Benedetto XVI presenta delle Catechesi su alcuni DOTTORI DELLA CHIESA

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Caterina63
00giovedì 10 febbraio 2011 18:22
                                 


L’UDIENZA GENERALE, 02.02.2011


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


Santa Teresa d'Avila [di Gesù]

Cari fratelli e sorelle,

nel corso delle Catechesi che ho voluto dedicare ai
Padri della Chiesa e a grandi figure di teologi e di donne del Medioevo ho avuto modo di soffermarmi anche su alcuni Santi e Sante che sono stati proclamati Dottori della Chiesa per la loro eminente dottrina.

Oggi vorrei iniziare una breve serie di incontri per completare la presentazione dei Dottori della Chiesa. E comincio con una Santa che rappresenta uno dei vertici della spiritualità cristiana di tutti i tempi: santa Teresa d’Avila [di Gesù].

Nasce ad Avila, in Spagna, nel 1515, con il nome di Teresa de Ahumada. Nella sua autobiografia ella stessa menziona alcuni particolari della sua infanzia: la nascita da “genitori virtuosi e timorati di Dio”, all'interno di una famiglia numerosa, con nove fratelli e tre sorelle. Ancora bambina, a meno di 9 anni, ha modo di leggere le vite di alcuni martiri che le ispirano il desiderio del martirio, tanto che improvvisa una breve fuga da casa per morire martire e salire al Cielo (cfr Vita 1, 4); “voglio vedere Dio” dice la piccola ai genitori. Alcuni anni dopo, Teresa parlerà delle sue letture dell'infanzia e affermerà di avervi scoperto la verità, che riassume in due principi fondamentali: da un lato “il fatto che tutto quello che appartiene al mondo di qua, passa”, dall'altro che solo Dio è “per sempre, sempre, sempre”, tema che ritorna nella famosissima poesia “Nulla ti turbi / nulla ti spaventi; / tutto passa. Dio non cambia; / la pazienza ottiene tutto; / chi possiede Dio / non manca di nulla / Solo Dio basta!”. Rimasta orfana di madre a 12 anni, chiede alla Vergine Santissima che le faccia da madre (cfr Vita 1, 7).

Se nell’adolescenza la lettura di libri profani l'aveva portata alle distrazioni di una vita mondana, l'esperienza come alunna delle monache agostiniane di Santa Maria delle Grazie di Avila e la frequentazione di libri spirituali, soprattutto classici di spiritualità francescana, le insegnano il raccoglimento e la preghiera. All’età di 20 anni, entra nel monastero carmelitano dell'Incarnazione, sempre ad Avila; nella vita religiosa assume il nome di Teresa di Gesù. Tre anni dopo, si ammala gravemente, tanto da restare per quattro giorni in coma, apparentemente morta (cfr Vita 5, 9). Anche nella lotta contro le proprie malattie la Santa vede il combattimento contro le debolezze e le resistenze alla chiamata di Dio: “Desideravo vivere - scrive - perché capivo bene che non stavo vivendo, ma stavo lottando con un'ombra di morte, e non avevo nessuno che mi desse vita, e neppure io me la potevo prendere, e Colui che poteva darmela aveva ragione di non soccorrermi, dato che tante volte mi aveva volto verso di Lui, e io l'avevo abbandonato” (Vita 8, 2). Nel 1543 perde la vicinanza dei famigliari: il padre muore e tutti i suoi fratelli emigrano uno dopo l'altro in America. Nella Quaresima del 1554, a 39 anni, Teresa giunge al culmine della lotta contro le proprie debolezze. La scoperta fortuita della statua di “un Cristo molto piagato” segna profondamente la sua vita (cfr Vita 9). La Santa, che in quel periodo trova profonda consonanza con il sant'Agostino delle Confessioni, così descrive la giornata decisiva della sua esperienza mistica: “Accadde... che d'improvviso mi venne un senso della presenza di Dio, che in nessun modo potevo dubitare che era dentro di me o che io ero tutta assorbita in Lui” (Vita 10, 1).

Parallelamente alla maturazione della propria interiorità, la Santa inizia a sviluppare concretamente l'ideale di riforma dell'Ordine carmelitano: nel 1562 fonda ad Avila, con il sostegno del Vescovo della città, don Alvaro de Mendoza, il primo Carmelo riformato, e poco dopo riceve anche l'approvazione del Superiore Generale dell'Ordine, Giovanni Battista Rossi. Negli anni successivi prosegue le fondazioni di nuovi Carmeli, in totale diciassette. Fondamentale è l'incontro con san Giovanni della Croce, col quale, nel 1568, costituisce a Duruelo, vicino ad Avila, il primo convento di Carmelitani Scalzi. Nel 1580 ottiene da Roma l'erezione in Provincia autonoma per i suoi Carmeli riformati, punto di partenza dell'Ordine Religioso dei Carmelitani Scalzi. Teresa termina la sua vita terrena proprio mentre è impegnata nell'attività di fondazione. Nel 1582, infatti, dopo aver costituto il Carmelo di Burgos e mentre sta compiendo il viaggio di ritorno verso Avila, muore la notte del 15 ottobre ad Alba de Tormes, ripetendo umilmente due espressioni: “Alla fine, muoio da figlia della Chiesa” e “E' ormai ora, mio Sposo, che ci vediamo”. Un’esistenza consumata all'interno della Spagna, ma spesa per la Chiesa intera. Beatificata dal Papa Paolo V nel 1614 e canonizzata nel 1622 da Gregorio XV, è proclamata “Dottore della Chiesa” dal Servo di Dio Paolo VI nel 1970.

Teresa di Gesù non aveva una formazione accademica, ma ha sempre fatto tesoro degli insegnamenti di teologi, letterati e maestri spirituali. Come scrittrice, si è sempre attenuta a ciò che personalmente aveva vissuto o aveva visto nell’esperienza di altri (cfr Prologo al Cammino di Perfezione), cioè a partire dall'esperienza.

Teresa ha modo di intessere rapporti di amicizia spirituale con molti Santi, in particolare con san Giovanni della Croce. Nello stesso tempo, si alimenta con la lettura dei Padri della Chiesa, san Girolamo, san Gregorio Magno, sant'Agostino. Tra le sue opere maggiori va ricordata anzitutto l’autobiografia, intitolata Libro della vita, che ella chiama Libro delle Misericordie del Signore. Composta nel Carmelo di Avila nel 1565, riferisce il percorso biografico e spirituale, scritto, come afferma Teresa stessa, per sottoporre la sua anima al discernimento del “Maestro degli spirituali”, san Giovanni d'Avila. Lo scopo è di evidenziare la presenza e l'azione di Dio misericordioso nella sua vita: per questo, l'opera riporta spesso il dialogo di preghiera con il Signore. E’ una lettura che affascina, perché la Santa non solo racconta, ma mostra di rivivere l’esperienza profonda del suo rapporto con Dio. Nel 1566, Teresa scrive il Cammino di Perfezione, da lei chiamato Ammonimenti e consigli che dà Teresa di Gesù alle sue monache. Destinatarie sono le dodici novizie del Carmelo di san Giuseppe ad Avila. Α loro Teresa propone un intenso programma di vita contemplativa al servizio della Chiesa, alla cui base vi sono le virtù evangeliche e la preghiera. Tra i passaggi più preziosi il commento al Padre nostro, modello di preghiera.

L'opera mistica più famosa di santa Teresa è il Castello interiore, scritto nel 1577, in piena maturità. Si tratta di una rilettura del proprio cammino di vita spirituale e, allo stesso tempo, di una codificazione del possibile svolgimento della vita cristiana verso la sua pienezza, la santità, sotto l'azione dello Spirito Santo. Teresa si richiama alla struttura di un castello con sette stanze, come immagine dell'interiorità dell'uomo, introducendo, al tempo stesso, il simbolo del baco da seta che rinasce in farfalla, per esprimere il passaggio dal naturale al soprannaturale.

