ATTENZIONE: Chiusura dell'Anno Sacerdotale, uniamoci al santo Padre e ai Sacerdoti

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Caterina63
00mercoledì 9 giugno 2010 10:40

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE



CONCLUSIONE DELL’ANNO SACERDOTALE
(10 - 11 giugno 2010)

 

Giovedì 10 giugno ore 20.30. Veglia di preghiera. 

La Veglia di preghiera si svolgerà in due tempi. Il primo, dalle ore 20.30 alle ore 21.30 è gestito dalla Congregazione per il Clero. Il secondo, dalle ore 21.30 alle ore 22.30 circa, sarà presieduto dal Santo Padre.


Il secondo tempo della Veglia prevede in successione:

-Arrivo del Santo Padre in papamobile al canto del “Tu es Petrus”
-Saluto da parte del Card. Hummes, Prefetto della Congregazione per il Clero
-Saluto liturgico del Santo Padre con successiva orazione
-Lettura di una pagina evangelica
-Domande da parte di 5 sacerdoti alternate alle risposte date dal Santo Padre
-Canto del Pater noster
-Processione con il SS. Sacramento con accesso alla piazza dal portone di bronzo

            il baldacchino processionale sarà portato da 8 uomini dell’Assoc. SS. Pietro e Paolo
            12 studenti universitari porteranno le torce
            precederanno il baldacchino due Guardie Svizzere

-Esposizione del SS. Sacramento
-Momento di adorazione silenziosa
-Preghiera dell’Anno sacerdotale recitata dal Santo Padre
-“Tantum ergo” e, a seguire, la benedizione eucaristica come di consueto
-Canto conclusivo della Salve Regina
-Uscita del Santo Padre attraverso la porta centrale della Basilica Vaticana

Il servizio liturgico sarà assicurato dal Pontificio Collegio Scozzese

Venerdì 11 giugno ore 10. Celebrazione Eucaristica.

Si tratta delle Celebrazione Eucaristica con il maggior numero di concelebranti mai avvenuta a Roma. Se ne prevedono circa 15.000.

Considerando che è prevista una partecipazione significativa anche da parte dei fedeli, si è disposto che circa 400, tra diaconi e sacerdoti, provvedano alla distribuzione della Santa Comunione.

La preparazione alla celebrazione prevede un tempo di canti e di brani musicali (dalle ore 9.10 alle ore 9.40), al fine di disporre tutti i presenti a un clima di raccoglimento e di preghiera. Prima dell’inizio della celebrazione, in varie lingue saranno date alcune indicazioni per aiutare tutti a una partecipazione il più possibile dignitosa e attenta.

Il Santo Padre entrerà in piazza con la papamobile unendosi alla processione dei Cardinali concelebranti e uscirà dalla piazza, al termine della Messa, in papamobile.

Svolgeranno il servizio liturgico i seminaristi dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, considerando il loro specifico carisma vocazionale. 

Il rito prevede alcune particolarità, a motivo della straordinarietà della circostanza:

-Il rito dell’aspersione con l’acqua benedetta come atto penitenziale. 4 Cardinali concelebranti si uniranno al Santo Padre per aspergere l’assemblea. Si è pensato a questo rito considerando la solennità del Sacro Cuore e il riferimento al sangue e all’acqua sgorgati dal Cuore del Signore a salvezza del mondo e anche per riprendere il tema della purificazione, sul quale in diverse circostanze il Santo Padre è ritornato ultimamente.

-Dopo l’omelia i sacerdoti rinnoveranno le promesse sacerdotali come nel giorno del Giovedì Santo alla Messa crismale.

-Al termine della celebrazione, prima della benedizione conclusiva, il Santo Padre rinnoverà l’atto di affidamento e di consacrazione dei sacerdoti alla SS. Vergine, secondo la formula usata in occasione del recente pellegrinaggio a Fatima. Tale atto avverrà davanti all’immagine originale della Madonna “Salus populi romani”, a motivo del significato particolare che tale immagine ha in Roma.

-Un grande arazzo con l’immagine del Santo Curato d’Ars sarà collocato alla loggia centrale della Basilica. San Giovanni Maria Vianney è stato al centro dell’Anno sacerdotale e in questa occasione sarà proclamato dal Santo Padre patrono di tutti i sacerdoti.

-Il Santo Padre userà per la celebrazione il calice appartenuto a San Giovanni Maria Vianney e ad oggi conservato nella parrocchia di Ars.

                                                                        calice curato d'ars



Altro materiale:

Si chiude l'Anno Sacerdotale ma attenzione resta il Sacerdozio, il Sacerdote, la sua vocazione e missione

ANNO SACERDOTALE 2009-2010



Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 09:32
Con una Messa solenne che verrà celebrata da Benedetto XVI, stamani alle ore 10 sul sagrato della Basilica Vaticana, si chiude l’Anno Sacerdotale, iniziato il 19 giugno dell’anno scorso. Ieri sera, il Papa ha partecipato ad una Veglia in Piazza San Pietro con 15 mila sacerdoti. Rispondendo a braccio alle domande di 5 presbiteri, uno per continente, il Papa ha messo l’accento sulla missione dei sacerdoti chiamati a testimoniare l’amore di Cristo senza sottomettersi alle mode del momento. Quindi, ha ribadito l’importanza del celibato. Il servizio di Alessandro Gisotti 
 

Non ridurre il sacerdozio ad una professione, ma vivere con gioia l’amore per il Signore in una società sempre più complessa: è l'esortazione di Benedetto XVI ai sacerdoti di tutto il mondo, a conclusione dell’Anno Sacerdotale. Nella Veglia in Piazza San Pietro, il Papa ha ribadito quanto sia importante che i fedeli possano vedere che il proprio parroco è innamorato di Cristo, un uomo pieno del Vangelo proprio come lo era il Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney. Quindi si è soffermato sulle critiche mondane al celibato sacerdotale. “Un grande problema del mondo di oggi – ha osservato - è che non si pensa più al futuro di Dio, sembra sufficiente solo il presente". Per questo, ha soggiunto, il “celibato come anticipazione del futuro”, segno della presenza di Dio, è percepito come uno scandalo:

 

“Sappiamo che accanto a questo scandalo che il mondo non vuole vedere ci sono anche gli scandali dei nostri peccati, che oscurano il vero grande scandalo. Ma c'è tanta fedeltà, il celibato è un grande segno della fede". 

