ATTENZIONE: APPELLO AL PAPA e ai Vescovi (serio) PER DIFENDERE L'ARTE NELLE CHIESE

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Caterina63
00martedì 3 novembre 2009 22:25

NAS/L'ora di un Manifesto per un nuovo Rinascimento dell'Arte Sacra.

Da domani 4 Novembre sul sito www.appelloalpapa.blogspot.com  sarà disponibile il testo integrale del Manifesto per una nuova arte sacra di cui anche RS si sta facendo promotore da tempo. Invitando tutti i nostri lettori a leggerlo e sottoscriverlo, per rendere numerosa la partecipazione all'appello, Ve ne diamo un breve anticipo tratto dall'incipit del lungo documento:



IL TESORO DELL'ARTE
L’arte è un tesoro di catechesi inesauribile, incredibile. Per noi è anche un dovere conoscerla e capirla bene. Non come fanno qualche volta gli storici dell’arte, che la interpretano solo formalmente, secondo la tecnica artistica. Dobbiamo piuttosto entrare nel contenuto e far rivivere il contenuto che ha ispirato questa grande arte. Mi sembra realmente un dovere — anche nella formazione dei futuri sacerdoti — conoscere questi tesori ed essere capaci di trasformare in catechesi viva quanto è presente in essi e parla oggi a noi. (Benedetto XVI - Incontro del Santo Padre con i parroci e il clero della Diocesi di Roma - 22 Febbraio 2007)

"Beatissimo Padre,

è ormai da molti anni che la Chiesa Cattolica esperimenta, «con grande smarrimento, confusione e perplessità dei suoi fedeli», per usare le parole del Suo augustopredecessore Giovanni Paolo II, nel suo bimillenario e armonioso rapporto con tutte le Muse dell’arte una nuova epoca, molto contrastante con le precedenti. Una nuova epoca, segnata dalla ribellione e dal disprezzo dell’arte contemporanea verso “le forme vive o le forme degli esseri viventi”, secondo la definizione di Ortega y Gasset, ossia verso il realismo figurativo che ha caratterizzato nei millenni il desiderio di ogni più vario linguaggio artistico di illustrare con dovizia, armonia e splendore tutte le realtà invisibili per dare un luogo degno all’Ostia consacrata
. [...]


***


Il Papa ci salvi dalle brutte chiese


di Francesco Borgonovo

Quando a Foligno è stata inaugurata la chiesa a forma di cubo progettata da Massimiliano Fuksas, i cittadini umbri hanno tempestato il web di messaggi per protestare contro l’opera, da alcuni considerata tra gli edifici più brutti d’Italia.

Quel caso ha permesso che fra critici e architetti si aprisse un dibattito, di cui ha dato conto su queste pagine Caterina Maniaci qualche tempo fa. Ora la questione viene sollevata nientemeno che di fronte a Papa Benedetto XVI, tramite un appello che sarà reso pubblico il prossimo 4 novembre, in previsione dell’incontro con gli artisti provenienti da tutto il mondo che si terrà il 21 del mese.

Il documento sta ancora circolando fra gli esperti, ma finora pare abbia raccolto adesioni importanti. Per esempio quella dello scrittore Martin Mosebach, autore di Eresia dell’informe, del giornalista Sandro Magister, dell’architetto Ciro Lomonte, del filosofo Enrico Maria Redaelli. E ancora compaiono lo storico Paul Badde (corrispondente del giornale Die Welt), il filologo Francesco Colafemmina, il teologo Michele Loconsole e l’editore Manuel Grillo.

Strutture poco amate dai fedeli

Il fatto è che molte delle nuove chiese - come quella di Dio Padre Misericordioso nel quartiere di Tor Tre Teste a Roma, quella di San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano o quella di Gesù Redentore a Modena ideata da Mauro Galantino - non spiccano per bellezza e, soprattutto, non sono amate dai fedeli.

«Vediamo crescere di giorno in giorno edifici sacri spogliati del sacro e costruiti senza alcuna cognizione della liturgia, ma modellati sul funzionalismo o sull’estro inconsulto e arbitrario dell’architetto creatore», recita l’appello. «Vediamo le nostre chiese pullulare di immagini e simbolismi più genericamente “religiosi”, ma che non illustrano alcuna realtà genuinamente cattolica». Secondo gli estensori, «l’arte e l’architettura sacre oggi non sembrano favorire l’incontro dolce e vivificante» con Dio, ma piuttosto «ostacolano e pervertono costantemente».

Di chi è la responsabilità se i credenti si devono raccogliere in edifici orrendi? Non solo degli architetti che li progettano, ma anche di chi commissiona le opere.

Ecco che, su questo punto, l’appello fa riferimento al Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinal Gabriele Paleotti, risalente al 1582, secondo il quale «gli abusi non sono tanto da ascrivere agli errori che gli artisti commettono nel dar forma alle immagini, quanto piuttosto agli errori dei signori che le commissionano e che trascurano di commissionarle come si dovrebbe: essi sono le vere cause degli abusi, in quanto gli artisti non fanno che seguire le loro indicazioni».

Insomma, anche i committenti si fanno spesso incantare dalle sirene della moda, motivo per cui si affidano ad archistar come Massimiliano Fuksas o Renzo Piano, forse senza pensare che i trend passano, ma gli edifici restano.

«L’opera artistica e architettonica», scrivono Lomonte e gli altri, «a differenza della liturgia, permane anche dopo la conclusione della liturgia stessa. Essa ha perciò il compito aggiuntivo di essere eco della liturgia, una volta che questa sia terminata. Pertanto la decorazione della chiesa e la sua struttura architettonica debbono rivendicare una inalienabile funzione pedagogica e protrettica verso la fedeltà al messaggio evangelico e liturgico».

Il sito internet per le adesioni

Dunque basta con le chiese che assomigliano a capannoni o cubi di cemento, meglio qualcosa di più semplice, che però si adatti al ruolo che gli edifici sacri devono svolgere.

Il documento, come dicevamo, sarà disponibile online dal prossimo 4 novembre sul sito internet www.appelloalpapa.blogspot.com.

Per aderire, invece, basta scrivere una email all’indirizzo appelloalpapa@gmail.com  Chissà che Benedetto XVI non decida di prendere personalmente in mano la questione.

Fonte: Rinascimento Sacro; Messainlatino; Fides et forma; Blog Raffaella; Libero....

ADERISCI ANCHE TU ALL'INIZIATIVA.......


Il documento, come dicevamo, sarà disponibile online dal prossimo 4 novembre sul sito internet www.appelloalpapa.blogspot.com.

Per aderire, invece, basta scrivere una email all’indirizzo appelloalpapa@gmail.com



Caterina63
00mercoledì 4 novembre 2009 13:25
Sub protectione Sancti Caroli Borromeo

Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI per il ritorno a un'Arte sacra autenticamente cattolica (scarica qui)

Appeal to His Holiness Pope Benedict XVI for the return to an authentically catholic sacred Art (download here)

Llamamiento a Su Santidad el Papa Benedicto XVI para volver a un Arte sacro auténticamente católico (descarga aqui)

http://appelloalpapa.blogspot.com/2009/10/appello-sua-santita-papa-benedetto-xvi.html

Per aderire, invece, basta scrivere una email all’indirizzo appelloalpapa@gmail.com




Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 23:20
Un ottimo e breve commento di adesione anche di padre Giovanni Scalese dal blog Senza peli sulla lingua.....


Appello al Papa per un'arte autenticamente cattolica

Ho appena sottoscritto l’Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI per il ritorno a un’arte autenticamente cattolica. Potete leggerlo al seguente indirizzo: http://appelloalpapa.blogspot.com/. Nel medesimo sito troverete le indicazioni per sottoscrivere l’appello.

Mi sembra che si tratti di un appello ampiamente condivisibile, completo ed equilibrato. Ci si ritrovano praticamente tutti gli elementi di un’arte autenticamente cristiana: il suo fondamento teologico (il mistero dell’incarnazione); la sua natura ancillare rispetto alla liturgia; l’arte sacra come espressione di fede e di vita cristiana vissuta; il collegamento con la tradizione; la necessità di una formazione artistica del clero e di una formazione liturgico-spirituale degli artisti; l’opportunità della definizione di alcuni “canoni” artistici; ecc.

L’appello evita saggiamente ogni accenno polemico e sottolinea positivamente la continuità nella Chiesa. È molto significativo — e per me motivo di grande soddisfazione — che esso prenda le mosse dal Discorso di Paolo VI agli artisti nel 1964.

Esprimo le mie congratulazioni ai promotori dell’appello; mi auguro che esso possa portare abbondanti frutti nella vita della Chiesa; e invito i lettori che lo desiderino a sottoscriverlo.


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SOTTOSCRIVIAMO QUESTO APPELLO!

Caterina63
00lunedì 16 novembre 2009 09:52

NAS/Ecco perchè aderisco all'Appello.

C'è chi, come LC di Del Visibile, ha voluto aderire all'appello per una nuova arte sacra autenticamente cattolica con entusiasmo e fiducia. Un'adesione che non dimentica la necessità di cercare una "pars costruens " più precisa e forte nella questione, ma anche la necessità di cominciare da qualche parte.


Ho aderito a “Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI per il ritorno a un’arte sacra autenticamente cattolica”.


Non posso che aderire portando con me tutta l’esperienza di Del visibile, blog nato proprio dal desiderio di capire sempre più quei segni visibili testimoni della Vita che si è fatta visibile (1Gv 1,2).

Quando l’arte incrocia la fede, e in particolare la fede cattolica, non si tratta solo di memoria da salvaguardare o di pensieri da esprimere, ma di testimonianza viva. Perché è annuncio di Gesù, annuncio del Figlio di Dio che ha scelto di farsi visibile per andare incontro all’uomo. E’ testimonianza viva e gioiosa, perché segno e annuncio di salvezza nella storia. E’, in una parola, evangelizzazione: un invito a diventare testimoni della bellezza di Gesù. L’arte, infatti, affascina se creata secondo uno spirito di verità e di carità, di mistero e di bellezza. L’arte affascina se degna del fascino di Cristo.


Molte volte, invece, anche tra le pagine di questo blog, si è palesata la difficoltà di trovare opere contemporanee degne testimoni di questo annuncio; molte volte ci siamo imbattuti in una diffusa sudditanza culturale che ha portato ad accettare opere che invece di essere testimoni del Verbo della Vita rimangono mute e goffe di superbia.


Chi segue questo blog sa che sono su posizioni diverse rispetto ad alcune soluzioni avanzate da questo appello. Sto stretto tra i “darwinisti” così come tra i “fissisti” dell’arte. Ma non è questo il momento dei distinguo. Star qui ad aspettare coloro che sono sulle mie stesse identiche posizioni, sarebbe comodo; ma aspetterei per sempre.


Così, se mi è data l’opportunità di unirmi in una comune preoccupazione per le condizioni in cui versano tutte le arti che hanno accompagnato la divina liturgia e in una comune testimonianza di amore verso l’annuncio di vita di cui le arti devono essere segno visibile, io mi unisco nella comune speranza che

la Chiesa possa rivelarsi, anche in questa era di mondane, irrazionali e diseducative barbarie, l’unica vera, solerte e attenta promotrice e custode di un’arte nuova e davvero “originale”, ossia in grado anche oggi, come sempre è fiorita in ogni tempo pregresso, di rifiorire dall’antico, dalla sua inclita ed eterna Origine, ovvero dal senso più intimo della Bellezza che rifulge nella Verità di Cristo.


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Dai commenti

Ho dato un’occhiata veloce all’appello ripromettendomi di leggerlo con calma. A volo d’uccello mi pare però che manchi la pars construens: per costruire (o ricostruire) bisogna pur partire da qualche parte non tutto dell’odierna arte sacra è da buttare. Altra veloce osservazione: l’analfabetismo religioso non è solo degli artisti ma pure dei fruitori. E poi l’utima: siamo sicuri che gli artisti del passato fossero così credenti e praticanti come chiediamo siano gli attuali? Ma ne riparleremo. DonMo

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Le osservazioni che fai sono, a mio avviso, corrette. E ne riparleremo.

Io credo che l’appello possa, sperando in particolare che ci siano numerose adesioni, mostrare la gravità e l’urgenza di un problema.
Che poi è uno. L’appello di Paolo VI con la sua bellissima omelia agli artisti è stato ascoltato a metà: da un lato hanno accolto la sua apertura, dall’altra non hanno accolto il suo invito a studiare e soprattutto il suo invito a quella che lui ha chiamato “sincerità” che è un modo sapiente e universale per parlare di conversione. Tutti non hanno ascoltato: artisti e committenti.
Da qui un’arte autoreferenziale e, dati i segni dei tempi, ludico/esistenzialista posta in chiesa. Non certo un arte liturgica, ovvero che sia in primis servizio.

Io spero che la prossima giornata con gli artisti sia occasione per esplicitare quelle necessità poste già da Paolo VI nella loro completezza. Bisogna dire: artisti e committenti tutti tornate alle vostre chiese, tornate alle vostre opere e studiate e soprattutto convertitevi. Altrimenti sarà solo un happening con depliant d’invito.

Buoni artisti ce ne sono stati, anche nel ‘900 (e ce ne sono che operano oggi). Io ricordo Gaudì ma anche Messina, Manfrini, Vanni Rossi… Questi hanno fatto una cosa semplice: hanno preso la lingua prima che è la lingua dell’annuncio e l’hanno approfondita, hanno messo la loro arte e la loro creatività a servizio di quella lingua comune, senza tradirla ma per andare in profondità, originali perché capaci dell’antico. Come Cristo è sempre antico e sempre “hodie”.


Non credo che la conversione sia questione di pratiche religiose. Io non so nulla della fede di Caravaggio o di Messina. Solo Dio lo sa. Ma sicuramente entrambi per creare hanno studiato e poi intrapreso un “sincero” moto di conversione, per questo le loro opere ci parlano con sincerità di una fede non solo comune ma anche cattolica.

Certo, non basta mostrare di avere a cuore un problema. Oggi c’è la possibilità di un convergere comune. Sul come è urgente operare e cooperare. La storia è già stata impietosa. LC


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Sì, forse manca la pars costruens nell’appello. Naturalmente non nel senso di inchinarsi per l’ennesima volta di fronte a quegli artisti coerenti con l’evoluzione del Novecento, sacerdoti più o meno consapevoli di una super religione che vuole sostituirle tutte. Un’idolatria dell’equilibrio, in cui lo spirito riesca a zittire le pulsioni della materia, per poi scoprire che questa, così gestita, è violentemente antiumana.
Ma la proposta positiva, nell’appello, sembra la ricerca di un’arte nuova ben fondata, sulla metafisica e sulla Rivelazione.
Andava esplicitata meglio. E tuttavia, a giudicare dal numero e dalla vitalità degli artisti che vanno rispondendo all’iniziativa, può costituire una buona ripartenza.
Questo ha tutta l’aria di essere un buon momento storico. Hakim


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Anch’io aderirò all’appello, condividendone lo spirito di fondo e, allo stesso tempo, sottolineandone qualche difetto – sulla scia di chi mi ha preceduto nei commenti. Qui mi limiterò ad affrontare le incoerenze che mi paiono più evidenti.
È stato detto, ad esempio, che manca una ‘pars construens’. Sono abbastanza d’accordo; anche se il problema, secondo me, sta a monte. Nel senso che qui di fatto si citano esclusivamente tre forme di espressione artistica: architettura, arti figurative e musica, in quanto le si identifica come quelle direttamente coinvolte nella liturgia. Se questo è vero, a mio giudizio (accusatemi pure di conflitto di interessi!), è vero anche che varrebbe la pena di allargare il campo, facendo qualche cenno allo spettacolo, che pure ha spesso svolto un ruolo importante nella storia del Cattolicesimo, talvolta interagendo con la liturgia. Oggi dare una direzione anche in quel campo, viste le ‘non esaltanti’ esperienze di Sat2000, delle fiction televisive e di gran parte degli spettacoli teatrali a tema religioso sarebbe importantissimo, tenendo conto del ruolo predominante svolto dallo spettacolo nella nostra società.


Limitandoci tuttavia solo ai tre ambiti toccati dall’appello, va detto che è difficile proporre una ‘pars construens’ che possa funzionare per tutto, anche perché la situazione è assai eterogenea. Da una parte l’architettura e le arti figurative a tema sacro soffrono dell’analfabetismo sia degli artisti che dei ‘fruitori’ (come sopra si è già fatto brillantemente rilevare) e per questo tendono a sposare acriticamente tendenze contemporanee dalla natura anti-cattolica e/o anti-cristiana. Dall’altra, invece, nella musica assistiamo ad una situazione di stallo completo: semplificando, possiamo dire di aver messo in cantina il Gregoriano, Bach e Mozart per sostituirli con una musica ad imitazione di quella dei cantautori degli anni Settanta e di esserci fermati lì (e se la strada era quella della musica pop, forse ciò è stato un bene, visti gli esiti di certi ‘esperimenti’ in questo campo…).


Detto questo, credo che il punto chiave sul quale l’appello dovrebbe essere parzialmente ‘aggiustato’ è quello del discorso sulla committenza e sul suo ruolo nella genesi dell’opera d’arte. A mio giudizio proporre un “bollino di cattolicità” per gli artisti rischia di essere problematico nella realizzazione ed aleatorio negli esiti. Lo dico sulla base della mia esperienza di docente all’Università Cattolica e in un’accademia di Belle Arti di ‘ispirazione cattolica’. D’altro canto ha pienamente ragione donmo quando fa notare come grandissimi artisti che hanno fatto la storia dell’arte cattolica, non fossero certo dei fedeli ortodossi e irreprensibili. Non voglio nemmeno pensare alle rovinose conseguenze di un’ipotetica applicazione retroattiva del “bollino”!
La chiave è sempre stata la committenza che ha ‘costretto’ anche gli artisti più ‘irregolari’ a progettare delle opere che seguissero un ‘copione’ preciso. Questo a mio giudizio è l’unico aspetto per il quale sarebbe molto utile tornare al passato. Chi progetta una chiesa o un’opera per una chiesa deve sapere sin dal primo momento che non si tratta di “arte per l’arte”.


Uno strumento molto utile in questo senso, nel corso della storia, è stato il concorso. Proprio l’agone tra gli artisti li spingeva a cercare di trovare la “via impossibile” attraverso la quale conciliare la soddisfazione delle esigenze del committente e la proposizione di un’opera innovativa. Oggi non è che non si facciano i concorsi; solo non si fanno in maniera rigorosa. Sono “concorsi di bellezza” in cui una commissione sceglie il progetto giudicato “più bello”, in base a princìpi per lo più ineffabili. Il ruolo del committente deve invece rappresentare la partecipazione attiva della Chiesa al processo di realizzazione dell’opera d’arte. Progettare una chiesa non significa disegnare un edificio in cui la gente entra, si siede nei banchi e guarda un tizio vestito in modo strano che dice delle cose e fa dei gesti. Una chiesa è uno spazio sacro e uno spazio in cui (passatemi la terminologia) vengono agite delle performances liturgiche dai caratteri molto specifici. Un architetto che vuole progettare una chiesa (ma il discorso vale anche per l’artista e il musicista che propongono opere ad uso liturgico), al di là della natura della sua fede, dovrebbe oggi essere un esperto di liturgia cattolica, perché – su indicazioni precise dei bandi di concorso – dovrebbe essere obbligato a mostrare alla commissione la valenza liturgica dell’opera proposta; con tanto di simulazioni al computer di tutte le attività che in essa si svolgeranno – dalla Messa di Natale alla vecchietta che la mattina presto entra nella chiesa vuota a pregare.

Il concorrente dovrebbe essere chiamato a dimostrare come, in ognuno dei casi contemplati, la sua opera svolga la funzione di spazio sacro, inteso come luogo in cui il fedele, partecipando a un rito molto ben definito, entra in contatto col Mistero dell’Incarnazione. In questo modo, sarebbero le ‘agenzie di formazione’ a doversi adattare alle istanze cattoliche, così come come si conformano alle leggi del famigerato “mercato”. Sarebbe l’artista a dover studiare, a sforzarsi di conoscere per filo e per segno le esigenze e la storia del committente.

Chiudo con un rapido cenno all’altro problema fondamentale che l’appello sembra voler risolvere in senso un po’ troppo “reazionario”. Poiché la chiesa è lo spazio ‘per eccellenza’ della liturgia, la crisi dell’architettura sacra riflette anche (ma non solo!) quella della liturgia. È chiaro che se i sacerdoti e i fedeli continueranno a sottovalutare l’importanza della liturgia – agendo la Messa come qualcosa di non troppo diverso da una qualsiasi assemblea di condominio o riunione di lavoro -, allora i “grandi architetti” saranno sempre più legittimati a proporre degli edifici che trasmettano il “loro messaggio”, a prescindere da ciò che si fa al loro interno. Carlo Susa


***

A distanza di qualche ora, vorrei precisare meglio il passo un po’ ’sbrigativo’ in cui parlo di “natura anti-cattolica e/o anti-cristiana” di certe espresisoni artistiche. Forse sarebbe stato meglio usare una “a” privativa al posto del prefisso “anti” e parlare di “a-cristiana e a-cattolica”. Il discorso, anche in questo caso, sarebbe assai complesso. Tuttavia giova ricordare come in certi casi si siano progettate chiese e santuari ‘informati’ da simboli massonici o legati a tradizioni religiose non cristiane (e in questo senso il prefisso “anti” calza perfettamente). In altri casi invece si è puntato su simbologie genericamente religiose o “spirituali” (e qui basta la “a” privativa). In altri casi ancora, pur proponendo opere che veicolano messaggi cristiani, si è scelto di evitare il caratteristico gusto cattolico per la sottolineatura della dimensione corporea di Cristo, sacrificandolo sull’altare di un malinteso concetto di ecumenismo.

Credo che il titolare del blog, se volesse, potrebbe compilare una vera e propria “guida” di opere ed edifici sacri che, appartenendo ad una di queste tre ‘tipologie’, si dovrebbero definire “cattolici di nome ma non di fatto”. Carlo Susa


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Molto ricche le argomentazioni di Carlo Susa.


Mi ricordano, per bilanciare un po’, le parole di mons. Cataldo Naro (l’arcivescovo di Monreale scomparso prematuramente nel 2006). Trattando di arte sacra, sosteneva che occorre distinguere fra le epoche della cristianità e quelle della Chiesa. Il discrimine è l’Illuminismo, che ha prodotto una secolarizzazione più o meno violenta della società e ha creato le leggende nere su Medioevo, Inquisizione, ecc.
Quando Naro parla di cristianità intende, senza idealizzare ingenuamente, una società profondamente cristiana, in tutte le sue componenti, fino al Settecento. Con tensioni, incomprensioni, estremismi, ma con un denominatore comune condiviso consapevolmente.


