Anche il latino dovrebbe essere insegnato a scuola come l'inglese

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Caterina63
00lunedì 27 aprile 2009 19:19
Il presidente dell'Accademia Vivarium Novum propone di insegnare le lingue antiche come l'inglese

Troppa grammatica uccide il latino



Dal quotidiano ilsussidiario.net pubblichiamo stralci di un'intervista sull'attualità del latino e sulle metodologie del suo insegnamento.
 
 

di Rossano Salini

Se e quanto valga la pena insegnare ancora le lingue classiche nelle nostre scuole è questione di cui si dibatte da decenni. Ma tale discussione raramente si confronta con l'unico dato che dovrebbe essere alla base di tutto:  quanto i ragazzi che fanno studi classici apprendono realmente il latino e il greco? Esiste o no un modo per insegnare le lingue classiche in maniera tale che gli studenti possano accedere direttamente ai testi originali latini e greci? Ebbene sì, il metodo c'è:  è il "metodo natura", per cui, semplificando al massimo, il latino e il greco vengono insegnati un po' come si insegna l'inglese. Cioè come una lingua viva. Luigi Miraglia è il presidente dell'Accademia Vivarium Novum, che si occupa della diffusione, in Italia e all'estero, di questo metodo di insegnamento. Che è non solo rappresentativo di una didattica efficace e responsabile, ma è anche forse il modo con cui si stanno salvando le lingue classiche da un continuo e inarrestabile declino.

Professor Miraglia, si ha l'impressione che oggi l'insegnamento delle lingue classiche in Italia venga trascinato come un retaggio del passato. Lei come giudica complessivamente l'insegnamento del latino e del greco nel Paese?

La questione delle lingue classiche in Italia, e in una certa misura anche in altri Paesi d'Europa, ha radici storiche profonde, che risalgono almeno alla fine del Settecento. Furono già personaggi come Federico Augusto Wolf e Guglielmo von Humboldt che teorizzarono lo studio del latino come "mezzo migliore per esercitare determinate facoltà dell'anima". In Italia questa impostazione, che generò il metodo grammaticale-traduttivo per lo studio delle lingue classiche, entrò più tardi, e per un certo periodo resistette il sistema didattico umanistico. Ma dopo il 1860, anche per motivi ideologici, il "metodo scientifico" fu introdotto con forza; e i risultati furono sin dall'inizio disastrosi. Già nel 1894 il ministro Marini si vide costretto a convocare una commissione per verificare i risultati della nuova metodologia:  il presidente di quella commissione, Giovanni Pascoli, diede un giudizio pesantissimo, ma ciononostante l'ideologia ebbe la meglio e si continuò a insegnare in quel modo. Per tutto il secolo scorso la situazione si è protratta, fino al punto in cui si è arrivati a parlare del nuovo metodo come del "metodo tradizionale".

Quali sono gli effetti negativi di questo metodo di insegnamento?

I ragazzi imparano a odiare d'un odio implacabile la grammatica, le versioni faticosamente decifrate, gl'incomprensibili classici di cui hanno dovuto senza frutto mandare a memoria una traduzione raccattata nel mare di note pletoriche e indigeribili. Anche lo studio della letteratura, in questa situazione, si riduce spesso alla ripetizione delle opinioni di altri su stile, uso della lingua, effetti retorici:  perché il povero alunno, che del testo non comprende nulla, e che spesso non legge (o meglio, non "decodifica") che poche righe, non ha nessun elemento per un meditato e, per quant'è possibile, autonomo giudizio critico. Il rischio grave è anche che si crei una sorta di selezione al contrario:  un metodo tutto deduttivo rischia di favorire e porre ai primi posti quel tipo d'alunno che esegue passivamente gli ordini; mentre viene penalizzato il ragazzo di giudizio indipendente e libero, amante della realtà presente e viva. Non che non siano da lodare l'impegno assiduo, la capacità di dominio di sé stessi, l'esercizio delle facoltà razionali; ma mi sembra paradossale che, nello studio delle lingue classiche, siano quasi da vituperare, come se fossero una colpa e non una virtù, la brillantezza dell'ingegno e la voglia d'unire verba e res, concetti, idee e azione.