La Santa si ispira alla Sacra Scrittura, in particolare al Cantico dei Cantici, per il simbolo finale dei “due Sposi”, che le permette di descrivere, nella settima stanza, il culmine della vita cristiana nei suoi quattro aspetti: trinitario, cristologico, antropologico ed ecclesiale. Alla sua attività di fondatrice dei Carmeli riformati, Teresa dedica il Libro delle fondazioni, scritto tra il 1573 e il 1582, nel quale parla della vita del gruppo religioso nascente. Come nell'autobiografia, il racconto è teso a evidenziare soprattutto l'azione di Dio nell'opera di fondazione dei nuovi monasteri.

Non è facile riassumere in poche parole la profonda e articolata spiritualità teresiana. Vorrei menzionare alcuni punti essenziali.

In primo luogo, santa Teresa propone le virtù evangeliche come base di tutta la vita cristiana e umana: in particolare, il distacco dai beni o povertà evangelica, e questo concerne tutti noi; l'amore gli uni per gli altri come elemento essenziale della vita comunitaria e sociale; l'umiltà come amore alla verità; la determinazione come frutto dell'audacia cristiana; la speranza teologale, che descrive come sete di acqua viva. Senza dimenticare le virtù umane: af­fabilità, veracità, modestia, cortesia, allegria, cultura. In secondo luogo, santa Teresa propone una profonda sintonia con i grandi personaggi biblici e l'ascolto vivo della Parola di Dio. Ella si sente in consonanza soprattutto con la sposa del Cantico dei Cantici e con l'apostolo Paolo, oltre che con il Cristo della Passione e con il Gesù Eucaristico.

La Santa sottolinea poi quanto è essenziale la preghiera; pregare, dice, “significa frequentare con amicizia, poiché frequentiamo a tu per tu Colui che sappiamo che ci ama” (Vita 8, 5) . L'idea di santa Teresa coincide con la definizione che san Tommaso d'Aquino dà della carità teologale, come “amicitia quaedam hominis ad Deum”, un tipo di amicizia dell’uomo con Dio, che per primo ha offerto la sua amicizia all’uomo; l'iniziativa viene da Dio (cfr Summa Theologiae II-ΙI, 23, 1). La preghiera è vita e si sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana: comincia con la preghiera vocale, passa per l'interiorizzazione attraverso la meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all'unione d'amore con Cristo e con la Santissima Trinità. Ovviamente non si tratta di uno sviluppo in cui salire ai gradini più alti vuol dire lasciare il precedente tipo di preghiera, ma è piuttosto un approfondirsi graduale del rapporto con Dio che avvolge tutta la vita. Più che una pedagogia della preghiera, quella di Teresa è una vera "mistagogia": al lettore delle sue opere insegna a pregare pregando ella stessa con lui; frequentemente, infatti, interrompe il racconto o l'esposizione per prorompere in una preghiera.

Un altro tema caro alla Santa è la centralità dell'umanità di Cristo. Per Teresa, infatti, la vita cristiana è relazione personale con Gesù, che culmina nell'unione con Lui per grazia, per amore e per imitazione. Da ciò l'importanza che ella attribuisce alla meditazione della Passione e all'Eucaristia, come presenza di Cristo, nella Chiesa, per la vita di ogni credente e come cuore della liturgia. Santa Teresa vive un amore incondizionato alla Chiesa: ella manifesta un vivo “sensus Ecclesiae” di fronte agli episodi di divisione e conflitto nella Chiesa del suo tempo. Riforma l'Ordine carmelitano con l'intenzione di meglio servire e meglio difendere la “Santa Chiesa Cattolica Romana”, ed è disposta a dare la vita per essa (cfr Vita 33, 5).

Un ultimo aspetto essenziale della dottrina teresiana, che vorrei sottolineare, è la perfezione, come aspirazione di tutta la vita cristiana e meta finale della stessa. La Santa ha un'idea molto chiara della “pienezza” di Cristo, rivissuta dal cristiano. Alla fine del percorso del Castello interiore, nell'ultima “stanza” Teresa descrive tale pienezza, realizzata nell'inabitazione della Trinità, nell'unione a Cristo attraverso il mistero della sua umanità.

Cari fratelli e sorelle, santa Teresa di Gesù è vera maestra di vita cristiana per i fedeli di ogni tempo. Nella nostra società, spesso carente di valori spirituali, santa Teresa ci insegna ad essere testimoni instancabili di Dio, della sua presenza e della sua azione, ci insegna a sentire realmente questa sete di Dio che esiste nella profondità del nostro cuore, questo desiderio di vedere Dio, di cercare Dio, di essere in colloquio con Lui e di essere suoi amici. Questa è l'amicizia che è necessaria per noi tutti e che dobbiamo cercare, giorno per giorno, di nuovo.

L’esempio di questa Santa, profondamente contemplativa ed efficacemente operosa, spinga anche noi a dedicare ogni giorno il giusto tempo alla preghiera, a questa apertura verso Dio, a questo cammino per cercare Dio, per vederlo, per trovare la sua amicizia e così la vera vita; perché realmente molti di noi dovrebbero dire: “non vivo, non vivo realmente, perché non vivo l'essenza della mia vita”. Per questo il tempo della preghiera non è tempo perso, è tempo nel quale si apre la strada della vita, si apre la strada per imparare da Dio un amore ardente a Lui, alla sua Chiesa, e una carità concreta per i nostri fratelli. Grazie.

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Desidero salutare con affetto i religiosi, le religiose e tutte le persone consacrate in questa giornata che è dedicata in modo speciale alla vita consacrata, nella festa liturgica della Presentazione di Gesù al Tempio. Cari fratelli e sorelle, benedico di cuore ciascuno di voi e il vostro cammino nella Chiesa.

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare, ai fedeli provenienti dalla diocesi di Caltagirone, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Calogero Peri, e ai Vescovi amici della Comunità di Sant’Egidio. Vi ringrazio tutti della vostra presenza e vi incoraggio a seguire con fedeltà Gesù e il suo Vangelo.

Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Abbiamo celebrato l’altro ieri la memoria liturgica di san Giovanni Bosco, sacerdote ed educatore. Guardate a lui, cari giovani, come a un autentico maestro di vita e di santità. Voi, cari ammalati, apprendete dalla sua esperienza spirituale a confidare in ogni circostanza in Cristo crocifisso. E voi, cari sposi novelli, ricorrete alla sua intercessione perché vi aiuti ad assumere con generosità la vostra missione di sposi.


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Un bambino all'udienza lascia il suo posto e corre dal Papa....


A boy runs to hug Pope Benedict XVI as he leads a weekly general audience in Paul VI Hall at the Vatican February 2, 2011.A boy runs to hug Pope Benedict XVI as he leads a weekly general audience in Paul VI Hall at the Vatican February 2, 2011.

Pope Benedict XVI greets a child during his weekly general audience on on February 2, 2011, in Paul VI hall at The Vatican.Pope Benedict XVI kisses a boy, who managed to sneak through security and reach the papal throne, during a weekly general audience in Paul VI Hall at the Vatican February 2, 2011.
Pope Benedict XVI kisses a boy, who managed to sneak through security and reach the papal throne, during a weekly general audience in Paul VI Hall at the Vatican February 2, 2011.

Pope Benedict XVI greets a child during his weekly general audience on on February 2, 2011, in Paul VI hall at The Vatican.Pope Benedict XVI and personal secretary Monsignor Georg Gaenswein (R) speak to a child during his weekly general audience on February 2, 2011, in Paul VI hall at The Vatican.

A boy, who managed to sneak through security and reach the papal throne, is carried outside by security after he met Pope Benedict XVI during a weekly general audience in Paul VI Hall at the Vatican February 2, 2011.
Caterina63
00giovedì 10 febbraio 2011 18:30
 
 Pietro Canisio: fedeltà al dogma e rispetto persona
 
CITTA' DEL VATICANO, 9 FEB. 2011 (VIS). Benedetto XVI ha dedicato la catechesi dell'Udienza Generale del Mercoledì a San Pietro Canisio (1521-1597), proclamato "secondo Apostolo della Germania" da Papa Leone XIII nel 1897 e canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa da Papa Pio XI nel 1925.
 