Il Papa ha così sottolineato che la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia aiuta i sacerdoti ad evitare i rischi del clericalismo, il chiudersi in se stessi. Ed ha messo in guardia da una teologia frutto dell’arroganza della ragione che oscura la fede e dimentica la realtà vitale. La vera ragione, ha soggiunto, non esclude Dio. Di qui l’invito ad avere fiducia nel magistero dei vescovi in comunione con il Successore di Pietro. Di fronte al calo delle vocazioni, ha poi avvertito, potremmo essere tentati di prendere la via più facile: trasformare il sacerdozio in un lavoro come gli altri. La via giusta, ha detto, è invece quella della preghiera: chiedere a Dio il dono delle vocazioni per una rinnovata evangelizzazione.

le immagini
 



 

A priest reads the Bible as he waits the arrival of Pope Benedict XVI during priests prayer vigil in St.Peters' square at the Vatican on June 10, 2010 during the final day of the Vatican's Year for Priests.


Priests wait for Pope Benedict XVI to arrive to attend a prayer vigil marking the end of the Year for Priests in St. Peter's Square at the Vatican June 10, 2010.

Priests wait for Pope Benedict XVI to arrive to attend a prayer vigil marking the end of the Year for Priests in St. Peter's Square at the Vatican June 10, 2010.

Priests pauses as they take part in a priest prayer vigil led by Pope Benedict XVI on St Peter's square at the Vatican on June 10, 2010 as part of the final day of the Vatican's Year for Priests.

Priests wait for Pope Benedict XVI to arrive to attend a prayer vigil marking the end of the Year for Priests in St. Peter's Square at the Vatican June 10, 2010.












































 
























Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 12:12

[SM=g1740717] RITI DI CONCLUSIONE
Consacrazione e Affidamento al Cuore Immacolato
della Beata Vergine Maria
II Santo Padre:

Madre Immacolata,
in questo luogo di grazia,
convocati dall’amore del Figlio tuo Gesù,
sommo ed eterno Sacerdote,
noi, figli nel Figlio, sacerdoti suoi,
ci consacriamo al tuo Cuore materno,
per compiere con fedeltà la volontà del Padre.
Siamo consapevoli che senza Gesù
non possiamo fare nulla di buono (cfr. Gv 15, 5)
e che solo per lui, con lui ed in lui,
saremo per il mondo strumenti di salvezza.
Sposa dello Spirito Santo,
ottienici l’inestimabile dono della trasformazione in Cristo.
Per la stessa potenza dello Spirito
che, adombrandoti, ti rese Madre del Salvatore,
aiutaci perché Cristo tuo Figlio nasca anche in noi.

Possa così la Chiesa essere rinnovata da santi sacerdoti,
trasfigurati dalla grazia di colui che fa nuove tutte le cose.
Madre di Misericordia,
è il tuo Figlio Gesù che ci ha chiamati a diventare come lui:
luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5, 13-14).
Aiutaci con la tua potente intercessione
a non venir mai meno a questa sublime vocazione,
a non cedere ai nostri egoismi,
alle lusinghe del mondo ed alle suggestioni del Maligno.

Proteggici con la tua purezza,
custodiscici con la tua umiltà
e avvolgici col tuo amore materno,
che si rispecchia in tante anime a te consacrate
diventate per noi autentiche madri spirituali.
Madre della Chiesa,
noi sacerdoti vogliamo essere pastori
che non pascolano se stessi,
ma si donano a Dio per i fratelli,
trovando in questo la loro felicità.
Non solo a parole, ma con la vita,
vogliamo ripetere umilmente,
giorno per giorno, il nostro «eccomi ».
Guidati da te vogliamo essere Apostoli della Divina Misericordia,
lieti di celebrare ogni giorno il Santo Sacrificio dell'Altare
e di donare a quanti ce lo chiedono
il Sacramento della Riconciliazione.

Avvocata e Mediatrice di grazia,
tu che sei tutta immersa
nell’unica mediazione universale di Cristo,
invoca da Dio per noi un cuore completamente rinnovato,
che ami Dio con tutte le proprie forze
e serva l’umanità come hai fatto tu.

Ripeti al Signore, l’efficace tua parola,
«non hanno più vino » (Gv 2, 3),
affinché il Padre e il Figlio riversino su di noi
come una nuova effusione dello Spirito Santo.

Pieno di stupore e di gratitudine
per la tua continua presenza in mezzo a noi,
a nome di tutti i sacerdoti,
anch’io voglio esclamare:
«a che cosa devo
che la Madre del mio Signore venga a me!» (Lc 1, 43).

Madre nostra da sempre,
non ti stancare di « visitarci », di consolarci, di sostenerci.
Vieni in nostro soccorso
e liberaci da ogni pericolo che incombe su di noi.
Con questo atto di affidamento e di consacrazione,
vogliamo accoglierti in modo più profondo e radicale,
per sempre e totalmente,
nella nostra esistenza umana e sacerdotale.

La tua presenza faccia rifiorire il deserto delle nostre solitudini
e brillare il sole sulle nostre oscurità,
faccia tornare il sereno dopo la tempesta,
affinché ogni uomo veda la salvezza del Signore,
che ha il nome e il volto di Gesù,
riflesso nei nostri cuori, per sempre uniti al tuo!

Così sia!





[SM=g1740734] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]
Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 12:44
CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA A CONCLUSIONE DELL’ANNO SACERDOTALE, 11.06.2010

Alle ore 10 di questa mattina, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il Santo Padre Benedetto XVI presiede in Piazza San Pietro la Concelebrazione Eucaristica con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri a conclusione dell’Anno Sacerdotale.


Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Santa Messa:

                                   Pope Benedict XVI celebrates a mass in Saint Peter's Square at the Vatican on June 11, 2010 with some 15,000 priests marking the end of the Roman Catholic Church's Year for Priests. Pope Benedict XVI  begged for forgiveness for the paedophile priest scandals rocking the Roman Catholic in his clearest apology yet for the scourge. The pontiff has however repeatedly rejected any reconsideration of the centuries-old rule of celibacy for Catholic priests.

