giovanni Paolo I. Sarebbe stato provvidenziale quel suo mese di pontificato anche solo per questa osservazione di cui non si trova altrove l’equivalente».


Papa Luciani con la sorella Antonia

Papa Luciani con la sorella Antonia

ANTONIA LUCIANI:
Ringrazio quanti hanno organizzato questa serata. Di mio fratello posso dire che è sempre stato l’uomo della preghiera fin da ragazzo, da seminarista, da sacerdote, ma penso anche dopo: sempre.
Quando era in seminario, le volte che scriveva a casa io mi ricordo che diceva: «Mi raccomando tanto alle vostre preghiere». Tutte le volte che scriveva raccomandava questo; quando veniva a casa, lo stesso.
Quando era ragazzo, e anche dopo, è sempre stato fedele al suo dovere: recitava il rosario giornaliero e, quando poteva, partecipava alla messa; gli dispiaceva di non poterlo fare.

Io me lo ricordo più che altro da giovane prete, perché, dopo, le nostre vite si sono un po’ divise.

Visto che mi trovo a Padova vorrei raccontare questo episodio. Avevo una zia suora che lavorava all’ospedale civile di Padova e una volta che sono venuta a trovarla mi ha detto: «Facciamo una passeggiata fino al cimitero, così che se dovessi morire e tu nel tempo tornassi a Padova, potrai venire a recitarmi una preghiera». Così siamo andate al cimitero e lì ho visto, nel recinto riservato ai religiosi, una tomba tutta coperta di ceri e di fiori. Quando sono tornata a Belluno ho raccontato a mio fratello: «Sai, nel cimitero ho visto una tomba tutta coperta di fiori e di ceri nel recinto riservato ai religiosi».
Allora lui mi ha detto: «Guarda che quella è la tomba di padre Leopoldo; io ne ho avuto un bel ricordo: quello è certamente un santo! Quando io ero ancora in seminario, una volta ero nello studio, ad un certo punto è entrato il vicerettore e mi ha detto: “Guarda che c’è qui un padre cappuccino famoso di Padova e se vuoi approfittare puoi parlargli”. Così lo ho incontrato nel corridoio, mi ha preso il viso tra le mani e mi ha detto: “Sta’ tranquillo e segui la tua strada”. Questo è il ricordo che ho sempre serbato di padre Leopoldo».

I ricordi più belli di mio fratello li ho di quando si era in famiglia. Durante l’estate lui veniva ad aiutare a fare il fieno in campagna perché mio padre era operaio e allora il lavoro in campagna lo si faceva noi donne. D’estate si tagliava il fieno e partecipava anche mio fratello. Lui tagliava il fieno e quando mi aiutava a raccoglierlo mi raccontava sempre cose della Chiesa. Per esempio di come veniva eletto un papa.
Certo lui non avrebbe mai immaginato che sarebbe successo proprio a lui! Se ci si fermava a lungo a tagliare il fieno, allora tornando a casa mi diceva: «Guarda che si fa tardi! Chissà se farò in tempo ad andare in chiesa a fare la visita e a recitare il rosario». Allora prendeva dalla tasca la corona del rosario e diceva: «Dai, lo recitiamo strada facendo, così in chiesa faccio la visita e basta!».

Posso raccontare un altro episodio di quando era ragazzo, ma forse lo avete letto. Mio nonno andava al pascolo con due mucche e una ne avevamo anche noi; mia mamma approfittava e mandava mio fratello ad accompagnare il nonno al pascolo e così portava anche la nostra mucca. E gli diceva di prendersi anche un libro o qualcosa da studiare: a quel tempo aveva dieci anni e stava preparandosi per entrare in seminario.
Andava dal parroco dove c’era un maestro che gli faceva un po’ di lezione perché lui aveva fatto la quarta elementare, ma il parroco aveva visto che era un bambino intelligente e gli aveva consigliato di prepararsi bene a fare l’esame di ammissione, così invece di fare la “preparatoria” (che sarebbe stata come la quinta elementare) passava direttamente in prima ginnasio. Un giorno è andato al pascolo e ha messo lo zaino, con dentro il libro, il quaderno e la merenda che la mamma gli aveva dato (pane e formaggio che era quello che poteva avere), vicino ad un abete e poi è andato a giocare con gli altri ragazzi. Intanto la mucca, si vede che ha sentito l’odore del pane, gli ha mangiato non solo la merenda, ma anche il quaderno e il libro.
È tornato a casa piangendo e dicendo: «Che cosa si fa adesso?».