  Pietro Canisio nacque a Nimega (Paesi Bassi), entrò nella Compagnia di Gesù nel 1543 e fu ordinato sacerdote nel 1546. Nel 1548 Sant'Ignazio di Loyola lo inviò a Roma per completare la formazione spirituale. Nel 1549 partì per il Ducato di Baviera, che per parecchi anni fu il luogo del suo ministero. Come decano, rettore e vicecancelliere dell'Università di Ingolstadt, curò la vita accademica dell'Istituto e la riforma religiosa e morale del popolo. A Vienna, dove per breve tempo fu amministratore della Diocesi, svolse il  ministero pastorale negli ospedali e nelle carceri. Nel 1556 fondò il Collegio di Praga e, fino al 1569, fu il primo superiore della provincia gesuita della Germania superiore.
 
  "In questo ufficio" - ha detto il Papa - "stabilì nei Paesi germanici una fitta rete di comunità del suo Ordine, specialmente di Collegi, che furono punti di partenza per la riforma cattolica. In quel tempo partecipò anche al colloquio di Worms con i dirigenti protestanti, tra i quali Filippo Melantone (1557); svolse la funzione di Nunzio pontificio in Polonia (1558); partecipò alle due Diete di Augusta (1559 e 1565); accompagnò il Cardinale Stanislao Hozjusz, legato del Papa Pio IV presso l'Imperatore Ferdinando (1560); intervenne alla Sessione finale del Concilio di Trento dove parlò sulla questione della Comunione sotto le due specie e dell'Indice dei libri proibiti (1562). Nel 1580 si ritirò a Friburgo in Svizzera, tutto dedito alla predicazione e alla composizione delle sue opere, e là morì il 21 dicembre 1597. (...) Fu editore delle opere complete di san Cirillo d'Alessandria e di san Leone Magno, delle Lettere di san Girolamo e delle Orazioni di san Nicola della Fluë".
 
  "I suoi scritti più diffusi furono i tre Catechismi composti tra il 1555 e il 1558. Il primo era destinato agli studenti in grado di comprendere nozioni elementari di teologia; il secondo ai ragazzi del popolo per una prima istruzione religiosa; il terzo ai ragazzi con una formazione scolastica a livello di scuole medie e superiori".
 
  "È, questa, una caratteristica di san Pietro Canisio" - ha detto il Papa - "saper comporre armoniosamente la fedeltà ai principi dogmatici con il rispetto dovuto ad ogni persona (...). In un momento storico di forti contrasti confessionali, evitava l'asprezza e la retorica dell'ira - cosa abbastanza rara a quei tempi nelle discussioni tra cristiani, dall'una e dall'altra parte - e mirava soltanto alla presentazione delle radici spirituali e alla rivitalizzazione della fede della Chiesa".
 
  "Negli scritti destinati all'educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull'importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa" - ha spiegato il Santo Padre sottolineando che: "Si tratta di un'esortazione e di un metodo che conservano intatto il loro valore, specialmente dopo che sono stati riproposti autorevolmente dal Concilio Vaticano II".
 
  Pietro Canisio "insegna con chiarezza" - ha concluso il Pontefice - "che il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone personale di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un'orazione incessante come l'amore".



                                                   


L’UDIENZA GENERALE, 09.02.2011

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Pietro Canisio

Cari fratelli e sorelle,

Oggi vorrei parlarvi di san Pietro Kanis, Canisio nella forma latinizzata del suo cognome, una figura molto importante nel Cinquecento cattolico. Era nato l’8 maggio 1521 a Nimega, in Olanda. Suo padre era borgomastro della città.
Mentre era studente all’Università di Colonia, frequentò i monaci Certosini di santa Barbara, un centro propulsivo di vita cattolica, e altri pii uomini che coltivavano la spiritualità della cosiddetta devotio moderna. Entrò nella Compagnia di Gesù l’8 maggio 1543 a Magonza (Renania – Palatinato), dopo aver seguito un corso di esercizi spirituali sotto la guida del beato Pierre Favre, Petrus Faber, uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola. Ordinato sacerdote nel giugno 1546 a Colonia, già l’anno seguente, come teologo del Vescovo di Augusta, il cardinale Otto Truchsess von Waldburg, fu presente al Concilio di Trento, dove collaborò con due confratelli, Diego Laínez e Alfonso Salmerón.

Nel 1548, sant’Ignazio gli fece completare a Roma la formazione spirituale e lo inviò poi nel Collegio di Messina a esercitarsi in umili servizi domestici. Conseguito a Bologna il dottorato in teologia il 4 ottobre 1549, fu destinato da sant'Ignazio all'apostolato in Germania. Il 2 settembre di quell'anno, il '49, visitò Papa Paolo III in Castel Gandolfo e poi si recò nella Basilica di San Pietro per pregare. Qui implorò l'aiuto dei grandi Santi Apostoli Pietro e Paolo, che dessero efficacia permanente alla Benedizione Apostolica per il suo grande destino, per la sua nuova missione. Nel suo diario annotò alcune parole di questa preghiera. Dice: "Là io ho sentito che una grande consolazione e la presenza della grazia mi erano concesse per mezzo di tali intercessori [Pietro e Paolo]. Essi confermavano la mia missione in Germania e sembravano trasmettermi, come ad apostolo della Germania, l’appoggio della loro benevolenza. Tu conosci, Signore, in quanti modi e quante volte in quello stesso giorno mi hai affidato la Germania per la quale in seguito avrei continuato ad essere sollecito, per la quale avrei desiderato vivere e morire".

Dobbiamo tenere presente che ci troviamo nel tempo della Riforma luterana, nel momento in cui la fede cattolica nei Paesi di lingua germanica, davanti al fascino della Riforma, sembrava spegnersi. Era un compito quasi impossibile quello di Canisio, incaricato di rivitalizzare, di rinnovare la fede cattolica nei Paesi germanici. Era possibile solo in forza della preghiera. Era possibile solo dal centro, cioè da una profonda amicizia personale con Gesù Cristo; amicizia con Cristo nel suo Corpo, la Chiesa, che va nutrita nell'Eucaristia, Sua presenza reale.

Seguendo la missione ricevuta da Ignazio e da Papa Paolo III, Canisio partì per la Germania e partì innanzitutto per il Ducato di Baviera, che per parecchi anni fu il luogo del suo ministero. Come decano, rettore e vicecancelliere dell’Università di Ingolstadt, curò la vita accademica dell’Istituto e la riforma religiosa e morale del popolo. A Vienna, dove per breve tempo fu amministratore della Diocesi, svolse il ministero pastorale negli ospedali e nelle carceri, sia nella città sia nelle campagne, e preparò la pubblicazione del suo Catechismo. Nel 1556 fondò il Collegio di Praga e, fino al 1569, fu il primo superiore della provincia gesuita della Germania superiore.

In questo ufficio, stabilì nei Paesi germanici una fitta rete di comunità del suo Ordine, specialmente di Collegi, che furono punti di partenza per la riforma cattolica, per il rinnovamento della fede cattolica. In quel tempo partecipò anche al colloquio di Worms con i dirigenti protestanti, tra i quali Filippo Melantone (1557); svolse la funzione di Nunzio pontificio in Polonia (1558); partecipò alle due Diete di Augusta (1559 e 1565); accompagnò il Cardinale Stanislao Hozjusz, legato del Papa Pio IV presso l’Imperatore Ferdinando (1560); intervenne alla Sessione finale del Concilio di Trento dove parlò sulla questione della Comunione sotto le due specie e dell’Indice dei libri proibiti (1562).

Nel 1580 si ritirò a Friburgo in Svizzera, tutto dedito alla predicazione e alla composizione delle sue opere, e là morì il 21 dicembre 1597. Beatificato dal beato Pio IX nel 1864, fu proclamato nel 1897 secondo Apostolo della Germania dal Papa Leone XIII, e dal Papa Pio XI canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa nel 1925.