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari confratelli nel ministero sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle
,

l’Anno Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d’Ars, modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d’Ars ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui.

Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest’anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro «sì». Insieme alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui Dio li ritiene capaci.

Era da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo.

E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita.

Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde "in vasi di creta" e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore.

Così consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo, il dono diventa l’impegno di rispondere al coraggio e all’umiltà di Dio con il nostro coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d’ingresso nella liturgia odierna, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere sacerdote: "Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29).

Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – "Il Signore è il mio pastore" –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita.

"Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla": in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa dell’uomo. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: "Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura" (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro.

Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me" (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me". "Conoscere", nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. "Conoscere" significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di "conoscere" gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia con Dio.

Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: "Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza" (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: "Sì, vivere è stata una cosa buona". Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta.

C’è poi la parola concernente la "valle oscura" attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. "Se scendo negli inferi, eccoti", dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.

"Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza": il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.

Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: "Fate questo in memoria di me"? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: "Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita" (23 [22], 6).

Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: "Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua" (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.

La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: "Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva" (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca.
 
Amen.
Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 15:48
In attesa di avere il testo integrale di ieri sera (il Papa ha risposto a braccio a cinque domande), vi condivido questo:


Dio ci liberi dagli scandali

Buona Festa del Sacro Cuore a tutti!


Benedetto XVI rispondendo alle domande di alcuni sacerdoti durante la veglia conclusiva dell'anno sacerdotale in piazza San Pietro, sottolineando in modo particolare che il mondo contesta celibato perché ai suoi occhi scandaloso, si è espresso così a questo proposito:

"Un grande problema del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio, sembra sufficiente solo il presente ... Il senso del celibato come anticipazione del futuro è aprire le porte, mostrare la realtà del futuro, che va vissuto già come presente e vivere così la testimonianza della fede, credere che Dio c'è e io posso fondare su di lui la mia vita.

Conosciamo le critiche mondane al celibato: è vero che per il mondo agnostico, dove Dio non c'entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra che va considerato come realtà il Signore, il suo mondo futuro, che diventa così realtà nel nostro tempo, e questo dovrebbe scomparire. Può sorprendere questa critica continua contro il celibato, in un mondo in cui diventa moda il non sposarsi, ma questo non sposarsi è una cosa totalmente e fondamentalmente diversa dal celibato, perché basato sulla volontà di vivere da soli e per sé stessi, mentre il celibato è un sì definitivo".

"Se scompare questo, va distrutta la radice della nostra cultura. Vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo della fede. Sappiamo che accanto a questo scandalo che il mondo non vuole vedere ci sono anche gli scandali dei nostri peccati, che oscurano il grande scandalo. Ma c'è tanta fedeltà, il celibato è un grande segno della fede. Preghiamo Dio che ci liberi dagli scandali secondari".


Preghiamo davvero che il Sacro Cuore ci conceda di essere liberati dagli scandali, da tutti gli scandali, anche da quelli che riceviamo dalle parole improvvide, mondane e modaiole di certi arcivescovi!

Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 18:37
[SM=g1740733]

UN CAPOLAVORO DI CATECHESI squisitamente spicciola, ma ricca!!!

- lo scandalo DELLA FEDE

- lo scandalo di saper DIRE SI A DIO totalmente

- lo scandalo che il celibato sacerdotale NON è un "NO" al Matrimonio, MA UN SI ALLA VITA FUTURA!! è DONO e MATRIMONIO MISTICO [SM=g1740722]

Grazie Santo Padre
[SM=g1740721]

it.gloria.tv/?media=81993




[SM=g1740738]


[SM=g1740757]


Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 19:31
La veglia di preghiera di giovedì sera

Testimoni dello scandalo della fede
di fronte al mondo


Attività pastorale, teologia, celibato, culto e vocazioni. Sono i temi toccati da Benedetto XVI nel corso della veglia di preghiera svoltasi giovedì sera, 10 giugno, in piazza San Pietro. Il Papa li ha approfonditi rispondendo a cinque domande poste da altrettanti sacerdoti provenienti dai diversi continenti.

La prima è stata del brasiliano don José Eduardo Oliveira, che ha chiesto indicazioni su come affrontare le difficoltà che i parroci incontrano nel loro ministero.

Il Pontefice ha riconosciuto che oggi è molto difficile essere parroco, anche e soprattutto nei Paesi dell'antica cristianità. Le parrocchie diventano sempre più estese:  è impossibile conoscere tutti, è impossibile adempiere a tutti i compiti spettanti a un parroco. A questo proposito, il Papa ha sottolineato come sia importante che i fedeli vedano nel prete non solo uno che lavora, ma un appassionato di Cristo, pieno della gioia del Signore. Essere pieni della gioia del Vangelo è, infatti, la prima condizione necessaria.
A essa seguono tre priorità:  l'Eucaristia e i sacramenti, l'annuncio della Parola e la caritas, l'amore di Cristo. Oltre a queste tre priorità, ce n'è un'altra molto importante:  la relazione personale con Cristo. Il Papa ha ricordato un testo di san Carlo Borromeo nel quale si invitano i sacerdoti a non trascurare la propria anima, perché - argomentava l'arcivescovo di Milano - se l'anima viene trascurata è impossibile dare agli altri quanto si dovrebbe dare. L'anima ha bisogno che le venga dedicato del tempo. Con altre parole, ha detto il Pontefice, la relazione con Cristo e il colloquio personale con Lui sono una priorità pastorale fondamentale, una condizione per il lavoro del prete a beneficio degli altri. E la preghiera non è una cosa marginale:  è proprio del sacerdote pregare, anche come rappresentante della gente che non sa pregare o non trova il tempo di pregare. La preghiera personale soprattutto, ha evidenziato il Papa, è il nutrimento fondamentale per l'anima del prete e per la sua azione.

Successivamente Mathias Agnero, proveniente dalla Costa d'Avorio, ha chiesto al Pontefice spiegazioni sulla frattura tra teologia e dottrina, evidenziando l'esigenza che lo studio non allontani, ma alimenti la spiritualità.

