30 anni fa il capolavoro di Apocalypse Now

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Caterina63
00giovedì 17 settembre 2009 09:28
Trent'anni di «Apocalypse Now»

Il film che Orson Welles non riuscì a girare


di Emilio Ranzato

"Andavo nel posto peggiore del mondo, su per un fiume che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico, con il terminale inserito direttamente dentro Kurtz", dice il capitano Willard sull'imbarcazione che lo porterà a incontrare il misterioso colonnello dell'esercito americano, scivolato nella follia col suo regno pagano al centro della giungla. All'inizio degli anni Settanta anche Francis Ford Coppola, giovane punta di diamante della fucina cormaniana - lo stuolo di autori svezzati dal geniale produttore di serie b Roger Corman, capace di vantare nomi come quello di Martin Scorsese e Jonathan Demme - comincia a sentire un Kurtz dentro la testa, un demone capriccioso che vuole spingerlo nel baratro dell'impresa impossibile.
 
Apocalypse NowA quell'epoca Coppola non è solo un regista affermato, ma l'autore simbolo della Hollywood renaissance, ossia di un cinema americano rinato dalle proprie ceneri dopo la crisi degli anni Sessanta, ispirato alle idee della contestazione e influenzato dal cinema europeo, ma con un occhio di riguardo anche per l'epoca d'oro di Hollywood. Grazie alla saga de Il padrino, il regista di origini italiane ha raggiunto un successo planetario vincendo svariati premi Oscar, e ha inoltre avuto modo di perfezionare quello stile neoclassico per il quale aveva mostrato attitudine sin dai suoi esordi:  montaggio invisibile, inquadrature equilibrate, controllo dispotico della fotografia, i suoi stilemi fanno ormai parte di un congegno impeccabile che rielabora il cinema hollywoodiano del passato con lo sguardo ambizioso del cinema d'autore. Agli inizi degli anni Settanta Coppola non ha più niente da chiedere alla fortuna. È qui che Kurtz comincia a reclamarlo nel suo cuore di tenebra.

Realizzare Apocalypse Now vuol dire infatti non solo mettere in scena la più grande tragedia americana, elaborarne le aberranti motivazioni nello stillicidio di una seduta psicanalitica collettiva, ma anche portare sullo schermo la trasposizione di cui a Hollywood si favoleggia da decenni, ovvero almeno da quando un certo Orson Welles decise di rinunciare all'impresa di tradurre in immagini il famoso racconto di Conrad su un oscuro mercante d'avorio, per ripiegare su un personaggio per molti versi simile ma sulla carta meno ambizioso come il Charles Foster Kane di Quarto potere. Dopo quell'opera prima dallo scarso successo commerciale, Welles tribolerà tutta la vita per mettere insieme i suoi film. Ma mai riuscirà a inoltrarsi nel cuore conradiano.

Anche altri famosi registi paventeranno l'impresa. Fra questi, Richard Brooks, l'autore di A sangue freddo e I professionisti. E non è un caso che sul progetto primigenio che porterà nel 1979 ad Apocalypse Now compaiano insieme i nomi di Welles e Brooks. I loro stili antitetici, infatti - anarchico, visionario, anticipatore delle nouvelle vagues europee, il primo; strenuamente classico e dall'ampio respiro, il secondo - delineano due coordinate che i registi-cinefili della nuova generazione hanno studiato e imparato a seguire. All'incrocio di queste due coordinate, c'è il cinema di Coppola e di tutta la fucina cormaniana. 

 Apocalypse NowE la dicotomia fra classicità e innovazione si riflette anche sulla personalità di quello che assieme a Coppola sarà il co-sceneggiatore del film, John Milius, personaggio fondamentale della renaissance. Politicamente conservatore se non addirittura reazionario, Milius è in realtà una figura complessa figlia di un periodo di transizione:  regista di Un mercoledì da leoni e autore dello script di un western revisionista come Corvo rosso non avrai il mio scalpo, affianca, senza combatterla, l'ondata contestataria, portandola però a più miti consigli grazie al suo stile dai toni classicheggianti, dal respiro epico e romanzesco, riuscendo sottilmente a interiorizzare tutte le tensioni sociali e politiche dell'America dell'epoca nel farne una questione di lotta fra uomo e storia, intesa per lo più come succedersi implacabile di cicli naturali, e riportando così al centro del dibattito filosofico nazionale i miti fondanti dell'individuo e della wilderness da domare. E, assieme a essi, un riscoperto senso della tragedia, che registi degli ultimi anni come Robert Altman e Arthur Penn si erano premurati sistematicamente di demolire col loro spirito caustico e dissacrante.
 