Veniamo alla pars construens:  l'Accademia Vivarium Novum, da lei presieduta, diffonde in Italia l'insegnamento del latino e del greco tramite il "metodo natura" del danese Hans Ørberg:  qual è sinteticamente il principio alla base di questo metodo d'insegnamento?

Il "metodo natura", applicato dall'Ørberg al latino e, per quanto m'è stato possibile, da me stesso al greco, non è un'invenzione recente:  è in realtà il metodo diretto o induttivo che in larghissima misura era utilizzato nelle scuole umanistiche e postumanistiche, fino almeno alla fine del Settecento in tutta Europa. Esso parte da contesti significativi, all'inizio costruiti ad hoc, in seguito originali, che presentino ordinatamente disposti lessico, morfologia e sintassi da apprendere, con numerosi esempi inseriti all'interno d'una storia continua e coinvolgente, che funga da sostegno mnemonico e da elemento di motivazione per l'apprendimento:  nel primo volume di latino quasi un "romanzo", con le vicissitudini d'una familia romana del II secolo dell'era cristiana. I testi sono per sé illustrati:  non più dunque l'"enigma della traduzione", ma pagine di volta in volta adatte al livello di competenze che l'alunno ha acquisito, perché egli possa comprenderle immediatamente, senza bisogno di portarle necessariamente nella propria lingua. L'alunno esce quanto meno possibile dalla lingua che studia, e porta alla coscienza, con spiegazioni dettagliate e ordinate, quanto riscontrato nei testi, solo dopo averne visto il funzionamento pratico in un testo o in esempi che gli siano comprensibili. In questo modo s'assimilano in tempi assai brevi morfologia, sintassi e lessico, che s'imparano a padroneggiare e a riconoscere senza esitazione nelle opere degli autori. La vox maiorum giunge così alle orecchie dei ragazzi della nostra epoca, che dialogano con Cicerone, Seneca, Sallustio e Virgilio, non più indegnamente ridotti a indigesti esercizi di logica o di enigmistica.

Quindi si sentirebbe di sconsigliare quello che, erroneamente, viene chiamato metodo tradizionale e di raccomandare questo metodo di insegnamento?

Premesso che credo fortemente nella libertà d'insegnamento e nell'autonomia di scelta dei metodi che non possono essere imposti a nessun insegnante, mi permetto, sulla base dell'esperienza mia stessa e su quella di moltissimi docenti di tutta l'Italia e d'altre parti del mondo, di raccomandare questo sistema didattico. Se l'altro metodo abbia mantenuto o meno le sue promesse di "formazione della mente" e di "sviluppo della logica" lo giudicheranno altri. Il latino è la chiave di tutta la cultura europea:  letteraria, giuridica, filosofica, storica, teologica, scientifica, antropologica, di conoscenza di sé e delle altre civiltà; ma tutti i tesori ch'esso può dischiudere rimangono ben custoditi nelle arche e cassaforti delle opere che ce li hanno tramandati, se non si possiede la lingua al punto di poter leggere correntemente interi libri, di autori come Erasmo, Copernico, Spinoza. [SM=g1740721] Il metodo grammaticale-traduttivo, per la sua stessa impostazione, questo non lo permetterà mai. Il metodo induttivo, invece, non solo lo ha consentito a generazioni di studenti per secoli, ma, dovunque è applicato con rigore e professionalità, dà risultati assai confortanti anche oggi.

Il passaggio dal metodo deduttivo a quello induttivo (non solo per le lingue classiche) può essere una risposta di carattere generale al problema del rendimento dei nostri ragazzi?