Per questo bisognerebbe riscrivere biografie e monografie su vita e opere degli artisti del passato. Ci siamo infatti abituati a letture sociologiche, rivoluzionarie, pscicanalitiche, di personaggi che invece credevano davvero in ciò che rappresentavano con la loro arte. La storia dell’arte è una disciplina incomprensibile con queste forzature.


Questa è una delle sfide che vale la pena affrontare. Un’altra componente della pars construens.Hakim


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Anch’io ho aderito all’appello, nonostante i suoi limiti già individuati in questo blog, perché sono straconvinto che sia necessario ed urgente mettere almeno un freno all’arte sacra assai brutta.
Non tanto perché anti-cattolica/cristiana o a-cattolica/cristiana, ma perché BRUTTA. E perciò falsa e cattiva.
Non sarà facile avere delle opere BELLE, ma almeno non ne avremo di brutte.
Concordo con quanto scritto da Carlo Susa, il problema è essenzialmente della committenza. Come in altri campi spesso i cristiani, soprattutto i pastori (ahime!) per un insieme di fattori, rincorrono frenetici l’ultima moda, convinti così di risolvere il problema della scissione tra fede e vita, senza accorgersi che con un adeguamento così irriflesso al mondo, nascondono il problema e rendendo la sua soluzione più difficile.
Uno che ha gettato un ponte enorme tra la fede e la vita è stato il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, la cui lezione è capitale per qualsiasi cultore dell’arte cristiana, per gli artisti e per i committenti. Egli recuperò alla teologia cristiana i trascendentali, che sulla scorta del suo maestro Pryzawara identifica nel Bello, nel Buono e nel Vero secondo i quali scrisse la sua opera magna, la Trilogia teologica, una vera e propria cattedrale del pensiero teologico. In particolare bisogna tener conto che scelse come primo trascendentale propria la bellezza. Paolo Gobbini

Fonte Del Visibile

Caterina63
00lunedì 23 novembre 2009 11:41
Ringrazio Francesco Colafemmina per avermi inviato il collegamento all'intervista che ha rilasciato

Gentilissimi,
 
nell'ambito dell'Appello al Papa per l'arte sacra qui trovate la mia intervista a Tg2 Mizar di ieri notte.
 
http://www.tg2.rai.it/dl/tg2/RUBRICHE/PublishingBlock-4d179a82-04c1-4164-856b-2afc28c38206.html
 
Un caro saluto


 
Caterina63
00lunedì 18 gennaio 2010 19:45

IL GIOVANE SELVAGGIO DEL DEVOTO SUD! INTERVISTA SULL'APPELLO AL PAPA


Cari amici, non mi aspettavo di vedere la mia faccia arrabbiata e sorridente allo stesso tempo immortalata al termine dell'incontro del Papa con gli artisti in Cappella Sistina, il 21 Novembre scorso, sulla copertina del Vatican Magazin! Gli amici Paul Badde e Guido Horst hanno invece messo il mio faccione con un titolo molto emblematico: "Il Giovane selvaggio del devoto sud".
L'intervista ve la propongo tradotta in italiano. A breve conto di potervi pubblicare la traduzione di una lettera indirizzatami (un immeritato onore!) dal grande Martin Mosebach e pubblicata a commento dell'intervista.
Colgo l'occasione per rammentarvi che l'Appello è sottoscrivibile ancora, almeno sino al marzo prossimo. Date le tante brutture che continuano ad essere realizzate è bene firmare!




Ha appena finito di scrivere un libro sulla "Architettura massonica della nuova Basilica di Padre Pio" a San Giovanni Rotondo. E dalla sua homepage, "Fides et forma" castiga regolarmente i peccati grandi e piccoli dell'architettura chiesastica italiana. Ma a farlo non è un anziano che si lamenta del caos della Chiesa Cattolica a seguito del Concilio Vaticano II. Con appena 29 anni Francesco Colafemmina è qualcosa di simile a un "giovane selvaggio" della nuova generazione di cattolici amanti della tradizione che ha iniziato a chiedere cosa ne è stato dei propri padri assieme ai tesori dell'architettura e dell'arte sacra. Colafemmina ha appreso l'attività giornalistica presso la scuola della televisione di stato, RAI, ma ha studiato filologia classica. Ed è un fan della cultura ellenica, parla correntemente Greco, e nel 2007, ha pubblicato i dialoghi dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo con un dotto persiano sul cristianesimo e l'Islam citati nel discorso di Regensburg di Benedetto XVI, e diventati perciò assai famosi. Non è così è famoso, ma molta attenzione ha richiamato l'Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI per il ritorno a un arte sacra autenticamente cattolica, che Colafemmina ha redatto con alcuni amici in sette lingue e ha pubblicato su Internet all'indirizzo http://www.appelloalpapa.blogspot.com/ Abbiamo voluto sapere da lui, come è nato questo Appello e che cosa ci si aspettava da questa iniziativa.


di Guido Horst

1. Ci potrebbe spiegare un po’ la storia di questo appello a Sua Santità…

L’appello nasce a seguito di una lunga fase di gestazione e da una serie di coincidenze certamente “provvidenziali”. Nel novembre del 2008 a Cosenza un giovane editore, Manuel Grillo, ha organizzato un Convegno su “Arte Bellezza e Magistero della Chiesa”. A marzo del 2009 nasce il progetto del mio sito sugli esempi terribili di arte e architettura sacra della contemporaneità (Fides et Forma). Intanto a Roma si chiude con un grande successo la II edizione del Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Questo insieme di positive circostanze, fiorite indipendentemente fra di loro, ha portato frutto nell’esperienza dell’Appello, la cui idea primordiale si affacciò nel corso di un Seminario tenuto presso la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa il 23 giugno scorso.
Qui erano presenti numerosi dei futuri membri del “comitato promotore” dell’Appello, uniti ad alcuni ecclesiastici che hanno condiviso e caldeggiato l’idea. D’altra parte, nonostante l’interesse di una parte del mondo clericale, c’è stato un momento in cui si è corso il rischio di trasformare l’Appello in una sorta di “strumento curiale” interno alle politiche vaticane.
Perciò assieme agli “amici” laici con cui abbiamo dato vita a questa splendida idea, si è deciso di procedere in maniera indipendente e non strumentalizzabile. L’Appello non nasce quindi per l’interesse di qualcuno o per far “manovre” all’interno delle mura leoniane. E’ semplicemente un atto di amore per il nostro grande Papa, per la Chiesa tutta e per la ricchezza spirituale di secoli d’arte e architettura sacra che nutrono ancora le nostre anime mettendole in comunicazione con il Signore. Amicizia, fede, amore per Cristo, la Sua Chiesa, il Suo Vicario in terra: ecco, in sintesi, le ragioni del nostro Appello.


2. Il papa ha letto l’appello? Ci sono reazioni nel vaticano?


Ispirandomi al gesto dei monaci di Solesmes che nell’ottocento grazie ai servigi del Card. Pitra riuscirono a far pervenire a Papa Leone XIII le loro pubblicazioni che hanno sancito la rinascita del Gregoriano, anch’io ho voluto porre nelle sante mani di uno straordinario Cardinale, l’Appello, affinché potesse esser letto dal Sommo Pontefice. Così, qualche giorno dopo la pubblicazione dell’Appello ho ricevuto una comunicazione dalla Segreteria di Stato nella quale mi si manifestava l’apprezzamento di Sua Santità per l’Appello ed i suoi contenuti. E’ stato un momento di grande commozione e non ho potuto trattenere le lacrime alla lettura di questa lettera molto bella e preziosa…

3. Paolo VI fece un’incontro con gli artisti. Dieci anni fa Giovanni Paolo II ha scritto una lettera al mondo dell’arte. Adesso Benedetto XVI ha ricevuto di nuovo artisti “di ogni colore”… Si tratta del concetto del dialogo, promosso anche dal Pontificio Consiglio per la Cultura e il suo presidente, mons. Gianfranco Ravasi. Ma Lei vede la Chiesa come qualcuno che commissiona l’arte sacra e l’architettura sacra e la musica sacra, e deve stabilire certe regole. Questo è il concetto della committenza. Due concetti diversi… e anche opposti?

Un dialogo con l’ “arte di oggi” non è in opposizione alla rivalutazione del ruolo della committenza ecclesiastica. Anzi, il progetto di Mons. Ravasi è proprio quello di trasformare la Chiesa in committente di opere d’arte contemporanea di autori atei ed astrattisti quali Anish Kapoor, Jannis Kounellis o Arnaldo Pomodoro…
Il paradosso è che la Chiesa oggi si farebbe committente di un’arte che non nasce dalla Sua spiritualità e dalla conoscenza approfondita del Cristianesimo e non è neppure al servizio della Liturgia e della vita cristiana, ma è pura espressione di narcisistico mecenatismo (si veda il progetto di un padiglione del Vaticano alla prossima Biennale di Venezia). Piuttosto, la Chiesa diventerebbe committente di un’arte nata dall’opposizione del mondo contemporaneo alla tradizione ed alle forme del passato, dunque un’arte potentemente anticristiana!
Papa Pio X ricordava nell’enciclica Iucunda Sane del 1904 come le arti si siano sviluppate grazie alla Chiesa ed alla naturale tensione spirituale dell’uomo. Ora, la Chiesa vive non solo nello spazio, ma anche nel tempo: di qui discende il senso della tradizione. Tradizione non vuol dire fossilizzarsi sul passato, ma mutare naturalmente senza mai rinnegare il passato, bensì attualizzandolo nel presente. Quindi non si tratta di rompere con la tradizione delle forme del passato, come ha fatto una certa arte contemporanea. La Chiesa non vive di rotture ma di continuità. Perciò il discorso dovrebbe essere approfondito e non restare alla superficie di una mera definizione di stampo marxista del rapporto fra arte, committente e artista. Sembra invece che oggi, a scapito dei continui ammonimenti di Papa Benedetto, una parte della Chiesa sposi apertamente logiche commerciali ed affaristiche completamente mondane, dimenticando che la Chiesa non è al servizio dell’arte, ma esattamente il contrario.


4. Per Lei, lo “status quo” dell’arte sacra è anche una conseguenza dello “status quo” della teologia di oggi?

Certamente. Una società “desacralizzata” per usare le parole di Paolo VI e di Benedetto XVI si esprime attraverso un’arte completamente intramondana, incapace di elevarsi verso il Cielo. Ma anche incapace di rappresentare il mondo con la gioia cristiana della creatura che contempla nella vita il suo Creatore. Voglio dire che l’arte di oggi è puro esercizio retorico come nel tardo impero romano. Esercizio retorico venato di gnosi, ovvero di disprezzo per le forme naturali e per il creato. Perciò i corpi non possono essere rappresentati e ovunque regna un astrattismo deforme (che al massimo riesce ad accettare la bidimensionalità dell’icona orientale reinterpretata in chiave astrattista) ed un pensiero nichilista espresso attraverso ciò che dovrebbe essere interessante oggetto di studi psicanalitici più che vera “arte”. Negare l’Incarnazione di Cristo - come accade attraverso le nuove opere d’arte sacra incapaci di rispettare le forme corporee - , o negare la Presenza Reale nell’Eucaristia - come accade eliminando i tabernacoli dal centro delle chiese e mettendoli nel “retrobottega”- : questi sono gli esiti di una grave confusione teologica, dominante da almeno quarant’anni.

5. Perché tante chiese moderne – anche in Italia, anche a Roma – sono così brutte?

Perché manca la capacità di “orientare” le chiese a Cristo. Le si orienta all’uomo, all’architetto, alla funzionalità, alle esigenze materiali, mai al vero Centro, al Padrone di Casa – come amo definirLo -. Il vero scopo dell’architettura e dell’arte sacra è quello di favorire l’adorazione del Signore e servire la Liturgia. Non certo servire la funzionalità di una “cena comunitaria” fra uomini! Chiaramente, se si rinuncia alla tradizione, alla storia, ai fondamenti teologici, all’adorazione, alla fede essenziale nella Presenza Reale di Cristo. Se si desacralizza l’ambiente trasformandolo in un banale luogo del quotidiano, le chiese continueranno ad essere sempre più brutte. E ciò indipendentemente dal nome grande o piccolo dell’architetto!


6. Esiste una certa regola, forse anche una dottrina sul modo in cui costruire le chiese?

Esistono in Italia alcune norme della Conferenza Episcopale del 1993. Norme in parte obsolete e superate da pronunciamenti della Congregazione per il Culto Divino. Normalmente sacerdoti ed architetti le leggono come se si trattasse della Bibbia, attenendosi scrupolosamente e farisaicamente al loro dettato. Eppure sappiamo bene che il Concilio non ha mai detto che le chiese debbano essere tonde o ovali ed avere l’altare al centro (come affermano tali norme)! Né tantomeno che il tabernacolo debba stare in un angolo, come un soprammobile inutile…
Purtroppo, anche in nome delle devastanti “norme per l’adeguamento liturgico della CEI” del 1996, sono stati compiuti atti di vero e proprio vandalismo in numerose chiese italiane. Ovunque sono stati distrutti altari seicenteschi e settecenteschi. Eliminate pale d’altare, abbattute balaustre… Tesori d’immane valore, testimoni silenziosi della fede autentica, popolare e tutta concentrata sull’adorazione, sono andati perduti in nome di una furia iconoclasta senza paragoni. Oggi, a 2 anni dal Motu Proprio Summorum Pontificum, queste norme sono ancora in vigore! Nonostante in tutte le chiese sia opportuno poter celebrare “ad orientem”. Detto ciò, credo che il miglior manuale per la costruzione di una chiesa resti l’Introduzione allo Spirito della Liturgia di Joseph Ratzinger. Assieme alle Instructiones Fabricae di San Carlo Borromeo rappresentano due testi fondamentali che dovrebbero essere nelle mani di tutti coloro che si cimentano con la costruzione di nuove chiese.


7. Un’artista, che non è un credente, può creare una chiesa o un’opera d’arte per una chiesa o la liturgia e il culto?

Certamente si. Purché egli sia informato sui fondamenti della vita cristiana e sulle Verità della Fede. Io, ad esempio, non conosco il tedesco, se non scolasticamente. Potrei mai mettermi a scrivere poesie in una lingua che mi è ignota? Così anche un induista potrebbe costruire chiese, purché egli abbia conoscenza della “lingua” della Fede, della sua grammatica e della sua sintassi…
Tuttavia sarebbe preferibile che gli architetti e gli artisti che fanno arte e architettura sacra siano cattolici e credenti. In latino c’è il detto: ne sutor supra crepidam… il calzolaio non giudichi al di là delle scarpe. Così certe opere andrebbero realizzate da chi possiede l’esperienza, l’arte nel senso greco di “techne”, abilità materiale e sapienza tradizionale e spirituale.
D’altronde le chiese non le hanno mai costruite i soli architetti, ma i fedeli tutti. Le chiese sono opere comunitarie, non vuoti intellettualismi di una casta di privilegiati. Perciò spesso le comunità locali andrebbero interpellate quando si vuol realizzare nuove chiese.

8. Quando io vado a messa in Italia, trovo quasi sempre delle cartelle fotocopiate con alcuni canti diciamo allegri-piatti-popolari… Ma che fine ha fatto la polifonia e il canto gregoriano?

Il Gregoriano assieme a secoli di musica sacra sono semplicemente scomparsi. Sono scomparsi perché una certa mentalità diffusa tra sacerdoti, catechisti e animatori parrocchiali pensa che inserendo musichette melense o canzoni rock e pop si possa invogliare i fedeli a partecipare alla messa… Inutili svendite della nostra ricchezza culturale! Basta andare in Grecia il venerdì santo per sentir cantare il “Glikì mou Ear” o la notte di Pasqua il magnifico “Christòs Anèsti”, per capire che in secoli e secoli di tradizione cristiana lì nulla è cambiato, nemmeno il numero di fedeli che partecipano alla Santa Messa.
La musica è l’arte più “pericolosa”, diceva Platone, perché essa può facilmente modificare i sentimenti umani. Così il Magistero è sempre stato attento alla salvaguardia della buona musica polifonica e del canto gregoriano. Purtroppo però l’interesse di alcuni e la mentalità dominante ha negato e continua a negare a tante generazioni di cristiani l’accesso a capolavori che se non ascoltati svaniscono nel nulla. Bisognerebbe diffondere la cultura della vera musica sacra, favorire concerti e sensibilizzare i fedeli. La bellezza infatti unisce tutti in un’unica comunità, purché la si renda accessibile e viva!

9. Ma sul serio: un appello al papa, pubblicato in internet, può cambiare qualcosa?

Un Appello pubblicato su internet può cambiare tante cose! Ricordiamo a questo proposito il famoso Appeal to Preserve Mass Sent to Vatican, pubblicato sul Times il 6 luglio 1971 e recante le firme di soli 57 sottoscrittori. L’Appello fu recepito da Papa Montini che il 5 novembre 1971 concesse all’Inghilterra e al Galles il cosiddetto “Indulto di Agatha Christie”, dal nome di una sua illustre firmataria. Ebbene, il nostro Appello ha oggi raggiunto più di 1600 sottoscrizioni. Chissà quanti bei cambiamenti dovremo attenderci!

10. In che senso la chiesa di Roma, il papa e la curia romana, possono dare un impulso per la rinascita di una musica e arte sacra nel senso pieno della parola?

Basta poco. È un po’ come in quel racconto di Edgar Allan Poe nel quale l’oggetto che può risolvere la storia è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno sembra accorgersene. Così oggi la Chiesa possiede migliaia di artisti, architetti, artigiani pronti a servirla con amore ed in linea con la sua millenaria tradizione. Ha un esercito di coristi, organisti, musicisti, pronti a far rifiorire il gregoriano, la polifonia, la musica organistica approvate dal Magistero. Ed ha milioni e milioni di fedeli che hanno bisogno di incontrare il Signore, che lo cercano e spesso non lo trovano nelle spoglie e squallide chiese contemporanee. Quindi la Chiesa non ha che da ascoltare questo “sensus communis”, non ha che da rimboccarsi le maniche per recuperare il suo ruolo di protagonista dell’arte e dell’architettura sacra, non di gregaria di arti e architettura profane ed atee. Così non serve a nulla radunare artisti analfabeti della fede, ed organizzare happenings in Vaticano. Basta rivolgersi a quegli umili e semplici servitori della Chiesa che creano l’arte autenticamente cattolica, un’arte capace di illuminare tutti i fedeli portando sulla terra un lembo della raggiante bellezza del volto di Cristo.

Caterina63
00lunedì 25 gennaio 2010 11:24
A seguito dell'intervista rilasciata da Francesco Colafemmina, c'è questa risposta illustre che vorrei che tutti meditassimo....
Un grazie a Francesco.....nel titolo il link al suo blog Fides et Forma:


LETTERA DI MARTIN MOSEBACH


Caro Francesco,

è vero, della bellezza non se ne può fare a meno, è irrinunciabile. Però il concetto di bellezza non aiuta oltre. Molto più importante è parlare dell’Ordine. Il concetto di bellezza è centrale teologicamente. Contraddistingue una proprietà di Dio. La creazione, quella indistruttibile, ma anche la nuova creazione è bella; la bellezza è una proprietà della perfezione e come tale questo concetto di bellezza ha sempre giocato un grande ruolo nella liturgia e nell’architettura delle chiese. Tutte le costruzioni che volevano rispecchiare una Gerusalemme celeste volevano erigere questa Gerusalemme celeste anche nella bellezza descritta dall’Apocalisse. Il concetto della bellezza è quindi da una parte del tutto irrinunciabile.

Dall'altra parte è semplicemente un risultato culturale del nostro tempo, cosicchè non possiamo più dire con esattezza che cosa sia la bellezza. É uno sviluppo dell’arte occidentale l’aver trovato la bellezza in diversissimi luoghi e l’aver scoperto, anche con una certa presunzione, il brutto o il brutto in senso convenzionale come bellezza. Ed ora il concetto di bellezza fondamentalmente non è più di nessun aiuto quale criterio nella decisione di come dovrebbe essere arredata una nuova chiesa. Nessun individuo farebbe un passo avanti, se si fermasse solamente al concetto di “bellezza”. Nessuna comunità saprebbe cosa fare per una immagine di Maria, se si dice che deve essere “bella”. Bella può essere una infinità di cose. Manca invece un carattere vincolante.

Non abbiamo nessun ordine classico di bellezza. Invece di parlare della bellezza è perciò molto più importante parlare di ordine. La bellezza non può essere meta dei nostri sforzi liturgico-artistici, perciò non si può pensare di organizzare le messe in maniera che siano “belle”, bensì esse devono soddisfare l’ordine tradito. Secondo la mia convinzione la bellezza nasce nel momento stesso in cui questo ordine viene riconosciuto nella sua essenza e ci si sottomette a questo ordine.

In Europa occidentale abbiamo dimenticato ciò che appartiene a una chiesa, ciò che una chiesa deve contenere urgentemente. Noi nel frattempo abbiamo abbandonato l’idea del Santuario che ha caratterizzato l’architettura ecclesiastica tramite le costruzioni sacre, quindi una struttura dello spazio diviso in una parte della comunità e nella parte del Santissimo, il tabernacolo del tempio di Gerusalemme in cui anche i preti dovevano entrare almeno una volta all’anno. Abbiamo dimenticato che una chiesa deve essere divisa in tal senso, che uno spazio sacro deve essere strutturato in modo tale da essere delimitato da una transenna (balaustra), un altare raggiungibile tramite gradini, corridoi processionali nella chiesa, uno spazio per la cappella battesimale.

Poi viene la questione della luce. Secondo le vecchie prescrizioni del diritto canonico era proibito far brillare in chiesa nient’altro che la luce delle candele. Luci al neon, o raggi puntiformi o altro sarebbero stati completamente impensabili secondo il vecchio diritto canonico. Allora naturalmente non c’erano nemmeno, però nel secolo ventesimo c’erano già le lampade a petrolio o la luce a gas. Era consentita però soltanto la fiamma viva delle candele, perchè incarna il Cristo vivente, la Verità vivente che arde per gli uomini. Così per la costruzione delle chiese ci sono molte necessità derivanti dalla liturgia, che sono molto più importanti che rincorrere un’ideale di bellezza.

Così per esempio la prescrizione in base alla quale un altare deve essere di pietra e non di cemento o di legno. Ciò ha naturalmente anche conseguenze estetiche. Però ha anche un carattere liturgico, dal momento che questo altare di pietra rappresenta il Golgota e non un tavolo da ultima cena. Ciò diventa inequivocabile se l’altare è di pietra. Un altare di pietra sembra anche altro da un tavolo di legno mobile. Se si perseguono tutte le regole tramandate e – ce ne sono molte- allora nasce pian piano da sè la percezione di uno spazio sacro. Così è anche una mia impressione che in questa grande crisi dell’arte ecclesiastica dobbiamo ricordarci prima di tutto dell’ordine che la tradizione ha prescritto per lo spazio chiesastico.