Benedetto XVI ha riconosciuto l'esistenza di una teologia che è arroganza della ragione e non nutre la fede, ma oscura la presenza di Dio nel mondo. Al contrario, c'è una teologia che vuol conoscere di più per amore dell'amato. Il Papa ha invitato i teologi ad avere coraggio, a non aver paura del fantasma della scientificità, a non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma piuttosto a pensare alla grande fede della Chiesa che è presente in tutti i tempi e apre alla verità. A una ragione debole, che accetta solo le cose sperimentabili, il Pontefice ha contrapposto una ragione grande, che ha il coraggio di andare oltre il positivismo e l'esperimento. Infine, il Papa ha sottolineato l'importanza del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel quale si trova la sintesi della fede. Esso è veramente il criterio alla luce del quale si può valutare se una teologia è accettabile o non accettabile.

Lo slovacco don Darol Miklosko ha sollecitato poi Benedetto XVI a parlare del celibato anche di fronte alle critiche del mondo.

Il Pontefice ha ricordato che il celibato è un'anticipazione della vita nuova, resa possibile dalla grazia e dalla risurrezione di Cristo. A questo proposito, il Papa ha detto che un grande problema della cristianità, del mondo di oggi, è che non si pensa più al futuro di Dio. Sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. L'uomo aspira ad avere solo questo mondo, a vivere solo in questo mondo. E così chiude le porte alla vera grandezza della sua esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro, ha aggiunto, è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. Si tratta quindi di vivere una testimonianza di fede:  crediamo realmente che Dio c'è, che Dio c'entra nella nostra vita, che possiamo fondare la nostra vita su Cristo, sulla vita futura. Riguardo alle critiche del mondo, il Pontefice ha detto che per chi non crede il celibato è un grande scandalo, perché mostra che il Signore va considerato come realtà e vissuto come realtà. Si tratta, ha affermato, di un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Il celibato è un sì definitivo, un lasciarsi prendere per mano da Dio, un darsi nelle mani del Signore. Si tratta perciò di un atto di fedeltà e di fiducia, così come il matrimonio, che rappresenta la forma naturale dell'essere uomo e donna, il fondamento della cultura cristiana e delle grandi culture del mondo:  se esso scompare - ha ammonito il Pontefice - va distrutta la radice della nostra cultura. Perciò il celibato conferma il sì del matrimonio con il suo sì al mondo futuro. Da qui l'appello di Benedetto XVI a superare gli scandali secondari, provocati da insufficienze e peccati dei sacerdoti, per mostrare al mondo il grande scandalo della fede.

Il giapponese don Atsushi Yamashita ha chiesto indicazioni su come vivere il culto senza cadere nel clericalismo ed estraniarsi dalla realtà.

Benedetto XVI ha ricordato come il compito dei cristiani è l'essere uniti dall'amore di Cristo nell'unico corpo di Cristo:  uscire da se stessi, lasciarsi attirare nella comunione dell'unico pane e dell'unico corpo, e così entrare nella grande avventura dell'amore di Dio. In questo senso, si deve celebrare, vivere, meditare l'Eucaristia come scuola della liberazione dal proprio io:  essa, ha concluso il Pontefice, è il contrario del clericalismo, della chiusura in se stessi. Vivere l'Eucaristia nel suo senso originario, nella sua vera profondità, diventa così una scuola di vita e la più sicura protezione contro ogni tentazione di clericalismo.

Infine, l'australiano don Anthony Denton ha invitato Benedetto XVI a esprimere il suo pensiero sulla mancanza delle vocazioni.

La tentazione più grande - ha detto il Pontefice - è quella di trasformare il sacerdozio, il sacramento di Cristo, in una normale professione, che ha il suo orario e i suoi tempi. In questo modo si cerca di renderlo più attraente e accessibile. Ma questa è una tentazione che non risolve il problema. Il Papa, allora, ha indicato tre direttrici di impegno:  fare il possibile per vivere il suo sacerdozio così da essere convincente; dedicarsi alla preghiera; avere il coraggio di stare e comunicare con i giovani, per aprire il loro cuore all'ascolto della vocazione divina. Il Papa ha sottolineato l'importanza di parlare con loro e soprattutto di aiutarli a trovare un contesto vitale dove possano vivere la vocazione.

La veglia di preghiera era stata introdotta dall'arcivescovo Mauro Piacenza, segretario della Congregazione per il Clero, il quale aveva sottolineato la presenza di tanti sacerdoti intorno al Papa come una sorta di cenacolo, nel quale lo Spirito "rinnoverà, rinvigorendoli, i doni ricevuti nell'ordinazione sacerdotale".

Prima dell'inizio della veglia, il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, aveva salutato Benedetto XVI a nome di tutti i sacerdoti presenti. "Vorremmo - aveva detto il porporato - che l'Anno sacerdotale non finisse mai, cioè che non finisse mai la tensione di ciascuno verso la santità nella propria identità e che in questo cammino, che deve iniziare fin dagli anni del seminario, per durare tutta l'esistenza terrena in un unico iter formativo, fossimo sempre confortati e sostenuti, come in quest'anno, dall'ininterrotta preghiera della Chiesa, dal calore e dal sostegno spirituale di tutti i fedeli, i quali, proprio con la loro fede nell'efficacia del ministero sacerdotale, sono così spesso di richiamo e di profondo conforto per ciascuno".

Prima dell'arrivo del Papa in piazza San Pietro, vi erano stati quattro collegamenti. Il primo con Ars, da dove padre René Lavaur aveva offerto la sua testimonianza di parroco. Il secondo con il Cenacolo a Gerusalemme, con il vescovo ausiliare William Shomali che aveva parlato della centralità dell'Eucaristia nella vita del prete. Il terzo collegamento era stato da un barrio di Buenos Aires, dove svolge il suo ministero tra la gente padre José María di Paola, vicario episcopale della diocesi. Ultimo collegamento da Hollywood, dove il parroco monsignor Antonio Cacciapuoti aveva raccontato la sua esperienza pastorale.

Erano state presentate anche quattro testimonianze. La prima, della famiglia tedesca Heereman, con sei figli:  un sacerdote, un religioso, una vergine consacrata, due sposati e una nubile. La seconda di Giuseppe Falabella, diacono della diocesi di Roma, alla vigilia dell'ordinazione. La terza di monsignor Giacomo Marchesan, vicario del patriarcato di Venezia per la vita consacrata. L'ultima di suor Maria Gloria Riva, delle adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento, che aveva parlato dell'importanza della maternità spirituale.