Il metodo induttivo è senz'altro più coinvolgente e può costituire uno stimolo per superare le difficoltà maggiori e suscitare interesse nei giovani anche in ambito scientifico-matematico. Non vorrei però che si confondesse con una certa faciloneria e un certo vuoto pedagogismo che sta da alcuni anni infettando la scuola italiana, con la retorica del "fare", dell'"operatività", della "manualità". La vera finalità che un qualunque formatore deve porsi è condurre gradualmente i propri alunni a sviluppare capacità d'astrazione che gli permettano di svincolarsi dai singoli fatti per ricavarne ragionamenti, concetti, argomentazioni, persino leggi che valgano in maniera più generale, e non siano legate al caso particolare:  è questa l'unica via per non essere assoggettati al flusso irrefrenabile delle mode, del caleidoscopico cambiamento, del pensiero dominante. [SM=g1740722]

Cosa ne pensa della proposta, avanzata da più parti, di rendere sempre più opzionale l'insegnamento delle lingue classiche? Sarebbe un incentivo a studiarle meglio, o sarebbe un passo verso la dimenticanza totale del latino e del greco?

Credo che rendere opzionali il latino e il greco sarebbe un grave errore, e questo per diversi motivi, alcuni d'ordine teorico, altri di risvolto pratico. Chi propone questa strada parte naturalmente dall'idea che le lingue classiche siano parte d'un sapere specialistico, riservato a chi voglia dedicarsi a una ricostruzione laboratoriale e "scientifica" del mondo greco e romano. Il latino permette invece di accedere al nostro patrimonio secolare, e ci permette di leggere non solo Cicerone o Seneca, ma Aelredo e Abelardo, Bartolomeo de Las Casas e Newton, Enea Silvio Piccolomini e Pico della Mirandola, Erasmo e Galileo. Credo che non vi possa essere consapevolezza storica della professione che s'esercita e della materia che si studia se non attraverso quell'integros accedere fontes che, solo, ce la rende possibile. Per me la questione sta solo nei metodi:  perché è ovvio che se uno studia cinque anni per quattro o cinque ore la settimana una lingua, e poi non sa leggere neanche i Vangeli, allora non c'è ragione perché questo sperpetuo sia trascinato avanti. Ma se si dimostra che in soli due anni i ragazzi possono esser messi in condizione di leggere e gustare buona parte della millenaria produzione latina, credo si debba convenire che per l'acquisizione d'uno strumento di tale portata culturale valga la pena d'impiegare un tempo ragionevole nel curriculum scolastico. [SM=g1740721] [SM=g1740722]

E quali sono invece le motivazioni d'ordine pratico che sconsigliano di rendere solo opzionali le lingue classiche?

Dal punto di vista pratico, ritengo che renderle opzionali sarebbe una sciagura:  ho potuto bene analizzare la situazione delle scuole francesi e, in parte, di quelle inglesi, dove, ormai da tempo, il latino è facoltativo e il greco è pressoché scomparso. Ora, a parte l'effetto disastroso sulla società (mentre da noi ogni bancarella di periferia è ancora piena di edizioni economiche dei classici, a Parigi, e persino a Oxford le edizioni di opere latine e greche sono diventate roba da carbonari), sta di fatto che in Francia, per esempio, il professore di latino non può più di tanto pretendere dai suoi alunni, i quali, se diviene più esigente, abbandonano il suo corso e si trasferiscono altrove, lasciandolo senza "clienti" e spesso senza posto di lavoro. Questo tipo di tirannia influisce assai negativamente sulla qualità dell'insegnamento, che proprio per questo è assai bassa. Il rendere opzionale il latino, insomma, determinerebbe l'effettiva e definitiva sua scomparsa dalle scuole italiane.



(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2009)

[SM=g1740733]
Caterina63
00martedì 27 aprile 2010 18:08

NON È SOLO QUESTIONE DEL LATINO MA DELLA FEDE



Pubblichiamo un "vecchio" articolo del 2007 di Antonio Socci - scritto a ridosso dell'entrata in vigore del Motu Proprio - che ci pare ancora molto interessante e attuale.


di Antonio Socci
Era il 1971 e il teologo Joseph Ratzinger – che pure era stato un uomo del Concilio – denunciò l’immane disastro "progressista" del post Concilio, indicando a chiare lettere la grave responsabilità di tanti Vescovi: "In base a queste istanze (progressiste), anche a dei Vescovi poteva sembrare ‘imperativo dell’attualità’ e ‘inesorabile linea di tendenza’, deridere i dogmi e addirittura lasciare intendere che l’esistenza di Dio non potesse darsi in alcun modo per certa (…). Per questo sono certo che si preparano per la Chiesa tempi molto difficili. La sua crisi vera e propria è solo appena cominciata". E infatti la crisi è divampata e a farla esplodere è stato innanzitutto l’attacco alla liturgia che della Chiesa è il cuore.