San Pietro Canisio trascorse buona parte della sua vita a contatto con le persone socialmente più importanti del suo tempo ed esercitò un influsso speciale con i suoi scritti. Fu editore delle opere complete di san Cirillo d’Alessandria e di san Leone Magno, delle Lettere di san Girolamo e delle Orazioni di san Nicola della Fluë. Pubblicò libri di devozione in varie lingue, le biografie di alcuni Santi svizzeri e molti testi di omiletica.

Ma i suoi scritti più diffusi furono i tre Catechismi composti tra il 1555 e il 1558.

Il primo Catechismo era destinato agli studenti in grado di comprendere nozioni elementari di teologia; il secondo ai ragazzi del popolo per una prima istruzione religiosa; il terzo ai ragazzi con una formazione scolastica a livello di scuole medie e superiori. La dottrina cattolica era esposta con domande e risposte, brevemente, in termini biblici, con molta chiarezza e senza accenni polemici. Solo nel tempo della sua vita sono state ben 200 le edizioni di questo Catechismo! E centinaia di edizioni si sono succedute fino al Novecento.

Così in Germania, ancora nella generazione di mio padre, la gente chiamava il Catechismo semplicemente il Canisio: è realmente il catechista per secoli, ha formato la fede di persone per secoli.

È, questa, una caratteristica di san Pietro Canisio: saper comporre armoniosamente la fedeltà ai principi dogmatici con il rispetto dovuto ad ogni persona. San Canisio ha distinto l'apostasia consapevole, colpevole, dalla fede, dalla perdita della fede incolpevole, nelle circostanze. E ha dichiarato, nei confronti di Roma, che la maggior parte dei tedeschi passata al Protestantesimo era senza colpa.

In un momento storico di forti contrasti confessionali, evitava - questa è una cosa straordinaria - l’asprezza e la retorica dell’ira - cosa rara come ho detto a quei tempi nelle discussioni tra cristiani, - e mirava soltanto alla presentazione delle radici spirituali e alla rivitalizzazione della fede nella Chiesa. A ciò servì la conoscenza vasta e penetrante che ebbe della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa: la stessa conoscenza che sorresse la sua personale relazione con Dio e l’austera spiritualità che gli derivava dalla devotio moderna e dalla mistica renana.

È caratteristica per la spiritualità di san Canisio una profonda amicizia personale con Gesù. Scrive, per esempio, il 4 settembre 1549 nel suo diario, parlando con il Signore: "Tu, alla fine, come se mi aprissi il cuore del Sacratissimo Corpo, che mi sembrava di vedere davanti a me, mi hai comandato di bere a quella sorgente, invitandomi per così dire ad attingere le acque della mia salvezza dalle tue fonti, o mio Salvatore".

E poi vede che il Salvatore gli dà un vestito con tre parti che si chiamano pace, amore e perseveranza. E con questo vestito composto da pace, amore e perseveranza, il Canisio ha svolto la sua opera di rinnovamento del cattolicesimo. Questa sua amicizia con Gesù - che è il centro della sua personalità - nutrita dall'amore della Bibbia, dall'amore del Sacramento, dall'amore dei Padri, questa amicizia era chiaramente unita con la consapevolezza di essere nella Chiesa un continuatore della missione degli Apostoli. E questo ci ricorda che ogni autentico evangelizzatore è sempre uno strumento unito, e perciò stesso fecondo, con Gesù e con la sua Chiesa.

All’amicizia con Gesù san Pietro Canisio si era formato nell’ambiente spirituale della Certosa di Colonia, nella quale era stato a stretto contatto con due mistici certosini: Johann Lansperger, latinizzato in Lanspergius, e Nicolas van Hesche, latinizzato in Eschius. Successivamente approfondì l’esperienza di quell’amicizia, familiaritas stupenda nimis, con la contemplazione dei misteri della vita di Gesù, che occupano larga parte negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. La sua intensa devozione al Cuore del Signore, che culminò nella consacrazione al ministero apostolico nella Basilica Vaticana, trova qui il suo fondamento.

Nella spiritualità cristocentrica di san Pietro Canisio si radica un profondo convincimento: non si dà anima sollecita della propria perfezione che non pratichi ogni giorno la preghiera, l’orazione mentale, mezzo ordinario che permette al discepolo di Gesù di vivere l’intimità con il Maestro divino.

Perciò, negli scritti destinati all’educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull’importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa.

Si tratta di un’esortazione e di un metodo che conservano intatto il loro valore, specialmente dopo che sono stati riproposti autorevolmente dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: la vita cristiana non cresce se non è alimentata dalla partecipazione alla Liturgia, in modo particolare alla santa Messa domenicale, e dalla preghiera personale quotidiana, dal contatto personale con Dio. In mezzo alle mille attività e ai molteplici stimoli che ci circondano, è necessario trovare ogni giorno dei momenti di raccoglimento davanti al Signore per ascoltarlo e parlare con Lui.

Allo stesso tempo, è sempre attuale e di permanente valore l’esempio che san Pietro Canisio ci ha lasciato, non solo nelle sue opere, ma soprattutto con la sua vita. Egli insegna con chiarezza che il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone personale di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un’orazione incessante come l’amore. E questo vale per ogni cristiano che voglia vivere con impegno e fedeltà la sua adesione a Cristo.

Grazie.




                         


 
Caterina63
00mercoledì 16 febbraio 2011 14:42
                                                     

L’UDIENZA GENERALE, 16.02.2011

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha incentrato la sua meditazione sulla figura di San Giovanni della Croce, sacerdote dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi e dottore della Chiesa (1542-1591).
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Giovanni della Croce

Cari fratelli e sorelle,

due settimane fa ho presentato
la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù.

Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, "Dottore mistico".

Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez. La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un'umile tessitrice di seta. Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale. Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena. Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell'Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche. Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.

Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Mattia. L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall'affetto dei famigliari. Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù. L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell'Ordine e propose a Giovanni di aderirvi "per maggior gloria di Dio"; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto. I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila. Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni.

Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora "della Croce", come sarà poi universalmente conosciuto. Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora. Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi. ! quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.

L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell'Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale.

Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città. Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada. Assunse incarichi sempre più importanti nell'Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali. Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica. Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l'ufficio di superiore di quella comunità. Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico. Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente. Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze. Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l'Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: "Oggi vado a cantare l'Ufficio in cielo". I suoi resti mortali furono traslati a Segovia. Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.

Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d'amor viva.

Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d'amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e "pulisce" l'anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell'anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell'unione con Dio nell'eternità.

L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l'itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell'anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo.

Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l'azione divina, per liberare l'anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all'unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l'intenzione, la memoria e la volontà.

La Notte oscura descrive l'aspetto "passivo", ossia l'intervento di Dio in questo processo di "purificazione" dell'anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all'unione d'amore con Lui. San Giovanni definisce "passiva" tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall'anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.

Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi. Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono.

Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé. La fede, comunque, è l’unica fonte donata all'uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino. Tutto quello che Dio voleva comunicare all'uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6).

Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all'amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l'insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa "purificazione" non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l'anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita. Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l'uomo può fare è "disporsi", essere aperto all'azione divina e non porle ostacoli. Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno.

Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l'anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l'anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall'amore divino e si rallegra completamente in esso.

Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell'ascesa mistica?

Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un "volare sulle nuvole mistiche", ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell'ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle.

E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l'andare con Cristo, "la Via", non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello.

Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un'opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa "apertura": aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell'apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti.

Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione.
Grazie.

                            Pope Benedict XVI looks on as he leads his weekly audience in Paul VI's hall at the Vatican February 16, 2011.

Caterina63
00mercoledì 23 febbraio 2011 15:51
San Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa, dice il Papa: è punto di riferimento per l'ecclesiologia cattolica
 
CITTA' DEL VATICANO, 23 FEB. 2011 (VIS). Benedetto XVI ha dedicato la catechesi dell'Udienza Generale di oggi, tenutasi nell'Aula Paolo VI, con la  partecipazione di 7.500 persone, alla figura di San Roberto Bellarmino (1542-1621), figura di spicco in un'epoca difficile "quando una grave crisi politica e religiosa provocò il distacco di intere Nazioni dalla Sede Apostolica".
 