Le influenze classiche dello sceneggiatore si ritrovano innanzi tutto nei chiari riferimenti all'Odissea presenti nel soggetto del film (laddove la sceneggiatura vera e propria di partenza sarà in seguito completamente stravolta da Coppola). D'altronde, già il Kurtz inventato da Conrad è un personaggio che affonda radici ancestrali in millenni di narrativa e drammaturgia:  passando per i tiranni shakespeariani, arrivando fino a Edipo, è l'archetipo dell'uomo che si ritrova abbacinato dal proprio abisso, dalle conseguenze aberranti e incontrollabili del proprio agire.

Quella che Coppola ha in mente di realizzare è quindi un'impresa improba che si porta dietro interi universi tematici ed espressivi, e che anche solo dal punto di vista strettamente cinematografico si propone di chiudere idealmente un ciclo hollywoodiano lungo mezzo secolo, approdando fino ai margini - già visibili grazie all'esordio di Star Wars e ai primi film di Steven Spielberg - del cinema sforna-blockbuster, la nuova Hollywood in senso stretto votata alla strategia del film-evento. Una strategia alla quale il progetto di Coppola peraltro non intende sottrarsi del tutto, a partire da un budget lievitato presto a dismisura e da un look che la fotografia calda e a tratti estetizzante di Vittorio Storaro rende immediatamente appagante.
 
Ciò che a tutt'oggi rimane quasi inspiegabile, e che fa di Apocalypse Now un capolavoro irripetibile del cinema americano e non solo, è come tutte queste influenze eterogenee, tutti questi propositi variegati e titanici, siano potuti confluire - dopo anni di lavorazione in condizioni proibitive, esaurimenti nervosi del regista, un attacco di cuore del protagonista Martin Sheen, capricci da star intoccabile del Kurtz Marlon Brando - in un risultato straordinariamente equilibrato che non fa avvertire nulla di quella fatica. Ha dell'incredibile il modo in cui le tante anime del film si richiamano fra loro in un gioco infinito di attrazioni:  la suggestione dell'apologo di Edipo si fonde con la piaga tipicamente americana dell'assenza dei padri, pronti in questo caso a sacrificare i figli in una guerra di glaciale strategia; il classicismo dello stile si concilia con l'andamento narrativo fluviale, indice di un senso forte di autorialità che deriva direttamente dalla recente lezione del cinema francese ed europeo; la dimensione spettacolare e persino commerciale assurge a filosofia nazionale e occidentale di dominio sulle altre culture; il piano del racconto di Conrad, con tutte le sue implicazioni metafisiche, si interseca alla perfezione con quello ben più concreto e crudo del film di guerra vero e proprio; gli echi più prosaici della controcultura si sublimano in un canto contro tutti i conflitti, tutte le ingiustizie, tutti gli orrori.

E sarà proprio questa la chiusa del film come del racconto di Conrad:  l'orrore, ovvero l'abisso scavato dagli uomini e dentro il quale Kurtz ha osato guardare per primo, perdendo la ragione. Un'immagine con cui l'opera colta Apocalypse Now rievoca i tanti sguardi fatali del mito, da quello di Narciso a quelli rivolti a Medusa, legandoli in una morsa a quello improvvisamente fragile dell'America di fine Novecento.



(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)
Caterina63
00giovedì 17 settembre 2009 09:55
Anche in «Cuore di tenebra» di Conrad solo Kurtz ha il coraggio di guardare il fondo del baratro

Marlow (Willard) tiene famiglia



di Giuseppe Fiorentino

Chi è meno colpevole, Marlow-Willard o Kurtz? Non c'è dubbio che questa domanda deve aver attraversato più volte la mente di Francis Ford Coppola, durante la realizzazione di Apocalypse Now, come deve aver animato la creazione di Heart of Darkness da cui il celeberrimo film è (liberamente direbbero alcuni) tratto. Far balenare davanti al lettore una seppur fugace risposta al quesito è anzi il motivo che sottende alla scrittura del romanzo di Joseph Conrad.

La domanda non può però riguardare l'innocenza dei protagonisti, ma solo l'entità della loro colpevolezza, perché qui - nel libro di Conrad come nel film di Coppola - di innocenza non ne è rimasta. È stata dissipata come solo può esserlo quando l'uomo moderno dilapida se stesso in avventure poco gloriose quali lo sfruttamento coloniale o la guerra. Niente luce, quindi, ma solo tenebra, solo l'incombenza di un'apocalisse sempre annunciata ma costantemente rimandata. A un passo dalla fine, senza mai varcare la soglia, in una sorta di limbo che accoglie tutti i protagonisti del romanzo. In questo senso Marlow e Kurtz (come i protagonisti di Apocalypse Now) sono accomunati dal fatto di essere figli dello stesso mondo. Di una cultura costretta ad arrampicarsi sugli specchi della propria coscienza per giustificare il saccheggio colonialista, che alla fine del XIX secolo garantiva sussistenza all'economia britannica, o qualsiasi altra forma di aggressione.