Martin Mosebach

pubblicato su Vatican Magazin di Gennaio 2010 -


Nessun individuo farebbe un passo avanti, se si fermasse solamente al concetto di “bellezza”. Nessuna comunità saprebbe cosa fare per una immagine di Maria, se si dice che deve essere “bella”. Bella può essere una infinità di cose. Manca invece un carattere vincolante.


Non abbiamo nessun ordine classico di bellezza. Invece di parlare della bellezza è perciò molto più importante parlare di ordine. La bellezza non può essere meta dei nostri sforzi liturgico-artistici, perciò non si può pensare di organizzare le messe in maniera che siano “belle”, bensì esse devono soddisfare l’ordine tradito. Secondo la mia convinzione la bellezza nasce nel momento stesso in cui questo ordine viene riconosciuto nella sua essenza e ci si sottomette a questo ordine
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Un punto centrale e fondamentale, direi, per comprendere anche quando dicevo che, secondo me, l'arte nelle nuove Chiese andrà anche sempre peggiorando perchè questo concetto di "bellezza" è semplicemente l'espressione di una "nuova fede" scaturita dopo la ROTTURA con la Tradizione...

l'ordine è la Tradizione attraverso la quale la Fede ha saputo esprime il concetto di bellezza nell'arte di ogni tempo MA DENTRO DEI CANONI IN ARMONIA CON LE VERITA' DI FEDE, oggi non c'è più questa armonia, l'ermeneutica della rottura non poteva non toccare anche l'arte...

Infatti, se il concetto di bellezza, oggi, è inteso esclusivamente a rimandare ad "una" fede in "qualcosa e forse a Qualcuno" è ovvio che essa rispecchierà NON l'ordine, ma una creatività soggettiva, individualista attraverso la quale l'arte stessa diventa soggettiva...NON PIU' DIO, MA "IO"

Molto interessante l'articolo, grazie!


Caterina63
00mercoledì 3 febbraio 2010 14:58
(cardinale Giuseppe Siri)

Decreto sul culto all’Eucaristia e degli altari

Introduzione

In conformità alle norme liturgiche stabilite nella «Institutio Generalis Missalis Romani» e nell’Istruzione sul Culto del Mistero Eucaristico del 1967, è necessario determinare alcuni punti di dettaglio, lasciati alle facoltà dei Vescovi, per precisare maggiormente il modo di agire nelle celebrazioni, rendere perciò evidente l’unità di tutti i credenti nel momento più grande della preghiera eucaristica. Qualora non facessimo di Nostra ordinaria autorità delle legittime determinazioni, non contro ma secondo la legge generale della Chiesa, si ingenererebbero facilmente abusi, difformità atte a creare ammirazione nei fedeli soprattutto nel culto dovuto alla santissima Eucarestia. E’ di fede che la SS.ma Eucarestia è un sacramento permanente e che rimane fino alla cessazione delle specie la presenza reale di Gesù Cristo, al quale è dovuto culto di latria ossia di adorazione.
Allo scopo di compiere questo nostro dovere e a completamento di altre disposizioni date in questi anni, riteniamo dover emanare talune norme riguardanti gli altari, il tabernacolo. Ciò che facciamo con il presente Nostro


DECRETO



Degli Altari
1. Le norme del Messale Romano (n. 259 - 267) circa gli altari riguardano gli altari da costruire e non quelli esistenti al momento della promulgazione delle norme stesse.
Tali norme però debbono essere tenute presenti e attuate nei lavori di adattamento alla nuova liturgia degli altari preesistenti.
2. Per gli altari si stabiliscono regole ben precise e si danno alcune indicazioni da seguire negli adattamenti.
3. Gli altari costruiti in materiale che non sia pietra o marmo, in linea di massima, possono essere facilmente sostituiti purché di scarso valore artistico, previa regolare e necessaria approvazione della nuova sistemazione da parte dell’Ordinario che verrà data dopo la presentazione di regolare disegno.
4. Gli altari costruiti con materiale pregiato (pietra, marmo, ecc.) possono essere adattati o sostituiti quando non abbiano valore artistico o non siano vincolati dalle leggi di tutela sui monumenti. Ogni opera che ha più di cinquanta anni è di per sé tutelata dalla legge. E’ necessaria la previa approvazione come sopra al n. 2.
5. Gli altari, di cui al n. 4, che soggiacciono ai vincoli delle leggi di tutela sui monumenti, possono essere adattati quando si siano ottenuti e il nulla-osta dell’Ordinario e quello scritto della Soprintendenza ai Monumenti.
6. I lavori di adattamento alla nuova liturgia degli altari preesistenti (Ved. «Istruzione sul Culto del Mistero Eucaristico» n. 24 e quella «Inter Oecumenici» n. 90-99) non possono prescindere da un attento e serio studio delle modifiche da introdurre per far in modo di avere l’altare versus populum. Si danno alcune indicazioni:
a) Soluzione possibile, ma da studiarsi con notevole impegno, è quella che prevede la possibilità di staccare la mensa e il frontone dell’altare per portarli più avanti in mezzo al presbiterio, lasciando tuttavia un congruo spazio tra l’altare e la parte retrostante, tanto più se l’ex-altare serve per la custodia del Santissimo Sacramento. Per questa parte deve essere studiato un altro frontone che completi il vuoto creato dalla parte anteriore dell’altare portata avanti.
b) Si può togliere la mensa e restringerla in modo che il frontone di essa sia retroatto al limite del Tabernacolo, lasciando un necessario aggetto sotto il Tabernacolo stesso In tal caso si dovrà costruire nel presbiterio, una nuova mensa, impostata architettonicamente in modo da raccordarsi coll’ex-altare retrostante, evitando così contrasti stridenti.
7. La nuova sistemazione dell’altare non deve rimpicciolire il presbiterio sì da permettere l’agiato svolgimento delle celebrazioni. «Il presbiterio attorno all’altare sia di ampiezza sufficiente a consentire un agevole svolgimento dei sacri riti» (Inter Oecumenici 26/9/1964).
8. I progetti, i bozzetti e i disegni relativi alle nuove sistemazioni debbono ottenere il consenso esplicito e scritto delle Commissioni diocesane di Liturgia e per l’Arte Sacra. Tale consenso non è operativo se l’Arcivescovo, al quale è riservato il giudizio globale della nuova sistemazione, non dà egli pure scriptis il consenso suo. E’ ovvio che i soprascritti consensi debbono essere dati prima dell’inizio di qualunque lavoro. Ottenuta l’autorizzazione dell’Ordinario il Parroco, per gli altari che stanno sotto il vincolo della tutela, farà richiesta alla locale Soprintendenza ai Monumenti ed ottenuto il Nulla-osta lo esibirà all’Ordinario prima dell’inizio dei lavori.
9. Gli altari debbono essere ornati secondo la loro natura e conformazione sia quanto alla grandezza che al numero dei candelieri completando ovviamente la razionale disposizione con l’uso di fiori e secondo le prescrizioni liturgiche.
10. Gli altari versus populum abbiano sempre, anche nel tempo in cui non si svolgono le azioni liturgiche i candelieri (non meno di due, o quattro, meglio sei), pur adottando la disposizione congrua perché «non impediscano ai fedeli di osservare comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare» (I.G.M.R. n. 269). Sono infatti i candelieri che distinguono l’altare cattolico dall’altare acattolico e ciò è della massima importanza.
11. Si consiglia, anche se la legge permette una maggiore libertà, di mantenere l’uso del Crocifisso sull’altare nella parte mediana in modo che il Celebrante e il popolo abbiano sempre visivamente ricordato che su quell’altare si celebra la rinnovazione dello stesso Sacrificio della Croce.
12. Non essendo stato abolito l’uso del palliotto o antependium dell’altare se ne consiglia l’uso per sottolineare sempre al popolo la ragione e la diversità dei tempi liturgici.
13. Gli altari provvisori, davanti all’altare stabile, sono proibiti. Un altare provvisorio può essere usato solo in caso di concelebrazione e deve essere posto fuori del presbiterio onde appaia meglio la straordinarietà. Può essere parimenti usato per le Prime Comunioni collettive e in questo caso va posto fuori del presbiterio in mezzo ai comunicandi. Ogni altare posticcio va immediatamente rimosso dopo le suddette celebrazioni.

Del Tabernacolo
14. Il Tabernacolo, in ragione della fede nell’Eucarestia e nella parte fondamentale di Questa per la vita della Chiesa e delle anime, deve avere sempre il massimo rilievo e mai deve ingenerare un confronto di inferiorità con qualsiasi altro elemento accolto nelle Chiese dalla legge e dalla tradizione. Per tale motivo l’Eucarestia si desidera sia sempre al centro della attenzione del popolo.
15. Buona soluzione, perché le motivazioni suddette siano sempre salvaguardate è la Cappella del Santissimo Sacramento, purché nobile e più decorata, idonea per permettere l’adorazione da parte dei fedeli. «Si raccomanda vivamente che il luogo in cui si conserva la Santissima Eucarestia sia situato in una Cappella adatta alla preghiera privata e alla adorazione dei fedeli» (I.G.M.R. n. 276).
16. L’Ordinario è disposto a concedere la collocazione della Santissima Eucarestia fuori dell’altare in taluni casi e alle seguenti condizioni:
a) che il Tabernacolo sia posto al centro dell’abside, del coro o della Cappella Maggiore;
b) sia collocato su un basamento congruo e non sopra un semplice supporto o una semplice colonnina. Tale basamento deve essere concepito in modo da dare anche visivamente, per la sua architettura, il senso della cosa grande, bella e nobile, atta a sorreggere il Tabernacolo. Si faccia dunque una scelta di materiale adatto, non dozzinale. Se il Tabernacolo è collocato nel muro esso dovrà avere un degno ornamento che ponga in risalto la dignità e la realtà della presenza Eucaristica;
c) sia costruita una scala di accesso di sufficiente ampiezza. Il Tabernacolo infatti va posto sufficientemente in alto da dare al popolo visivamente l’idea della sua eccellenza e in modo da superare sempre la statura del celebrante quando celebra all’altare versus populum;
d) dinanzi alla porticina, la quale deve essere di sicurezza per avere un Tabernacolo unico, fisso, inviolabile (I.G.M.R. n. 277) sia collocato un piccolo aggetto (mensola) per permettere la più comoda estrazione e la reposizione delle sacre Specie.
Il progetto definitivo del Tabernacolo extra altare, anche nei più piccoli particolari, deve avere l’approvazione dell’Ordinario.

Delle sedi per il Celebrante e per i Ministri
17. «La sede del Celebrante deve mostrare il compito che egli ha di presiedere l’assemblea e di guidare la preghiera. Perciò la collocazione più adatta è quella rivolta al popolo, al fondo del presbiterio, a meno che non vi si oppongano la struttura dell’edificio e altri elementi, ad esempio la troppa distanza che rendesse difficile la comunicazione tra il sacerdote e l’assemblea. La cattedra è riservata al Vescovo. Si eviti ogni forma di trono. Le sedi per i ministri, invece, siano collocate in presbiterio nel posto più adatto perché essi possano compiere con facilita il proprio ufficio» (I.G.M.R. n. 271)
18. Nel caso in cui si abbia la collocazione del Tabernacolo fuori dell’altare al centro dell’abside, la sede del celebrante sia pure Vescovo, per la riverenza, dovuta non deve essere posta tra l’altare stesso e il Tabernacolo. In tale caso la sede va collocata lateralmente e su un solo gradino.
19. Se la sede del celebrante in fondo al presbiterio risulta troppo distante dai fedeli o per i troppi gradini deve assumere la forma di trono, da evitarsi, essa sia collocata lateralmente e su un solo gradino.
Le sedi per i ministri, salva una particolare configurazione del coro stabile, siano sempre in piano.

Della riverenza al Santissimo Sacramento
20. L’abuso di ridurre eccessivamente o al nulla l’uso delle candele nelle celebrazioni è pienamente riprovato.
21. Sia colla catechesi, che con appositi cartelli, esposti patentemente si richiamino sempre le regole per la adorazione al Santissimo Sacramento e il galateo in Chiesa, motivato soprattutto dalla Reale Presenza di Gesù Cristo.

Tali regole vertono:
— sul silenzio, eccettuato il caso di convenienza;
— sulla genuflessione attenta che deve farsi entrando ed uscendo o passando davanti al Tabernacolo.
— sulla priorità che deve avere l’adorazione al Signore presente prima di qualsiasi altro atto di pietà;
— sulla opportunità che la generosità dei fedeli nella offerta dei ceri e dei fiori sia rivolta anzitutto al Santissimo Sacramento, evitando la incresciosa e stonante impressione che ricevono i buoni fedeli quando osservano un certo squallore attorno all’altare ove sta la SS.ma Eucarestia a confronto di altri pur degnissimi oggetti di culto;
— sulla opportunità e sul metodo per la Visita al SS.mo Sacramento;
— sulla priorità della Santa Messa offerta per i vivi e per i defunti.
22. Tra i due modi consentiti dalla legge generale per accostarsi alla santa Comunione, quello più consentaneo alla mentalità delle nostre popolazioni, è quello di porsi in ginocchio.
Si prescrive pertanto di distribuire la santa Comunione al fedele inginocchiato. Non è ammessa nella Archidiocesi la Comunione in piedi. Qualora si presentassero fedeli, abituati ad altro cerimoniale si invitano garbatamente, ma fermamente a uniformarsi alle disposizioni diocesane.
23. La santa Comunione sotto le due specie deve essere distribuita in piedi e soltanto nei casi in cui si verificano le condizioni poste dalla legge. (I.G.M.R. n. 242).
24. La funzione vespertina festiva va sempre conclusa colla breve Adorazione e Benedizione del SS. Sacramento.

Dato a Genova l’8 Dicembre 1974

+ Giuseppe Card. Siri
(fonte:
http://www.cardinalsiri.it/)
Caterina63
00mercoledì 17 marzo 2010 18:57
L'umanesimo religioso di Francesco Messina

Non c'è arte senza radici



Dal libro Francesco Messina. Opere sacre. Sculture e disegni 1920-1992 (Milano, Crocevia, 2009, pagine 63) edito in occasione di una recente mostra milanese, pubblichiamo il saggio del curatore.

di Giovanni Gazzaneo


"Credimi, non è più il tempo per una scultura come la tua. Viviamo nell'era atomica e domani, o fra qualche anno, il mondo può scomparire.

E tu credi ancora alla posterità. Sei proprio matto". Le parole che Lucio Fontana rivolge all'amico Francesco Messina, cocciutamente estraneo alle correnti e alle mode, ci danno la cifra dell'opera dello scultore che ha attraversato quasi tutto il Novecento:  la volontà di non piegarsi al momento storico e di proporre un'arte capace di sfidare il tempo. Messina crea perché la sua opera vada oltre la contemporaneità e sia per sempre.

Modella le sue figure ispirandosi alla classicità, non linguaggio accademico, ma lingua naturale anche per i nostri giorni. Non teme la realtà, vuol coglierne la forma e offrircene l'essenza. E per questo Messina si è impegnato fin da giovanissimo in un confronto con il soggetto religioso e con il sacro.

Scrive nelle sue memorie:  "Una statua egizia esprime, nella sua drammatica staticità, solo un movimento il cui contenuto approda al porto del mistero eterno. Narrare, illustrare non è determinante nelle arti figurative. Ciò che vale si imparenta con l'eterno:  è la metafisica, intesa quale l'espressero i maestri del passato o come la consegue, nelle più felici immagini, la fantasia moderna".

Messina mantiene il primato della figura, l'uomo e la donna sono il soggetto principe. La corporeità, nella sua armonia e nelle sue tensioni, rivela l'impronta divina:  "Dio nell'uomo" si intitolava la personale del 1962 alla Galleria d'Arte sacra dei Contemporanei di Villa Clerici a Milano che portava in prefazione un testo dell'allora cardinale arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini. Lo studio dell'iconografia tradizionale viene animato dalla creatività e dall'approccio personale del rapporto di fede, il suo è un umanesimo religioso. Adamo ed Eva diventano una storia che racchiude tutte le storie del rapporto di coppia, ma anche del rapporto con se stessi e con il mondo, e soprattutto il rapporto con Dio, fatto di cadute, ricerca, intimità.

La centralità della figura umana in cui si riflette tutto l'universo è la riproposizione dell'icona-uomo che la modernità ha disarticolato, destrutturato, cancellato. Là dove le avanguardie hanno annullato i codici, Messina ricostruisce riallacciandosi alla tradizione. L'artista mantiene fede a uno stile e a una bellezza che non si rassegna al dominio del caos e del disordine. "Solo di fronte a Dio l'uomo si placa e apre il cuore alla speranza, alla serenità. Nell'arte in voga oggi, il primo elemento che avvertiamo è l'indifferenza, o ignoranza, non solo riguardo al verbo di Cristo, ma al più elementare umanesimo, senza il quale non si può neppure pensare a un'arte religiosa (...) L'uomo d'oggi è disincantato. Egli non ha più, come l'antico, limpidità di sguardo e sicurezza di azioni, ma, come disperso, si muove in un deserto dove tutto è miraggio".

Per Messina fede in Dio e fede nell'uomo sono coessenziali all'arte. Un fatto quasi naturale per lui che aveva appreso il mestiere e il catechismo nel laboratorio di Giovanni Scanzi, scultore a cui si devono alcuni dei monumenti più significativi del cimitero di Staglieno a Genova:  "Da lui imparai, in un anno, tutto il mestiere che ancor oggi governa il mio lavoro. Scanzi era un adorabile vecchio settantacinquenne. Io posavo per un angelo che egli scolpiva nel marmo. Durante le pose intendeva benevolmente istruirmi, facendomi domande sugli argomenti biblici che costituivano fonte inesauribile d'ispirazione per i suoi monumenti funerari. "Franzescu, ti see chi u lea Giuseppe?" (Francesco, sai chi era Giuseppe?).

Io arrossivo, perché non capivo ove volesse andare a parare con domande simili. Giuseppe:  pensavo chi poteva mai essere se non il vecchio e grasso bidello dell'Accademia dove lo Scanzi aveva insegnato per tanti anni? "Giuseppe? Ah sci, u lè u purtee de l'Academia". "Ignorante!" mi sentivo apostrofare in italiano:  "Giuseppe, quello della Bibbia...".

La novità del linguaggio classico di Messina è nello sguardo pieno di stupore con cui si apre all'uomo, approccia la Bibbia, si avvicina alla storia dei santi per comporre il canto della vita. Il fare memoria delle figure o degli eventi della storia della salvezza ha tutta la freschezza della testimonianza, di una bellezza indissolubilmente legata al vero e alla sua manifestazione. La sua è una religiosità alimentata dall'incontro con i testimoni della fede:  dalla radicalità dell'umile padre Genesio al cardinale Schuster, da don Luigi Orione a Marcello Candia.

Nell'opera sacra di Messina, scrive Antonio Paolucci, "c'è la Natura perché l'immagine umana, vista e amata nello splendore del Vero, è sempre l'esclusiva protagonista. C'è la Cultura perché per Messina gli episodi della storia sacra prima ancora di essere veri e venerabili per se stessi, sono veri e venerabili perché parte di noi, come la lingua che parliamo, come l'aria che respiriamo". Ma è anche una religiosità di tipo evocativo e sentimentale nutrita di pietas per le forme storiche della bellezza e di adesione colta e animata dalla gratitudine verso le iconografie tradizionali e i valori che le alimentano. Così la figura eredita la storia dell'arte che l'insaziabile Messina ha immagazzinato nella sua mente e nel suo sguardo, un lascito che gli permette di andare oltre rispetto alla falsa idea di creare dal nulla, dell'invenzione che si pensa possibile solo facendo il vuoto. Fedele in questo all'insegnamento di Carlo Carrà:  "Chi si astiene dallo studio dei grandi autori per tema di perdere la sensibilità nativa, non creerà che una forma d'arte senza radice e senza reale eccellenza. Il problema dell'arte è, per due terzi, un problema di cultura".

Le opere in mostra mettono in luce la capacità dello scultore di scavare dentro l'uomo - chiunque esso sia, meglio se un santo, un Papa, un cardinale - con un'assolutezza e una tenerezza prive di retorica, per cavarne la peculiarità che fa di ogni persona un unicum, e pertanto modellata direttamente dalla mano di Dio. La genesi dell'opera sembra segnata dal travaglio del parto:  quella che assale Messina è quasi una "mania" profetica che trapela anche nel monumento a Pio xii per la basilica vaticana. Per la realizzazione dell'effigie fu indetto un concorso nel 1960, senza però risultati soddisfacenti. Allora il cardinale Spellman, arcivescovo di New York e molto legato a Pacelli, invitò lo scultore a presentare un suo bozzetto, che fu approvato. Ritornato a Milano si chiuse nello studio di Brera per alcuni mesi. Non gli dava pace il pensiero che la sua opera sarebbe stata vicina a quelle di Michelangelo, Bernini, Canova.
 
Presentò il modello in gesso di quella che doveva essere una statua in marmo di quasi quattro metri. Approvato dai cardinali, non soddisfece però Messina che continuava a ripensare alla cappella, all'illuminazione, alla scultura di fronte, quella di Pio xi di Pietro Canonica, poi sostituita da un'altra di Francesco Nagni. Crea nuovi bozzetti, la mitria sostituisce la tiara (non più Papa-re ma pastore), il marmo diviene bronzo laminato d'oro nelle decorazioni del manto e del copricapo. Messina vuole ricordare Pacelli, Papa e vescovo di Roma durante l'ultimo conflitto, ispirandosi al Cristo giudice della Sistina. Il braccio levato in alto, però, non convince:  i cardinali gli dicono che un Papa non condanna. E così la mano diventa benedicente.

Le vicende della guerra legano fortemente  Papa  Pacelli a Ildefonso Schuster, il cardinale arcivescovo di Milano. Ma, nei rispettivi ritratti offerti da Messina, quanta differenza tra la severità magnetica del principe Pontefice e l'inflessibile docilità dell'abate benedettino. Lo scultore ne considerava il ritratto, realizzato in più versioni sia in marmo che in bronzo, uno dei suoi migliori. Il cardinale aiutò Messina nel 1939 nella donazione del monumento di santa Rosa a Viterbo. L'artista si recò in udienza per ringraziarlo e colse l'occasione per chiedergli di posare per lui.

