di Emilio Ranzato
"Andavo nel posto peggiore del mondo, su per un fiume che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico, con il terminale inserito direttamente dentro Kurtz", dice il capitano Willard sull'imbarcazione che lo porterà a incontrare il misterioso colonnello dell'esercito americano, scivolato nella follia col suo regno pagano al centro della giungla. All'inizio degli anni Settanta anche Francis Ford Coppola, giovane punta di diamante della fucina cormaniana - lo stuolo di autori svezzati dal geniale produttore di serie b Roger Corman, capace di vantare nomi come quello di Martin Scorsese e Jonathan Demme - comincia a sentire un Kurtz dentro la testa, un demone capriccioso che vuole spingerlo nel baratro dell'impresa impossibile.
A quell'epoca Coppola non è solo un regista affermato, ma l'autore simbolo della Hollywood renaissance, ossia di un cinema americano rinato dalle proprie ceneri dopo la crisi degli anni Sessanta, ispirato alle idee della contestazione e influenzato dal cinema europeo, ma con un occhio di riguardo anche per l'epoca d'oro di Hollywood. Grazie alla saga de Il padrino, il regista di origini italiane ha raggiunto un successo planetario vincendo svariati premi Oscar, e ha inoltre avuto modo di perfezionare quello stile neoclassico per il quale aveva mostrato attitudine sin dai suoi esordi: montaggio invisibile, inquadrature equilibrate, controllo dispotico della fotografia, i suoi stilemi fanno ormai parte di un congegno impeccabile che rielabora il cinema hollywoodiano del passato con lo sguardo ambizioso del cinema d'autore. Agli inizi degli anni Settanta Coppola non ha più niente da chiedere alla fortuna. È qui che Kurtz comincia a reclamarlo nel suo cuore di tenebra.
Realizzare Apocalypse Now vuol dire infatti non solo mettere in scena la più grande tragedia americana, elaborarne le aberranti motivazioni nello stillicidio di una seduta psicanalitica collettiva, ma anche portare sullo schermo la trasposizione di cui a Hollywood si favoleggia da decenni, ovvero almeno da quando un certo Orson Welles decise di rinunciare all'impresa di tradurre in immagini il famoso racconto di Conrad su un oscuro mercante d'avorio, per ripiegare su un personaggio per molti versi simile ma sulla carta meno ambizioso come il Charles Foster Kane di Quarto potere. Dopo quell'opera prima dallo scarso successo commerciale, Welles tribolerà tutta la vita per mettere insieme i suoi film. Ma mai riuscirà a inoltrarsi nel cuore conradiano.
Anche altri famosi registi paventeranno l'impresa. Fra questi, Richard Brooks, l'autore di A sangue freddo e I professionisti. E non è un caso che sul progetto primigenio che porterà nel 1979 ad Apocalypse Now compaiano insieme i nomi di Welles e Brooks. I loro stili antitetici, infatti - anarchico, visionario, anticipatore delle nouvelle vagues europee, il primo; strenuamente classico e dall'ampio respiro, il secondo - delineano due coordinate che i registi-cinefili della nuova generazione hanno studiato e imparato a seguire. All'incrocio di queste due coordinate, c'è il cinema di Coppola e di tutta la fucina cormaniana.
E la dicotomia fra classicità e innovazione si riflette anche sulla personalità di quello che assieme a Coppola sarà il co-sceneggiatore del film, John Milius, personaggio fondamentale della renaissance. Politicamente conservatore se non addirittura reazionario, Milius è in realtà una figura complessa figlia di un periodo di transizione: regista di Un mercoledì da leoni e autore dello script di un western revisionista come Corvo rosso non avrai il mio scalpo, affianca, senza combatterla, l'ondata contestataria, portandola però a più miti consigli grazie al suo stile dai toni classicheggianti, dal respiro epico e romanzesco, riuscendo sottilmente a interiorizzare tutte le tensioni sociali e politiche dell'America dell'epoca nel farne una questione di lotta fra uomo e storia, intesa per lo più come succedersi implacabile di cicli naturali, e riportando così al centro del dibattito filosofico nazionale i miti fondanti dell'individuo e della wilderness da domare. E, assieme a essi, un riscoperto senso della tragedia, che registi degli ultimi anni come Robert Altman e Arthur Penn si erano premurati sistematicamente di demolire col loro spirito caustico e dissacrante.
Le influenze classiche dello sceneggiatore si ritrovano innanzi tutto nei chiari riferimenti all'Odissea presenti nel soggetto del film (laddove la sceneggiatura vera e propria di partenza sarà in seguito completamente stravolta da Coppola). D'altronde, già il Kurtz inventato da Conrad è un personaggio che affonda radici ancestrali in millenni di narrativa e drammaturgia: passando per i tiranni shakespeariani, arrivando fino a Edipo, è l'archetipo dell'uomo che si ritrova abbacinato dal proprio abisso, dalle conseguenze aberranti e incontrollabili del proprio agire.
Quella che Coppola ha in mente di realizzare è quindi un'impresa improba che si porta dietro interi universi tematici ed espressivi, e che anche solo dal punto di vista strettamente cinematografico si propone di chiudere idealmente un ciclo hollywoodiano lungo mezzo secolo, approdando fino ai margini - già visibili grazie all'esordio di Star Wars e ai primi film di Steven Spielberg - del cinema sforna-blockbuster, la nuova Hollywood in senso stretto votata alla strategia del film-evento. Una strategia alla quale il progetto di Coppola peraltro non intende sottrarsi del tutto, a partire da un budget lievitato presto a dismisura e da un look che la fotografia calda e a tratti estetizzante di Vittorio Storaro rende immediatamente appagante.
Ciò che a tutt'oggi rimane quasi inspiegabile, e che fa di Apocalypse Now un capolavoro irripetibile del cinema americano e non solo, è come tutte queste influenze eterogenee, tutti questi propositi variegati e titanici, siano potuti confluire - dopo anni di lavorazione in condizioni proibitive, esaurimenti nervosi del regista, un attacco di cuore del protagonista Martin Sheen, capricci da star intoccabile del Kurtz Marlon Brando - in un risultato straordinariamente equilibrato che non fa avvertire nulla di quella fatica. Ha dell'incredibile il modo in cui le tante anime del film si richiamano fra loro in un gioco infinito di attrazioni: la suggestione dell'apologo di Edipo si fonde con la piaga tipicamente americana dell'assenza dei padri, pronti in questo caso a sacrificare i figli in una guerra di glaciale strategia; il classicismo dello stile si concilia con l'andamento narrativo fluviale, indice di un senso forte di autorialità che deriva direttamente dalla recente lezione del cinema francese ed europeo; la dimensione spettacolare e persino commerciale assurge a filosofia nazionale e occidentale di dominio sulle altre culture; il piano del racconto di Conrad, con tutte le sue implicazioni metafisiche, si interseca alla perfezione con quello ben più concreto e crudo del film di guerra vero e proprio; gli echi più prosaici della controcultura si sublimano in un canto contro tutti i conflitti, tutte le ingiustizie, tutti gli orrori.
E sarà proprio questa la chiusa del film come del racconto di Conrad: l'orrore, ovvero l'abisso scavato dagli uomini e dentro il quale Kurtz ha osato guardare per primo, perdendo la ragione. Un'immagine con cui l'opera colta Apocalypse Now rievoca i tanti sguardi fatali del mito, da quello di Narciso a quelli rivolti a Medusa, legandoli in una morsa a quello improvvisamente fragile dell'America di fine Novecento.