Da cardinale tutore della fede, nel 1997, Ratzinger scriverà: "sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal crollo della liturgia". E oggi, da Papa, egli regala alla Chiesa un giorno storico. Il 14 settembre infatti entra in vigore il Motu proprio con cui Benedetto XVI ha restituito ai fedeli la libertà di partecipare alla cosiddetta liturgia tridentina, la liturgia di sempre della Chiesa.
Attenzione: non è solo questione del latino (perché anche la riforma del 1969 ha la sua messa in latino). Né è questione che interessa solo i cosiddetti tradizionalisti. E’ molto di più: la notte dell’autodemolizione progressista e modernista della Chiesa sta finendo.

Un grande teologo come Von Balthasar -che Papa Wojtyla volle cardinale- pur essendo anch’egli uomo del Concilio scrisse: "Stranamente a causa di questa falsa interpretazione si ha la sensazione che la liturgia post-conciliare sia divenuta più clericale di quanto non fosse nei giorni in cui il sacerdote era un semplice servitore del mistero che veniva celebrato!".

Da oggi ai cristiani viene finalmente restituita la libertà di pregare (e di credere) come la Chiesa dei loro padri e dei Santi ha pregato (e creduto) per 19 secoli. Una libertà loro sottratta da Vescovi e chierici "progressisti" dispotici che prima hanno (arbitrariamente) presentato la riforma liturgica del 1969 come un’abolizione del rito tradizionale della Chiesa e poi hanno sabotato lo speciale indulto chiarificatore di Giovanni Paolo II del 1984 e del 1986.

Ora Benedetto XVI – preso atto del boicottaggio dei Vescovi – ha ordinato loro di riconoscere i diritti dei fedeli. Un passo grandioso che porterà frutti sorprendenti alla Chiesa. Ma, ancora una volta, diversi Vescovi stanno cercando di disobbedire al Papa con la ribellione esplicita o con qualche trucco dialettico. A dare il la come al solito è stato il cardinal Martini che – ormai nei panni dell’Antipapa – ha tuonato che lui non avrebbe mai celebrato nel rito tradizionale per "quel senso di chiuso che emanava dall’insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva".

Così, forte del fallimento pastorale progressista (e del suo episcopato), Martini ha liquidato secoli di santità: la Chiesa dove sono fioriti i più grandi santi, da Caterina a Francesco, da Carlo Borromeo a Francesco Saverio e Teresina di Lisieux, da Massimiliano Kolbe a Padre Pio, darebbe "un senso di chiuso" rispetto alla chiesuola progressista, fatta – immagino - di cattocomunisti, ecumenisti scatenati e teologi della liberazione.
La grandiosa liturgia cattolica per la quale geni come Mozart, Michelangelo e Caravaggio hanno creato capolavori darebbe un’idea di "chiuso" rispetto agli sciamannati schitarramenti postconciliari con i più indecenti abusi liturgici. Ma subito a coda di Martini ha preso il coraggio del boicottaggio furbesco anche l’attuale Vescovo di Milano Tettamanzi (scottato dal conclave del 2005 da cui voleva uscire Papa) e altri Vescovi, tra i quali va citato quello di Pisa per la sua aperta opposizione al Papa (da monsignor Plotti aspetto ancora che mi spieghi il senso della Cattedrale a pagamento, come fosse un museo).