"Da tempo vagheggiavo di modellare il busto dello spirituale e delicatissimo arcivescovo - scrive Messina nelle sue memorie. Subito egli si rabbuiò in volto, come se gli avessi lanciato una offesa. E a voce bassa e testa china dichiarò:  "Non ho mai posato per nessuno, ma per lei farò questa penitenza"". La capacità di cogliere la gracilità fisica e insieme la grande forza spirituale fa di quest'opera - un "semplice" ritratto - uno dei capolavori dell'arte religiosa del secolo scorso.

E la scultura di santa Rosa, che tanto piacque alla madre superiora delle cateriniane, fu anche all'origine dell'invito a realizzare un monumento a santa Caterina da Siena per Castel Sant'Angelo a Roma in occasione del quinto centenario della canonizzazione, che cadeva nel 1962. Messina intraprende "quasi un pellegrinaggio" alla volta di Siena:  la casa natale di Caterina, Fontebranda, la reliquia del capo in San Domenico. Ne studia l'iconografia, rilegge le lettere e le biografie. E poi disegni, studi, bozzetti a non finire. Caterina, sotto tre grandi pini romani, è rappresentata in cammino. Quattro rilievi, in uno stile crudo ed evocativo che a Paolucci ricorda Masaccio, ne illustrano i momenti fondamentali della vita. La partecipazione dello scultore al lavoro è totale, tanto che Messina si fa carico di una sofferenza che pare ispirata alla mistica della santa senese:  "Iniziai a disegnare i volumi e l'immagine della santa con grossi martelli pneumatici (...) Uscivo da quell'aggressione alla dura materia tutto bianco dalla testa ai piedi. Fu però una esaltazione che lasciò tracce dolorose, perché il martello pneumatico mi traumatizzò le braccia e, soprattutto, le mani che da allora cominciarono a dolermi in modo preoccupante (...) Ritornato in albergo Bianca doveva imboccarmi come un bambino perché il dolore non mi consentiva di reggere le posate. Ma non cedevo. Il mattin  dopo, prestissimo, riprendevo a lavorare".

Messina coraggioso, caparbio, mai soddisfatto. Classe 1900, di Linguaglossa, ma migrato in fasce a Genova, inizia a lavorare a otto anni. Studi di terza elementare eppure riesce a legare con Montale e poi con Quasimodo. Con sacrificio va alle scuole serali per approdare all'Accademia e avventurarsi in una ricerca continua, instancabile, in solitudine e non sempre compresa. Cosa muove un uomo così se non la capacità di stupore, la meraviglia per il creato, il fascino della bellezza? "Ho disegnato migliaia di nudi per scoprire i movimenti che determinano l'architettura plastica di una statua e che sognavo mi portassero a quella musica formale che non m'illudo di aver mai raggiunto. Ho assaggiato quasi tutte le materie:  la creta, il marmo, la pietra, il legno, il bronzo per immedesimarmi nei loro suggerimenti molecolari.

Ma forse neppure da questo studio sono riuscito vittorioso (...) Dio voglia che io mi riscatti anche solo attraverso un'immagine, piccola o grande che sia; per questo ho tanto insistito in mezzo secolo di lavoro". Continuerà a lavorare ancora due decenni, fin quasi alla sua morte, il 13 settembre 1995. Una vita nel segno della bellezza, fedele alle parole di Michelangelo che gli avevano fatto da guida:  "Imitare perfettamente le creature non è altro che imitare l'arte di Dio immortale, perché la più nobile e coraggiosa opera di pittura sarà quella che imiterà gli esseri più belli e creati con più scienza e delicatezza".


(©L'Osservatore Romano - 18 marzo 2010)
Caterina63
00venerdì 9 aprile 2010 21:51
A settecento anni dall'intervento di Lorenzo Maitani sul duomo di Orvieto

L'architetto che si è fatto teologo


Settecento anni fa l'architetto senese Lorenzo Maitani giungeva a Orvieto per dare forma definitiva alla cattedrale. Per la ricorrenza l'Opera del Duomo ha allestito una mostra che sarà aperta ai Palazzi Papali dal 10 aprile al 13 novembre. Pubblichiamo un testo delle curatrici dell'esposizione.

di Alessandra Cannistrà e Laura Andreani

Pensata come un omaggio a Lorenzo Maitani a 700 anni dal suo arrivo nel cantiere della Cattedrale orvietana, la mostra vuole essere soprattutto l'occasione per guardare con occhi diversi alla straordinaria creazione della mente e della mano del grande artefice. È un invito a non attraversare l'immagine nota ma a fermarsi per capirne il messaggio che parla con un linguaggio di estrema attualità dell'inquietudine spirituale, del cedimento della tradizione e dell'ansia profonda e intensa di rinnovamento che fu crisi e speranza per quelle generazioni che, come noi oggi, vissero le ombre e le luci di un'era di mezzo. Riscoprire i contenuti profondi e suscitare nuove riflessioni e ricerche sembra anche il modo più vitale per esprimere il debito di riconoscenza verso Lorenzo Maitani e tutti i maestri che misero la loro arte a servizio di un sogno:  il sogno concepito da una città comune divenuta "papale", un sogno nutrito insieme di spiritualità e di grandezza che, se pure alimentato dall'ambizione della politica, come artisti seppero trasformare nell'espressione vera e altissima dell'uomo, comunicando attraverso di essa quel riflesso divino dono del cielo alla terra.

Nella complessità della sua personalità artistica e delle sue produzioni, la figura di Lorenzo Maitani ha ispirato, a partire dalla fine del Settecento, un consistente numero di ricerche e di studi:  da Guglielmo Della Valle a Gaetano Milanesi, Ludovico Luzi e Luigi Fumi, fino a Geza De Francovich, August Schmarsow, Enzo Carli, Renato Bonelli, Cesare Brandi, Vittorio Franchetti Pardo, fino ai numerosi e più recenti studi. Grazie al lavoro di quanti si sono appassionati alle lontane e ancora misteriose origini della vicenda costruttiva del Duomo di Orvieto, ha ripreso vita l'immagine storica del grande costruttore di cattedrali, quell'universalis magister rivelato dai documenti dell'epoca. Una figura per molti aspetti mai completamente delineata e forse destinata a rimanere tale per le irrecuperabili lacune delle fonti, eppure un nome certo, solido come i contrafforti che eresse a baluardo del tempio in fieri. Un nome cui ancorare la storia, per certi versi, liquida di questa impresa costruttiva più volte ripercorsa da studi talvolta indotti ad affermare tesi surrettizie o personali ipotesi interpretative.

Un nome che i rari documenti scandiscono, reclamano e ripetono con certezza, fin da quel primo registro comunale che annota e motiva il suo incarico a Orvieto:  "perché è stato ed è esperto di contrafforti, tetto e facciata, tutti decorati con bellezza; e perché la facciata deve essere realizzata nella parte anteriore; e perché è esperto in tutti gli altri magisteri e ornamenti necessari alla fabbrica".

A partire dal 1310 e nel corso dei circa vent'anni in cui diresse il cantiere della Cattedrale Maitani seppe distribuire le sue competenze tecniche e artistiche a tutto campo, in ogni settore della fabbrica, riuscendo a dominare quella crisi, evidenziata dalla storiografia, che avrebbe potuto compromettere le sorti del progetto edificatorio. Egli coordinò le numerose maestranze orientandole e guidandole verso una nuova fase costruttiva che converge in particolare sul nuovo progetto della facciata nella versione tricuspidata, legata al suo nome come segno e simbolo dell'adesione alla nuova conduzione del cantiere.

Certamente una crisi profonda attraversava a quell'epoca ogni aspetto della vita sociale di quelle "terre della Chiesa" e delle loro comunità e fu espressione dell'instabilità politica che aveva colpito quella "città comune divenuta papale" per beneficio dell'itineranza della sede apostolica del secondo Duecento, ma poi declassata dall'avvio della fase avignonese.
La crisi, che fece vacillare le certezze culturali e spirituali di una società in continuo cambiamento di aspirazioni e prospettive, scosse anche le poderose fondamenta della Cattedrale che Papa Niccolò iv aveva posto solennemente nel 1290, ma senza farle cedere.

Esse si fondavano infatti non "sull'acqua e la creta" che il Papa arrivò a toccare al fondo dello scavo, quanto sulla tempra solida e fiera delle casate del dominio orvietano, sull'anima stessa di una città-Stato che era giunta al culmine della sua affermazione. Come ricorda la Cronaca di Luca di Domenico Manenti, clero, nobili e popolo, magistrature cittadine e castelli del contado, sono le pietre su cui si fonda e prende avvio la mirabile fabbrica. Furono pietre inizialmente solidali, coese nell'affermare ognuna per l'altra la propria potenza e rispecchiarla in un grandioso progetto.

Non così quelle che venti anni dopo troverà Maitani e che dovrà di nuovo rinserrare, riorganizzare e motivare con nuove ragioni, nuove passioni e nuove speranze. Nel prendere le redini del cantiere Maitani intuì che ogni sua scelta, ogni sua decisione avrebbe potuto offrire alla città fiducia o disincanto, forza o debolezza, speranza o abbandono rispetto alla difficile impresa. Per questo distribuì le sue competenze tra la struttura e il paramento, tra l'alzato e la decorazione, tra la pietra e il bronzo e il mosaico.

Nel quarto registro del bassorilievo del Giudizio Universale, nella teoria di santi, scanditi dai tralci di vite, convergono oranti intorno alla mandorla del Cristo Giudice le figure di un Papa, un vescovo, frati e monaci e quella dell'architetto, costruttore di cattedrali, che reca ancora con sé lo strumento del lavoro, la squadra a coda di rondine:  sono i protagonisti della storia della fondazione e dell'avvio del cantiere orvietano. Non è certo che si possa identificare nell'architetto l'autoritratto di Maitani, ma è certo che, innalzando a tal punto il ruolo dell'artefice esprimeva secondo lo spirito medievale l'essenza stessa della sua missione e sensibilmente trasformava con il suo progetto la Scrittura in architettura.




Evitò la rovina e fu nominato "universalis caputmagister"


Lorenzo di mastro Matano o Maitano nacque a Siena circa il 1275. Agli inizi del Trecento si sposò con domina Nicola e dal matrimonio nacquero Antonio, Vanni, Cecco e Vitale.
Nel 1310 è sicuramente a Orvieto, chiamato insistentemente dal Comune per porre rimedio a una crisi sopraggiunta nel cantiere della cattedrale che, si dice, "era sul punto di minacciare rovina".
L'intervento di Maitani fu molto apprezzato dagli orvietani, che ammirarono la sua perizia nelle strutture di consolidamento, nella progettazione della facciata e nella realizzazione delle decorazioni scultoree e musive. Per questo motivo la magistratura cittadina dei Signori Sette con il consiglio delle arti, presieduto dal capitano del popolo, lo nominò universalis caputmagister della fabbrica con uno stipendio di dodici fiorini d'oro l'anno e gli concesse la cittadinanza orvietana, un riconoscimento che altre città avevano riservato a grandi artisti:  Siena a Giovanni Pisano, Roma ad Arnolfo di Cambio e Firenze allo stesso Arnolfo e a Giotto.




 


(©L'Osservatore Romano - 10 aprile 2010)
Caterina63
00martedì 13 aprile 2010 14:04

NAS/ Liturgia, Cosmo, Architettura

Gli Arch. Lomonte e Santoro nel 2007 ridisegnano il presbiterio della chiesa di Sancipirello nella diocesi di Monreale, e dai risultati l'intervento sembrerebbe già nel pieno della nuova ispirazione liturgica benedettiana. Per i tipi di Cantagalli ne è nato un libro estremamente interessante e raccomandabile, molto utile per arricchire di esempi concreti la nuova ricerca architettonica del sacro. RS, che lo ha potuto leggere per la cortesia degli Autori, ringrazia Del Visibile per la bella presentazione che ne ha fatto e che oggi andiamo a prendergli a prestito.



Ciro Lomonte - Guido Santoro


LITURGIA , COSMO, ARCHITETTURA

Editrice Cantagalli

Siena, 2009

pp. 80

15.00 euro

ISBN 8882724611


per acquistare una copia visita qui


Il paese di Sancipirello va visto dall’alto. È così che si vedono le sue strade a scacchiera e la sua collocazione alle pendici del monte Jato, nell’entroterra palermitano. Il paese è sorto nel 1838 per ricostruire in luogo sicuro l’abitato di San Giuseppe Jato disastrato da una frana. È dall’alto che lo sviluppo urbanistico di Sancipirello mostra ancora la traccia della volontà di disegnare il paese come una piccola città ideale a pianta quadrata con un reticolo ordinato di strade e piazze. Ed è sempre dall’alto che si vede la chiesa di Maria SS. Immacolata stagliarsi a forma di croce sulla piazza principale. Orientata come le basiliche costantiniane di Roma, la porta della navata principale apre ai raggi del sole all’alba del 25 dicembre: il sacerdote alza il calice e il pane verso la Janua Coeli nel giorno in cui la luce segna la vittoria sulle tenebre. Il cosmo partecipa della liturgia attraverso l’architettura.

Liturgia, Cosmo, Architettura è il libro di Ciro Lomonte e Guido Santoro (Cantagalli, 2009) che presenta l’intervento che ha ridisegnato l’area presbiterale nella chiesa madre di Sancipirello, parrocchia di Maria SS. Immacolata. I due architetti, infatti, sono stati chiamati per completare questa chiesa. Chiesa costruita nell’arco di circa cent’anni, maestosa con il suo impianto basilicale composto da transetto e tre navate, ma rimasta spoglia e incompleta nell’arredo architettonico per il culto.

Oggi, con i lavori dell’area presbiterale completati, quando si entra, è la grande croce collocata al centro della zona absidale a dare la direzione: si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me (Gv 12,32). Le navate diventano cammino verso Dio. E, sotto la croce, Dio si rende visibile nel sacrificio eucaristico, nel pane e nel vino consacrati sull’altare.

Ecco come S. Ambrogio descrive questo cammino, quasi come un’attrazione, verso l’altare:

“dovete quindi accostarvi all’altare. Avete cominciato ad avvicinarvi, vi hanno guardato gli angeli, vi hanno visto venire… Anche gli angeli restano ammirati. Vuoi sapere cosa ammirano? Ascolta l’apostolo Pietro: ci dice che a noi sono state concesse cose che anche gli angeli desiderano vedere… cose che occhio non vide, né orecchio udì, le cose che Dio ha preparato per quelli che lo amano… Venivi dunque spinto dal desiderio, poiché avevi visto una grazia così grande, spinto dal desiderio venivi all’altare, perché sapevi che avresti ricevuto il sacramento… L’altare è l’immagine del corpo, e il corpo di Cristo sta sull’altare” (De sacramentis, IV, 5-7).

Croce e altare sono intimamente legati. L’arco trionfale, nell’intradosso, è caratterizzato da archetti concavi, a loro volta incorniciati da una trina di archetti ulteriori. È un rimando alla cortina della tenda del convegno che Mosè tese davanti all’arca dell’Alleanza. Allo stesso tempo, l’altare posto proprio sotto l’arco trionfale mostra che non c’è più luogo segreto: il velo del tempio è squarciato, Dio si dona fino alla nudità della croce.


L’ambone, collocato sul lato destro, è luogo dove il vangelo è proclamato. E poiché il Verbo si è consegnato fino a incarnarsi, morire e risorgere al terzo giorno, uno è l’annuncio che non può andare perduto: “Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo”. Per questo l’ambone, come da tradizione, ricorda il sepolcro vuoto: il diacono che canta l’Exsultet nella veglia pasquale rappresenta l’angelo che dà l’annuncio della risurrezione di Gesù alle donne che giungono al mattino dopo il sabato per ungere il corpo del Signore.

La forma della chiesa segue la liturgia, e la liturgia mostra l’azione salvifica di Dio nella storia degli uomini. Passato, presente, futuro con tutta la loro forza magmatica e centrifuga trovano unità in Cristo, Signore del tempo, l’alfa e l’omega, il principio e la fine (Ap 21,6); nella sua incarnazione e risurrezione ogni momento è abbracciato. Il presente della liturgia è presenza di Cristo: la liturgia infatti può dire hodie, oggi, ed esprime nell’hodie la pienezza del tempo salvifico che viene offerto da Dio in Cristo. E attraverso il dono dello Spirito Santo la memoria di ciò che non c’è più e l’attesa di ciò che non è ancora, così come i molteplici luoghi, tutti, fino a quelli più sperduti, trovano unità e fondamento in quel hodie.

L’Apocalisse, che è il libro liturgico per eccellenza, ci conduce nella celebrazione del dies domini, ci parla di questa pienezza del tempo, e del suo essere già e non ancora, di una definitività a cui ogni uomo è chiamato a partecipare e che ha già avuto inizio in Cristo. E il libro dell’Apocalisse è matrice fondamentale delle forme di questo presbiterio: in alto, la volta del cielo si apre in una stella a dodici punte e si fa profonda nella luce dell’oro attraverso sette gradini, che è numero simbolo di pienezza. Il dodici richiama i dodici apostoli e i dodici patriarchi, le dodici fondamenta e le dodici porte della Gerusalemme Nuova. La stessa forma quadrata in cui è inscritta la stella anticipa l’immenso cubo della Gerusalemme Nuova che giungerà dall’alto: il quattro è segno della terra e il cubo prefigura il compimento di quanto è terreno. La stella a dodici punte della cupola si riflette nel pavimento di marmo, due volte: dodici più dodici. Come i vegliardi descritti nell’Apocalisse: tutta la storia, l’antica e la nuova alleanza, patriarchi e apostoli sono radunati attorno all’altare (Ap 4,4).

La Chiesa, che secondo Gregorio Magno vive nel tempo dell’aurora dove luce e tenebre si mescolano, apre le porte delle sue navate al sole che sorge e ci conduce, dalla soglia del già e non ancora, verso i cieli nuovi e la terra nuova.

La pubblicazione Liturgia, Cosmo, Architettura presenta, anche tramite molte foto, tutti gli interventi che sono stati fatti: dalla risoluzione delle infiltrazioni d’acqua per risalita capillare alla collocazione della nuova sacrestia nella profondità della zona absidale, dalla sede del celebrante al leggio, dall’uso della luce alle geometrie dell’ornamento. Ogni particolare è stato concepito per servire la liturgia, ogni scelta partecipa della dinamicità di un popolo in cammino verso la Trinità.

La lettura del libro, che si avvale anche di un illuminante saggio introduttivo di Padre Uwe Michael Lang, conduce nella spiegazione di ogni particolare. Ma di questo intervento, tre sono i punti che vorrei ancora sottolineare, tre valori cruciali per cui la Chiesa di Sancipirello può essere presa come caso esemplare.

1. La chiesa è stata costruita dalla sua comunità: inizialmente, ancora nel secolo scorso, portando lì le stesse pietre che servivano per costruire i muri e, in tempi più recenti, permettendo all’arciprete Don Renzo Cannella di raccogliere man mano le offerte necessarie per avviare i recenti lavori. In questo modo chi progetta e costruisce risponde direttamente alla comunità. Se guardiamo alla storia delle comunità cristiane, questo modo di procedere può sembrare una ovvietà. Eppure, se guardiamo ai giorni nostri, i casi più problematici dell’architettura sacra nascono proprio da uno scollamento tra comunità e progettualità. Sancipirello è un esempio attuale della modalità in cui le comunità cristiane hanno saputo creare e mantenere, nel corso dei secoli, quasi per intero, il loro patrimonio culturale.

2. La comunità non ha preteso di sostituirsi alla competenza del progettista, ma ha sostenuto quel progettista capace di esprimere un linguaggio architettonico condiviso. Linguaggio che non può che essere generato dalla lingua prima, fondativa e comune propria della Rivelazione. L’opera che voglia definirsi cristiana non può sottrarsi alla parola di Dio che ha preso dimora tra gli uomini. Ed è nel rispetto di questa comunione che possono essere accolti la singolarità della capacità creativa e l’influsso particolare del genius loci. A loro volta, seguendo il percorso inverso, creatività e luogo con la loro singolarità risalgono al linguaggio condiviso dalla comunità e lo arricchiscono, affinché non ci sia appiattimento nella reiterazione del “già detto”. La tradizione deve nascere continuamente dalla vita.

3. Il problema di ogni comunità cristiana è che rischia di essere analfabeta. Di quella lingua prima, materna che è la Rivelazione, poche sono le parole conosciute. E anche l’arte cristiana risulta muta se manca quel codice comune. Per questo è da salutare con gratitudine una pubblicazione come questa che si concentra proprio nel far comprendere il legame tra le forme architettoniche e la liturgia. Ogni comunità dovrebbe averne almeno una che entra nello specifico della propria chiesa. Proprio come impegno pastorale. Perché se la liturgia si rispecchia nell’architettura, questa una volta riconosciuta e percorsa assume un valore sacramentale e, attraverso una mistagogia, conduce a riscoprire la bellezza della fede cristiana.

Ciro Lomonte – Guido Santoro, Liturgia, Cosmo, Architettura, Cantagalli, Siena, 2009, pp. 80, 26 tavv. col. Alcune pagine iniziali del libro possono essere lette sul sito Il Covile.Si ringrazia Del Visibile

Caterina63
00giovedì 20 gennaio 2011 12:42
[SM=g1740722] EVVIVA!!!! finalmente qualcosa si muove... Grazie mons. Ravasi [SM=g1740721]

Il Card. Ravasi torna sulle (orrende) chiese moderne: quanto sono inospitali!

chiesa del Santo Volto, in Spina a Torino
(vedere il
link!!)


E' apparso sul quotidiano torinese LaStampa di ieri 19 gennaio 2011 un mini-dossier corredato da interventi di vari esperti, sull'architettura delle chiese moderne:"QUESTA CHIESA VAL BENE UNA MESSA? (di G. Galeazzi).
Spunto è stata la lectio magistralis di ieri
tenuta dal Card. Gianfranco Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura) alla facoltà di Architettura di Roma.
Il neo porporato ha riportato di nuovo (
link) l'attenzione su un tema molto caro sia a Messainlatino (qui, qui, qui e qui) sia a FidesetForma (ad. es. qui): la urgente necessità di invertire la tendenza e abbandonare l'abitudine di erigere brutte e inospitali chiese!

Mons. Ravasi
punta l'indice contro la banalità con cui vengono commissionati gli edifici sacri, senza considerare lo scopo e l'Ospite per cui vengono eretti.
Il "Ministro della cultura" della Santa Sede getta uno sguardo anche ai 20 secoli di architettura cristiana, da sempre attenta alle sacre finalità del tempio cattolico e stigamtizza la situazione attuale di molte chiese moderne fatte quasi solo per stupire o soddisfare i personali pruriti e vezzi pseudoartistici di esuberanti architetti.