La mamma gli ha risposto: «Purtroppo bisogna andarlo a dire in canonica al parroco!». Allora sono andati con questo ragazzo che piangeva e il maestro gli ha risposto: «Non ti preoccupare: la mucca si è mangiata il quaderno e tu non potrai più andare in seminario!». Questo bambino è scoppiato a piangere allora il parroco ha detto: «No, no! Ce ne saranno ancora di quaderni, e tu preparati ad andare in seminario». Il giorno che compiva undici anni è partito per andare in seminario.

Posso dire anche che i primi anni, quando tornava dal seminario, era un ragazzo come tutti gli altri, ne combinava ancora. Giocava con gli altri ragazzi e faceva anche qualche birichinata.
Facevano il ginnasio del seminario a Feltre, poi passavano al liceo a Belluno.

Da quando ha messo la veste (in prima liceo mettevano la veste talare), e lo diceva anche mia mamma, è cambiato: sempre allegro lo stesso, suonava, cantava (avevamo un armonium in casa e lui si preparava per accompagnare la messa) però è cambiato tanto. Intanto pregava molto, perché la preghiera era la prima cosa da fare per lui. Ricordo anche le lettere che scriveva in cui si raccomandava: «Pregate per me perché io possa seguire la vocazione e fate pregare». E si raccomandava alle preghiere di qualche persona che conosceva, soprattutto di qualche vecchietta che potesse ricordarlo nella preghiera.


[SM=g1740738]


Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 15:31

Omelia del cardinale Albino Luciani nella messa di suffragio per Paolo VI nella Basilica di San Marco a Venezia, 9 agosto 1978 -
18 giorni prima di essere eletto suo Successore sul Trono di Pietro.


 


Il patriarca Albino Luciani con Paolo VI durante la visita del Papa a Venezia, il 16 settembre 1972

Il patriarca Albino Luciani con Paolo VI durante la visita del Papa a Venezia, il 16 settembre 1972

«Come vuoi essere chiamato?», gli era stato chiesto quindici anni fa al termine del Conclave. E lui: «Mi chiamerò Paolo». Chi lo conosceva, ci avrebbe giurato che la scelta del nome sarebbe stata quella. Da sempre Montini era stato un appassionato degli scritti, della vita, del dinamismo del grande Apostolo delle genti. E visse la sua “paolinità” per intero e fino all’ultimo.
Il 29 giugno scorso parlò dei quindici anni del suo pontificato; fece sue le parole che san Paolo, anche lui prossimo alla fine, aveva scritto a Timoteo: «Ho conservato e difeso la fede» (2Tm 4, 7).

La fede da conservare e da difendere fu il primo punto del suo programma. Nel discorso dell’incoronazione, il 30 giugno 1963, aveva dichiarato: «Difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza».

San Paolo aveva scritto ai Galati: «Se un angelo del cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema» (Gal 1, 8).
Angeli, ai nostri giorni, possono venire considerati la cultura, la modernità, l’aggiornamento, tutte cose cui teneva moltissimo papa Paolo. Ma quando esse gli parvero contrarie al Vangelo e alla sua dottrina, egli disse no inflessibilmente. Basti accennare alla Humanae vitae, al suo “Credo”, alla posizione da lui presa circa il catechismo olandese, alla chiara affermazione sull’esistenza del diavolo.

Qualcuno ha detto che l’Humanae vitae è stata un suicidio per Paolo VI, il crollo della sua popolarità e l’inizio di critiche feroci. Sì, in un certo senso, ma egli l’aveva previsto e, sempre con san Paolo, s’era detto: «... È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?... Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo» (Gal 1, 10).

San Paolo aveva anche detto di sé: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2, 20). Paolo VI confidò: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio [pontificale] non già perché io abbia qualche attitudine o io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che egli, non altri, la guida e la salva». Ha anche detto: «Il Papa ha le pene, che gli provengono anzitutto dalla propria insufficienza umana, la quale ad ogni istante si trova di fronte e quasi in conflitto con il peso enorme e smisurato dei suoi doveri e della sua responsabilità». Ciò arriva talvolta sino all’agonia.

I Corinzi facevano su Paolo il seguente apprezzamento: «Le [sue] lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2Cor 10, 10). Tutti abbiamo visto Paolo VI in televisione o in fotografia abbracciare il patriarca Atenagora: faceva la figura di un bambino che scompare tra le braccia, e di fronte alla barba imponente di un gigante.

Anche quando parlava, la sua voce era piuttosto cupa; rare volte essa esternava la convinzione e l’entusiasmo, che gli bollivano dentro. Ma il pensiero! Ma gli scritti! Questi erano limpidissimi, penetranti, profondi e talora scultorei.