Una realtà che Conrad, uno dei massimi scrittori di lingua inglese anche se di nascita polacca, conosceva di prima persona. Il suo romanzo trae infatti spunto da un viaggio compiuto nel 1890 risalendo il corso del fiume Congo, esattamente come Marlow, il coprotagonista del libro pubblicato nove anni dopo. Ma viaggiando nell'Africa più intensa, Conrad, come poi accade al suo personaggio, deve aver potuto gettare uno sguardo su una realtà ben peggiore di quella del colonialismo.

Perché in definitiva Cuore di tenebra non è solo un romanzo contro il colonialismo, esattamente come Apocalypse Now non è solo un film antimilitarista. Si tratta invece di opere sulla natura più profonda dell'uomo, sul suo lato più cupo, su quel cuore di tenebra che potenzialmente batte in ogni essere umano - come tragicamente la storia ha insegnato - e che con fatica si cerca di celare. Nulla di contingente quindi, nulla di comodamente relegabile all'Inghilterra del xix secolo o all'America degli anni Sessanta e Settanta. Conrad nel suo romanzo fa chiaramente capire che l'oscurità riguarda tutti. Kurtz ad esempio è tedesco, ma di madre francese, di padre inglese ed è al servizio dei belgi; il suo aiutante è russo, mentre svedese è il capitano che pilota il traghetto lungo il Congo. E qui, nel pieno della wilderness, Marlow comincia il suo processo di identificazione con Kurtz, agente di una Compagnia europea dalla quale è stato rigettato.

Marlow, nel romanzo di Conrad ha un duplice ruolo: uno letterario, l'altro strutturale. Da un punto di vista stilistico, fungendo da narratore interno, consente all'opera una buona dose di oggettività. Lo scrittore, affidando la narrazione a un personaggio, ne rimane in qualche modo estraneo, quasi a voler garantire vita propria alla sua creazione. Ma il Marlow di Heart of Darkness è più di un accorgimento letterario. Come un Virgilio vittoriano, guida i lettori nella discesa agli inferi. Da questo viaggio dovrebbe essere per sempre cambiato e in effetti lo è. Ma fino a un certo punto. Perché, arrivato sull'orlo dell'ultimo precipizio, ha paura e si ritrae.
Kurtz no, Kurtz - sia quello del libro che quello del film - ha invece il coraggio e lo spessore tragico necessari a guardare il fondo del baratro da egli stesso scavato.

Sia l'agente della Compagnia belga che il colonnello delle forze speciali statunitensi sono sfuggiti al controllo dei loro superiori e si sono lasciati andare a ogni sorta di violenza. Hanno usato gli stessi mezzi di sempre per imporre le ragioni del più forte, ma hanno sbagliato, perché con la loro brutalità hanno privato il potere - economico o militare che sia - della retorica patina di ipocrisia che lo rende digeribile. Sono diventanti inaccettabili e vanno senz'altro eliminati perché rivelano alla luce del sole di cosa sia capace l'uomo lontano dalle educate ricostruzioni della storiografia ufficiale e dei telegiornali. Ma Kurtz quella soglia l'ha già varcata, è stato attratto fatalmente dall'oscurità e ne è rimasto prigioniero. Fino all'ultimo istante, quando, in punto di morte sul battello che lo trascina verso il mare, impietosamente conia una definizione per il mondo che lo ha generato e poi scartato come un rifiuto e del quale, scoprendone la finzione, si è eretto a giudice: l'orrore.

Marlow, come detto, rimane pericolosamente affascinato da Kurtz. Ma, al momento della verità, si dilegua. In fondo la sua vita non finisce a bordo di un battello che naviga su un fiume africano. Il suo destino è nella civilissima Inghilterra, nella modernissima New York, nella freddissima Mosca o in qualsiasi altra capitale di un impero politico ed economico. Che fare? Tornare per gridare in patria l'orrore di Kurtz, condannandosi all'emarginazione, o lasciare che quel rantolo si spenga in Africa assieme alla sua forza visionaria ed eversiva? Marlow tiene famiglia, verrebbe da dire, e così preferisce la strada meno gloriosa, ma più sicura. E alla fine della storia conforta la fidanzata di Kurtz: le ultime parole da questi pronunciate sono state il nome di lei e non già "l'orrore, l'orrore". Che epitaffio banale per l'uomo che ha messo a ferro e fuoco parte dell'Africa nera (e della Cambogia). Nulla resta della tragica denuncia di un personaggio scomodamente fedele a stesso. Più accettabile di Marlow-Willard. E meno colpevole.




(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2009)


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