Basta la FEDE per salvarsi?

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(Teofilo)
00lunedì 14 settembre 2009 11:09
 

Molti dei fratelli non cattolici sostengono che per salvarsi basta la sola fede, facendo riferimento ad alcuni versetti biblici, presi singolarmente e senza il confronto, la precisazione e il completamento che si trova in altri versetti.

Per non lasciare dubbi che la "sola fede" è solo la condizione preliminare e indispensabile ma non la condizione unica per potersi salvare, ho messo in evidenza qui di seguito alcuni dei tanti testi esistenti nella S.Scrittura per comprendere la posizione trasmessa correttamente dalla Chiesa Cattolica sulla salvezza.

Si noti quante altre condizioni ci devono essere, oltre quella necessaria della FEDE, senza del quale ovviamente è impossibile piacere a Dio e quindi salvarsi:

 

 

1Timoteo 2,15 Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia.

 

Gal. 5,6 Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità.

 

 

Marco 8,35 = Luca 9,24 = Luca 17,33

Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà.

 

Giacomo 1,21 Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime.

 

Matteo 19,17 ...... Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti».

 

Matteo 10,22 e 24,13 ... ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato.

 

Giovanni 8,51 In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte».

 

1Timoteo 4,16 Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano.

 

Matteo 18,3 «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.

 

1Corinzi 3,15 ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco

 

Giacomo 1,23 Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio:

 

Lu 19,22 Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato:...

 

1Giovanni 2,5 ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui.

 

1Giovanni 3,24 Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

 

 

Giov 6,53 Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.

 

 

Giov 3,5 Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio.

 

 

Mat 7,21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.

 

Lu 9,23 Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.

 

Lu 13,24 «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno.

 

2Co 5,2 Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste:3 a condizione però di esser trovati già vestiti, non nudi.

 

Eb 3,14 Siamo diventati infatti partecipi di Cristo, a condizione di mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio.

_________________________________________________________________________________

 

Non credo che i testi addotti abbiano bisogno di molti commenti. Mi limito ad osservare che la strada, non è poi così larga e semplice da percorrere. E la salvezza non è scontata per chi si limita a credere senza trafficare i talenti che ha ricevuto, a mettere in pratica la Parola, ad essere fedele e perseverante fino al termine della vita.

Per questo occorre unire al sacrificio di Cristo per ciascuno di noi, senza del quale le porte del regno sarebbero rimaste chiuse e quindi inaccessibili nonostante tutti i nostri sforzi, anche la nostra compartecipazione lungo tutto il commino della nostra vita, dando a Lui tutta la nostra FIDucia nel Suo aiuto e nella Sua infinita Misericordia e la nostra FEDEltà, che sono i polloni naturali della stessa radice: la FEDE.

Come si concilia allora il concetto che la salvezza è unicamente data per grazia, con questo invito costante ad ottemperare a tante condizioni mettendo in OPERA i nostri sforzi personali?
Si concilia sapendo che anche i nostri sforzi, l'adempimento dei comandamenti e di ogni altra condizione espressa nella Scrittura non sono altro che aiuti della stessa Grazia divina. Quindi tutto è Grazia, anche i nostri meriti.

Caterina63
00lunedì 14 settembre 2009 13:17
L'Angelus del Papa: non basta credere in Dio, occorre amare i fratelli seguendo Gesù sulla via della croce

Non è un vero credente chi dice di avere fede ma non ama in modo concreto i fratelli e non segue Gesù sulla via della croce: è questo in sintesi quanto ha detto il Papa oggi all’Angelus a Castel Gandolfo. Benedetto XVI ha ribadito che il Signore non è venuto a insegnarci una filosofia ma la via che conduce alla vita. Ce ne parla Sergio Centofanti.


Il Papa, commentando le letture della 24.ma Domenica del Tempo Ordinario, esorta i fedeli a rispondere a due questioni cruciali: “Chi è per te Gesù di Nazaret?”. E poi: “La tua fede si traduce in opere oppure no?”. Alla prima domanda Pietro da una risposta netta e immediata: “Tu sei il Cristo”, cioè il Messia, il consacrato di Dio mandato a salvare il suo popolo. “Pietro e gli altri apostoli, dunque – afferma il Papa - a differenza della maggior parte della gente, credono che Gesù non sia solo un grande maestro, o un profeta, ma molto di più. Hanno fede: credono che in Lui è presente e opera Dio”:
 
“Subito dopo questa professione di fede, però, quando Gesù per la prima volta annuncia apertamente che dovrà patire ed essere ucciso, lo stesso Pietro si oppone alla prospettiva di sofferenza e di morte. Gesù allora deve rimproverarlo con forza, per fargli capire che non basta credere che Lui è Dio, ma spinti dalla carità bisogna seguirlo sulla sua stessa strada, quella della croce (cfr Mc 8,31-33). Gesù non è venuto a insegnarci una filosofia, ma a mostrarci una via, anzi, la via che conduce alla vita”.
 