Al termine, Benedetto XVI ha compiuto il giro della piazza in papamobile e ha concluso la veglia con la benedizione solenne dell'Eucaristia.


(©L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
Caterina63
00sabato 12 giugno 2010 19:28
l dialogo di Benedetto XVI con i preti durante la veglia di preghiera per la conclusione dell'Anno sacerdotale

Un sacramento e una vita nuova per fare spazio a Dio


Il celibato conferma il sì del matrimonio con il suo sì al mondo futuro e l'Eucaristia è il contrario del clericalismo

Pubblichiamo il testo integrale del dialogo tra il Papa e i preti durante la veglia di preghiera svoltasi nella serata di giovedì 10 giugno, in piazza San Pietro, a conclusione dell'Anno sacerdotale.

America

Beatissimo Padre, sono don José Eduardo Oliveira y Silva e vengo dall'America, precisamente dal Brasile. La maggior parte di noi qui presenti è impegnata nella pastorale diretta, in parrocchia, e non solo con una comunità, ma a volte siamo ormai parroci di più parrocchie, o di comunità particolarmente estese. Con tutta la buona volontà cerchiamo di sopperire alle necessità di una società molto cambiata, non più interamente cristiana, ma ci accorgiamo che il nostro "fare" non basta. Dove andare Santità? In quale direzione?
 

Cari amici, innanzitutto vorrei esprimere la mia grande gioia perché qui sono riuniti sacerdoti di tutte le parti del mondo, nella gioia della nostra vocazione e nella disponibilità a servire con tutte le nostre forze il Signore, in questo nostro tempo. In merito alla domanda:  sono ben consapevole che oggi è molto difficile essere parroco, anche e soprattutto nei Paesi di antica cristianità; le parrocchie diventano sempre più estese, unità pastorali... è impossibile conoscere tutti, è impossibile fare tutti i lavori che ci si aspetterebbe da un parroco. E così, realmente, ci domandiamo dove andare, come lei ha detto.

Ma vorrei innanzitutto dire:  so che ci sono tanti parroci nel mondo che danno realmente tutta la loro forza per l'evangelizzazione, per la presenza del Signore e dei suoi Sacramenti, e a questi fedeli parroci, che operano con tutte le forze della loro vita, del nostro essere appassionati per Cristo, vorrei dire un grande "grazie", in questo momento. Ho detto che non è possibile fare tutto quello che si desidera, che forse si dovrebbe fare, perché le nostre forze sono limitate e le situazioni sono difficili in una società sempre più diversificata, più complicata. Io penso che, soprattutto, sia importante che i fedeli possano vedere che questo sacerdote non fa solo un "job", ore di lavoro, e poi è libero e vive solo per se stesso, ma che è un uomo appassionato di Cristo, che porta in sé il fuoco dell'amore di Cristo.

Se i fedeli vedono che è pieno della gioia del Signore, capiscono anche che non può far tutto, accettano i limiti, e aiutano il parroco. Questo mi sembra il punto più importante:  che si possa vedere e sentire che il parroco realmente si sente un chiamato dal Signore; è pieno di amore del Signore e dei suoi. Se questo c'è, si capisce e si può anche vedere l'impossibilità di fare tutto. Quindi, essere pieni della gioia del Vangelo con tutto il nostro essere è la prima condizione. Poi si devono fare le scelte, avere le priorità, vedere quanto è possibile e quanto è impossibile. Direi che le tre priorità fondamentali le conosciamo:  sono le tre colonne del nostro essere sacerdoti. Prima, l'Eucaristia, i Sacramenti:  rendere possibile e presente l'Eucaristia, soprattutto domenicale, per quanto possibile, per tutti, e celebrarla in modo che diventi realmente il visibile atto d'amore del Signore per noi.

Poi, l'annuncio della Parola in tutte le dimensioni:  dal dialogo personale fino all'omelia. Il terzo punto è la "caritas", l'amore di Cristo:  essere presenti per i sofferenti, per i piccoli, per i bambini, per le persone in difficoltà, per gli emarginati; rendere realmente presente l'amore del Buon Pastore. E poi, una priorità molto importante è anche la relazione personale con Cristo. Nel Breviario, il 4 novembre, leggiamo un bel testo di san Carlo Borromeo, grande pastore, che ha dato veramente tutto se stesso, e che dice a noi, a tutti i sacerdoti:  "Non trascurare la tua propria anima:  se la tua propria anima è trascurata, anche agli altri non puoi dare quanto dovresti dare. Quindi, anche per te stesso, per la tua anima, devi avere tempo", o, in altre parole, la relazione con Cristo, il colloquio personale con Cristo è una priorità pastorale fondamentale, è condizione per il nostro lavoro per gli altri! E la preghiera non è una cosa marginale:  è proprio "professione" del sacerdote pregare, anche come rappresentante della gente che non sa pregare o non trova il tempo di pregare.

La preghiera personale, soprattutto la Preghiera delle Ore, è nutrimento fondamentale per la nostra anima, per tutta la nostra azione. E, infine, riconoscere i nostri limiti, aprirci anche a questa umiltà. Ricordiamo una scena di Marco, capitolo 6, dove i discepoli sono "stressati", vogliono fare tutto, e il Signore dice:  "Andiamo via; riposate un po'" (cfr Mc 6, 31). Anche questo è lavoro - direi - pastorale:  trovare e avere l'umiltà, il coraggio di riposare. Quindi, penso, che la passione per il Signore, l'amore del Signore, ci mostra le priorità, le scelte, ci aiuta a trovare la strada. Il Signore ci aiuterà. Grazie a tutti voi!

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Africa

Santità, sono Mathias Agnero e vengo dall'Africa, precisamente dalla Costa d'Avorio. Lei è un Papa-teologo, mentre noi, quando riusciamo, leggiamo appena qualche libro di teologia per la formazione. Ci pare, tuttavia, che si sia creata una frattura tra teologia e dottrina e, ancor più, tra teologia e spiritualità. Si sente la necessità che lo studio non sia tutto accademico ma alimenti la nostra spiritualità. Ne sentiamo il bisogno nello stesso ministero pastorale. Talvolta la teo-logia non sembra avere Dio al centro e Gesù Cristo come primo "luogo teologico", ma abbia invece i gusti e le tendenze diffuse; e la conseguenza è il proliferare di opinioni soggettive che permettono l'introdursi, anche nella Chiesa, di un pensiero non cattolico. Come non disorientarci nella nostra vita e nel nostro ministero, quando è il mondo che giudica la fede e non viceversa? Ci sentiamo "scentrati"!