  San Roberto Bellarmino "ebbe un'eccellente formazione umanistica prima di entrare nella Compagnia di Gesù il 20 settembre 1560". Compì gli studi di filosofia e teologia, tra il Collegio Romano, Padova e Lovanio. Fu creato Cardinale dal Papa Clemente VIII e nominato Arcivescovo di Capua, ricoprendo incarichi di alta responsabilità al servizio del Papa. Fu membro delle Congregazioni del Sant'Uffizio, dell'Indice, dei Riti, dei Vescovi e della Propagazione della Fede. Ebbe anche incarichi diplomatici, presso la Repubblica di Venezia e l'Inghilterra, a difesa dei diritti della Sede Apostolica. Nei suoi ultimi anni compose vari libri di spiritualità nei quali condensò il frutto dei suoi esercizi spirituali annuali. Fu beatificato nel 1923 e canonizzato nel 1930 da Papa Pio XI che lo proclamò Dottore della Chiesa nel 1931.
 
  "Le sue 'Controversiae' costituirono un punto di riferimento ancora valido per l'ecclesiologia cattolica sulle questioni circa la Rivelazione, la natura della Chiesa, i Sacramenti e l'antropologia teologica. In esse appare accentuato l'aspetto istituzionale della Chiesa, a motivo degli errori che allora circolavano su tali questioni. Tuttavia Bellarmino chiarì gli aspetti invisibili della Chiesa come Corpo Mistico e li illustrò con l'analogia del corpo e dell'anima, al fine di descrivere il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa e gli aspetti esteriori che la rendono percepibile".
 
  "In questa monumentale opera, che tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell'epoca" - ha spiegato il Pontefice - "egli evita ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delle idee della Riforma, ma utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa, illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica".
 
  "Tuttavia, la sua eredità sta nel modo con cui concepì il suo lavoro. I gravosi uffici di governo non gli impedirono, infatti, di tendere quotidianamente verso la santità con la fedeltà alle esigenze del proprio stato di religioso, sacerdote e vescovo. (...) La sua predicazione e le sue catechesi presentano quel medesimo carattere di essenzialità che aveva appreso dall'educazione ignaziana, tutta rivolta a concentrare le forze dell'anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato".
 
  "Nel 'De gemitu columbae' - Il gemito della colomba, dove la colomba rappresenta la Chiesa - richiama con forza clero e fedeli tutti ad una riforma personale e concreta della propria vita seguendo quello che insegnano la Scrittura e i Santi (...). Il Bellarmino insegna con grande chiarezza e con l'esempio della vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c'è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore".
 
  "'Se hai saggezza, comprendi che sei creato per la gloria di Dio e per la tua eterna salvezza'. (...) Avvenimenti prosperi o avversi, ricchezze e povertà, salute e malattia, onori e oltraggi, vita e morte, il sapiente non deve né cercarli, né fuggirli per se stesso" - scrive San Roberto Bellarmino - "Ma sono buoni e desiderabili solo se contribuiscono alla gloria di Dio e alla tua felicità eterna, sono cattivi e da fuggire se la ostacolano'".
 
  "Ovviamente non sono parole passate di moda, ma da meditare anche oggi a lungo per orientare il nostro cammino su questa terra. Ci ricordano che il fine della nostra vita è il Signore (...). Ci ricordano l'importanza di confidare nel Signore, di spenderci in una vita fedele al Vangelo, di accettare e illuminare con la fede e con la preghiera ogni circostanza e ogni azione della nostra vita".
 
  Prima dell'Udienza Generale il Santo Padre ha benedetto la Statua di San Marone - Fondatore della Chiesa Maronita, particolarmente diffusa in Siria e Libano - collocata nell'ultima nicchia esterna ancora libera della Basilica Vaticana. La statua, realizzata in marmo di Carrara, alta 5,40 metri, è opera dello scultore spagnolo Marco Augusto Dueñas.
 
  Presenti il Cardinale Nasrallah Pierre Sfeir, Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il Presidente della Repubblica del Libano Michel Sleiman e Autorità civili e religiose...

                                         

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Roberto Bellarmino


Cari fratelli e sorelle,

San Roberto Bellarmino, del quale desidero parlarvi oggi, ci porta con la memoria al tempo della dolorosa scissione della cristianità occidentale, quando una grave crisi politica e religiosa provocò il distacco di intere Nazioni dalla Sede Apostolica.

Nato il 4 ottobre 1542 a Montepulciano, presso Siena, era nipote, per parte di madre, del Papa Marcello II. Ebbe un’eccellente formazione umanistica prima di entrare nella Compagnia di Gesù il 20 settembre 1560. Gli studi di filosofia e teologia, che compì tra il Collegio Romano, Padova e Lovanio, incentrati su san Tommaso e i Padri della Chiesa, furono decisivi per il suo orientamento teologico. Ordinato sacerdote il 25 marzo 1570, fu per alcuni anni professore di teologia a Lovanio. Successivamente, chiamato a Roma come professore al Collegio Romano, gli fu affidata la cattedra di “Apologetica”; nel decennio in cui ricoprì tale incarico (1576 – 1586) elaborò un corso di lezioni che confluirono poi nelle Controversiae, opera divenuta subito celebre per la chiarezza e la ricchezza di contenuti e per il taglio prevalentemente storico. Si era concluso da poco il Concilio di Trento e per la Chiesa Cattolica era necessario rinsaldare e confermare la propria identità anche rispetto alla Riforma protestante. L’azione del Bellarmino si inserì in questo contesto. Dal 1588 al 1594 fu prima padre spirituale degli studenti gesuiti del Collegio Romano, tra i quali incontrò e diresse san Luigi Gonzaga e poi superiore religioso. Il Papa Clemente VIII lo nominò teologo pontificio, consultore del Sant’Uffizio e rettore del Collegio dei Penitenzieri della Basilica di san Pietro. Al biennio 1597 – 1598 risale il suo catechismo, Dottrina cristiana breve, che fu il suo lavoro più popolare.

Il 3 marzo 1599 fu creato cardinale dal Papa Clemente VIII e, il 18 marzo 1602, fu nominato arcivescovo di Capua. Ricevette l’ordinazione episcopale il 21 aprile dello stesso anno. Nei tre anni in cui fu vescovo diocesano, si distinse per lo zelo di predicatore nella sua cattedrale, per la visita che realizzava settimanalmente alle parrocchie, per i tre Sinodi diocesani e un Concilio provinciale cui diede vita. Dopo aver partecipato ai conclavi che elessero Papi Leone XI e Paolo V, fu richiamato a Roma, dove fu membro delle Congregazioni del Sant’Uffizio, dell’Indice, dei Riti, dei Vescovi e della Propagazione della Fede. Ebbe anche incarichi diplomatici, presso la Repubblica di Venezia e l’Inghilterra, a difesa dei diritti della Sede Apostolica. Nei suoi ultimi anni compose vari libri di spiritualità, nei quali condensò il frutto dei suoi esercizi spirituali annuali. Dalla lettura di essi il popolo cristiano trae ancora oggi grande edificazione. Morì a Roma il 17 settembre 1621. Il Papa Pio XI lo beatificò nel 1923, lo canonizzò nel 1930 e lo proclamò Dottore della Chiesa nel 1931.

San Roberto Bellarmino svolse un ruolo importante nella Chiesa degli ultimi decenni del secolo XVI e dei primi del secolo successivo.

Le sue Controversiae costituirono un punto di riferimento ancora valido per l’ecclesiologia cattolica sulle questioni circa la Rivelazione, la natura della Chiesa, i Sacramenti e l’antropologia teologica. In esse appare accentuato l’aspetto istituzionale della Chiesa, a motivo degli errori che allora circolavano su tali questioni. Tuttavia Bellarmino chiarì gli aspetti invisibili della Chiesa come Corpo Mistico e li illustrò con l’analogia del corpo e dell’anima, al fine di descrivere il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa e gli aspetti esteriori che la rendono percepibile.

In questa monumentale opera, che tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, egli evita ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delle idee della Riforma, ma utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa, illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica.