“Questa via – ha aggiunto - è l’amore, che è l’espressione della vera fede”:
 
“Se uno ama il prossimo con cuore puro e generoso, vuol dire che conosce veramente Dio. Se invece uno dice di avere fede, ma non ama i fratelli, non è un vero credente. Dio non abita in lui. Lo afferma chiaramente san Giacomo nella seconda lettura della Messa di questa Domenica: ‘Se non è seguita dalle opere, [la fede] in se stessa è morta’”(Gc 2,17).
 
A questo proposito, il Papa cita uno scritto di San Giovanni Crisostomo, uno dei grandi Padri della Chiesa, che il calendario liturgico invita a ricordare oggi:
 
“Proprio commentando il passo citato della Lettera di Giacomo egli scrive: ‘Uno può anche avere una retta fede nel Padre e nel Figlio, così come nello Spirito Santo, ma se non ha una retta vita, la sua fede non gli servirà per la salvezza. Quando dunque leggi nel Vangelo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio» (Gv 17,3), non pensare che questo verso basti a salvarci: sono necessari una vita e un comportamento purissimi’” (cit. in J.A. Cramer, Catenae graecorum Patrum in N.T., vol. VIII: In Epist. Cath. et Apoc., Oxford 1844).
 
Infine, il Papa ricorda che domani la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce e il giorno seguente la Madonna Addolorata:
 
“La Vergine Maria, che credette alla Parola del Signore, non perse la sua fede in Dio quando vide il suo Figlio respinto, oltraggiato e messo in croce. Rimase piuttosto accanto a Gesù, soffrendo e pregando, fino alla fine. E vide l’alba radiosa della sua Risurrezione. Impariamo da Lei a testimoniare la nostra fede con una vita di umile servizio, pronti a pagare di persona per rimanere fedeli al Vangelo della carità e della verità, certi che nulla va perso di quanto facciamo”.



                     Pope Benedict XVI greets the faithful during his Sunday Angelus prayer at his summer residence of Castelgandolfo, south of Rome, September 13, 2009.


Ulteriore approfondimento:

FEDE E OBBEDIENZA:obbedire per Fede e Amore-Carità



(Teofilo)
00giovedì 17 settembre 2009 21:53
Da: Soprannome MSN7978Pergamena  (Messaggio originale)Inviato: 26/11/2002 19.09

76. - SULLE PAROLE DELL’APOSTOLO GIACOMO:
MA VUOI SAPERE, O INSENSATO, COME
LA FEDE SENZA LE OPERE È SENZA VALORE
?
(Gc 2, 20).

S.Agostino

1. Poiché l’apostolo Paolo, affermando che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere, non è stato bene compreso da quanti hanno interpretato la frase in modo da ritenere che, dopo avere una volta creduto in Cristo, anche se agissero male e conducessero una vita criminosa e perversa, possono ugualmente salvarsi grazie alla fede, il passo di questa lettera (Gc 2, 20) espone come si deve intendere il pensiero stesso dell’apostolo Paolo. Si serve perciò di preferenza dell’esempio di Abramo per dimostrare che la fede, se non opera il bene, è vana. Anche l’apostolo Paolo si è servito dell’esempio di Abramo per confermare che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge (Cf. Rm 4, 2.). Quando ricorda le buone opere di Abramo, che hanno accompagnato la sua fede, mostra a sufficienza che l’apostolo Paolo non ha affatto insegnato, con l’esempio di Abramo, che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere, sicché chi crede non si preoccupi di operare il bene. Ma ha piuttosto insegnato che nessuno deve ritenere di essere giunto per i meriti delle opere precedenti al dono della giustificazione che dipende dalla fede. In questo senso i Giudei si ritenevano superiori ai pagani che credevano in Cristo, in quanto dicevano di essere giunti alla grazia del Vangelo per i meriti delle buone opere prescritte dalla legge. Inoltre molti di coloro che avevano creduto erano scandalizzati perché la grazia di Cristo veniva conferita a pagani incirconcisi. Per questo motivo l’apostolo Paolo afferma che l’uomo può essere giustificato dalla fede senza le opere precedenti. Infatti chi è giustificato dalla fede, come potrebbe in seguito operare diversamente se non secondo giustizia, anche se prima non ha compiuto niente di giusto, essendo pervenuto alla giustificazione della fede non in virtù delle opere buone ma per grazia di Dio, che in lui non può più essere vana, perché ormai opera il bene in forza della carità? Se, dopo aver creduto, egli uscisse subito da questa vita, rimane in lui la giustificazione della fede, senza le buone opere precedenti, perché egli l’ha ottenuta per grazia e non per merito, e neppure le successive, perché non gli è concesso di restare in questa vita. È chiaro perciò che quanto dice l’Apostolo: Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere (Rm 3, 28.), non deve intendersi nel senso che possa chiamarsi giusto chi, avendo ricevuto la fede e restando in vita, vivesse poi malamente. Quindi tanto l’apostolo Paolo si vale dell’esempio di Abramo, perché è stato giustificato per la fede senza le opere della legge, che non aveva ancora ricevuto, quanto Giacomo che mostra che le buone opere sono conseguenza della fede dello stesso Abramo. E così mostra come si debba intendere l’insegnamento di Paolo.