Per avere un’idea di cosa sia la "chiesa progressista" bisogna leggere un articolo apparso l’altro ieri sulla Repubblica. Parlava dei funerali dei bimbi rom, morti in un incendio a Livorno, celebrati dal pope ortodosso nella Cattedrale cattolica della città toscana. Monsignor Razzauto, amministratore diocesano con funzioni di Vescovo, che ha concesso la cattedrale ha dichiarato: "se, per motivi speciali, o per mancanza di spazio, ne avessero bisogno non avrei alcun problema a mettere a disposizione la cattedrale anche agli islamici". Avete letto bene: la Cattedrale cattolica a disposizione per dei riti islamici.

I commenti – teologici e canonici – li lascio alle autorità vaticane. Vorrei sottolineare però che questo clero così ecumenico e aperto è lo stesso che poi, per decenni, ha negato le chiese ai fedeli cristiani per celebrare la Messa tradizionale. In un’altra città toscana un Vescovo ha negato la Cattedrale addirittura ad un cardinale perché avrebbe celebrato, com’era sua facoltà, la Messa tridentina.

Nella ribellione dei Vescovi c’è un’opposizione al Papa che viene da lontano.

Al Concilio don Giuseppe Dossetti, passato dalla politica italiana alle smanie riformatrici della Chiesa, provò a dimostrare che il Vescovo ha il potere di giurisdizione con l’ordinazione stessa, a prescindere dal fatto che lo riceva dal Papa. Se questa idea fosse stata accolta la Chiesa Cattolica si poteva trasformare in chiesa episcopaliana col Papa ridotto a coordinatore. Invece fu bocciata e Dossetti fu rimosso da Paolo VI. Ma i Vescovi progressisti non hanno mai rinunciato alle loro pretese.

Paolo VI, negli ultimi anni, era diventato una voce che grida nel deserto. L’allora patriarca di Venezia Albino Luciani fu tra i pochi che cercò si opporsi alla dissoluzione: "Sarebbe ora di affermare coraggiosamente che voler essere col Papa non è deteriore complesso di inferiorità, ma frutto dello Spirito Santo". Con Wojtyla il papato ritrovò vigore. Ma ricordo l’ottimo don Divo Barsotti che in un’intervista del 1985 mi diceva: "C’è un grande pericolo, il disgregamento dell’unica Chiesa di Cristo.

I viaggi del Papa, secondo me, esprimono questa drammatica preoccupazione. Il papato negli anni recenti era stato umiliato e isolato. Nessuno voleva più sentir parlare del Papa, soprattutto i Vescovi …". E poi aggiungeva: "ancora non si è superato questo dramma. Ci sono ancora Vescovi che resistono al Papa".
Giustamente Barsotti sottolineava che il Vescovo ha diritto di essere seguito dai fedeli, ma se è in comunione col Papa. Altrimenti fa una sua chiesuola. Lealtà vorrebbe che un Vescovo in disaccordo col Papa si dimettesse. Ma di rinunciare al loro potere clericale non vogliono sentirne parlare. Anzi, purtroppo continuano tuttora a essere nominati Vescovi di area "progressista" che promettono di continuare questa deriva. Perché la burocrazia clericale è ancora in loro potere.

Cosa temono dalla libertà? Perché vogliono impedire al popolo cristiano di pregare come la Chiesa ha pregato per due millenni? Perché nella Chiesa "lex orandi, lex credendi". La Liturgia esprime la dottrina cattolica ortodossa ed è la vera fede che affascina e attrae. Mentre la loro stagione è quella del passato, quella – come denunciò il cardinal Ratzinger – dove i cristiani erano "portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina". In quel memorabile discorso di apertura del Conclave, Ratzinger aggiungeva, amaramente: "Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero...

La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro". Benedetto XVI ora cerca invece di ancorarla alla roccia della tradizione ortodossa. E anche se il "partito clericale" gli ha dichiarato guerra, ha con sé il popolo cristiano.



Fonte: Libero 19-9-2007


Un grande Socci la cui Fede è messa a dura prova dalla Figlia Caterina ancora in coma... ricordiamoci di lei e della sua Famiglia nelle preghiere... 
 
Grazie Socci, e non mollare, sii forte e saldo nella fede, ti siamo vicini!



Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 06:11.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com