Tuttavia, la sua eredità sta nel modo con cui concepì il suo lavoro. I gravosi uffici di governo non gli impedirono, infatti, di tendere quotidianamente verso la santità con la fedeltà alle esigenze del proprio stato di religioso, sacerdote e vescovo. Da questa fedeltà discende il suo impegno nella predicazione. Essendo, come sacerdote e vescovo, innanzitutto un pastore d’anime, sentì il dovere di predicare assiduamente.

Sono centinaia i sermones – le omelie – tenuti nelle Fiandre, a Roma, a Napoli e a Capua in occasione di celebrazioni liturgiche. Non meno abbondanti sono le expositiones e le explanationes ai parroci, alle religiose, agli studenti del Collegio Romano, che hanno spesso per oggetto la sacra Scrittura, specialmente le Lettere di san Paolo. La sua predicazione e le sue catechesi presentano quel medesimo carattere di essenzialità che aveva appreso dall’educazione ignaziana, tutta rivolta a concentrare le forze dell’anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato.

Negli scritti di quest’uomo di governo si avverte in modo molto chiaro, pur nella riservatezza dietro la quale cela i suoi sentimenti, il primato che egli assegna agli insegnamenti del Signore. San Bellarmino offre così un modello di preghiera, anima di ogni attività: una preghiera che ascolta la Parola del Signore, che è appagata nel contemplarne la grandezza, che non si ripiega su se stessa, ma è lieta di abbandonarsi a Dio. Un segno distintivo della spiritualità del Bellarmino è la percezione viva e personale dell’immensa bontà di Dio, per cui il nostro Santo si sentiva veramente figlio amato da Lui ed era fonte di grande gioia il raccogliersi, con serenità e semplicità, in preghiera, in contemplazione di Dio. Nel suo libro De ascensione mentis in Deum - Elevazione della mente a Dio - composto sullo schema dell’Itinerarium di san Bonaventura, esclama: «O anima, il tuo esemplare è Dio, bellezza infinita, luce senza ombre, splendore che supera quello della luna e del sole. Alza gli occhi a Dio nel quale si trovano gli archetipi di tutte le cose, e dal quale, come da una fonte di infinita fecondità, deriva questa varietà quasi infinita delle cose. Pertanto devi concludere: chi trova Dio trova ogni cosa, chi perde Dio perde ogni cosa».

In questo testo si sente l’eco della celebre contemplatio ad amorem obtineundum – contemplazione per ottenere l’amore - degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. Il Bellarmino, che vive nella fastosa e spesso malsana società dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento, da questa contemplazione ricava applicazioni pratiche e vi proietta la situazione della Chiesa del suo tempo con vivace afflato pastorale. Nel De arte bene moriendi – l’arte di morire bene - ad esempio, indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da accumulare beni in Cielo. Nel De gemitu columbae - Il gemito della colomba, dove la colomba rappresenta la Chiesa - richiama con forza clero e fedeli tutti ad una riforma personale e concreta della propria vita seguendo quello che insegnano la Scrittura e i Santi, tra i quali cita in particolare san Gregorio Nazianzeno, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo e sant’Agostino, oltre ai grandi Fondatori di Ordini religiosi quali san Benedetto, san Domenico e san Francesco.

Il Bellarmino insegna con grande chiarezza e con l’esempio della vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore.

Agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, il Bellarmino attingeva consigli per comunicare in modo profondo, anche ai più semplici, le bellezze dei misteri della fede: “Se hai saggezza, comprendi che sei creato per la gloria di Dio e per la tua eterna salvezza. Questo è il tuo fine, questo il centro della tua anima, questo il tesoro del tuo cuore. Perciò stima vero bene per te ciò che ti conduce al tuo fine, vero male ciò che te lo fa mancare. Avvenimenti prosperi o avversi, ricchezze e povertà, salute e malattia, onori e oltraggi, vita e morte, il sapiente non deve né cercarli, né fuggirli per se stesso. Ma sono buoni e desiderabili solo se contribuiscono alla gloria di Dio e alla tua felicità eterna, sono cattivi e da fuggire se la ostacolano” (De ascensione mentis in Deum, grad. 1).

Non sono parole passate di moda, ma da meditare a lungo per orientare il nostro cammino su questa terra. Ci ricordano che il fine della nostra vita è il Signore, il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, nel quale Egli continua a chiamarci e a prometterci la comunione con Lui. Ci ricordano l’importanza di confidare nel Signore, di spenderci in una vita fedele al Vangelo, di accettare e illuminare con la fede e con la preghiera ogni circostanza e ogni azione della nostra vita, sempre protesi all’unione con Lui. Amen.


                                       Pope Benedict XVI gestures during his weekly general audience in the Paul VI hall at the Vatican on February 23, 2011. Pope Benedict XVI unveiled a new statue of Lebanese Saint Maron in St. Peter's Basilica at the Vatican today.

                             Faithful hold crosses during a weekly general audience by Pope Benedict XVI in Paul VI Hall at the Vatican February 23, 2011.
Caterina63
00mercoledì 2 marzo 2011 16:39
                                             

L’UDIENZA GENERALE, 02.03.2011


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


San Francesco di Sales

Cari fratelli e sorelle,

“Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro, del quale vorrei parlarvi oggi, san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 in una regione francese di frontiera, era figlio del Signore di Boisy, antica e nobile famiglia di Savoia.
Vissuto a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. La sua formazione fu molto accurata; a Parigi fece gli studi superiori, dedicandosi anche alla teologia, e all’Università di Padova quelli di giurisprudenza, come desiderava il padre, conclusi in modo brillante, con la laurea in utroque iure, diritto canonico e diritto civile. Nella sua armoniosa giovinezza, riflettendo sul pensiero di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, ebbe una crisi profonda che lo indusse a interrogarsi sulla propria salvezza eterna e sulla predestinazione di Dio nei suoi riguardi, soffrendo come vero dramma spirituale le principali questioni teologiche del suo tempo. Pregava intensamente, ma il dubbio lo tormentò in modo così forte che per alcune settimane non riuscì quasi del tutto a mangiare e dormire. Al culmine della prova, si recò nella chiesa dei Domenicani a Parigi, aprì il suo cuore e pregò così: “Qualsiasi cosa accada, Signore, tu che tieni tutto nella tua mano, e le cui vie sono giustizia e verità; qualunque cosa tu abbia stabilito a mio riguardo …; tu che sei sempre giusto giudice e Padre misericordioso, io ti amerò, Signore […], ti amerò qui, o mio Dio, e spererò sempre nella tua misericordia, e sempre ripeterò la tua lode… O Signore Gesù, tu sarai sempre la mia speranza e la mia salvezza nella terra dei viventi” (I Proc. Canon., vol I, art 4).

Il ventenne Francesco trovò la pace nella realtà radicale e liberante dell’amore di Dio: amarlo senza nulla chiedere in cambio e confidare nell’amore divino; non chiedere più che cosa farà Dio con me: io lo amo semplicemente, indipendentemente da quanto mi dà o non mi dà. Così trovò la pace, e la questione della predestinazione - sulla quale si discuteva in quel tempo – era risolta, perché egli non cercava più di quanto poteva avere da Dio; lo amava semplicemente, si abbandonava alla Sua bontà. E questo sarà il segreto della sua vita, che trasparirà nella sua opera principale: il Trattato dell’amore di Dio.