Infatti coloro che ritengono questa sentenza dell’apostolo Giacomo contraria a quella dell’apostolo Paolo, possono anche sostenere che Paolo si contraddice, perché altrove dice: Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati (Rm 2, 13). E in un altro passo: Ma la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5, 6). E ancora: Poiché se vivrete secondo la carne voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete (Rm 8, 13). Quali siano poi le opere della carne, che si devono mortificare con le opere dello Spirito, lo precisa altrove, dicendo: E del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio (Gal 5, 19-21). E ai Corinzi: Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio (1 Cor 6, 9-11). Con queste espressioni insegna a chiarissime lettere che essi sono arrivati alla giustificazione della fede non per qualche buona opera antecedente e che questa grazia non è stata data per i loro meriti, quando dice: E tali eravate voi. Ma quando dice: Quelli che fanno tali cose non erediteranno il regno di Dio, mostra a sufficienza che, dopo aver creduto, devono agire bene. Lo stesso apostolo Paolo predica insistentemente e apertamente in molti luoghi ciò che dice anche Giacomo: che tutti coloro che hanno creduto in Cristo devono vivere rettamente per non incorrere nel castigo. Lo ricorda anche lo stesso Signore, dicendo: Non chiunque mi dice: " Signore, Signore ", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli entrerà nel regno dei cieli (Mt 7, 21). E altrove: Perché mi chiamate: " Signore, Signore ", e poi non fate ciò che dico? (Lc 6, 46). E ancora: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia, ecc. E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia (Mt 7, 24-27), ecc. Pertanto le sentenze dei due Apostoli Paolo e Giacomo non si contraddicono, quando uno dice che l’uomo è giustificato per la fede senza le opere e l’altro dice che la fede senza le opere è vana; perché uno parla delle opere che precedono la fede, l’altro delle opere che seguono la fede, come anche lo stesso Paolo spiega in molti passi.2.

(Teofilo)
00sabato 26 settembre 2009 12:34
Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 25/11/2003 14.27
SOLO FEDE, SOLO OPERE...O TUTTE E DUE?
SIAMO PREDESTINATI??
Sembra che Calvino abbia "copiato" alcune fonti agostiniane (che del resto Lutero doveva conoscere bene...) e tuttavia facendo una "cernita" di quanto scriveva.....
Ok procedemus......Agostino nel suo dialogo con Pelagio, rende palese di credere nella predestinazione.....rialliacciamo i fili...
Libero arbitrio e grazia
Il libero arbitrio ha una grande rilevanza in teologia. Uno dei dogmi fondamentali della teologia cristiana sostiene che Dio è onnisciente e onnipotente, e che ogni azione umana è preordinata da Dio. La dottrina della predestinazione, il corrispettivo teologico del determinismo, sembra
escludere l'esistenza del libero arbitrio
. Poiché moralità e astensione dal peccato sono elementi fondamentali dell'insegnamento cristiano, com'è possibile che gli individui siano moralmente responsabili se si accetta la predestinazione? I teologi hanno cercato in ogni modo di risolvere questo paradosso.
Sant'Agostino, il grande padre e dottore della Chiesa, credeva  nella predestinazione, sostenendo che soltanto gli eletti da Dio avrebbero ottenuto la salvezza. Tuttavia, nessuno, comunque, può sapere se è tra gli eletti: tutti sono quindi tenuti a vivere nel rispetto della religione e nel timore
di Dio
. Per Agostino la libertà era il dono della Grazia divina. Contro Agostino il monaco irlandese Pelagio e i suoi seguaci sostenevano che il peccato originale riguardava solamente Adamo e non l'intero genere umano, e ognuno, benché assistito dalla Grazia divina per raggiungere la salvezza, aveva completa libertà di volere, nello scegliere o nel rifiutare la via tracciata da Dio. Alla fine i teologi cattolici, per spiegare il libero arbitrio, enunciarono la dottrina della "grazia preveniente", secondo la quale Dio concede agli individui la grazia di scegliere di vivere in una condizione di Grazia.