Con parole severe il Cardinale richiama all'ordine e lancia un monito per la rinascita della consapevolezza che le chiese adempiono meglio al proprio scopo se la loro costruzione è il risultato di un progetto misto: tecnica e preghiera! Solo una chiesa che armonizzi gli spazi con la vera religiosità dei fedeli è degna di questo nome.
E' facile leggere fuori dalle righe come il porporato, se pur elegantemente, ritenga che vi sia una responsabilità di architetti "laici" o "atei" (o comunque non cristiani) ma anche (e soprattutto) di superficiali committenti.
.
Ci rivolgiamo a Mons. Ravasi:
Eminenza, noi anche questa volta non possiamo fare altro che salutare con piacere e speranza le Sue parole e i Suoi intenti: ma che non rimangano parole!! Il P. Consiglio che Ella presiede può e deve intervenire, può e deve fare pressioni, può e deve sconsigliare caldamente, e perchè no, fermamente "intimorire" le committenze di certe case "volgari e pretenziose", per usare le Sue stesse parole, che poi vengono chiamate e consacrate poi chiese!
Faccia qualcosa! Intervenga in modo esplicito con la forza della Sua autorità e autorevolezza! Ostacoli e impedisca la costruzione di nuovi "palazzetti dello sport", come le chiama Vostra Eminenza! E preservi i magnifici altari, le marmoree balaustre, i lignei pulpiti che continuamente vengono decimati (in questo periodo ancor più rapidamente) da un episcopato inetto e accecato da non si sa quali furori "altarimaggioriclasti"!
Il Santo Padre Benedetto XVI, a cui deve l' "arcivescovatura" e la berretta cardinalizia Le ha affidato la tutela della Cultura, e Vostra Eminenza conosce bene i gusti del Papa. Non tradisca la sua fiducia. E lo aiuti. Concretizzi le Sue belle parole di denuncia pronunciate ai futuri architetti, e impedisca che gli attuali architetti realizzino altri orrori!


Riportiamo solo le parole del Cardinale: chi volesse leggere l'interessante articolo nella sua interezza, legga
qui, di Giacomo Galeazzi.

Per diletto un po' masochistico, o per chi apprezza l'horror: provate a googolare inserendo le parole
chiesa moderna: è proprio il caso di dire che "ne vedrete delle belle". A partire da quella del Santo Volto (vedi su), ci sono anche i video su YouTube.

Roberto da Messainlatino

*

-"Quanto sono inospitali molte chiese moderne!»

- «Un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione».

- «l’inospitalità, la dispersione, l’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione»

- « [chiese in cui] ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare».

- «Un degrado inaccettabile e tanto più grave alla luce del grande contributo offerto in 20 secolidalla cultura cristiana all’architettura.»

- «Senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera. Pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee».

- «[Nel cristianesimo c’è] una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino», con il «baricentro teologico» che si sposta dallo spazio al tempo, perché «tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale: l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto».

- «[la chiesa è] un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo», [...] «non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente».

- «Entrare in una chiesa è penetrare in un luogo che immediatamente parla alla persona e al suo cuore attraverso un linguaggio simbolico-affettivo»




Caterina63
00lunedì 14 febbraio 2011 11:17

Nuove chiese. Il Vaticano boccia i vescovi italiani

Su "L'Osservatore Romano" il cardinale Ravasi e l'"archistar" Paolo Portoghesi criticano i nuovi edifici sacri costruiti in Italia col patrocinio della conferenza episcopale. Perché rompono con la tradizione e deformano la liturgia. Un commento di Timothy Verdon

di Sandro Magister




ROMA, 14 febbraio 2011 – Le tre immagini qui sopra accostate raffigurano l'una un particolare della porta in legno della basilica romana di Santa Sabina, del secolo V; un'altra l'interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo a Roma, anch'essa del V secolo; e un'altra ancora lo schizzo di una chiesa inaugurata a Milano nel 1981, la parrocchia di Dio Padre.

La domanda è d'obbligo: edifici moderni come il terzo sopra raffigurato sono in continuità o in rottura con la tradizione architettonica, liturgica e teologica della Chiesa?

Varie chiese moderne sono costruite in forma circolare. Così come è il cerchio a caratterizzare i due esempi antichi di arte sacra sopra riprodotti. Ma basta questo a garantire la continuità con la tradizione?

O bastano i criteri estetici per giudicare la qualità di una nuova chiesa?

In questo inizio d'anno, a Roma e in Italia la polemica è esplosa vivace. E non soltanto tra gli specialisti. È entrato in campo "L'Osservatore Romano", il quotidiano della Santa Sede, che in ripetuti interventi ha criticato severamente alcuni dei più celebrati esempi di nuova architettura sacra patrocinati dall'episcopato italiano.

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Ha cominciato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio per la cultura, con una "lectio magistralis" alla facoltà di architettura dell'università "La Sapienza" di Roma riprodotta integralmente dal giornale vaticano del 17-18 gennaio.

Ravasi ha calato fendenti su quelle chiese moderne "nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare".

Niente nomi. Ma il 20 gennaio, di nuovo su "L'Osservatore Romano", l'architetto Paolo Portoghesi ha preso esplicitamente di mira le tre chiese vincitrici del concorso nazionale indetto dalla conferenza episcopale italiana nel 2000, realizzate a Foligno da Massimiliano Fuksas, a Catanzaro da Alessandro Pizzolato e a Modena da Mauro Galantino.

Portoghesi è lui stesso un "archistar" di fama mondiale: la Grande Moschea di Roma porta la sua firma. Da tempo critica alcune delle nuove chiese costruite da architetti di grido col plauso delle gerarchie. Tra le più famose e discusse si possono citare quella di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, sulla tomba di Padre Pio, e quella di Richard Meier nel quartiere romano di Tor Tre Teste.

Questa volta, su "L'Osservatore Romano", Portoghesi se la prende soprattutto con la chiesa di Gesù Redentore a Modena, ideata da Galantino. Ne riconosce i pregi estetici, l'armonia dei volumi, la pulizia razionalista. Riconosce anche l'intenzione dell'architetto di "dare maggior dinamismo all'evento liturgico".

Poi però chiede: "Dove sono i santi segni che rendono riconoscibile la chiesa?". All'esterno – osserva – nessuno, a parte le campane "che però potrebbero trovarsi anche in un municipio". Mentre all'interno "il ruolo iconologico è affidato a un 'orto degli ulivi' sistemato dietro l'altare in un esiguo cortiletto e alle 'acque del Giordano' ridotte a un canaletto di acqua stagnante stretto tra due muri che termina nel battistero".

Ma il peggio, a giudizio di Portoghesi, appare durante la celebrazione della messa:

"La comunità dei fedeli è divisa in due schiere contrapposte con al centro un grande vuoto ai cui due estremi si collocano l'altare e l'ambone. Le due schiere contrapposte e il vagare dei celebranti tra i due poli mettono in crisi non solo la tradizionale unità della comunità orante ma anche quella che è stata la grande  conquista del concilio Vaticano II, l'immagine assembleare del popolo di Dio in cammino. Perché ci si guarda in faccia? Perché non si guarda insieme verso i luoghi fondamentali della liturgia e l'immagine del Cristo? Perché i luoghi della liturgia, l'altare e l'ambone, sono contrapposti anziché affiancati? Imprigionati nei banchi, divisi in settori come le coorti di un esercito, i fedeli sono costretti, rimanendo immobili, a cambiare la direzione dello sguardo ora a destra ora a sinistra. La figura del Crocifisso è collocata dalla parte dell'altare e in corrispondenza della schiera di sinistra, con l'inevitabile conseguenza di non essere raggiungibile dallo sguardo di molti dei fedeli se non a rischio di torcicollo".

Portoghesi cita frasi di Benedetto XVI e così prosegue:

"È da augurarsi che questi puntuali interventi dalla cattedra di San Pietro facciano capire a liturgisti e architetti che la rievangelizzazione passa anche attraverso le chiese con la 'c' minuscola e richiede sì lo sforzo creativo dell'innovazione, ma anche un'attenta considerazione della tradizione, che è sempre stata non pura conservazione, ma consegna di un'eredità da mettere a frutto".

E conclude:

"La nuova chiesa di Modena è la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell'architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi di un tempio di cui Cristo è la pietra angolare".

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A queste critiche hanno replicato, sul "Corriere della Sera" dell'8 febbraio, sia l'architetto Galantino, sia il vescovo Ernesto Mandara, responsabile delle nuove chiese nella diocesi di Roma.

Galantino ha difeso le proprie scelte architettoniche, sostenendo di aver voluto disporre i fedeli "come intorno al tavolo, ricostruendo idealmente l'ultima cena". E ha ricordato di di aver maturato le sue riflessioni negli anni Ottanta a Milano, con il cardinale Carlo Maria Martini.

(Tra parentesi. La chiesa milanese dell'illustrazione in cima a questa pagina è uno dei prodotti di quella temperie. Progettata dagli architetti Giancarlo Ragazzi e Giuseppe Marvelli, fu dichiaratamente concepita come "luogo di incontro e di preghiera per i credenti di tutte le religioni", privo di segni specifici sia all'esterno che all'interno. La sua aula può essere divisa con pareti mobili in tre comparti: quello centrale per i riti cattolici e i due laterali pensati per ebrei e musulmani. L'attuale parroco sta faticosamente restituendo la chiesa a un suo uso integralmente cattolico, con due croci all'esterno, con vetrate e immagini cristiane all'interno e con un grande Cristo crocifisso sopra l'altare).

Anche il vescovo Mandara ha difeso l'operato suo e della conferenza episcopale italiana:

"Probabilmente se guardiamo al passato troviamo esempi di costruzioni non riuscite che danno ragione al cardinale Ravasi, ma dei risultati degli ultimi anni sono profondamente soddisfatto. Le chiese realizzate esprimono molto bene sia il senso del sacro sia quello dell’accoglienza".

Il 9 febbraio "L'Osservatore Romano" ha riportato entrambe le dichiarazioni di Galantino e Mandara. Ma ha ridato anche la parola a Portoghesi, il quale ha detto:

"Dopo il Concilio ci sono state molte fughe in avanti, in diverse direzioni. La chiesa ha perso specificità, è diventata un edificio come gli altri. La riconoscibilità, invece, è un fatto fondamentale, una tappa di quella ricristianizzazione dell’occidente di cui parla il papa. Quanto all'orientamento della preghiera liturgica, il popolo di Dio in cammino verso la salvezza non può essere statico, si muove verso una direzione; l’ideale sarebbe orientare la chiesa a est, dove il sole nasce. Non dobbiamo aver paura di quella modernità che la Chiesa stessa ha contribuito a creare; ogni generazione ha il dovere di rileggere i contenuti del passato, ma considerando la tradizione come un elemento di forza a cui attingere".

Non solo. Lo stesso 9 febbraio e il giorno successivo "L'Osservatore Romano" è tornato sul tema con due dotti interventi di due esperti, entrambi finalizzati a mostrare i caratteri distintivi della tradizione architettonica delle chiese cristiane.

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Il primo dei due interventi è di Maria Antonietta Crippa, ordinario di architettura al Politecnico di Milano.

Essa mostra come la preminenza data dall'architettura cristiana alle chiese a forma di croce latina si ispira sia alla classicità (Vitruvio con l'analogia tra le proporzioni del corpo e del tempio) sia soprattutto alla visione della Chiesa come corpo di Cristo, e di Cristo crocifisso.

Ma assieme al quadrato, anche il cerchio entra in questa tradizione architettonica. Secondo gli autori medievali, le chiese cristiane "hanno forma di croce per mostrare che il popolo cristiano è crocifisso al mondo; oppure di cerchio per simbolizzare l'eternità".

O anche di croce e di cerchio insieme. Come è avvenuto nel Cinquecento col prolungamento della navata della nuova basilica di San Pietro, inizialmente a pianta centrale nel progetto di Michelangelo.

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Il secondo e ancor più mirato intervento, su "L'Osservatore Romano" del 10 febbario, è di Timothy Verdon, americano, storico dell'arte e sacerdote, professore a Princeton e direttore dell'ufficio per l'arte sacra dell'arcidiocesi di Firenze.

Il suo articolo è riprodotto integralmente qui sotto. E mostra come le prime grandi chiese a Roma furono costruite, nel secolo IV, proprio assumendo in chiave cristiana due modelli dell'architettura classica: quello longitudinale delle basiliche e quello circolare, a pianta centrale.

A Gerusalemme, la chiesa del Santo Sepolcro edificata dall'imperatore Costantino associa entrambi i modelli. Ma anche a Roma la prima grande chiesa a pianta centrale, quella di Santo Stefano Rotondo del secolo V – il cui interno è visibile nell'illustrazione in cima a questa pagina – sorge entro un grande cortile rettangolare.

In ogni caso, le chiese a pianta centrale non sono prive di orientamento, né tanto meno fanno sì che l'assemblea dei fedeli si ripieghi su se stessa. I fedeli vi entrano come in un cammino di iniziazione, fino alla colonna di luce che è al centro dell'edificio e che è Cristo "lux mundi".

Quel Cristo che nel coevo portale di Santa Sabina – vedi l'illustrazione – appare al centro del cerchio celeste e riceve la preghiera "orientata" della donna al di sotto di lui, la Chiesa incoronata come sua sposa.

Questa è la grande tradizione architettonica, liturgica e teologica delle chiese cristiane. Di ieri, di oggi e di sempre.

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BASILICA E CERCHIO. LA TRADIZIONE DELLE GRANDI CHIESE DI ROMA

di Timothy Verdon



Tra le caratteristiche distintive del cristianesimo occidentale vi è la volontà di costruire grandi chiese: ancor oggi, in un’Europa che non vuole riconoscere ufficialmente le sue radici cristiane, gli edifici storici più imponenti delle città sono cattedrali, chiese monastiche o santuari. Come nasce questa tradizione?

L’idea cristiana del luogo di culto subisce una prima fondamentale trasformazione in Italia e specificamente a Roma a partire dall’epoca costantiniana.

Precedentemente, come apprendiamo dalle lettere di san Paolo, a Roma come in altre città evangelizzate, la Chiesa era strutturata in piccole comunità identificabili in base alle case private in cui i membri si riunivano. Nella sua lettera ai Romani, ad esempio, salutando i suoi amici Aquila e Prisca, Paolo saluta anche "la comunità che si riunisce nella loro casa" (Romani, 16, 3-5).

Tra le case utilizzate a Roma nel I secolo, c’erano però anche delle "domus" patrizie e forse perfino il "palatium" imperiale: scrivendo da Roma ai credenti di Filippi tra il 61 e il 63, san Paolo dirà: "Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare" (Filippesi, 4, 22).

Con la conversione alla nuova fede dei massimi ceti sociali tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, alcune "case" che vennero destinate permanentemente al servizio della "ecclesia" erano grandi e lussuose: tra queste c’era un’aula di rappresentanza della residenza dell’imperatrice madre Elena, il Palazzo Sessoriano, poi divenuta la basilica di Santa Croce in Gerusalemme.

Sarà soprattutto il figlio di Elena, l’imperatore Costantino, a dare dignità ufficiale a questa tendenza, esaltando la nuova fede mediante la costruzione di una vera e propria rete di grandi chiese sul modello architettonico delle aule pubbliche o regie dell’impero: le basiliche.

Come per trecento anni le comunità cristiane avevano celebrato i riti in sale ordinarie, in case private e nelle "insulae" delle città greco-romane, senza avvertire una particolare necessità di distinguere i loro luoghi di culto dal mondo che li circondava, così, anche dopo l’ascesa sociale della Chiesa, le grandiose strutture fatte costruire dal governo imperiale s’inserivano nell’esistente tessuto architettonico delle città in cui si trovavano.

Le fondazioni costantiniane e quelle del V secolo erano molte e molto grandi: San Giovanni in Laterano, forse già avviata nel 312-13, aveva dimensioni titaniche: 98 per 56 metri; la basilica cimiteriale di San Sebastiano, sulla via Appia, era lunga 75 metri; l’originaria basilica di San Lorenzo sulla via Tiburtina era lunga 98 metri.
C’era una basilica sulla via Labicana, attigua al "martirion" dei santi Marcellino e Pietro contenente il mausoleo dell’imperatrice Elena, e ce n'era un’altra sulla via Nomentana, vicino alla memoria di sant’Agnese, dove la figlia di Costantino, Costanza, aveva fatto costruire il suo mausoleo, l’attuale chiesa di Santa Costanza.

Soprattutto l’antica basilica di San Pietro era colossale, con una facciata larga circa 64 metri e un portico profondo 12. Le navate, esclusa l’area presbiteriale, erano lunghe 90 metri e quella centrale larga 23,50 con un’altezza di 32,50, mentre le navatelle laterali avevano altezze, rispettivamente, di 18 e 14,80 metri.

Nell’ambito della corte imperiale viene fatto poi un passo carico di significato per la storia dell’architettura cristiana: l’adattamento a scopi liturgici dell’edificio circolare o cilindrico tipico nel mondo tardo-antico dei mausolei di personaggi illustri.

Per la sensibilità greco romana, la forma cilindrica-chiusa infatti suggeriva il mistero della morte; proprio questa configurazione era stata usata nel iV secolo a Gerusalemme per la struttura costantiniana della "Anastasis", contenente la tomba vuota di Cristo. La stessa forma venne poi utilizzata dalla figlia di Costantino per il proprio mausoleo sulla via Nomentana, accanto all’antica basilica cimiteriale di Sant’Agnese.

Simili strutture circolari hanno un simbolismo particolare. Mentre le più comuni basiliche longitudinali implicano un cammino – dall’ingresso all’altare – la forma circolare, senza inizio e senza fine, ha dell’infinito: giungere al suo centro connota la fine della ricerca, l’arrivo nel porto sospirato.

Al Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove prima si passava per una basilica longitudinale per poi – attraversato un cortile – penetrare nella struttura circolare, l’esperienza spaziale complessiva era quasi una metafora di ricerca e scoperta: del cammino di fede e della certezza con cui Dio pone fine alla ricerca dell’uomo, ammettendolo nella luce infinita.

Nel V secolo la più grande chiesa romana a pianta centrale, Santo Stefano Rotondo, proporrà un’esperienza nuova. La basilica longitudinale diventa un immenso cortile rettangolare intorno all’elemento circolare, che a sua volta diventa un labirinto concentrico con più ingressi. Dalle cappelle si passa successivamente nel penultimo anello, più alto di quelli esterni e più luminoso, che infine dà accesso all’altissimo spazio cilindrico centrale, un pozzo di luce al cuore dell’edificio.

A Santo Stefano Rotondo il senso del cammino cristiano veniva cioè articolato in termini mistagogici, di iniziazione al mistero: non più come movimento lineare e neanche come semplice arrivo, ma nell’esperienza di una penetrazione per gradi: dall’esterno verso il centro, dalle tenebre verso la luce, metafora forse, questa, per la vita di una Chiesa che ormai trovava la ragione della sua comunione non solo nella radice storica di una condivisa "romanitas", ma nella convergenza verso Colui che è luce degli uomini.

È suggestivo infatti mettere la pianta circolare di questa chiesa a confronto con una coeva immagine di Cristo che ascende nel circolare "clipeus" simboleggiante la luce, in uno dei pannelli lignei delle porte della basilica di Santa Sabina, sull’Aventino.

È il Cristo dell’Apocalisse, l’Alfa e l’Omega della storia umana, presentato tra i simboli dei quattro evangelisti, con – sotto di lui – i santi Pietro e Paolo che innalzano un serto sulla testa di una donna. Questa, che con le braccia alzate in preghiera, simboleggia la stessa Chiesa che anela al suo Sposo.

A Roma per la prima volta la Chiesa si è identificata plasticamente con Colui che, immolato, è ora "degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione" (Apocalisse, 5, 12). Ha occupato spontaneamente, trasformandoli, gli spazi architettonici e concettuali dell’antico impero, persuasa che Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, s’era manifestato anche nello splendore materiale di Roma. La marmorea magnificenza della città un tempo pagana fu letta come adombramento della città dell’Apocalisse, la Gerusalemme celeste le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose.

Roma è infatti la città dell’Apocalisse – dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in avanti i messaggi comunicati nei programmi iconografici delle più importanti chiese romane sono "apocalittici".

Cristo rivestito della toga dorata come "Dominus dominantium", Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, versando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini realizzate nei presbiteri delle grandi nuove basiliche.

In diverse di queste chiese, poi, le scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come risoluzione della vicenda terrestre.

A San Pietro in Vaticano questo messaggio venne anticipato già all’esterno, con un monumentale mosaico che ricopriva la parte superiore della facciata della basilica (disegnata in un codice dell'XI secolo proveniente da Farfa e attualmente conservato all’Eton College di Windsor), mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno "in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide" (Apocalisse, 7, 9).

Pure questa caratteristica della vita dell’antica capitale, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana. La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventerà la Roma papale che regolarmente accoglie uomini e donne "di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Apocalisse, 7, 9). Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di spazi adeguati ad accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo, spazi che esprimono continuità con l’antico impero: la basilica San Pietro e l'antistante piazza infatti ricoprono un circo realizzato nel I secolo dagli imperatori Caligola e Nerone.

I giganteschi teatri e anfiteatri dell’Urbe, che ancor oggi testimoniano la capacità dell’impero di convogliare folle oceaniche verso un punto, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma. Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.

Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che uniscano mediante l’emozione condivisa da centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale ed umano della primitiva Chiesa romana.

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L'articolo sopra riprodotto di Timothy Verdon è uscito su "L'Osservatore Romano" del 10 febbraio 2011 col titolo: "La tradizione europea delle grandi chiese. Dagli angoli della vita al cerchio dell’eternità":

> L'Osservatore Romano

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L'articolo di Maria Antonietta Crippa su "L'Osservatore Romano" del 9 febbraio 2011:

> La croce forma e sostanza della planimetria delle antiche basiliche


La "lectio magistralis" del cardinale Gianfranco Ravasi all'università "La Sapienza" di Roma, pubblicata su "L'Osservatore Romano" del 17-18 gennaio 2011:

> Porte aperte tra il tempio e la piazza

Quanto all'articolo di Paolo Portoghesi su "L'Osservatore Romano" del 20 gennaio 2011, è riprodotto (con commenti e repliche) nel sito della parrocchia di Gesù Redentore a Modena:

> Per avere pietre viventi l'estetica non basta


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Breve considerazione....


...non so come finirà questa battaglia, ma se non altro ringraziamo Dio che se ne comincia a parlare...
è osceno ed oltraggioso alla nostra dignità di FEDELI, l'esser stati OBBLIGATI a pregare in queste chiese OSCENE...
Tuttavia mi auguro di loeggere presto, da mons. Ravasi, anche una bella strigliata alle chiese INVENTATE DA KIKO...
oppure nella chiesa esistono figli e figliastri?