I popoli della fame» ha scritto per esempio «interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello». Sviluppo sì – ha detto –, ma integrale, «d’ogni uomo e di tutto l’uomo». «Ogni uomo» e non soltanto la classe dei fortunati; «tutto l’uomo»: questi, dunque, deve aver modo di svilupparsi e progredire in una dimensione non solo economica, ma anche morale, spirituale e religiosa. «Fare, conoscere e avere di più per essere di più».

Ma san Paolo è stato soprattutto l’apostolo dei gentili, di quelli che allora si consideravano opposti agli ebrei. In loro favore egli s’è battuto, nonostante la perplessità di altri apostoli, ha tanto viaggiato e sofferto. Scrisse: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli...» (2Cor 11, 24-26).
A sua somiglianza, Paolo VI ha percorso in aereo 130mila chilometri: Palestina, India, sede delle Nazioni Unite, Fatima, Turchia, Colombia, Africa, Estremo Oriente sono state le tappe principali del suo viaggiare. Tutti questi viaggi non hanno ottenuto, forse, delle conversioni, ma hanno fatto sentire la vicinanza della Chiesa ai popoli e ai loro problemi.


Altra vicinanza, o meglio avvicinamento, che Paolo VI ha cercato, è quello dei contatti con governi di professione ateistica. Punto, questo, delicato: su di esso il Papa è stato criticato da alcuni. Indubbiamente il rischio c’era. Ma limitato e calcolato. Limitato, perché non egli cedeva sui princìpi in base all’evangelico «iota unum aut unus apex non praeteribit a lege». Calcolato, perché, sia pure con speranze talora esigue, egli cercava il vantaggio della religione.

C’era il problema dei tanti cattolici che vivono sotto governi persecutori: bisogna pure che il Papa invii loro dei vescovi o cerchi di ottenere per essi qualche briciola di libertà religiosa. Gli stessi atei sono un problema: sono tanti, tanti; può la Chiesa rinchiudersi in sé stessa di fronte a loro?
San Paolo aveva scritto: «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22).

Perché allora non ammirare il coraggio di un Papa che rischia? Quando Pio VII stava trattando il concordato con Napoleone, ebbe contro di sé oppositori aperti anche tra i cardinali. «Trattare con quel delinquente!» dicevano. «E spazzar via dalle diocesi tutti i vescovi anziani, tra i quali parecchi si possono considerare martiri della fede! E mettere al loro posto i vescovi graditi al primo console!». Pio VII, con lo strazio nel cuore, chiese o impose ai vecchi vescovi di soffrire non solo per la Chiesa, ma anche dalla Chiesa; fece al primo console tutte le concessioni moralmente lecite per averne, in cambio, grossi vantaggi per la religione. Naturalmente l’esito felice delle trattative non lo si vide subito, ma con il tempo.
La storia ha i suoi corsi e ricorsi.
Anche quella della Chiesa. Nell’archivio patriarcale esistono lettere scambiate tra il patriarca Roncalli e il sostituto Montini. Il Papa – scrive in una Roncalli – desidera a Roma il tal sacerdote; concederlo è un grave sacrificio per Venezia, ma io cedo, perché nella Chiesa «bisogna vedere largo e lontano». Grazie, gli risponde Montini; grazie per il sacerdote concesso e per il «largo e lontano».


Miei fratelli, nessun uomo è perfetto; anche Paolo VI, che tanto rimpiangiamo, avrà forse fatto imperfettamente alcune cose. A me sembra, tuttavia, ch’egli, coltissimo come uomo, esemplare come sacerdote, come Papa abbia veramente visto «largo e lontano».

[SM=g1740733]

Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 16:19

«Un mio grande amico»


Così papa Ratzinger, durante l’ultimo Angelus in terra bellunese, ha voluto ricordare il suo predecessore. Edoardo Luciani racconta... agosto 2007


di Stefania Falasca


Benedetto XVI saluta Edoardo Luciani

Benedetto XVI saluta Edoardo Luciani

«Un mio grande amico». Così Benedetto XVI ha voluto ricordare Albino Luciani a Lorenzago, il 22 luglio, durante l’ultimo Angelus delle sue vacanze estive in terra bellunese. A Canale d’Agordo, il paese natale di Luciani, il Papa non è andato, ma la presenza dell’anziano fratello novantenne di Giovanni Paolo I è venuta incontro al desiderio di Benedetto XVI di recarsi nel luogo che ha dato i natali al suo predecessore.
E con parole di affetto più volte il Papa lo ha ringraziato: «Sono molto lieto che sia presente il signor Edoardo Luciani, fratello del servo di Dio Giovanni Paolo I: a lui rivolgo un particolare saluto, con tutto il mio cuore e con grande gioia». Alla fine dell’
Angelus, Edoardo, accompagnato dalla figlia Pia, è salito a salutare il Papa. Un incontro breve ma intenso.
Quando il vescovo di Belluno, monsignor Giuseppe Andrich, lo ha presentato a Sua Santità, il Papa lo ha abbracciato ricordando l’occasione nella quale si erano conosciuti. «“Noi ci conosciamo già”, mi ha subito detto il Papa, e abbiamo ricordato la circostanza in cui quell’incontro era avvenuto», ci confida subito dopo Edoardo, Berto, come tutti lo chiamano qui.
E sedendosi al riparo di un po’ d’ombra, lì nella piazza di Lorenzago, mentre un gruppetto di cinesi con il cardinale Joseph Zen si fa avanti in fila per stringergli la mano, ancora commoso racconta: «È stato più di vent’anni fa in piazza San Pietro.