Predestinazione
Nella teologia cristiana, l'insegnamento secondo cui il destino eterno di una persona è predeterminato per immutabile decreto divino. La predestinazione non implica necessariamente una negazione del libero
arbitrio
. La maggior parte degli esponenti della dottrina sostiene che sia predeterminato unicamente il destino eterno di ciascuno, non le sue azioni, che rimangono libere. La dottrina tradizionalmente assume due forme:
predestinazione singola, duplice predestinazione.

Doppia predestinazione
La doppia predestinazione è una conclusione tratta dalla predestinazione singola. Se alcuni godranno della presenza di Dio per sua decisione eterna, altri devono essere separati da Dio, ugualmente per suo decreto. Poiché
salvezza e gloria sono predestinati, ne segue che anche condanna e distruzione devono essere predestinate. Il primo teologo a enunciare la dottrina della doppia predestinazione fu sant'Agostino nel V secolo, senza
avere, però, molti continuatori. Il più noto esponente della doppia predestinazione fu Giovanni Calvino, secondo cui "predestinazione" è l'eterno decreto con il quale Dio ha deciso in sé che cosa sarà di ciascun uomo, perché non tutti sono stati creati per la stessa condizione; al contrario per alcuni è preordinata la vita eterna, per altri la dannazione
eterna
(Institutio 3.21.5). Dopo Agostino, i teologi cattolici hanno rifiutato la doppia predestinazione, sottolineando che non esiste alcuna predestinazione al male e che chi è dannato ne ha la piena responsabilità.

Frasi importanti
Per descrivere il rapporto tra fides et ratio, Agostino enuncia due formule:
crede ut intelligas, intellige ut credas (credi per capire e capisci per credere). All'atarassia scettica si contrappone la desperatio verum inveniendi (disperazione per non trovare la verità). Con la fede Agostino supera l'epochè e cerca di confutare il dubbio scettico razionalmente, cioè illustrando razionalmente ciò che per fede è certezza assoluta. La prima certezza è dal dubbio e dall'errore l'uomo ricava la certezza di esistere "si fallor, ergo sum" (se sbaglio, allora esisto) e "in interiore homine habitat veritas" (la verità dimora nell'uomo interiore).
Ora proviamo a capire che cosa intendeva Agostino e ci accorgeremo che non è quanto intendeva Calvino....buona meditazione, spero che si avrà la pazienza di leggerlo tutto......
Fraternamente Caterina
 

PARTE TERZA

PREDESTINAZIONE

La dottrina della predestinazione dipende totalmente dalle due verità esposte sopra: efficacia e gratuità della grazia. Ammesso che Dio ha sempre in serbo la grazia per condurre infallibilmente gli uomini alla salvezza e che questa grazia è un dono ineffabilmente gratuito, si potrebbe tacere affatto della predestinazione che non è altro, nei piani di Dio, come dice Agostino nella celebre definizione, che " la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio " 1, quei benefici appunto efficaci e gratuiti che conducono l'uomo alla salvezza o più semplicemente, come dice ancora: " la disposizione [da parte di Dio] delle sue opere future: proprio questo, nient'altro, vuol dire predestinare " 2.
Ma questa dottrina ha suscitato troppe controversie nel passato - si ricordi la violenta reazione dei semipelagiani e le distorte interpretazioni dei predestinaziani - e troppe ne suscita anche nel presente 3 per poter tacerne completamente. Ne esporrò pertanto le linee fondamentali, perché sia possibile darne un giudizio che rispetti le leggi della critica, che sono poi le leggi dell'esatta informazione, la quale esclude l'avventatezza e la superficialità, due mali non sempre assenti negli scritti di studiosi anche, per altre ragioni, benemeriti.
Comincerò dunque da una precisazione doverosa per esporne, poi, alcune premesse necessarie, indicarne il senso e i termini del mistero, le grandi verità a cui è legato, le relazioni con la vita pastorale della Chiesa. Importa, soprattutto, quest'ultimo aspetto sul quale il lettore non mancherà di fissare l'attenzione.

CAPITOLO PRIMO

PRECISAZIONE DOVEROSA

La precisazione consiste nell'avvertire il lettore che la dottrina non occupa nel complesso dell'insegnamento agostiniano sulla grazia il posto che molto spesso gli viene attribuito. Questo non è né primario né principale. Non sta infatti tra le verità fondamentali che la Chiesa cattolica, secondo Agostino, difendeva contro i pelagiani.