Grazie. Lei tocca un problema molto difficile e doloroso. C'è realmente una teologia che vuole soprattutto essere accademica, apparire scientifica e dimentica la realtà vitale, la presenza di Dio, la sua presenza tra di noi, il suo parlare oggi, non solo nel passato. Già san Bonaventura ha distinto due forme di teologia, nel suo tempo; ha detto:  "c'è una teologia che viene dall'arroganza della ragione, che vuole dominare tutto, fa passare Dio da soggetto a oggetto che noi studiamo, mentre dovrebbe essere soggetto che ci parla e ci guida".
 
C'è realmente questo abuso della teologia, che è arroganza della ragione e non nutre la fede, ma oscura la presenza di Dio nel mondo. Poi, c'è una teologia che vuole conoscere di più per amore dell'amato, è stimolata dall'amore e guidata dall'amore, vuole conoscere di più l'amato. E questa è la vera teologia, che viene dall'amore di Dio, di Cristo e vuole entrare più profondamente in comunione con Cristo. In realtà, le tentazioni, oggi, sono grandi; soprattutto, si impone la cosiddetta "visione moderna del mondo" (Bultmann, "modernes Weltbild"), che diventa il criterio di quanto sarebbe possibile o impossibile. E così, proprio con questo criterio che tutto è come sempre, che tutti gli avvenimenti storici sono dello stesso genere, si esclude proprio la novità del Vangelo, si esclude l'irruzione di Dio, la vera novità che è la gioia della nostra fede. Che cosa fare? Io direi prima di tutto ai teologi:  abbiate coraggio. E vorrei dire un grande grazie anche ai tanti teologi che fanno un buon lavoro.

Ci sono gli abusi, lo sappiamo, ma in tutte le parti del mondo ci sono tanti teologi che vivono veramente della Parola di Dio, si nutrono della meditazione, vivono la fede della Chiesa e vogliono aiutare affinché la fede sia presente nel nostro oggi. A questi teologi vorrei dire un grande "grazie". E direi ai teologi in generale:  "non abbiate paura di questo fantasma della scientificità!". Io seguo la teologia dal '46; ho incominciato a studiare la teologia nel gennaio '46 e quindi ho visto quasi tre generazioni di teologi, e posso dire:  le ipotesi che in quel tempo, e poi negli anni Sessanta e Ottanta erano le più nuove, assolutamente scientifiche, assolutamente quasi dogmatiche, nel frattempo sono invecchiate e non valgono più! Molte di loro appaiono quasi ridicole.

Quindi, avere il coraggio di resistere all'apparente scientificità, di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma pensare realmente a partire dalla grande fede della Chiesa, che è presente in tutti i tempi e ci apre l'accesso alla verità. Soprattutto, anche, non pensare che la ragione positivistica, che esclude il trascendente - che non può essere accessibile - sia la vera ragione! Questa ragione debole, che presenta solo le cose sperimentabili, è realmente una ragione insufficiente. Noi teologi dobbiamo usare la ragione grande, che è aperta alla grandezza di Dio. Dobbiamo avere il coraggio di andare oltre il positivismo alla questione delle radici dell'essere. Questo mi sembra di grande importanza. Quindi, occorre avere il coraggio della grande, ampia ragione, avere l'umiltà di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, vivere della grande fede della Chiesa di tutti i tempi. Non c'è una maggioranza contro la maggioranza dei Santi:  la vera maggioranza sono i Santi nella Chiesa e ai Santi dobbiamo orientarci!

Poi, ai seminaristi e ai sacerdoti dico lo stesso:  pensate che la Sacra Scrittura non è un Libro isolato:  è vivente nella comunità vivente della Chiesa, che è lo stesso soggetto in tutti i secoli e garantisce la presenza della Parola di Dio. Il Signore ci ha dato la Chiesa come soggetto vivo, con la struttura dei Vescovi in comunione con il Papa, e questa grande realtà dei Vescovi del mondo in comunione con il Papa ci garantisce la testimonianza della verità permanente. Abbiamo fiducia in questo Magistero permanente della comunione dei Vescovi con il Papa, che ci rappresenta la presenza della Parola. E poi, abbiamo anche fiducia nella vita della Chiesa e, soprattutto, dobbiamo essere critici. Certamente la formazione teologica - questo vorrei dire ai seminaristi - è molto importante. Nel nostro tempo dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola. Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter rispondere ragionevolmente, per poter dare - come dice San Pietro - "ragione della nostra fede". La formazione è molto importante. Ma dobbiamo essere anche critici:  il criterio della fede è il criterio con il quale vedere anche i teologi e le teologie.

Papa Giovanni Paolo ii ci ha donato un criterio assolutamente sicuro nel Catechismo della Chiesa Cattolica:  qui vediamo la sintesi della nostra fede, e questo Catechismo è veramente il criterio per vedere dove va una teologia accettabile o non accettabile. Quindi, raccomando la lettura, lo studio di questo testo, e così possiamo andare avanti con una teologia critica nel senso positivo, cioè critica contro le tendenze della moda e aperta alle vere novità, alla profondità inesauribile della Parola di Dio, che si rivela nuova in tutti i tempi, anche nel nostro tempo.
 
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Europa

Padre Santo, sono don Karol Miklosko e vengo dall'Europa, precisamente dalla Slovacchia, e sono missionario in Russia. Quando celebro la Santa Messa trovo me stesso e capisco che lì incontro la mia identità e la radice e l'energia del mio ministero. Il sacrificio della Croce mi svela il Buon Pastore che dà tutto per il gregge, per ciascuna pecora, e quando dico:  "Questo è il mio corpo ... questo è il mio sangue" dato e versato in sacrificio per voi, allora capisco la bellezza del celibato e dell'obbedienza, che ho liberamente promesso al momento dell'ordinazione. Pur con le naturali difficoltà, il celibato mi sembra ovvio, guardando Cristo, ma mi trovo frastornato nel leggere tante critiche mondane a questo dono. Le chiedo umilmente, Padre Santo, di illuminarci sulla profondità e sul  senso  autentico  del  celibato  ecclesiastico.