Era il 16 ottobre 1983, giorno della canonizzazione di padre Leopoldo Mandic. A Roma ero andato proprio per partecipare a quella canonizzazione. Noi della famiglia si era legati con particolare devozione al padre Leopoldo, soprattutto a motivo di mio fratello. Dopo la morte dell’Albino ci diedero indietro alcuni dei suoi effetti personali tra cui il suo portafoglio. Nel portafoglio io e mia sorella Nina trovammo, insieme alla fotografia della mamma e a una lettera del papà, anche un’immaginetta del padre Leopoldo. Nina mi disse un particolare che le aveva raccontato l’Albino. Quando era ancora al seminario minore di Feltre, una volta il padre Leopoldo lo confessò e prendendogli il viso tra le mani gli disse: “Stai tranquillo e segui la tua strada”.
Mio fratello conservò sempre viva la memoria di quell’incontro tanto che l’immaginetta del padre Leopoldo la portò poi sempre con sé.
Per questo motivo allora decisi, insieme a mia moglie, di andare a Roma per la sua canonizzazione e fu lì che incontrai il cardinale Ratzinger, allora già al Sant’Uffizio.
Ricordo che eravamo seduti sotto la gradinata di piazza San Pietro e lui era nelle file più su. Ci vide e venne giù. Restò a parlare con noi una ventina di minuti. Ci chiese della famiglia, parlammo della nostra famiglia e dell’Albino. Mi disse che era molto affezionato a mio fratello. E quella fu l’unica volta che lo vidi prima di adesso. Ecco, abbiamo ricordato questo e mi ha detto di essere stato molto vicino all’Albino e che ne fa spesso memoria».

Questo il contenuto della breve conversazione con Benedetto XVI. E mentre nel pomeriggio torniamo a Canale d’Agordo, dove Berto abita ancora nella casa natale dei Luciani, riaffiorano alla mente altri ricordi di suo fratello legati a quell’ultima estate in cui lo aveva visto tornare a casa. E ricorda ancora quando alla fine di giugno del ’78 lo vide per l’ultima volta a Canale. «Mi disse: “Guarda, Berto, quest’estate non prenderti impegni. Ho un desiderio che non sono mai riuscito a trovare il tempo di realizzare”.
“E sarebbe?”, gli chiesi. “Mi piacerebbe che tu mi accompagnassi a fare tutto il giro dei santuari francesi: a Lourdes, La Salette e poi vorrei andare ad Ars, a Lisieux e ad Annecy, alla tomba di Francesco di Sales… Cerca di convincere anche Giovanni a venire”, aggiunse, “così porta la macchina”. Erano tutti luoghi legati alla memoria di figure particolarmente care a mio fratello: il Curato d’Ars, Teresa di Lisieux, Francesco di Sales, il patrono dei giornalisti, erano i suoi santi preferiti. Ma quel viaggio non si fece più».

A Canale d’Agordo intanto una folla sommessa di pellegrini continua incessante ad arrivare da ogni parte del mondo per rendere omaggio al “Papa del sorriso” nei luoghi cari della sua infanzia. Dal 2001 ben trentadue registri sono stati compilati con richieste di preghiere e di grazie. 35mila i fedeli che da maggio a ottobre dello scorso anno hanno visitato la Pieve di San Giovanni Battista dove papa Luciani è stato battezzato.
La fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione di Albino Luciani, affidata dal precedente vescovo di Belluno-Feltre, monsignor Vincenzo Savio, alla postulazione generale dei Salesiani, si è chiusa a Belluno il 10 novembre 2006. Il 14 maggio di quest’anno, Mario Paciello, vescovo di Altamura (Bari), ha firmato il decreto di costituzione del tribunale per l’inchiesta diocesana relativa a un presunto miracolo di guarigione attribuito all’intercessione di Giovanni Paolo I. Il prossimo anno ricorreranno i trent’anni dalla sua morte.

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