1. Le tre verità fondamentali

Tra queste verità fondamentali che il dottore della grazia riassume esplicitamente per ben quattro volte, la predestinazione non c'è. Né si sa bene perché ce l'abbiano messa gli studiosi, o forse si sa: la storia delle discussioni teologiche può insegnarci qualcosa. Ma per ora restiamo ad Agostino.
Scrive verso il 420, rispondendo alle due lettere dei pelagiani: " Or dunque i pelagiani con queste e simili testimonianze o voci della verità sono incalzati perché non neghino il peccato originale, perché non dicano che la grazia di Dio con la quale siamo giustificati non é data gratuitamente ma secondo i nostri meriti, perché non dicano che in un uomo mortale, per quanto santo e ben operante, si può trovare tanta giustizia da non essergli necessaria la remismissione dei peccati anche dopo il lavacro della rigenerazione fino a quando non cessi di vivere questa vita. Ma quando sono incalzati a non dire questi tre spropositi... " 4.
Poco dopo, nella stessa opera, ripete in un altro contesto le stesse idee quasi con le stesse parole. Son sempre le tre grandi verità che i cattolici difendevano contro i pelagiani. Questi esaltavano la loro dottrina con le lodi della creazione, delle nozze, della legge, del libero arbitrio, dei santi. Agostino replica che tutto questo va bene; ma essi, purtroppo, lo fanno per ingannare gli ineruditi e gli incauti su quanto negano della dottrina cattolica. Negano infatti le tre grandi verità che la Chiesa difende contro di loro: il peccato originale, la gratuità della grazia, che non viene concessa secondo i meriti, la necessità che ogni uomo, anche giustificato, chieda perdono dei propri peccati 5.
In un'altra opera di più grande respiro, nel Contra Iulianum, scritto l'anno appresso, riassume nella negazione di queste tre verità la ragione della condanna dei pelagiani. " I giudici che vi hanno condannato - scrive - sapevano che voi insegnate che i bambini nascendo non contraggono nulla di male che debba essere purificato rinascendo. Sapevano che voi insegnate che la grazia di Dio viene data secondo i nostri meriti... Sapevano che voi insegnate che l'uomo in questa vita possa non avere alcun peccato... " 6.
Ma è particolarmente significativo che in una delle ultime opere, nel De praedestinatione sanctorum - si sa che il De dono perseverantiae non era che un secondo libro di quest'opera - riassumendo le grandi verità che la Chiesa difendeva contro i pelagiani, nomina le tre ricordate sopra, e non nomina la predestinazione, della quale pur stava parlando e che aveva messo a titolo della sua opera. Data l'importanza del testo, eccolo per intero: " Tre sono i punti, come sapete, che con ogni energia la Chiesa cattolica difende contro di loro. Il primo è che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti, perché anche tutti i meriti dei giusti sono doni di Dio e per grazia di Dio sono conferiti; il secondo è che, per quanto grande sia la sua giustizia, nessuno può vivere in questo corpo corruttibile senza qualche forma di peccato; infine il terzo è che ogni individuo nasce colpevole del peccato del primo uomo e stretto nel vincolo della condanna, a meno che la colpa che si contrae con la generazione non sia eliminata dalla rigenerazione " 7.
Il testo non ha bisogno di commenti. Questo è certo: tra le verità che costituivano oggetto dell'energica difesa contro i pelagiani, non c'è la predestinazione, segno evidente che non era considerata tra le principali. In realtà non lo era, e non lo è. Serviva soltanto, nella convinzione di Agostino, come roccaforte per difendere la gratuità della grazia che era, ed è, una delle tre verità principali. Lo dice e lo ripete. " Che cosa è stato infatti che in questo nostro lavoro ci ha costretto a difendere con maggior completezza e chiarezza i passi della Scrittura nei quali si ribadisce la predestinazione, se non il fatto che i pelagiani dicono che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti? " 8. E conclude: " Bisogna predicare la predestinazione, affinché la vera grazia di Dio, cioè quella che non viene data secondo i nostri meriti, possa essere difesa con una trincea inespugnabile " 9. La stessa conclusione è ripetuta altrove 10.
.La verità dunque che stava a cuore ad Agostino e che difendeva con tutta l'energia dello spirito, convinto di difendere con essa l'insegnamento della Scrittura e della Chiesa e il fondamento stesso e la forma propria della pietà cristiana, non era la predestinazione ma un'altra, anche se connessa con essa; era la gratuità assoluta della grazia. Chi credesse di poter sostenere questa verità fondamentale, che cioè la fede, la giustificazione, la perseveranza finale, e perciò la vita eterna, sono un dono di Dio; sostenerla, dico, senza ricorrere alla predestinazione, lo faccia pure: troverebbe consenziente il vescovo d'Ippona. Ma chi dovesse confessare di non riuscire a farlo, non critichi almeno chi prima di lui ha avuto la stessa convinzione. Non c'è bisogno dunque di " deagostinizzare " - come qualcuno si compiace di dire - la dottrina della predestinazione, ma solo, se si potesse usare questo barbaro termine, di " depredestinazionizzare " la dottrina agostiniana della grazia, dando alla predestinazione il posto che le compete, che non è principale, e che nulla aggiunge alla gratuità della grazia quando non sia il considerarla nei piani di Dio. Dio infatti non può non avere la prescienza e la predisposizione dei suoi doni. Quello che importa dunque è riconoscere questi doni, che era l'unica cosa che Agostino voleva.