Grazie per le due parti della sua domanda. La prima, dove mostra il fondamento permanente e vitale del nostro celibato; la seconda che mostra tutte le difficoltà nelle quali ci troviamo nel nostro tempo. Importante è la prima parte, cioè:  centro della nostra vita deve realmente essere la celebrazione quotidiana della Santa Eucaristia; e qui sono centrali le parole della consacrazione:  "Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue"; cioè:  parliamo "in persona Christi". Cristo ci permette di usare il suo "io", parliamo nell'"io" di Cristo, Cristo ci "tira in sé" e ci permette di unirci, ci unisce con il suo "io". E così, tramite questa azione, questo fatto che Egli ci "tira" in se stesso, in modo che il nostro "io" diventa unito al suo, realizza la permanenza, l'unicità del suo Sacerdozio; così Lui è realmente sempre l'unico Sacerdote, e tuttavia molto presente nel mondo, perché "tira" noi in se stesso e così rende presente la sua missione sacerdotale.

Questo vuol dire che siamo "tirati" nel Dio di Cristo:  è questa unione con il suo "io" che si realizza nelle parole della consacrazione. Anche nell'"io ti assolvo" - perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai peccati - è l'"io" di Cristo, di Dio, che solo può assolvere. Questa unificazione del suo "io" con il nostro implica che siamo "tirati" anche nella sua realtà di Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della risurrezione, della quale Gesù parla ai Sadducei in Matteo, capitolo 22:  è una vita "nuova", nella quale già siamo oltre il matrimonio (cfr. Mt 22, 23-32). È importante che ci lasciamo sempre di nuovo penetrare da questa identificazione dell'"io" di Cristo con noi, da questo essere "tirati fuori" verso il mondo della risurrezione.

In questo senso, il celibato è un'anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e così "tiriamo" noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita. Quindi, il celibato è un'anticipazione resa possibile dalla grazia del Signore che ci "tira" a sé verso il mondo della risurrezione; ci invita sempre di nuovo a trascendere noi stessi, questo presente, verso il vero presente del futuro, che diventa presente oggi. E qui siamo ad un punto molto importante. Un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio:  sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza.
Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. Vivere, quindi, così in una testimonianza della fede:  crediamo realmente che Dio c'è, che Dio c'entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura. E conosciamo adesso le critiche mondane delle quali lei ha parlato. È vero che per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c'entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo. E questo dovrebbe scomparire! In un certo senso, può sorprendere questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi.
 Ma questo non-sposarsi è una cosa totalmente, fondamentalmente diversa dal celibato, perché il non-sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi, di non accettare alcun vincolo definitivo, di avere la vita in ogni momento in una piena autonomia, decidere in ogni momento come fare, cosa prendere dalla vita; e quindi un "no" al vincolo, un "no" alla definitività, un avere la vita solo per se stessi.

Mentre il celibato è proprio il contrario:  è un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io", e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia, un atto che suppone anche la fedeltà del matrimonio; è proprio il contrario di questo "no", di questa autonomia che non vuole obbligarsi, che non vuole entrare in un vincolo; è proprio il "sì" definitivo che suppone, conferma il "sì" definitivo del matrimonio.

E questo matrimonio è la forma biblica, la forma naturale dell'essere uomo e donna, fondamento della grande cultura cristiana, di grandi culture del mondo. E se scompare questo, andrà distrutta la radice della nostra cultura. Perciò il celibato conferma il "sì" del matrimonio con il suo "sì" al mondo futuro, e così vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo di una fede che pone tutta l'esistenza su Dio. Sappiamo che accanto a questo grande scandalo, che il mondo non vuole vedere, ci sono anche gli scandali secondari delle nostre insufficienze, dei nostri peccati, che oscurano il vero e grande scandalo, e fanno pensare:  "Ma, non vivono realmente sul fondamento di Dio!". Ma c'è tanta fedeltà! Il celibato, proprio le critiche lo mostrano, è un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a renderci liberi dagli scandali secondari, perché renda presente il grande  scandalo della nostra fede:  la fiducia,  la  forza  della nostra vita, che si fonda in Dio e in Cristo Gesù!
 
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Asia

Santo Padre, sono don Atsushi Yamashita e vengo dall'Asia, precisamente dal Giappone. Il modello sacerdotale che Vostra Santità ci ha proposto in quest'Anno, il Curato d'Ars, vede al centro dell'esistenza e del ministero l'Eucaristia, la Penitenza sacramentale e personale e l'amore al culto, degnamente celebrato. Ho negli occhi i segni dell'austera povertà di san Giovanni Maria Vianney ed insieme della sua passione per le cose preziose per il culto. Come vivere queste dimensioni fondamentali della nostra esistenza sacerdotale, senza cadere nel clericalismo o in un'estraneità alla realtà, che il mondo oggi non ci consente?


Grazie. Quindi, la domanda è come vivere la centralità dell'Eucaristia senza perdersi in una vita puramente cultuale, estranei alla vita di ogni giorno delle altre persone. Sappiamo che il clericalismo è una tentazione dei sacerdoti in tutti i secoli, anche oggi; tanto più importante è trovare il modo vero di vivere l'Eucaristia, che non è una chiusura al mondo, ma proprio l'apertura ai bisogni del mondo.

Dobbiamo tenere presente che nell'Eucaristia si realizza questo grande dramma di Dio che esce da se stesso, lascia - come dice la Lettera ai Filippesi - la sua propria gloria, esce e scende fino ad essere uno di noi e scende fino alla morte sulla Croce (cfr. Fil 2). L'avventura dell'amore di Dio, che lascia, abbandona se stesso per essere con noi - e questo diventa presente nell'Eucaristia; il grande atto, la grande avventura dell'amore di Dio è l'umiltà di Dio che si dona a noi.