Vincendo le resistenze del padre, Francesco seguì la chiamata del Signore e, il 18 dicembre 1593, fu ordinato sacerdote. Nel 1602 divenne Vescovo di Ginevra, in un periodo in cui la città era roccaforte del Calvinismo, tanto che la sede vescovile si trovava “in esilio” ad Annecy. Pastore di una diocesi povera e tormentata, in un paesaggio di montagna di cui conosceva bene tanto la durezza quanto la bellezza, egli scrive: “[Dio] l’ho incontrato pieno di dolcezza e soavità fra le nostre più alte e aspre montagne, ove molte anime semplici lo amavano e adoravano in tutta verità e sincerità; e caprioli e camosci correvano qua e là tra i ghiacci spaventosi per annunciare le sue lodi” (Lettera alla Madre di Chantal, ottobre 1606, in Oeuvres, éd. Mackey, t. XIII, p. 223). E tuttavia l’influsso della sua vita e del suo insegnamento sull’Europa dell’epoca e dei secoli successivi appare immenso. E’ apostolo, predicatore, scrittore, uomo d’azione e di preghiera; impegnato a realizzare gli ideali del Concilio di Trento; coinvolto nella controversia e nel dialogo con i protestanti, sperimentando sempre più, al di là del necessario confronto teologico, l’efficacia della relazione personale e della carità; incaricato di missioni diplomatiche a livello europeo, e di compiti sociali di mediazione e di riconciliazione. Ma soprattutto san Francesco di Sales è guida di anime: dall’incontro con una giovane donna, la signora di Charmoisy, trarrà spunto per scrivere uno dei libri più letti nell’età moderna, l’Introduzione alla vita devota; dalla sua profonda comunione spirituale con una personalità d’eccezione, santa Giovanna Francesca di Chantal, nascerà una nuova famiglia religiosa, l’Ordine della Visitazione, caratterizzato – come volle il Santo – da una consacrazione totale a Dio vissuta nella semplicità e umiltà, nel fare straordinariamente bene le cose ordinarie: “… voglio che le mie Figlie – egli scrive – non abbiano altro ideale che quello di glorificare [Nostro Signore] con la loro umiltà” (Lettera a mons. de Marquemond, giugno 1615). Muore nel 1622, a cinquantacinque anni, dopo un’esistenza segnata dalla durezza dei tempi e dalla fatica apostolica.

Quella di san Francesco di Sales è stata una vita relativamente breve, ma vissuta con grande intensità. Dalla figura di questo Santo emana un’impressione di rara pienezza, dimostrata nella serenità della sua ricerca intellettuale, ma anche nella ricchezza dei suoi affetti, nella “dolcezza” dei suoi insegnamenti che hanno avuto un grande influsso sulla coscienza cristiana. Della parola “umanità” egli ha incarnato diverse accezioni che, oggi come ieri, questo termine può assumere: cultura e cortesia, libertà e tenerezza, nobiltà e solidarietà. Nell’aspetto aveva qualcosa della maestà del paesaggio in cui è vissuto, conservandone anche la semplicità e la naturalezza. Le antiche parole e le immagini in cui si esprimeva suonano inaspettatamente, anche all’orecchio dell’uomo d’oggi, come una lingua nativa e familiare.

A Filotea, l’ideale destinataria della sua Introduzione alla vita devota (1607), Francesco di Sales rivolge un invito che poté apparire, all’epoca, rivoluzionario. E’ l’invito a essere completamente di Dio, vivendo in pienezza la presenza nel mondo e i compiti del proprio stato. “La mia intenzione è di istruire quelli che vivono nelle città, nello stato coniugale, a corte […]” (Prefazione alla Introduzione alla vita devota). Il Documento con cui Papa Leone XIII, più di due secoli dopo, lo proclamerà Dottore della Chiesa insisterà su questo allargamento della chiamata alla perfezione, alla santità. Vi è scritto:“[la vera pietà] è penetrata fino al trono dei re, nella tenda dei capi degli eserciti, nel pretorio dei giudici, negli uffici, nelle botteghe e addirittura nelle capanne dei pastori […]” (Breve Dives in misericordia, 16 novembre 1877). Nasceva così quell’appello ai laici, quella cura per la consacrazione delle cose temporali e per la santificazione del quotidiano su cui insisteranno il Concilio Vaticano II e la spiritualità del nostro tempo. Si manifestava l’ideale di un’umanità riconciliata, nella sintonia fra azione nel mondo e preghiera, fra condizione secolare e ricerca di perfezione, con l’aiuto della Grazia di Dio che permea l’umano e, senza distruggerlo, lo purifica, innalzandolo alle altezze divine. A Teotimo, il cristiano adulto, spiritualmente maturo, al quale indirizza alcuni anni dopo il suo Trattato dell’amore di Dio (1616), san Francesco di Sales offre una lezione più complessa. Essa suppone, all’inizio, una precisa visione dell’essere umano, un’antropologia: la “ragione” dell’uomo, anzi l’“anima ragionevole”, vi è vista come un’architettura armonica, un tempio, articolato in più spazi, intorno ad un centro, che egli chiama, insieme con i grandi mistici, “cima”, “punta” dello spirito, o “fondo” dell’anima. E’ il punto in cui la ragione, percorsi tutti i suoi gradi, “chiude gli occhi” e la conoscenza diventa tutt’uno con l’amore (cfr libro I, cap. XII). Che l’amore, nella sua dimensione teologale, divina, sia la ragion d’essere di tutte le cose, in una scala ascendente che non sembra conoscere fratture e abissi, san Francesco di Sales lo ha riassunto in una celebre frase: “L’uomo è la perfezione dell’universo; lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è quella dello spirito, e la carità quella dell’amore” (ibid., libro X, cap. I).

In una stagione di intensa fioritura mistica, il Trattato dell’amore di Dio è una vera e propria summa, e insieme un’affascinante opera letteraria. La sua descrizione dell’itinerario verso Dio parte dal riconoscimento della “naturale inclinazione” (ibid., libro I, cap. XVI), iscritta nel cuore dell’uomo pur peccatore, ad amare Dio sopra ogni cosa. Secondo il modello della Sacra Scrittura, san Francesco di Sales parla dell’unione fra Dio e l’uomo sviluppando tutta una serie di immagini di relazione interpersonale. Il suo Dio è padre e signore, sposo e amico, ha caratteristiche materne e di nutrice, è il sole di cui persino la notte è misteriosa rivelazione. Un tale Dio trae a sé l’uomo con vincoli di amore, cioè di vera libertà: “poiché l’amore non ha forzati né schiavi, ma riduce ogni cosa sotto la propria obbedienza con una forza così deliziosa che, se nulla è forte come l’amore, nulla è amabile come la sua forza” (ibid., libro I, cap. VI). Troviamo nel trattato del nostro Santo una meditazione profonda sulla volontà umana e la descrizione del suo fluire, passare, morire, per vivere (cfr ibid., libro IX, cap. XIII) nel completo abbandono non solo alla volontà di Dio, ma a ciò che a Lui piace, al suo “bon plaisir”, al suo beneplacito (cfr ibid., libro IX, cap. I). All’apice dell’unione con Dio, oltre i rapimenti dell’estasi contemplativa, si colloca quel rifluire di carità concreta, che si fa attenta a tutti i bisogni degli altri e che egli chiama “estasi della vita e delle opere” (ibid., libro VII, cap. VI).

Si avverte bene, leggendo il libro sull’amore di Dio e ancor più le tante lettere di direzione e di amicizia spirituale, quale conoscitore del cuore umano sia stato san Francesco di Sales. A santa Giovanna di Chantal, a cui scrive: “[…] Ecco la regola della nostra obbedienza che vi scrivo a caratteri grandi: Fare tutto per amore, niente per forza - amar più l'obbedienza che temere la disobbedienza. Vi lascio lo spirito di libertà, non già quello che esclude l’obbedienza, ché questa è la libertà del mondo; ma quello che esclude la violenza, l’ansia e lo scrupolo” (Lettera del 14 ottobre 1604). Non per niente, all’origine di molte vie della pedagogia e della spiritualità del nostro tempo ritroviamo proprio la traccia di questo maestro, senza il quale non vi sarebbero stati san Giovanni Bosco né l’eroica “piccola via” di santa Teresa di Lisieux.

Cari fratelli e sorelle, in una stagione come la nostra che cerca la libertà, anche con violenza e inquietudine, non deve sfuggire l’attualità di questo grande maestro di spiritualità e di pace, che consegna ai suoi discepoli lo “spirito di libertà”, quella vera, al culmine di un insegnamento affascinante e completo sulla realtà dell’amore. San Francesco di Sales è un testimone esemplare dell’umanesimo cristiano; con il suo stile familiare, con parabole che hanno talora il colpo d’ala della poesia, ricorda che l’uomo porta iscritta nel profondo di sé la nostalgia di Dio e che solo in Lui trova la vera gioia e la sua realizzazione più piena.