Le Chiese moderne di oggi non fanno altro che riprodurre IL VUOTO DELLA FEDE E LA CONFUSIONE NELL'ORTODOSSIA...
come il mondo respira questa grave APOSTASIA, così anche le chiese moderne non sono altro che il frutto di questa degenerazione...
solo che la gravità sta nel fatto che per anni c'è stato e c'è ancora IL COMPIACIMENTO di Vescovi e della stessa CEI, mentre i fedeli che DENUNCIAVANO QUESTE DEPRAVAZIONI VENIVANO - e ancora oggi vengono - MESSI A TACERE O FATTI PASSARE PER STOLTI!

L'ESTERIORITA' rispecchia sempre ciò che si professa nel cuore...
per questo le Chiese di una volta non attraggono solo turisti visitatori, ma anche ed ancora MOLTE ANIME IN CERCA DELLA PROPRIA IDENTITA' CATTOLICA...
queste chiese moderne, sono prive di questa identità...





Caterina63
00venerdì 25 febbraio 2011 19:59
Gli edifici simbolo del dialogo tra Dio e l'uomo

Cattedrali cuore d'Europa




di TIMOTHY VERDON

Al cuore di ogni città europea di qualche importanza, vi è una cattedrale, segno della presenza - in un arco di secoli più o meno lungo - di una comunità cristiana operosa. Tipicamente grande, questa struttura s'impone sulla coscienza del cittadino come del turista, costituendosi un tratto significativo della fisionomia del luogo. Depositaria d'innumerevoli cimeli del passato, invita a cogliere l'identità storica degli abitanti del posto, e a collegarla allo slancio creativo ingenerato dalla fede; la bellezza dell'edificio e dell'arte che l'arricchisce infatti fornisce una chiave di lettura della vita interiore di coloro che l'hanno voluta, costruita e mantenuta, cifra sicura dei valori collettivi che da due millenni plasmano l'esperienza spirituale d'Europa.
 
Il primo di questi valori è religioso: quello di un rapporto privilegiato con Dio. Le cattedrali sono emblematiche di questo rapporto: sono chiese ossia case di preghiera per un popolo che si crede convocato da Dio.

Sono chiese speciali, poi, normalmente più grandi e belle di altre perché - come il biblico tempio di Gerusalemme - accolgono la vita non dei soli abitanti del posto ma di tutti coloro che Dio chiama; ogni cattedrale infatti simboleggia l'universalità della vocazione cristiana e merita il nome che la Bibbia attribuisce all'antico tempio ebraico: "Una casa di preghiera per tutti i popoli" (Isaia, 56, 7). Proprio questa frase verrà citata da Gesù quando, prima della sua passione, Egli libera il tempio di Gerusalemme da venditori e cambiavalute, dicendo: "Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!" (Marco, 2, 17; cfr. Matteo, 21, 12-13; Luca, 19, 46).
Ogni cattedrale simboleggia cioè l'universalità di un rapporto con Dio purificato da Cristo, e si offre come quel "luogo" di cui egli parlava alla Samaritana, dove "i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Giovanni, 4, 23).
 
Le cattedrali sono case di preghiera per coloro che, rispondendo a Dio, si lasciano trasformare in veri adoratori; sono segni permanenti di un rapporto dinamico, che trasforma l'uomo nei suoi rapporti con altri uomini, anzi con "tutti i popoli".

All'interno di questi edifici vi è poi un altro segno, che spiega pienamente il senso del termine "cattedrale": la cattedra o sedia del vescovo, spesso realizzata in materiali nobili e forme monumentali. Ciò che distingue una cattedrale da altre chiese è infatti la presenza di questa sedia del ministro ecclesiastico considerato un successore degli apostoli inviati da Cristo a tutte le nazioni, l'episcopus o vescovo. L'universalità della cattedrale dipende, in effetti, dall'universalità della missione affidata da Cristo ai suoi apostoli dopo la risurrezione, quando disse loro: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Matteo, 28, 19-20). In pratica, la cattedra posta in prossimità all'altare esplicita le funzioni assegnate in quell'occasione da Cristo, di ammaestrare e santificare tutte le nazioni. Il magistero dei vescovi al servizio della santificazione di successive generazioni, nei luoghi dove sorgono cattedre e cattedrali, è poi un elemento costitutivo della promessa trasformazione dei credenti in veri adoratori del Padre.

Insieme all'insegnamento e alla santificazione dei popoli loro affidati, i vescovi hanno una terza funzione, pure questa comunicata dalla cattedra e dall'associata struttura architettonica: quella di governare in persona Christi.

Il comando di ammaestrare e battezzare tutte le nazioni, nell'appena citato brano del Vangelo, viene infatti introdotto e completato da frasi che riguardano l'eccelsa autorità del Salvatore perdurante nei suoi inviati. "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra", dice; e poi: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Matteo, 28, 18 e 20b).
La frequente presentazione della cattedra come trono e della cattedrale come aula regia (basilica) derivano da quest'ultima funzione, in cui sono effettivamente compendiate le altre due, perché l'obbedienza dei fedeli ai loro vescovi già implica l'acquisizione di una sapienza che santifica, secondo un principio enunciato da Cristo. Parlando agli apostoli, egli disse: "Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato" (Matteo, 10, 40).

Dagli inizi del cristianesimo, questo principio di obbedienza è stato riconosciuto come fondamentale alla comunione ecclesiale. Uno scrittore del II secolo, sant'Ignazio d'Antiochia, afferma che "Gesù Cristo, nostra vita inseparabile, opera secondo la volontà del Padre, come i vescovi, costituiti in tutti i luoghi sino ai confini della terra, agiscono secondo la volontà di Gesù Cristo". A questa frase il santo fa seguire poi l'appassionato invito "di operare in perfetta armonia con il volere del vostro vescovo", notando che il clero della comunità destinataria del suo testo era già "così armonicamente unito al vescovo, come le corde di una cetra; in tal modo, nell'accordo dei vostri sentimenti e nella perfetta armonia del vostro amore fraterno, s'innalzerà un concerto di lodi a Gesù Cristo" (Efesini, 2, 2; cfr. Franz Xaver Funk, Karl Bihlmeyer, Die apostolischen Väter, seconda edizione, Tübingen 1956, 1, pp. 175-177).

Nella logica di questo sistema spirituale, è facile comprendere i segni materiali che c'interessano. La cattedra in prossimità all'altare simboleggia l'armonica unità dei fedeli con il loro vescovo, del vescovo con Cristo e di Cristo con il Padre; e l'edificio che ospita la cattedra e l'altare a sua volta magnifica il simbolo.

Come afferma un moderno padre della Chiesa, Paolo VI: "La cattedrale è di Cristo, a Cristo ogni cattedrale appartiene. Per Lui si è innalzata una cattedra, sulla quale il suo apostolo, in sua vece, parlerà; per Lui un trono, sul quale chi tiene il suo posto siederà; per Lui un altare, dal quale chi lo rivive farà salire al Padre il suo stesso sacrificio; per Lui è qui riunita la Ecclesia, il popolo col suo vescovo, ed a Lui innalza il suo inno di gloria e la sua gemente preghiera; è da Lui che questo tempio acquista la sua misteriosa maestà" (discorso pronunciato nel rinnovato duomo di Crema nel 1959).

Ogni cattedra in ogni cattedrale va quindi visualizzata nei termini già suggeriti in un mosaico romano degli inizi del V secolo, dove a sedere sul trono in mezzo all'assemblea è Cristo stesso, glorioso sopra l'altare eucaristico. L'ubicazione di questo mosaico in una basilica romana, poi Santa Pudenziana, e la presentazione di Cristo come un imperator tra apostoli trasformati in patrizi togati, suggeriscono un altro aspetto del nostro tema: la compenetrazione della vita ecclesiastica cristiana dai simboli dell'antico impero romano. Già il linguaggio usato da Ignazio d'Antiochia per descrivere l'organizzazione della Chiesa nel II secolo (il periodo di massima espansione dell'impero romano), s'ispirava alla retorica dello stato avvezza di metafore musicali, e con l'accettazione ufficiale del cristianesimo al tempo di Costantino e l'assunzione da parte dei prelati cristiani di insegne derivanti dalla gerarchia civile quali i ceri e l'incenso, la metafora si traduceva in realtà.

Con la successiva definizione delle circoscrizioni ecclesiastiche secondo la ripartizione territoriale dell'impero in "diocesi" il sogno romano di unità politica e culturale venne assimilato alla visione cristiana di comunione ecclesiale che Ignazio d'Antiochia vide radicata nel rapporto tra Cristo e Dio Padre.

Consegue che, dalla fine dell'antichità e per tutto il medioevo, la sedia vescovile in una chiesa cattedrale evocava - oltre alla comunione della Chiesa locale col suo capo - l'aspirazione di ricostituire l'onnicomprensiva armonia dell'antico impero unito intorno al trono.

Questo grazie anche al ruolo legittimante del Pontefice romano, il Papa, la cui autorità sull'antica capitale sostituiva quella dei Cesari; la comunione col vescovo di Roma dei vescovi dell'Europa post-antica in qualche modo perpetuava, infatti, la struttura dell'antico stato, e l'identità ecclesiale cristiana, di nazione santa, s'innestava sull'identità civica tramandata dal tardo impero, il concetto giudeo-cristiano "popolo di Dio" sovrapponendosi a quello romano di plebs, un popolo autonomo con diritti e doveri, capace di difendersi e pronto al sacrificio.

Questa sovrapposizione concettuale contribuisce al prestigio delle cattedrali, che erano normalmente le uniche strutture cittadine con residue valenze universali, segni della trasformazione dell'antico sogno imperiale in dinamico progetto ecclesiastico.



(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2011)
Caterina63
00martedì 31 maggio 2011 09:31
Il simbolismo nell'arte sacra
Di Francesco Agnoli - 13/04/2011 - Religione -

Tabernacolo altare

Essi mi faranno un santuario ed io abiterò in mezzo a loro”(Es.25,8).


L’edificio-chiesa è simbolo:

 - del corpo di Cristo crocifisso: il transetto sono le braccia distese, la navata il corpo, l’abside la testa. La forma semi-circolare dell’abside ricorda la curvatura del capo umano. In alcune chiese l’asse dell’abside è inclinato rispetto a quello della navata centrale, proprio come la testa di Cristo crocifisso.

- della Chiesa spirituale: Cristo, dice S.Paolo, è il “capo del corpo che è la Chiesa”: la Chiesa viene paragonata ad un corpo fatto di tante membra e il suo capo è Cristo stesso. La chiesa-edificio è un insieme di pietre che formano il tutto: “pietre vive” che poggiano sulla “pietra angolare” che è Cristo per formare una comunità che è comunione dei Santi (Chiesa militante, purgante, trionfante). S.Pietro: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo...”(1Pt.2, 4-6).

- dell’uomo: esso è infatti “tempio vivente di Dio”. Ogni uomo, soprattutto quando riceve l’Eucarestia, è tempio di Dio. Gesù afferma: “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere”(Gv.2, 19). Il tempio in questione è il suo corpo, tempio della sua anima che è Dio stesso: “egli parlava del tempio del suo corpo”.

- della Gerusalemme celeste, e cioè la città di Dio, il Paradiso: è già la porta ad annunciarlo nella grande lavorazione che la contraddistingue. La porta romanica, con il suo protiro, la porta gotica, con le sue strombature e la ricchezza delle decorazioni, vogliono significare la distinzione fra i due spazi, l’interno e l’esterno, la chiesa ed il mondo profano (:pro=davanti,fuori; fanum=tempio).

La porta viene definita “ianua coeli”, porta del cielo: “Tu che entri, guarda verso il Cielo”, così è scritto sulla porta di ingresso della chiesa di Mozat; oppure un’iscrizione tolta dalla Genesi: “Quanto terribile è questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”(Gen.28, 17). La chiesa è l’ovile del Paradiso: “Io - dice Gesù - sono la porta da cui entrano le pecore...Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me sarà salvo” (Gv.10, 7-9).

degno altare

 Il gotico ama le tre porte, simbolo della Trinità, consacrate contemporaneamente da tre sacerdoti diversi; le tre porte possono ripetersi su ogni lato, divenendo dodici, quanti gli apostoli, capostipiti delle dodici tribù della Nuova Israele.

 Il modello che Suger, l’autore della prima chiesa gotica, vuole seguire, è la descrizione dell’Apocalisse: “Vidi anche la città santa, la Nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente...‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio con loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi...’. L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande ed alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme che scendeva dal cielo...Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte...A Oriente tre porte, a Settentrione tre porte, a Mezzogiorno tre porte e ad Occidente tre porte...Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a vetro puro...Non vidi alcun tempio in essa perchè il signore Dio, l’onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, nè della luce della luna, perchè la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”(Ap.21).

Cosa fa Suger a Saint-Denis? Vuole inondare tutto di luce, di “oro puro”, di “vetro puro”, di diaspro e pietre preziose, come nella Gerusalemme celeste, soprattutto nell’abside, il luogo dei più abbaglianti incontri con Dio. Fa abbattere le pareti del coro per unificarle nella luce; sostituisce le grosse strutture in pietra con colonnne esili, pietra traforata e con quelle grandi vetrate tipiche del gotico, che, talora, vengono ad occupare tutto l’abside, come nella Saint-Chapelle di Parigi.

Adorna il sepolcro di san Dionigi, le pareti, l’altare, di oro, argento ma soprattutto di cristalli, pietre smerigliate, materiale trasparente e traslucido con cui la luce penetrata dalle grandi finestre possa giocare, riflettersi, propagarsi fra luccichii e bagliori. Scive Suger: “Perciò, quando per l’amore che nutro per il decoro della casa di Dio, la multicolore leggiadria delle gemme mi distrae dalle preoccupazioni terrene e, trasferendo anche la diversità delle sante virtù dalle cose materiali a quelle immateriali, l’onesta meditazione mi persuade a concedermi una pausa...mi sembra di vedere me stesso in una regione sconosciuta del mondo, che non è completamente nè del fango terrestre, nè si trova del tutto collocata nella purezza del cielo, e mi sembra di essere in grado di trasferirmi, con l’aiuto di Dio, da questo mondo inferiore a quello superiore, in modo anagogico”.

Sulla porta fa apporre questa iscrizione, in latino: “Chiunque tu sia che vuoi esaltare l’onore di queste porte, non ammirare l’oro nè la spesa, ma la fatica dell’opera, opera nobile che splende, ma che splendendo nobilmente illumini le menti, affinchè attraverso lumi veri giungano alla vera luce, dove è Cristo, porta vera”.

La chiesa gotica finisce così per presentarsi come ad un visitatore del XVII sec. della cattedrale di Leon: “Di altre chiese si dice che sembrano una coppa d’argento; di questa si può dire che non solo sembra, ma è una coppa di vetro da cui si può bere”.

Nella Gerusalemme celeste dell’Apocalisse non c’è il sole, perchè Dio stesso è il suo sole che la illumina e la vivifica: nelle chiese gotiche vengono aperti i rosoni, immagine della perfezione del cerchio, nuovi soli che illuminano le cose e simboleggiano la luce spirituale.

 E’ un nuovo simbolismo solare che si aggiunge ai precedenti: fin dai primi tempi le chiese vengono volte ad Oriente, verso il “sole che sorge e viene ad illuminare coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte”. All’aurora, mentre i raggi del sole sorgente invadono l’abside e l’altare, i monaci si alzano a cantare, per salutare il “Sol Salutis”, la luce di Cristo che è venuto da oriente per salvare l’umanità; la sera sono i raggi del “Sol Iustitiae”, che giunge a giudicare alla sera del mondo, ad essere accolti nello spazio sacro e circolare dell’abside.

La luce è dunque la caratteristica della Gerusalemme celeste come delle cattedrali gotiche. Proviamo a vedere alcuni perchè. Anzitutto è la prima parola della creazione: “Dio disse: ‘Sia fatta la luce’ ”; Grossatesta commenta: “ La prima parola del Signore creò la natura della luce e disperse le tenebre, e dissolse la tristezza e rese immediatamente ogni specie lieta e gioiosa. La luce è bella di per sè, poichè la sua natura è semplice, e ha in sè tutte le cose insieme; perciò è massimamente unita, e proporzionata a sè in modo assai concorde a causa dell’uguaglianza; invece la concordia delle proporzioni è bellezza...Essa fra le cose corporali è la dimostrazione più evidente per via analogica della somma Trinità. Perciò Dio, che è luce, giustamente ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità”.

 In secondo luogo si può dire che, fra le creature corporali, la luce è quella che maggiormente può essere considerata vestigio di Dio, secondo il concetto filosofico per cui ogni effetto o creatura è in parte simile ed in parte differisce dalla causa o creatore: come il manufatto di un artigiano “contiene” qualcosa dell’artigiano stesso, la sua fantasia, la sua abilità, ma ne è inferiore, così anche le creature di Dio sono, più o meno, immagine di Dio.

Egli, dice S.Bonavventura, “relucet et latet” nelle creature, e, fra queste, riluce soprattutto nella luce:

 - Dio è Verità che conosce perfettamente se stesso e permette alle realtà spirituali, agli occhi dello spirito, di conoscere la verità spirituale. Come verità ha soprattutto la capacità di manifestare e di manifestarsi: la luce del sole è ciò che nel mondo maggiormente manifesta e si manifesta, facendo conoscere agli occhi della carne le realtà materiali.

- Dio è Vita, colui che la dà e che in essa ci mantiene: la luce del sole è principio fondamentale di vita per tutta la natura, nella generazione, nel mutamento e nella corruzione.

 - Dio è Spirito invisibile e la luce è un corpo “spirituale”, il corpo materiale che più assomoglia alle realtà spirituali, alla dimensione metafisica, intangibile, impalpabile eppure evidente, anzi l’evidenza stessa.

- Dio è Bellezza, e la luce, secondo il francescano Grossatesta, è “maxime pulcrificativa et pulcritudinis manifestativa”, e cioè massimamente capace di manifestare le altre bellezze e nello stesso tempo di conferire bellezza anche alle cose che di per sè non la possiedono.

 - Dio è Unità, Uguaglianza e Semplicità: la luce, in un certo senso, genera se stessa da se stessa - come Cristo è il “lumen de lumine”, il “lumen genitum”- senza dividersi, mantenendo unità nella sua espansione, avendo la più grande armonia possibile nella perfetta proporzione ed unità delle sue “parti”.

 Inoltre, come notava uno dei primi grandi scienziati della luce, si muove secondo due figure: la retta ed il cerchio, cioè le figure che hanno massima semplicità, “unità ed uguaglianza senza angolo”. Tutti gli altri movimenti della luce, e cioè la rifrazione e la riflessione (linee spezzate) non sono propriamente naturali, in quanto nascono da ostacoli interposti alla luce.

Rimanendo nell’osservazione scientifica si può notare che la luce è una sola, la luce bianca, ma contiene in sè i tre colori primari, i quali danno a loro volta i sette colori dell’iride: essa dunque richiama Dio come Unità e Trinità ad un tempo, e lo Spirito Santo come datore dei sette doni, le sette lampade dell’Apocalisse, i sette sacramenti...; mentre il nero, che contraddistingue le tenebre, non è un colore, ma assenza e privazione di colore e di luce.

 - Dio è Bene, ed in quanto tale “diffusivum sui”, diffusivo di sè, donatore e propagatore di vita, come la luce stessa è diffusiva di sè, ed è come la Carità (=Bene) “che tutto abbraccia”.

 

cum Maria

L’immagine della Gerusalemme celeste, posta su di un “monte grande e alto” (Ap.21,10) ne richiama un’altra: la chiesa, l’altare è immagine del monte santo, “il santo monte Sion, dove hai preso dimora”( Salmo 73). Nella messa noi diciamo, ripetendo il salmo che gli ebrei cantavano inerpicandosi sul monte Sion per andare al tempio: “Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt et adduxerunt in montem sanctum tuum et in tabernacula tua”.

Questa montagna luminosa è come la chiesa di Mont Saint Michel o Montmartre a Parigi, ma anche come l’altare di pietra sopraelevato e illuminato dai candelabri:simboleggia il Sinai, dove Mosè riceve la legge; il Carmelo, dove Elia incontra l’eterno, il monte Sion, dove gli ebrei avevano il tempio, il Tabor della trasfigurazione, il Golgota, su cui Gesù è morto in croce. Per questo, nella vecchia messa, per cui il romanico, il gotico, il barocco...sono costruiti, l’altare è rialzato e di pietra, con le reliquie dei martiri dentro; di pietra come i monti santi; di pietra come l’altare del Genesi eretto da Giacobbe (Gen.28); di pietra come l’altare degli olocausti nel tempio di Gerusalemme; di pietra come Pietro, su cui è costruita la Chiesa e come Cristo, “pietra angolare che i costruttori hanno scartato”.

A Cristo si riferisce Isaia quando dice: “Ecco io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi crede non vacillerà”(Is.28, 16); e S.Paolo: “bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo (petra erat Christus, I Cor.10, 3-4). S.Ambrogio ci dice che l’altare è immagine del Corpo di Cristo in quanto è Cristo stesso, immolatosi sulla croce, ad essere divenuto altare del Sacrificio fatto a Dio Padre.

 Parlando di lui la Scrittura ci dice: “Noi abbiamo un altare” (Eb.23, 10).

L’altare diventa così il centro del mondo, come nella Scrittura lo sono Gerusalemme ed il monte Sion: non il centro geografico ma il centro spirituale, come dimostrano il ciborio o il baldacchino postivi sopra: un tempio nel tempio, un tempio costituito da quattro colonne, simbolo della terra, dei quattro elementi, dei quattro punti cardinali (i quattro venti, i quattro angoli del mondo), e da una semisfera, simbolo del cielo, e per questo, spesso, stellata e azzurra. Il significato della cupola è uguale: la base quadrata simboleggia la terra, il cerchio, figura perfetta, è immagine del cielo.

Questo perchè la chiesa, nel suo complesso, è anche immagine del mondo intero, della creazione, della grande cattedrale della natura edificata da Dio. Tutto il mondo è infatti pieno della sua gloria: “Tutta la terra è piena della tua gloria” (Is.6,3), anche se la chiesa ha in più una presenza particolare, quella di Cristo, anche col suo corpo, nel “sancta sanctorum” del tabernacolo. Questa immagine dell’universo è così espressa da S.Gregorio Magno: “Nell’ora del sacrificio, alla voce del sacerdote i Cieli si aprono...a questo Mistero partecipano anche i cori angelici...il cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”; e S. Massimo Confessore: “E’ cosa davvero mirabile che, nella sua piccolezza, (questo tempio) sia simile al vasto mondo...Ecco che la sua copertura è tesa come i cieli: senza colonne, incurvata e chiusa; e inoltre è ornata da mosaici d’oro come il firmamento lo è da stelle brillanti. Ed ecco che la sua cupola elevata è paragonabile al cielo dei cieli. E, simile ad un elmo, la sua parte superiore riposa saldamente sulla parte inferiore. I suoi archi, vasti e splendidi, assomigliano inoltre, per la varietà dei colori, all’arco glorioso, quello delle nubi”.