(Teofilo)
00sabato 26 settembre 2009 12:36
Nel nostro atteggiamento ordinario circa la nostra salvezza dobbiamo avere al tempo stesso la massima FIDUCIA IN DIO e il massimo TIMORE della nostra debolezza che ci inclina a cedere alle tentazioni quotidiane.

Se siamo eccessivamente tranquilli di essere certamente salvati, rischieremmo di cadere (Dice l'apostolo: Chi crede di stare in piedi guardi di non cadere.1 Cor10,12).

Se invece abbiamo poca o nessuna fiducia nel Signore, che con la sua potenza può aiutarci e accompagnarci nella nostra perseveranza, rischieremmo di cadere nella disperazione. (Dice l'apostolo:
ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare. Rom14,4)

Pertanto, entrambi questi atteggiamenti estremi vanno evitati, mantenendo FIDUCIA unita a TIMORE, ABBANDONO FILIALE unito a TREMORE.

La Chiesa annovera tra i peccati contro lo Spirito Santo sia la vana speranza di salvarsi senza merito che la disperazione della propria salvezza.

Nella nostra intima CONFIDENZA IN DIO dobbiamo avere per certi questi principii:

1) Dio vuole che tutti si salvino e che nessuno si perda.

2) Gesù Cristo ha pagato per tutti ed è morto perchè tutti possano salvarsi.

3) Chi si perde, si perde per propria colpa e non perchè Dio lo abbandona.

4) Dio è fedele e non permette che alcuno sia tentato al di sopra delle proprie forze.

5) Occorre pregare con umiltà e perseveranza per superare ogni tentazione, confidando nell'aiuto di Dio.

Perciò siccome da parte di Dio non vi è alcuna preclusione alla nostra salvezza, e Dio è più forte di tutti, e nessuno può rapirci dalla sua mano, possiamo confidare che, SE da parte nostra faremo tutto quanto è in nostro potere per collaborare con Dio mettendo in atto il nostro libero arbitrio per essergli FEDELI (cioè praticando effettivamente la FEDE), saremo certamente salvati, anche se tale salvezza dovesse essere preceduta da un periodo di purificazione.

(Teofilo)
00giovedì 1 ottobre 2009 12:56

Al seguente collegamento si trova la discussione ampiamente dibattuta
relativa a questo argomento:


CHI PUO' MAI DIRE DI ESSERE SALVATO..?

Caterina63
00sabato 1 maggio 2010 16:51

Una nuova apologetica per rispondere alla domanda su Dio


Congresso internazionale all'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”


ROMA, venerdì, 30 aprile 2010 (ZENIT.org).- Dopo un periodo di forte crisi seguito al Concilio Vaticano II, oggi si avverte sempre più il bisogno di dare nuova linfa a un’apologetica che, pur rimanendo nel solco della tradizione, sia capace di rispondere più direttamente ai quesiti degli uomini del nostro tempo.

E' quanto è emerso in sintesi dal Congresso internazionale dal titolo “Una nuova apologetica per un nuovo millennio”, tenusoti a Roma il 29 e 30 aprile, presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, in cui sono stati approfonditi quei motivi di credibilità della fede cattolica che permettono di proclamare in maniera convincente ed esporre i contenuti della rivelazione con un linguaggio comprensibile per i contemporanei.

Nel saluto al convegno padre Pedro Barrajón, L.C., Rettore dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, ha detto che “oggi l’oppositore alla fede non ha un volto preciso. È piuttosto una corrente difficile da definire e da precisare che si ispira a correnti relativiste e laiciste”.

“La fede – ha continuato – è messa in questione non solo con argomentazioni di ragione ma soprattutto con la presentazione parziale di fatti storici che hanno conquistato ampi spazi culturali e mediatici dove si evidenziano gli errori degli uomini di Chiesa”.