In questo senso l'Eucaristia è da considerare come l'entrare in questo cammino di Dio. Sant'Agostino dice, nel De Civitate Dei, libro x:  "Hoc est sacrificium Christianorum:  multi unum corpus in Christo", cioè:  sacrificio dei cristiani è l'essere uniti dall'amore di Cristo nell'unità dell'unico corpo di Cristo. Il sacrificio consiste proprio nell'uscire da noi, nel lasciarsi attirare nella comunione dell'unico pane, dell'unico Corpo, e così entrare nella grande avventura dell'amore di Dio. Così dobbiamo celebrare, vivere, meditare sempre l'Eucaristia, come questa scuola della liberazione dal mio "io":  entrare nell'unico pane, che è pane di tutti, che ci unisce nell'unico Corpo di Cristo.

E quindi, l'Eucaristia è, di per sé, un atto di amore, ci obbliga a questa realtà dell'amore per gli altri:  che il sacrificio di Cristo è la comunione di tutti nel suo Corpo. E quindi, in questo modo dobbiamo imparare l'Eucaristia, che poi è proprio il contrario del clericalismo, della chiusura in se stessi. Pensiamo anche a Madre Teresa, veramente l'esempio grande in questo secolo, in questo tempo, di un amore che lascia se stesso, che lascia ogni tipo di clericalismo, di estraneità al mondo, che va ai più emarginati, ai più poveri, alle persone vicine alla morte e si dà totalmente all'amore per i poveri, per gli emarginati. Ma Madre Teresa che ci ha donato questo esempio, la comunità che segue le sue tracce supponeva sempre come prima condizione di una sua fondazione la presenza di un tabernacolo.
Senza la presenza dell'amore di Dio che si dà non sarebbe stato possibile realizzare quell'apostolato, non sarebbe stato possibile vivere in quell'abbandono di se stessi; solo inserendosi in questo abbandono di sé in Dio, in questa avventura di Dio, in questa umiltà di Dio, potevano e possono compiere oggi questo grande atto di amore, questa apertura a tutti. In questo senso, direi:  vivere l'Eucaristia nel suo senso originario, nella sua vera profondità, è una scuola di vita, è la più sicura protezione contro ogni tentazione di clericalismo.

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Oceania

Beatissimo Padre, sono don Anthony Denton e vengo dall'Oceania, dall'Australia. Questa sera qui siamo in tantissimi sacerdoti. Sappiamo però che i nostri seminari non sono pieni e che, nel futuro, in varie parti del mondo, ci attende un calo, anche brusco. Cosa fare di davvero efficace per le vocazioni? Come proporre la nostra vita, in ciò che di grande e bello c'è in essa, ad un giovane del nostro tempo?

Grazie. Realmente lei tocca di nuovo un problema grande e doloroso del nostro tempo:  la mancanza di vocazioni, a causa della quale Chiese locali sono in pericolo di inaridire, perché manca la Parola di vita, manca la presenza del sacramento dell'Eucaristia e degli altri Sacramenti. Cosa fare?
 La tentazione è grande:  di prendere noi stessi in mano la cosa, di trasformare il sacerdozio - il sacramento di Cristo, l'essere eletto da Lui - in una normale professione, in un "job" che ha le sue ore, e per il resto uno appartiene solo a se stesso; e così rendendolo come una qualunque altra vocazione:  renderlo accessibile e facile. Ma è una tentazione, questa, che non risolve il problema.
Mi fa pensare alla storia di Saul, il re di Israele, che prima della battaglia contro i Filistei aspetta Samuele per il necessario sacrificio a Dio. E quando Samuele, nel momento atteso, non viene, lui stesso compie il sacrificio, pur non essendo sacerdote (cfr. 1 Sam 13); pensa di risolvere così il problema, che naturalmente non risolve, perché se prende in mano lui stesso quanto non può fare, si fa lui stesso Dio, o quasi, e non può aspettarsi che le cose vadano realmente nel modo di Dio.

Così, anche noi, se svolgessimo solo una professione come altri, rinunciando alla sacralità, alla novità, alla diversità del sacramento che dà solo Dio, che può venire soltanto dalla sua vocazione e non dal nostro "fare", non risolveremo nulla. Tanto più dobbiamo - come ci invita il Signore - pregare Dio, bussare alla porta, al cuore di Dio, affinché ci dia le vocazioni; pregare con grande insistenza, con grande determinazione, con grande convinzione anche, perché Dio non si chiude ad una preghiera insistente, permanente, fiduciosa, anche se lascia fare, aspettare, come Saul, oltre i tempi che noi abbiamo previsto.

Questo mi sembra il primo punto:  incoraggiare i fedeli ad avere questa umiltà, questa fiducia, questo coraggio di pregare con insistenza per le vocazioni, di bussare al cuore di Dio perché ci dia dei sacerdoti. Oltre a questo direi forse tre punti. Il primo:  ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il proprio sacerdozio in maniera tale da risultare convincente, in maniera tale che i giovani possano dire:  questa è una vera vocazione, così si può vivere, così si fa una cosa essenziale per il mondo. Penso che nessuno di noi sarebbe diventato sacerdote se non avesse conosciuto sacerdoti convincenti nei quali ardeva il fuoco dell'amore di Cristo.
 
Quindi, questo è il primo punto:  cerchiamo di essere noi stessi sacerdoti convincenti.

Il secondo punto è che dobbiamo invitare, come ho già detto, all'iniziativa della preghiera, ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio con forza, con decisione. Il terzo punto:  avere il coraggio di parlare con i giovani se possono pensare che Dio li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per aprire l'ascolto alla vocazione divina; parlare con i giovani e soprattutto aiutarli a trovare un contesto vitale in cui possano vivere. Il mondo di oggi è tale che quasi appare esclusa la maturazione di una vocazione sacerdotale; i giovani hanno bisogno di ambienti in cui si vive la fede, in cui appare la bellezza della fede, in cui appare che questo è un modello di vita, "il" modello di vita, e quindi aiutarli a trovare movimenti, o la parrocchia - la comunità in parrocchia - o altri contesti dove realmente siano circondati dalla fede, dall'amore di Dio, e possano quindi essere aperti affinché la vocazione di Dio arrivi e li aiuti. Del resto, ringraziamo il Signore per tutti i seminaristi del nostro tempo, per i giovani sacerdoti, e preghiamo. Il Signore ci aiuterà! Grazie a voi tutti!


(©L'Osservatore Romano - 13 giugno 2010)




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