Tabernacolo

Tabernacolo: qui la presenza di Dio è completa, è l’Emmanuele, il “Dio con noi” dell’Apocalisse, e, come “padrone di casa”, è posto in posizione centrale e immediatamente visibile. Ci sono diversi tipi di tabernacolo: anticamente si usava spesso una colomba sospesa in aria sopra l’altare; poi, col barocco, si affermano soprattutto due tipologie: il tabernacolo basso e disadorno (sormontato da uno spazio per l’esposizione), che ricorda il Sepolcro dove Gesù fu deposto dopo la morte in croce (rammenta quindi il carattere sacrificale della messa); il tabernacolo a forma di tempietto, con la cupola, le colonnine: una piccola “Domus Dei” all’interno di quella più grande che è la chiesa.

Prima del gotico, in cui la luce è quella del sole, delle vetrate e dei cristalli, per rendere l’idea della chiesa come Gerusalemme celeste si usava lo sfondo dorato, soprattutto nell’arte bizantina. L’oro è anch’esso luce, luce particolarmente preziosa, ed ha la proprietà di collocare le figure fuori del tempo e dello spazio, e cioè in una dimensione completamente soprannaturale: Dio, il Paradiso, i santi, sono nell’eternità, non sono limitati dallo spazio, dal tempo, dalle cose terrene.

Per questo le chiese protestanti (e anche quelle "cattoliche" odierne) che rifiutano la concezione della messa come sacrificio, come Gerusalemme celeste, come immagine di Cristo e della sua creazione, sono totalmente diverse.

La “messa” protestante necessita di una chiesa protestante: non più volta ad Oriente, non più pianta a croce, non più luce, finestre gotiche, sfondi oro; non più altare rialzato, altare di pietra, sormontato dal tabernacolo: ma tavola di legno, a livello del terreno, dove si compie una cena, un memoriale, un incontro fra uomini, assemblea e presidente, non nella casa di Dio ma in una casa degli uomini, dove sulla porta, che è uguale a quelle normali, non ci può più essere scritto: “Tu che entri guarda verso il cielo”. 

Dov’ è il cielo, dove la cupola, il ciborio, il baldacchino, l’azzurro e le stelle delle volte, il rosone...? Dov’è il tabernacolo, la tenda dell’Emmanuele, il “Dio con noi” ? Dove sono le mura di diaspro, d’oro, di topazio, di vetro puro della Gerusalemme celeste dell’Apocalisse; i suoi cittadini, le statue dei santi, la pietra sui cui poggiare, solida, forte, da cui scaturisce il cibo spirituale? Non c’è più il canto gregoriano; gli amici di Lutero abbattono gli organi, bandiscono l’armonia di una musica che vuole avvicinarsi al coro degli angeli della corte divina, piuttosto che al canto profano, legato alle cose terrene. Si potrebbe continuare a lungo in questo triste elenco, ma una cosa sola ci deve importare: le chiese “cattoliche” moderne, quelle inaugurate per il Giubileo, addirittura senza croce, con il bar all’interno della “chiesa”, sono espressione, triste e squallida, di una grande decadenza; sono esattamente uguali alle chiese protestanti...

La nuova “arte”nasce alla fine degli anni sessanta: bisogna fare della messa una cena, un’assemblea, qualcosa di umano, un “mangiare attorno alla stessa tavola”; quindi bisogna trasformare la casa di Dio nella casa dell’uomo, dell’assemblea, farne un “teatro totale”, secondo l’auspicio degli innovatori legati al cardinal Lercaro, grande artefice della riforma liturgica ( G.Lercaro, “La chiesa nella città: discorsi e interventi sull’architettura sacra”, Paoline, 1996). La Gerusalemme celeste diviene allora un “teatro”; l’altare “il simbolo dell’assemblea”; il monte Sion, il Golgota, una collina da spianare; la cupola un cielo da abbattere e trascinare sulla terra, come in genere la dimensione soprannaturale, nell’unica dimensione ormai riconosciuta, quella orizzontale, dall’uomo all’uomo.

 


Caterina63
00venerdì 12 agosto 2011 23:12
[SM=g1740733]sembra proprio che il Papa, attraverso il cardinale Piacenza, abbia raccolto l'appello....



Università Europea di Roma – Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”

Master in Architettura, Arti sacre e Liturgia, Venerdì, 25 marzo 2011

Lectio Magistralis

di S. Em. R. il Cardinale Mauro Piacenza

Prefetto della Congregazione per il Clero


Ministri della Bellezza:
Architettura, Arti sacre e Liturgia al servizio della missione dei sacerdoti


Chiarissimi Rettori, Rev.mo Padre Abate, Carissimi confratelli nel Sacerdozio, Cari e “preziosi” Architetti ed Artisti, Gentili convenuti tutti,

Sono lieto di essere qui tra voi, oggi, nella solare Solennità dell’Annunciazione del Signore, collocata all’esordio di primavera ed autentica primavera teologica. Ringrazio sentitamente il Coordinatore del Master, il Rev.do Prof. Uwe Michael Lang, per le cordiali parole di benvenuto e, soprattutto, per il prezioso lavoro profuso in questa opera. Desidero altresì esprimere la mia viva gratitudine a tutti voi, architetti e artisti del Master, che frequentate in quest’anno o che siete “ritornati oggi” in quella che, oltre ad essere un’esperienza accademica, vuole essere sempre più una dimora. La dimora è un luogo nel quale la memoria di se stessi, di quello che siamo, delle ragioni profonde che animano il nostro lavoro, è continuamente richiamata e sostenuta, soprattutto attraverso quella trama di relazioni buone che caratterizzano ogni movimento cristiano. Il modello supremo della Dimora, in questo senso, è l’Abbazia e, per analogia, la chiesa: luogo anche fisico nel quale l’uomo può essere ri-creato!

Con questo spirito abbiamo accolto l’appello del Santo Padre Benedetto XVI a partecipare, attivamente e con passione, a quel perenne rinnovamento nella fedeltà che, anche nella liturgia, nell’architettura e nell’arte sacra, sempre deve trovare spazio nella vita ecclesiale.

L’auspicio di tutti è che nei prossimi decenni possa progressivamente, ma costantemente, anche a livello istituzionale, essere tematizzata la cruciale questione dell’architettura e dell’arte sacra, senza pregiudizi o contrapposizioni, senza sterili nostalgie o pericolose fughe in avanti, perché possa aver luogo un vero e proprio rinnovamento di queste dimensioni cruciali della vita della Chiesa. Ogni autentico rinnovamento, nella Chiesa, non può che essere considerato alla luce dell’imprescindibile rinvigorimento della fede accolta, professata e vissuta. Ogni passo, ogni gesto di questo prezioso Pontificato pare inequivocabilmente votato a tale profondo rinnovamento!

Siamo qui riuniti, per volgere insieme lo sguardo a come l’Architettura e le Arti sacre siano chiamate a servire la Bellezza, e, quindi, come voi stessi, carissimi architetti ed artisti, siate chiamati a diventare, sempre più limpidamente, “ministri” della Bellezza e, conseguentemente, collaboratori della Salvezza di Cristo.

Direbbe san Paolo: «Adiutor gaudii vestrii» - «Collaboratore della vostra gioia» (2Cor 1,24), e quale gioia è più grande e profonda della Bellezza? Quale esperienza è gaudio più profondo di quella estetica? Quale rimanda più potentemente all’esperienza del soprannaturale, alla bellezza, che è Dio stesso?

Nostro Signore, Verbo incarnato, morto e risorto, raggiunge oggi gli uomini di ogni tempo e luogo attraverso le membra del Suo Corpo, che è la Chiesa, attraverso l’agire sacramentale e liturgico e, perciò, in modo unico, tramite i suoi sacerdoti.

Non intendo, con questo, delineare una mera subordinazione della vostra professione alla Missione ecclesiale, ma soltanto riconoscere, con voi e per voi, come l’andare a fondo dell’opera artistica, sia un divenire anzitutto “esperti” e, poi, ministri della Bellezza. È un incrementare la vostra stessa vita, associarvi alla “bellezza” più autentica, che è l’opera di Redenzione dell’umanità.

Afferma a tale riguardo San Tommaso d’Aquino che la santificazione dell’uomo, avendo come scopo e termine il bene eterno della deificazione dell’uomo, «è un’opera più grande della creazione del cielo e della terra, la quale ha come termine un bene mutevole» [I,II q. 113, a.9]. La Liturgia, perciò, è l’Opus Dei per eminenza che dà il vero senso dell’eternità della persona.

Nello svolgere questo argomento, mi soffermerò, fondamentalmente, su tre punti: il concetto di bellezza, la novità che scaturisce dal Mistero dell’Incarnazione e le conseguenze che ne derivano per la costruzione dell’edificio sacro.

 

1. Il concetto di bellezza

In una concezione “laica” di bellezza, dalla quale siamo sempre, in qualche modo, contaminati, potrebbe sembrare quanto meno curioso il titolo dell’incontro odierno: “Ministri della Bellezza”. Come sarebbe possibile infatti concepire un arte “a servizio” della bellezza? Ad alcuni pensatori pare più razionale, piuttosto, pensare ad un arte che sia “artefice”, “creatrice” di bellezza o, come è avvenuto sempre più diffusamente nell’epoca contemporanea, lasciare che sia la scuola tecnica o addirittura la singola produzione artistica a definire che cosa è “bellezza”. In questi anni, infatti, è palese come quanto più il contenuto di una produzione umana risulta dipendente dall’estro dell’artista, dall’autoreferenzialità del suo pensiero, tanto più volentieri, a tale contenuto, si attribuisca il concetto di “bello”, anche qualora esso risulti, in se stesso, logicamente incomprensibile, irreale e, talvolta, esplicitamente negativo.

Questa idea “laica” appare, però, totalmente inadatta ad una concezione autenticamente umana di bellezza e sembra derivare dalla crescente disabitudine ed incapacità da parte dell’uomo di “ascoltare” la realtà ed il proprio cuore.

La bellezza, infatti, secondo la concezione di San Tommaso - una delle comprensioni più alte che l’animo umano abbia mai raggiunto di se stesso e della realtà tutta - costituisce uno dei cosiddetti “trascendentali”, cioè di quelle caratteristiche che sono proprie di ogni ente filosoficamente inteso, l’uno, il vero, il buono ed il bello, appunto, e che derivano dal fatto che il suo essere è “dato”, per partecipazione, da Colui che è lo Stesso Essere Sussistente, cioè da Dio. Secondo tale concezione, quindi, la bellezza di un ente risulta tanto più grande, quanto maggiore è la partecipazione di quell’ente all’Essere di Dio.

Questa è la bellezza: il venire da Dio ed a Lui condurre!

E l’uomo è, nell’universo, l’unico, eccetto gli esseri spirituali, che sia capace di riconoscere, in modo originario ed immediato, tale bellezza, e quindi l’unico a poter ringraziare, lodare e servire Colui al quale essa rimanda. E le realtà create rimandano il cuore dell’uomo al Creatore di tutte le cose, attraverso la gratuità, che la loro esistenza è, e, insieme, attraverso la loro bontà e verità, cioè attraverso il marchio che di Dio portano con sé e che fece scrivere a San Giovanni Apostolo: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3).

In questa concezione metafisica ed antropologica di bellezza, quindi, risulta “bello” ciò che “naturalmente” rimanda a Dio, cioè tutta la creazione, e, in modo eminente, l’uomo religioso, colui che, con la propria libertà, riconosce ed ama il suo Creatore. Sempre in questa concezione di bellezza, che mi sembra essere la più oggettiva ed universalmente sperimentabile, l’uomo che cerchi di rendere presente, col proprio lavoro, la bellezza contemplata, vi riuscirà nella misura in cui comprenderà, prima, e riprodurrà nella propria opera, poi, la stessa dinamica comunicativa della realtà creata.

Quanto detto circa la realtà della bellezza, oltre a mostrarne l’intimo legame con la verità e la bontà, ne salva anche l’assoluta oggettività: essa infatti non dipende più dall’arbitrio dell’uomo, secondo il pensiero idealista che considera i trascendentali come strutture dell’intelletto, ma dipende dallo stesso sguardo di Dio sulla Sua creazione: «e Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,25).

In secondo luogo, tale concezione salva anche la nostra soggettività, poiché le consente di uscire dal soffocante ripiegamento su se stessa e di svilupparsi nella libera adesione a ciò che realmente le corrisponde, e all’interno del quale soltanto essa può fiorire in modo prima inimmaginabile.

 

2. La novità del Mistero dell’Incarnazione

Ora, se quanto detto in estrema sintesi, corrisponde alla realtà “naturale” della bellezza, con l’Avvenimento Cristiano assistiamo al capovolgimento totale, paradossale, ma allo stesso tempo incredibilmente delicato ed armonioso, del concetto stesso di bellezza. Si tratta di quel Mistero che, nella Solennità odierna, la Chiesa ci invita a contemplare: «Angelus Domini nuntiavit Mariae, et concepit de Spiritu Sancto». La Beata Vergine Maria, offrendo il proprio incondizionato “sì” alla divina Volontà, concepì il Cielo nel suo grembo e, così, la Realtà vera ed eterna, alla quale tutta la creazione da sempre innalzava il proprio canto, in Maria, si è fatta presente alla maniera di tutte le realtà create; la Bellezza si è fatta carne: «Et Verbum caro factum est» (Gv 1,14).

Dio, l’Eterno Presente, si è fatto presente in un modo umanamente comprensibile, cioè materialmente osservabile e misurabile, ma, al contempo, in un modo che eccede ogni umana misura. Credo di poter dire che qualcosa di questo paradosso divino, sia riconducibile, da un punto di vista fenomenologico, ad un aspetto particolare del Mistero dell’Incarnazione: il Verbo di Dio, facendosi uomo, ha assunto, ha fatto “proprio” quanto c’è di più “divino” nell’universo, di più originario ed imprevedibile, cioè un’autentica libertà umana.

Nella libertà di un uomo, chiamato Gesù di Nazareth, duemila anni fa, ha cominciato ad essere presente ed operante l’Essere stesso di Dio, tanto che l’autore sacro ha potuto scrivere: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore» (1Gv 4,16) e, in un altro passo: «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il Suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la Vita per Lui» (1Gv 4,9). Nel dialogo d’amore con il Signore Gesù, con Colui che è, al contempo, il figlio del falegname ed «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3), gli uomini hanno cominciato ad essere attirati dentro lo stesso dialogo d’amore di Dio.

Tutta la naturale bellezza dell’universo – adesso lo sappiamo – canta il Santissimo Nome di Gesù di Nazareth, e ciò che vi è di più “bello”, ora, è la realizzazione, in Cristo, della perfetta umanità, cioè della perfetta Comunione della creatura con il suo Creatore. Se, infatti, nelle realtà create, tra le quali spicca eminentemente l’uomo, ci è dato di contemplare il “bello” – qualcosa che viene da Dio e che a Lui conduce –, nella culla di Betlemme è offerta ai nostri occhi la stessa Bontà, la Verità, la Bellezza che il nostro cuore oppresso, talvolta, immaginava di potersi procurare da sé, ma di cui restava in definitiva privo.

Quindi, innanzitutto, quella Bellezza trascendente, che è Dio stesso, ed alla quale prima non si poteva fare che un indiretto riferimento – ogni umana definizione, infatti, si sarebbe automaticamente configurata come atto idolatrico –, è divenuta toccabile, udibile, visibile, cioè umanamente esperibile, in un uomo, in un volto: il Logos, per mezzo del Quale tutte le cose sono state fatte, si è dato a noi in un punto del tempo e dello spazio perché potessimo riconoscerlo con gli occhi della carne, ascoltarne l’amorevole invito e, nella Sua sequela, ritrovare noi stessi, la nostra vera identità, cioè la perfetta Comunione con Dio.

In secondo luogo, tale perfetta Comunione è stata realizzata «a caro prezzo» (1Cor 6,20), giungendo al suo culmine nell’obbedienza di Cristo «fino alla morte, e alla morte di Croce» (cfr. Fil 2,8). Se, infatti, l’unzione sacerdotale del Verbo di Dio è stata l’Incarnazione, il perfetto compimento di tale consacrazione-unzione è costituito dal Sacrificio della Croce, che consuma e trasforma, col fuoco dello Spirito, la carne assunta da Cristo.

Quella disarmata Bellezza accolta dai pastori di Betlemme, raggiunge il culmine nella Passione di Cristo, nella Sua morte violenta, nell’obbrobrio della Croce! Quanto vi era di più riluttante per l’uomo, cioè la morte, è diventato con Cristo la vera Bellezza, proprio per quell’inscindibilità del bello dal vero e dal buono, i quali, nell’Amore oblativo di Cristo, sono perfettamente compiuti.

Questa somma ed eterna Bellezza, che si è rivelata a noi nel Mistero della Croce, e che ci raggiunge, per dono dello Spirito, nella Risurrezione di Cristo, può essere riconosciuta e accolta dagli uomini, adesso, nella Santissima Eucaristia. In essa, Cristo ha affidato Se stesso e, quindi, i tesori della Salvezza, agli Apostoli ed ai loro successori.

In essa, il Signore Risorto è come crocifisso al nostro presente e, così, ci attira dentro il Suo futuro.

Tale divina attrazione, poi, quasi naturalmente, ci conduce ai piedi del confessionale, per consegnare le nostre resistenze ed il nostro peccato e ricevere in cambio la rigenerazione del Perdono.

Prosegue così, nella storia, quel circolo virtuoso, quella “scala di Giacobbe”, nella quale tutta la nostra personale esistenza, ogni nostro atto ed ogni circostanza, vengono abbracciati e trasformati. È la dinamica del vivo rapporto con Cristo, che la sacra Scrittura, ed in particolare i santi Vangeli, contengono e trasmettono, e del quale i Santi sono limpidi testimoni.

 

3. Conseguenze per la costruzione dell’edificio sacro

Dopo quanto abbiamo detto sulla novità del Mistero dell’Incarnazione, si comprende bene quale sia il compito del Sacerdozio ministeriale, e come la vostra missione possa contribuirvi.

Compito dei Sacerdoti è rendere presente la Bellezza che salva e offrirla agli uomini, dopo essere stati intimamente conquistati da essa e sacramentalmente trasformati. Ciò avviene, in modo eminente, nell’Eucaristia e nella Confessione sacramentale, nelle quali gli uomini, da duemila anni, si recano “fisicamente” davanti al Signore e vivono di Lui.

Compito degli architetti e degli artisti, poi, sarà innanzitutto lasciarsi coinvolgere da questa Bellezza, che suscita e permette l’atto di fede, aprendo sempre più il cuore dell’uomo all’opera della grazia e “trasferendolo” davanti alla Luce invisibile del Sacramento.

Gli artisti, possono e devono innanzitutto “fruire” dell’Amore di Cristo, che li raggiunge tramite i Sacerdoti, sia divenendo realmente presente sull’altare, sia abbracciando l’umana miseria nel Sacramento della Riconciliazione.

In secondo luogo, a partire dalla vostra reale, ecclesiale, ed insieme, personalissima accoglienza del Suo Amore, potrete comunicare qualcosa di vero agli altri. Infatti, nessuno può condurre l’altro laddove egli già non sia, ad una meta che non conosce. Nella misura in cui vi lascerete coinvolgere dalla Bellezza del Salvatore, potrete condurre i nostri fratelli a riconoscerla.

Aiuterete così anche i Ministri ordinati in una duplice maniera: da un lato, accompagnando il loro annuncio, attraverso le rappresentazioni artistiche della realtà di Cristo e del Suo dialogo con gli uomini, così come i Vangeli scritti e quei Vangeli viventi che sono i Santi ci testimoniano; dall’altro, sostenendo i Sacerdoti nella comprensione della loro reale, nuova identità, così da poter essere accompagnati, anche dalla bellezza, in quel cammino di assimilazione dell’essere sacramentale ricevuto, che nella Celebrazione Eucaristica ha il proprio rinnovamento ed il proprio culmine.

Conseguentemente, proprio partendo dalla bellezza ontologicamente intesa e dalla nuova concezione di bellezza derivante dal mistero dell’evento storico di Cristo Signore, è necessario riconoscere come l’Incarnazione, la Croce e l’Eucaristia – presenza del Risorto tra noi e nel mondo – siano le tre “dimensioni” dello spazio sacro.

Questo non può essere a-storico, perché il cristianesimo è una fede rivelata e perciò storica; non può essere de-forme, perché il Verbo si è fatto carne in una “forma” determinata ed insuperabile: l’uomo; non può, soprattutto, essere uno spazio a-polide, disorientato e disorientante, poiché Cristo è il Sole di giustizia, la Via, la Verità e la Vita. Egli è l’orientamento, la stella polare verso cui l’intera esistenza cristiana guarda costantemente.

A Cristo anche ciascun sacerdote è chiamato a guardare, soprattutto nella celebrazione dei divini misteri: la forma dello spazio sacro, la luce, l’arte che in esso vive e che, nel contempo, gli dona vita, sostengono un tale orientamento interiore innanzitutto del celebrante.

Lo spazio fisico della chiesa, che è sempre un segno inequivocabile della presenza del mistero nel mondo, acquista in modo più pieno e compiuto il proprio reale significato nella celebrazione liturgica.

È differente lo stare in una chiesa anche molto bella, ma “muta” ed il vivere in pienezza la liturgia che in essa si celebra. Nella liturgia e della liturgia la chiesa vive, anche come edificio! Le pietre, le forme, le statue, gli affreschi, i dipinti, le vetrate, la musica, il canto, i gesti, tutto vive e riverbera nella sacra liturgia.


Lo spazio sacro viene, così, trasfigurato dal rito e, in particolare, da quel vertice sacramentale che è l’Eucaristia! Lo spazio è trasfigurato nella “Gerusalemme celeste”, che è realmente presente nel Sacramento e ci accoglie al proprio interno. Esso è chiamato a significare, così, la “precipitazione” del Cielo sulla terra, nella quale il Mistero percorre per noi quella distanza prima incolmabile.