Tuttavia, ancora oggi, la domanda su Dio e quindi sul senso della vita rimane “la più grande sfida dell’uomo contemporaneo”. E infatti “il fenomeno religioso non solo sopravvive a chi voleva ucciderlo, ma sembra più dinamico, operativo e influente nella vita sociale, culturale, economico e addirittura politica”.

Allo stesso tempo, però, si assiste a “un revival delle diverse forme di religiosità, un fenomeno per alcuni imprevisto, per altri inquietante”, soprattutto negli antichi paesi di ispirazione cristiana dove “l’offuscamento della fede convive con forme di ricerca appassionata di una verità che sazi pienamente il desiderio dell’uomo di luce e di amore”.

Armonia tra fede e ragione

Nel suo intervento mons. Giuseppe Lorizio, docente ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense e l'Istituto Superiore di Scienze Religiose "Ecclesia Mater", ha parlato dell'urgenza di restaurare l’armonia tra fede e ragione.

“Oggi – ha detto – si può con sollievo prendere atto di un generalizzato, anche se forse non ancora unanime, consenso dei teologi fondamentali intorno alla necessità di riprendere, accanto alla dimensione dogmatica della propria area disciplinare, la riflessione relativa alla dimensione apologetica della stessa”.

Per recuperare una rinnovata armonia tra fede e ragione, però, occorre “partire dal carattere prismatico dell’atto di fede, dove è possibile all’interno di ciascuna delle sue dimensioni fondamentali (affettività, volontà libera e conoscenza) attivare percorsi che siano in grado di recuperare l’integralità dell’atto stesso, superando ogni riduzionismo tendente ad enfatizzare ed assolutizzare ciascuno di questi aspetti”.

“L’urgenza del recupero di tale armonia – ha continuato – è determinata dalla necessità di porre al riparo la fede stessa da ogni possibile deriva fondamentalista e dalla altrettanto perniciosa esclusione del credere dalla vita pubblica e dalla convivenza civile di popoli e nazioni”.

Mons. Lorizio ha quindi incoraggiato a “raccogliere la sfida di chi ha recente­mente definito la fede una 'pubblica virtù' (Michael Walzer), con la consapevolezza che, quando ciò accade, non esprime il tutto della fede”.

“Essa resta in effetti – ha spiegato – una realtà complessa e al tempo stesso misteriosa”, soprattuto nel suo carattere di dono che non va disgiunto dall'aspetto “della scelta, del coinvolgimento affettivo e dell’esercizio della ragione”.

Come se Dio ci fosse”

Nel prendere la parola il prof. Corrado Gnerre, docente di Storia delle Dottrine teologiche all’Università Europea di Roma, ha illustrato il modello di apologetica indicato da Benedetto XVI con una celebre espressione che da Cardinale pronunciò a Subiaco, il 1° aprile 2005, a pochi giorni dalla sua elezione al Soglio pontificio.

In quell'occasione disse: “Dovremmo (…) capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita ‘ veluti si Deus daretur’, ‘come se Dio ci fosse’.”

L’affermazione del Papa, ha spiegato il prof. Gnerre, “non si presenta come una sorta di opzione fra le tante (ma più conveniente) nel senso esclusivamente pascaliano; bensì un’affermazione che non esclude ma completa l’evidenza razionale di Dio: Dio esiste ed è dimostrabile (Sapienza 13,1)…inoltre è conveniente sul piano esistenziale credere in Lui. Insomma: credendo in Dio l’uomo non solo rispetta la recta ratio ma è anche più felice, vive anche meglio”.

L’intuizione di Benedetto XVI, ha commentato, cioè quella di voler “ricostruire la struttura fondamentale del rapporto uomo-reale, partendo dall’imprescindibilità della presenza di Dio” è tutt’altro che un’espressione “morbida” sul piano metafisico.

Correnti filosofiche contro il cristianesimo

Nel suo intervento, invece, Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia delle dottrine morali e Ricercatore in filosofia morale all’Università Cattolica di Milano, ha tratteggiato i lineamenti fondamentali di alcune delle principali correnti filosofiche in contrasto con il cristianesimo: il nichilismo, il relativismo, lo scientismo ed il consequenzialismo.

Il nichilismo, ha spiegato, sostiene che Dio non esiste però “non formula una prova filosofica convincente dell’inesistenza di Dio. Infatti, i discorsi sull’origine del concetto di Dio (di Marx, Freud e Nietzsche) non dimostrano che Dio non esiste: quand’anche fosse esatta, l’analisi sull’origine di un concetto è diversa dall’analisi sulla verità o falsità del concetto stesso”.

“Se poi la dimostrazione dell’inesistenza di Dio viene individuata nel suicidio – ha aggiunto –, come ritiene Kirillov (ne I demoni di Dostoevskij), si può rispondere che Dio non asseconda le sfide dell’uomo e lo lascia a tal punto libero da consentirgli di suicidarsi”.

Per il relativismo, invece, la verità non esiste ed è inconoscibile, ma così facendo cade in contraddizione” perché “proprio mentre dice: 'tutto è soggettivo' pretende di dire qualcosa di oggettivo, cioè che: 'tutto è soggettivo'” e “proprio mentre dice: 'tutto è relativo', pretende di dire qualcosa di assoluto, cioè che: 'tutto è relativo'”.

“E se l’affermazione relativista presenta se stessa come un’interpretazione che non pretende di essere vera, allora si cade in un regresso all’infinito – ha spiegato il docente –. Ma un’infinità di interpretazioni comporta almeno una conoscenza vera: se infinitamente interpretiamo di interpretare è vero (perlomeno) che stiamo interpretando”.

Per lo scientismo, “solo la scienza può conoscere la verità, solo gli enunciati scientifici hanno un valore conoscitivo” pertanto “l’etica, la religione, la filosofia, l’estetica, ecc. sono squalificate e l’uomo non può indagare sulle grandi domande esistenziali, su Dio, sull’immortalità dell’anima, sul bene/male, sulla libertà, ecc”.

“Un enunciato è scientifico solo se il suo oggetto è suscettibile di una quantificazione-misurazione – ha detto il docente –. Tuttavia, l’affermazione: 'un enunciato è scientifico solo se il suo oggetto è quantificabile-misurabile' non ha un oggetto quantificabile e misurabile, perciò (mantenendo i presupposti dello scientismo) non ha portata conoscitiva, non può dire la verità e dunque lo scientismo si autosqualifica”.

Nel consequenzialismo, poi, “la moralità degli atti va giudicata esclusivamente in base alle loro conseguenze, dunque non esistono atti intrinsecamente e sempre malvagi, né una dignità intangibile dell'essere umano”.

“Ora, però, le conseguenze di un atto non sono quasi mai definitive, bensì sono gravide di altre conseguenze, le quali producono ulteriori conseguenze e così via all’infinito. Pertanto, è impossibile calcolare le conseguenze dell’agire, dato che l’uomo non può conoscere il futuro”.

“In questo modo, tutto diventa lecito e permesso, dato che non esistono né il bene né il male, in quanto gli atti umani non sono né buoni né malvagi”, ha concluso.

I temi della nuova apologetica

Dal canto suo don Pietro Cantoni, docente di Metafisica ed Ecclesiologia presso lo Studio Teologico Interdiocesano “Mons. Enrico Bartoletti” di Camaiore (LU), ha affermato che i temi della nuova apologetica, pur potendo inserirsi nella sequenza divenuta classica di demonstratio religiosa, demonstratio christiana, demonstratio catholica secondo i tre soggetti fondamentali - Dio, Gesù Cristo e la Chiesa –, devono tuttavia adattarsi ai diversi interlocutori e al contesto in cui si trovano.

Ad esemprio, ha osservato, il tema “'Chiesa cattolica', alla luce di un ecumenismo malinteso e frainteso” è “rimasto un po’ troppo in ombra. All’interno della Chiesa cattolica esistono infatti delle tensioni che, pur essendo 'interne' hanno un evidente significato apologetico. Una di queste si polarizza attorno al Concilio Ecumenico Vaticano II”, e sul suo valore di rottura o di continuità.

A questo proposito, ha spiegato, “la Chiesa è una realtà vivente” e che “per una non debole analogia, si identifica con Cristo stesso. Ne è infatti il Corpo. Si tratta quindi di una realtà viva, che nella storia è soggetta a sviluppo. Uno sviluppo non 'tranquillo' e scontato, 'meccanico', ma, ad immagine di Cristo, travagliato, combattuto e spesso 'crocifisso'”.

“Una metodologia corretta sia teologicamente che apologeticamente – ha continuato –, non si affanna a 'dimostrare' direttamente la continuità. Per due fondamentali ragioni: il contenuto è il mistero di Cristo e il mistero non si dimostra, ma se ne mostra piuttosto la credibilità, mettendo in luce la sua armonia interna, sia sincronica che diacronica e confutando le obiezioni che vorrebbero evidenziarne le distonie e le rotture”.

“Non si dimostra – ha precisato – anche perché la continuità è presupposta, come il dato da cui si parte: l’onere di provare che essa non sussiste sta tutto dalla parte di chi la mette in discussione”.

 

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