D’altro lato il percorso di conversione e salvezza che l’uomo è chiamato a compiere nell’incontro con Cristo, dilata lo spazio sacro fino a quello specialissimo ed intangibile “spazio” che è la libertà umana. Nessun architetto o artista dovrebbe mai dimenticare come il vero “spazio sacro”, sul versante dell’uomo, sia quello della libertà e che mai, in alcun caso, la realizzazione di uno spazio e di un opera d’arte dovrebbe avere come conseguenza, anche solo percepita, la costrizione, l’oppressione della persona.

Lo spazio sacro è anche lo spazio antropologico ed entrambi sono inseriti e donano significato allo spazio cosmico. Questo, anche se oggi è così lontano dalla comune esperienza degli uomini, è, e rimane, essenziale, anzi determinante, per l’incontro con la bellezza seconda e con il Suo Creatore: la Bellezza prima.

 

Conclusione

Essere “ministri della Bellezza” significa, allora, essere servi della bellezza; servi della bellezza in se stessa e, soprattutto, dell’incontro degli uomini con la bellezza.

Mentre i sacerdoti, ministri per grazia ontologicamente conferita ed essenzialmente differente, vivono e mostrano primordialmente la Bellezza Divina attraverso l’annuncio della Buona novella e la celebrazione dei sacramenti, tutti siete chiamati, in forza del battesimo e - è doveroso ricordarlo - anche della comune ragione umana, a servire la bellezza come reale possibilità di salvezza, come antidoto alla dispersione, al disorientamento, allo smarrimento dell’io e del significato dell’esistenza.

Allora non sarete appena Architetti ed artisti, ma sarete “collaboratori della gioia” degli uomini, perché ministri, servi della bellezza! Ci assista la Vergine Annunziata, la Vergine del sì che, proprio per questo sì, è Causa nostrae Letitiae!




Caterina63
00giovedì 9 agosto 2012 18:15

Arte sacra oggi: è veramente arte ed è davvero sacra?

[SM=g1740746] (cosa è ? )
Dal Blog di Raffaella che ringraziamo. Tratto dal sito della Diocesi di Porto-Santa Rufina





"Per essere missionaria, la Chiesa deve reincarnare nell'arte il mistero di Cristo in modo chiaro ed esporlo coraggiosamente a un mondo cha ha apostatato" [SM=g1740721]


di Steen Heidemann

 

Nato in Danimarca negli anni 1950, cresciuto nella società degli anni '60, tutti i clichè dell'ateismo progressista da cui ero circondato, mi condussero a un'esperienza di completo vuoto spirituale. Vuoto che fu colmato solo quando mi convertii alla fede cattolica molti anni dopo nella cattedrale di Westminster a Londra. Lavorando nel campo dell'arte ed essendo stato a lungo impegnato in una grande esposizione riguardante i gesuiti e il barocco, giunsi a comprendere l'importanza dell'immagine sacra per la proclamazione della fede, così vitale oggi, soprattutto per l'assenza di ricerca intellettuale e di letture tra i giovani. Dal secolo XVII al nostro periodo storico, ci troviamo di fronte alla cosiddetta arte cattolica che il più delle volte manifesta quello che Cristo non è, piuttosto che quello che egli è. E' una forma d'arte (se si può chiamare "arte") in cui spesso il tragico, l'assurdo e il rigetto del vero Cristo divengono una nuova e perversa trinità. E' divenuta una pseudo-religione a sé stante, nella quale l'"artista" ateo e umanitario è stato elevato al ruolo di sacerdote dogmatico.


Come risposta alla crisi recente di vocazioni, ho iniziato, con il sostegno di vari sacerdoti, a sfruttare le mie conoscenze artistiche per scrivere un libro che sarà pubblicato in diverse lingue, dal titolo "Il sacerdote cattolico: Immagine di Cristo visto attraverso venti secoli di arte". Percorrendo 550 opere d'arte di tutti i periodi, a cominciare dai tempi delle catacombe, il libro intende spiegare il sacerdozio mediante l'immagine visiva, con la speranza di contribuire ad attrarre vocazioni per questo determinante e bellissimo ministero. Inutile dire che ben presto è emerso il dilemma su quali opere d'arte dovessero rappresentare i nostri tempi.


Per capire perché la maggior parte di arte cattolica negli ultimi 50 anni è stata un fallimento monumentale, occorre capire non solo come si è evoluta la società, ma anche come tale cambiamento si è riflesso in quella che è chiamata "arte contemporanea". Due libri recenti trattano di questo tema: quello di Christine Sourgins "Les mirages de l'Art Contemporain" (La Table Ronde, Parigi 2005) e quello di Aude de Kerros "L'Art caché" (Eyrolles, Parigi 2007). Quest'ultimo offre una buona descrizione di come l'arte contemporanea è nata e si è sviluppata: "Il movimento dominante di oggi è l'arte concettuale, che si autonomina 'contemporanea'. Non è una forma d'arte nel senso tradizionale del termine, ma un'ideologia precisa basata sulla dichiarazione dello stesso artista 'questa è arte', il tutto confermato e approvato dall'establishment. E' stata battezzata 'arte contemporanea' in modo arbitrario e non pretende di avere un carattere essenziale o veritiero. Tuttavia, ha una diversità infinita che esclude un elemento specifico: l'arte. L'arte contemporanea è fortemente fondata su diversi elementi chiave: l'uso delle mani per modulare e trasformare i materiali con esito metamorfico positivo; l'articolazione della forma e del significato in unità organica; la bellezza e la sua misteriosa manifestazione: "l'aura", la gloria della sensibilità. Molti credono ancora di essere nel tempo delle 'avanguardie' dell'arte moderna e non hanno percepito la realtà della situazione".




In Francia, ma in vari gradi anche altrove, l'arte contemporanea è divenuta l'unica ed ufficiale forma di espressione accettabile sia in ambito laico che in quello cattolico. E' un'"arte" che fa parte di un meccanismo commerciale in cui le opinioni politicamente corrette dei burocrati statali scarsamente informati determinano le destinazioni dei fondi per l'acquisto di opere d'arte valutate da intellettuali e critici d'arte alla moda, da investitori 'nuovi ricchi' ignoranti e da gallerie d'arte, prevalentemente anglosassone, mondialiste e che seguono sempre la corrente. E' un sistema totalitario nel quale l'arte è divenuta un'ulteriore merce finanziaria con cui si può speculare. E' nato così il concetto di arte che non serve ad altro che a se stessa. Non vi è alcuna trasmissione di conoscenze, alcun riconoscimento del passato, e non vi è certamente nulla da imparare per uno studente di arte, dato il rischio percepito che l'apprendimento potrebbe "snaturare" il suo talento spontaneo. L'arte contemporanea si rivela essere un vuoto culturale, ma chiunque ne osi parlare - come la bambina della favola sul vestito nuovo dell'imperatore e che scoprì che l'imperatore era nudo - sarà o ignorato o considerato come un ignorante. E' un business di denaro che ha poco a che fare con l'arte e proprio niente a che fare con la trasmissione del messaggio di Cristo.


L'arte contemporanea non offre alcun riferimento alla bellezza, alla verità o alla bontà, per cui non ha alcuna idea di un'estetica morale. Non può avere posto nella Chiesa, non tanto per ragioni estetiche, ma perché è stata concepita con l'intento di non servire ad altro che all'ego caduto. Infatti, proprio come gli angeli corrotti, il motto dell'arte contemporanea potrebbe benissimo essere "non serviam". Questa tensione era già visibile nel XIX secolo, quando alcuni degli artisti più validi, soprattutto in Francia, decisero di non dedicare il proprio talento all'arte sacra. Il secolare ha preso il controllo e da allora non l'ha più lasciato. L'impressionismo ha dato il via non solo a uno stile di pittura, ma anche ad una filosofia di vita.


Perfino nella Chiesa, in un tempo in cui essa ha un particolare bisogno di artisti che traducano chiaramente il messaggio di Cristo, si avverte una marcata assenza di una filosofia e di una teologia dell'arte. Senza che i più se ne accorgessero, duemila anni di arte cristiana sono stati silenziosamente, ma fermamente, messi da parte. E' un'apostasia silente che Christine Sourgins descrive in termini di pseudo-religione: "L'artista dell'arte contemporanea non solo è sacerdote e profeta, ma è anche re. Il suo regno però è regno delle passioni, eredità lontana ma diretta dell'Illuminismo. Per l'arte contemporanea le passioni sono lo spirituale. La trasgressione che ci permette di superare le percezioni ordinarie della materia, per l'arte contemporanea è vera trascendenza. In conclusione, siamo di fronte a un religioso capovolto che pensa ancora da religioso". Per la maggior parte dell'arte contemporanea non vi è alcuna risurrezione e il Redentore non si trova da nessuna parte. L'arte contemporanea è una castrazione mentale o forse, citando George Orwell in 1984, "la condizione mentale prevalente deve essere quella di pazzia controllata". E ciò che compie alla fine l'arte contemporanea è un attacco alla fede cristiana, fondamento della nostra società e cultura.


Sono stati i principi anti-estetici attuali e la nuova ortodossia di iconoclastia provocatoria dei circoli artistici a portare nei musei e nelle gallerie alla moda tali opere blasfeme contro il messaggio di Cristo di verità e bellezza, quali il crocifisso in una vasca di urina di Andres Serrano e le opere di scherno alla Messa cattolica dell'austriaco Hermann Nitsch (per fare solo qualche esempio), creando così un'atmosfera in cui l'assenza di forma e l'espressione di distorsione mentale e spirituale hanno guadagnato rispettabilità. E' come se la bellezza e la verità fossero state rimpiazzate dalla bruttezza e dalla perversione quali mezzi per dipingere il sacro! L'arte contemporanea vuole essere "contestuale", poiché è il contesto che spesso incorona l'"opera d'arte", e la sua trasgressione rivoluzionaria diviene sacra e significativa. Una toilette in mostra in una galleria londinese alla moda, diventa immediatamente un'opera d'arte, mentre quando la si vede in un comune luogo pubblico rimane quella che è. I cosiddetti artisti "reali" nel mondo dell'arte contemporanea possono anche esprimersi spiritualmente, ma soltanto se hanno un atteggiamento di contestazione verso la religione, specialmente quella cristiana. Ragion per cui l'ambiguità e/o l'ironia sono elementi molto apprezzati. Le icone New Age di Alex Grey costituiscono una risposta "ideale". Le martellate inferte alla Pietà di Michelangelo (alcuni anni fa) offrono forse l'emblema di un mondo chino a distruggere il vero, il buono, il bello e a soppiantare Cristo con un'agenda immersa nella cultura della morte spirituale. E' interessante notare che "L'Ultima Cena" e la "Crocifissione" di Salvador Dalì sono gli unici dipinti del XX secolo di un soggetto religioso che ha conquistato fama universale. Si vedono ancora nei negozi di poster un po' in tutto il mondo. Nessun altro dipinto di natura cristiana creato dall'arte contemporanea si è mai avvicinato a queste due opere di Dalì.


Un bravo artista cristiano, soprattutto uno che si esprima figurativamente, per i media è un artista morto, oggetto al massimo di pietà e da collocare in un museo come puro folklore. Due anni prima di morire, Andy Warhol creò un'opera dal titolo "Pentiti e non peccare più!". Il problema è da quale parte dobbiamo volgerci per esprimere artisticamente il messaggio di Cristo, in modo che il normale fedele possa comprendere. Ci sono artisti che hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto creando opere d'arte in cui il messaggio di Cristo è chiaramente rappresentato in modo attraente, senza bisogno di aggiungere un "supplemento scritto" di dieci pagine per spiegarle! Queste opere sono chiamate da Aude de Kerros "l'arte nascosta". I media semplicemente le ignorano come se non esistessero, o meglio, come se fossero meri "decoratori" e non certo "artisti". Sempre Aude de Kerros riferisce che vi sono indicazioni secondo cui in America l'arte contemporanea è largamente accettata per quello che è, una sorta di merce, e ciò che ancora si definisce vera arte mantiene il suo status. Comunque, ella conclude, si dovrà attendere perché si faccia una distinzione semantica che separi l'arte contemporanea dalla vera arte. Si potrà allora cominciare a valutare l'arte non-concettuale e ogni singolo artista. Ciò è importante in generale, ma è ancor più vitale per la Chiesa che si pongano chiari confini.


Se si raggiungerà questa pietra miliare, che significato avrà per l'arte cristiana? La prima riflessione sarebbe quella di rendersi conto che non è possibile produrre arte nello stesso modo in cui si ordina un'automobile o un prodotto di arte contemporanea. L'arte è una sorta di dono che non si ottiene col materialismo. Esige il dono della fede. Dovunque si presenti, il messaggio di Cristo, quale espresso nell'arte, trova sempre la sua espressione appropriata. Va oltre lo scopo di questo articolo entrare in una discussione profonda e dettagliata sull'arte cristiana, non mi esento tuttavia dal proporre alcuni suggerimenti. Il primo, ben articolato da Rodolfo Papa, artista ed insegnante alla Accademia Pontificia per le Arti a Roma: "La Chiesa non ha un suo stile proprio di arte, poiché non è importante come dire qualcosa, ma è importante che cosa vuoi dire o comunicare; è facile poi sapere che cosa fare: 'Rem tene, verba sequuntur', cioè abbi chiaro il soggetto, le parole seguiranno. Io credo che solo l'arte figurativa sia in grado di parlare dei misteri cristiani. L'arte cattolica si è espressa in molti stili diversi nel passato, ma tutti sono stati figurativi".


C'è chi obietta che si può usare vantaggiosamente l'astratto per dipingere aspetti della verità che non siano specificamente narrativi. In effetti, il non-figurativo può sottolineare il mistero dell'infinito e della mistica con un'intensità non raggiunta da alcuna altra forma. Il pericolo però è che, se totalmente astratta, l'opera d'arte può perdere rapidamente il suo senso trinitario e divenire ben presto un'immagine simile sia ai concetti del New Age che alle realtà cristiane. Pittori come Giovanni Battista Gaulli (il 'Baciccio') in passato hanno risolto con successo il problema, combinando la cascata di luce con il simbolismo figurativo cristiano. Vi sono altri esempi recenti, come le opere di Philippe Lejeune e Agnès Hémery. Si può avere una preferenza per le sobrie espressioni monastiche del Medio Evo, per l'esuberante barocco, o per alcune delle opere più sentimentali del XIX secolo, ma un cattolico accoglie tutte queste forme di espressione come parte della medesima unità incentrata su Cristo. Il problema nasce quando si osservano opere recenti di arte contemporanea nelle quali lo spirito soggiacente è stato distrutto.


Christine Sourgins scrive che "il visibile diventa degno di Dio per la ragione che Dio si è reso visibile; questa è la base dall'arte cristiana". Secondo Sourgins, il pittore figurativo deve avere fede e conoscenza della verità per eseguire la propria arte. Ad una delle più grandi esposizioni tenuta in anni recenti, dedicata principalmente a temi cristiani (National Gallery di Victoria, Australia, 1998), vi era un'opera che ritraeva in una donna il Cristo crocifisso. Sourgins commenta che non sono immagini blasfeme come questa che orientano i fedeli verso la preghiera, la pietà o a un autentico senso di cristianesimo in linea con l'insegnamento della Chiesa. Molti artisti eccellenti del passato sono stati grandi peccatori, ma la loro fede ha permesso che le proprie opere fossero ricolme della divinità trinitaria. Un artista non ha bisogno della perfezione della santità per essere un bravo artista cristiano, ma la fede produce realmente una trasformazione. Lungo tutto il XIX secolo il cristianesimo rappresentava ancora il fondamento sociale e, malgrado i suoi difetti, animava la società in generale ed esercitava un influsso su molti artisti alle prese con temi sacri. Benché spesso non fossero capolavori in senso spirituale, alcuni dipinti possedevano una certa "aura" cristiana.


Oggi, questo non è più il caso. Il meglio che si possa sperare per la maggior parte degli artisti del XX secolo è un genere di misticismo cosmico. Molti intellettuali hanno dimenticato che l'artista cristiano può essere lo strumento della grazia divina. Al Beato Angelico si attribuisce l'affermazione che "per dipingere Cristo, occorre vivere Cristo", o come scrive l'artista americano James Langley: "L'ultimo punto di riferimento per l'artista cristiano non è né la cultura contemporanea né se stesso, ma la scoperta della bellezza nell'incontro con Cristo. L'approccio cattolico all'esecuzione dell'arte religiosa, che procede dall'esperienza del glorioso Uomo-Dio nella divina liturgia, è fondato sull'esperienza comune di una tradizione ricevuta alla quale si aggiunge umilmente il proprio contributo. Accogliere la tradizione comporta lo studio ammirato di come gli altri artisti hanno visto l'immagine di Dio. Quegli artisti che hanno come criterio supremo originalità e auto-espressione partono con una interpretazione disturbata di ciò che è la libertà dei figli di Dio. Come tali, rischiano di produrre arte, come si è visto negli ultimi decenni, che stravolge l'esperienza cristiana e dalla quale è completamente aliena".


Si può certo obiettare che fede e speranza possono trovare espressione anche nell'arte contemporanea, e che ora viviamo in tempi in cui l'approccio cristiano diretto non è più attuale e che il messaggio cristiano si può percepire solo nell'assurdità e nella disperazione dell'arte contemporanea. E tuttavia, pur essendo assai impegnativo essere cristiani oggi, duemila anni di fede cristiana hanno conosciuto molti altri periodi di persecuzioni dirette o indirette; non si deve perdere coraggio per testimoniare e contare. L'arte contemporanea è l'emblema della controcultura anti-cristiana, nella quale si può contemplare il Cristo crocifisso ma non la sua risurrezione. Gesù ha detto: "Chi non è con me, è contro di me" (Lc. 11, 23). Un compromesso tra il cristianesimo e l'arte contemporanea condurrà inevitabilmente a dipinti come quello dell'esposizione australiana menzionato sopra, in cui l'immagine della Trinità è oscurata dall'assurdo, dal tragico e dal nichilismo.


Si può allora continuare a guardare all'arte contemporanea come a un luogo possibile per forme artistiche che siano al servizio del messaggio di Cristo? Ha scritto Anthony Visco: "Prendereste voi degli adoratori del diavolo come consulenti liturgici per i riti e i rituali della Chiesa? Vi rivolgereste a degli atei per chiedere consigli sulla preghiera negli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio? Perché allora guardare all'arte contemporanea che si è decisamente messa a non servire la Chiesa e chiedersi come si può inserire?". Alcuni cattolici si ritengono "coraggiosi" quando iniziano un dialogo con l'arte contemporanea, ma per quanto ben intenzionati essi siano, i loro sforzi non potranno mai portare vero frutto, essendo le radici dell'albero marce nella loro essenza. Affermano inoltre che l'arte contemporanea incoraggerà una nuova ricerca spirituale e perciò una più profonda comprensione della fede. Secondo loro, occorre essere avventurosi e tentare di comprendere il nuovo e il non convenzionale. Gli intellettuali potranno avere buoni argomenti per questo, ma avranno un senso per il fedele ordinario? Alcuni cattolici insisteranno dicendo che molti artisti come Giotto erano rivoluzionari al loro tempo, e perché dunque non dovrebbe l'arte contemporanea essere accettata nella Chiesa? Per tutte le ragioni esposte in questo articolo, è questo un punto che non richiede risposta.


La Chiesa cattolica e universale desidera ardentemente un rinascimento, da non confondersi con un semplice rinnovamento. Alcuni obiettano che contestare l'arte contemporanea e desiderare un'alternativa porterebbe a un genere trionfale di propaganda neofascista. Ma questa è una posizione facile e comoda che non si confronta con la realtà del messaggio di Cristo di andare a convertire il mondo. La Chiesa ha affrontato varie difficoltà nella storia, e troverà una via nuova nella quale l'arte cristiana servirà ancora la parola di Gesù in una maniera pedagogica, intelligibile ed efficace: manifestazione di speranza e di promessa, come descrive la recente enciclica di Papa Benedetto XVI "Spe salvi". Si dovrà distinguere tra arte religiosa, sacra e liturgica, ma nell'insieme non si dovrà temere di riconoscere quelle forme artistiche che meglio esprimono i vari messaggi di Cristo e le esigenze devozionali dei fedeli nelle diverse culture e luoghi del mondo. Un'opera d'arte in Spagna non corrisponderà ai criteri di una persona in Armenia, ma lo spirito che vi soggiace è il medesimo. Il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, in una lettera del 25 novembre 2008 all'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e delle Commissioni Pontificie per l'Eredità Culturale della Chiesa e per la Sacra Archeologia, ha espresso il bisogno di rilanciare un dialogo fra l'estetica e l'etica, fra la bellezza, la verità e la bontà. In effetti, un padiglione vaticano è stato programmato per la Biennale di Venezia 2011, uno dei più importanti festivals di arte contemporanea.


Al cuore vi è l'esigenza di ritornare all'Eucaristia come fonte di espressione artistica. Scrive Anthony Visco: "La realtà dell'Eucaristia deve essere riaffermata nel mondo di oggi. Con Cristo, l'Eucaristia è sempre 'uno scandalo, qualcosa da superare'. Senza di essa, ogni arte diventa mera decorazione oppure un ornamento dell'ego". Per essere missionaria, la Chiesa deve reincarnare nell'arte il mistero di Cristo in modo chiaro ed esporlo coraggiosamente a un mondo cha ha apostatato. L'arte sacra non procura la salvezza né contiene la realtà del sacerdozio o della Messa, può però mostrare la via. Essa rende servizio alla fede, alla comprensione di Dio, che ha parlato all'uomo attraverso la Sacra Scrittura. La differenza semantica tra "rinascimento" e "rinnovamento" deve essere urgentemente affrontata.


Stiamo iniziando a vedere un rinascimento, dal momento in cui alcuni Vescovi hanno afferrato la posta in gioco e hanno avuto il coraggio di commissionare architetti e artisti degni di questo nome. Un ulteriore incoraggiamento si può raccogliere dal fatto che nel 2011 la famosa vendita autunnale a New York di arte contemporanea è stato un fallimento finanziario; il che potrebbe convincere i collezionisti a riesaminare cosa sia la vera arte e distogliere dal centro dell'attenzione questa città americana, in cui negli ultimi decenni gli unici criteri sono stati il denaro e le ideologie di moda. Nel mio libro ho illustrato l'opera di alcuni promettenti nuovi artisti per dimostrare che la vera arte sta sorgendo di nuovo dalle ceneri. Ha avuto inizio un'autentica ricerca.


The Institute for Sacred Architecture, vol. 15 - spring 2009
http://www.sacredarchitecture.org/articles/sacred_art_of_today_is_it_art_and_is_it_sacred/

trad. italiana a cura di d. G. Rizzieri

(08/08/2012)

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