                            Pope Benedict XVI looks at bishops during his Wednesday general audience in Paul VI hall at the Vatican March 2, 2011.

                            Pope Benedict XVI waves during his Wednesday general audience in Paul VI hall at the Vatican March 2, 2011.
Caterina63
00mercoledì 23 marzo 2011 12:02

Il Papa: Anche oggi la nuova evangelizzazione ha bisogno di apostoli ben preparati, zelanti e coraggiosi, perché la luce e la bellezza del Vangelo prevalgano sugli orientamenti culturali del relativismo etico e dell’indifferenza religiosa, e trasformino i vari modi di pensare e di agire in un autentico umanesimo cristiano

CICLO DI CATECHESI SUI DOTTORI DELLA CHIESA


L’UDIENZA GENERALE, 23.03.2011


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Lorenzo da Brindisi

Cari fratelli e sorelle,

ricordo ancora con gioia l’accoglienza festosa che mi fu riservata nel 2008 a
Brindisi, la città che nel 1559 diede i natali a un insigne Dottore della Chiesa, san Lorenzo da Brindisi, nome che Giulio Cesare Rossi assunse entrando nell’Ordine dei Cappuccini. Sin dalla fanciullezza fu attratto dalla famiglia di san Francesco d’Assisi. Infatti, orfano di padre a sette anni, fu affidato dalla madre alle cure dei frati Conventuali della sua città. Qualche anno dopo, però, si trasferì con la madre a Venezia, e proprio nel Veneto conobbe i Cappuccini, che in quel periodo si erano messi generosamente a servizio della Chiesa intera, per incrementare la grande riforma spirituale promossa dal Concilio di Trento. Nel 1575 Lorenzo, con la professione religiosa, divenne frate cappuccino, e nel 1582 fu ordinato sacerdote. Già durante gli studi ecclesiastici mostrò le eminenti qualità intellettuali di cui era dotato.

Apprese facilmente le lingue antiche, quali il greco, l’ebraico e il siriaco, e quelle moderne, come il francese e il tedesco, che si aggiungevano alla conoscenza della lingua italiana e di quella latina, un tempo fluentemente parlata da tutti gli ecclesiastici e gli uomini di cultura.

Grazie alla padronanza di tanti idiomi, Lorenzo poté svolgere un intenso apostolato presso diverse categorie di persone. Predicatore efficace, conosceva in modo così profondo non solo la Bibbia, ma anche la letteratura rabbinica, che gli stessi Rabbini rimanevano stupiti e ammirati, manifestandogli stima e rispetto.

Teologo versato nella Sacra Scrittura e nei Padri della Chiesa, era in grado di illustrare in modo esemplare la dottrina cattolica anche ai cristiani che, soprattutto in Germania, avevano aderito alla Riforma. Con la sua esposizione chiara e pacata egli mostrava il fondamento biblico e patristico di tutti gli articoli di fede messi in discussione da Martin Lutero.

Tra di essi, il primato di san Pietro e dei suoi successori, l’origine divina dell’Episcopato, la giustificazione come trasformazione interiore dell’uomo, la necessità delle opere buone per la salvezza. Il successo di cui Lorenzo godette ci aiuta a comprendere che anche oggi, nel portare avanti con tanta speranza ed entusiasmo il dialogo ecumenico, il confronto con la Sacra Scrittura, letta nella Tradizione della Chiesa, costituisce un elemento irrinunciabile e di fondamentale importanza, come ho voluto ricordare
nell’Esortazione Apostolica Verbum Domini (n. 46).

Anche i fedeli più semplici, non dotati di grande cultura, furono beneficati dalla parola convincente di Lorenzo, che si rivolgeva alla gente umile per richiamare tutti alla coerenza della propria vita con la fede professata. Questo è stato un grande merito dei Cappuccini e di altri Ordini religiosi, che, nei secoli XVI e XVII, contribuirono al rinnovamento della vita cristiana penetrando in profondità nella società con la loro testimonianza di vita e il loro insegnamento.

Anche oggi la nuova evangelizzazione ha bisogno di apostoli ben preparati, zelanti e coraggiosi, perché la luce e la bellezza del Vangelo prevalgano sugli orientamenti culturali del relativismo etico e dell’indifferenza religiosa, e trasformino i vari modi di pensare e di agire in un autentico umanesimo cristiano.

È sorprendente che san Lorenzo da Brindisi abbia potuto svolgere ininterrottamente questa attività di apprezzato e infaticabile predicatore in molte città dell’Italia e in diversi Paesi, nonostante ricoprisse altri incarichi gravosi e di grande responsabilità. All’interno dell’Ordine dei Cappuccini, infatti, fu professore di teologia, maestro dei novizi, più volte ministro provinciale e definitore generale, e infine ministro generale dal 1602 al 1605.

In mezzo a tanti lavori, Lorenzo coltivò una vita spirituale di eccezionale fervore, dedicando molto tempo alla preghiera e in modo speciale alla celebrazione della Santa Messa, che protraeva spesso per ore, compreso e commosso nel memoriale della Passione, Morte e Risurrezione del Signore. Alla scuola dei santi, ogni presbitero, come spesso è stato sottolineato durante il recente Anno Sacerdotale, può evitare il pericolo dell’attivismo, di agire cioè dimenticando le motivazioni profonde del ministero, solamente se si prende cura della propria vita interiore. Parlando ai sacerdoti e ai seminaristi nella cattedrale di Brindisi, la città natale di san Lorenzo, ho ricordato che “il momento della preghiera è il più importante nella vita del sacerdote, quello in cui agisce con più efficacia la grazia divina, dando fecondità al suo ministero.

Pregare è il primo servizio da rendere alla comunità. E perciò i momenti di preghiera devono avere nella nostra vita una vera priorità... Se non siamo interiormente in comunione con Dio, non possiamo dare niente neppure agli altri. Perciò Dio è la prima priorità. Dobbiamo sempre riservare il tempo necessario per essere in comunione di preghiera con nostro Signore”. Del resto, con l’ardore inconfondibile del suo stile, Lorenzo esorta tutti, e non solo i sacerdoti, a coltivare la vita di preghiera perché per mezzo di essa noi parliamo a Dio e Dio parla a noi: “Oh, se considerassimo questa realtà! - esclama - Cioè che Dio è davvero presente a noi quando gli parliamo pregando; che ascolta veramente la nostra orazione, anche se noi soltanto preghiamo con il cuore e la mente. E che non solo è presente e ci ascolta, anzi può e desidera accondiscendere volentieri e con massimo piacere alle nostre domande”.

Un altro tratto che caratterizza l’opera di questo figlio di san Francesco è la sua azione per la pace. Sia i Sommi Pontefici sia i principi cattolici gli affidarono ripetutamente importanti missioni diplomatiche per dirimere controversie e favorire la concordia tra gli Stati europei, minacciati in quel tempo dall’Impero ottomano. L’autorevolezza morale di cui godeva lo rendeva consigliere ricercato e ascoltato. Oggi, come ai tempi di san Lorenzo, il mondo ha tanto bisogno di pace, ha bisogno di uomini e donne pacifici e pacificatori. Tutti coloro che credono in Dio devono essere sempre sorgenti e operatori di pace. Fu proprio in occasione di una di queste missioni diplomatiche che Lorenzo concluse la sua vita terrena, nel 1619 a Lisbona, dove si era recato presso il re di Spagna, Filippo III, per perorare la causa dei sudditi napoletani vessati dalle autorità locali.

Fu canonizzato nel 1881 e, a motivo della sua vigorosa e intensa attività, della sua scienza vasta e armoniosa, meritò il titolo di Doctor apostolicus, “Dottore apostolico”, da parte del Beato Papa Giovanni XXIII nel 1959, in occasione del quarto centenario della sua nascita. Tale riconoscimento fu accordato a Lorenzo da Brindisi anche perché egli fu autore di numerose opere di esegesi biblica, di teologia e di scritti destinati alla predicazione. In esse egli offre una presentazione organica della storia della salvezza, incentrata sul mistero dell’Incarnazione, la più grande manifestazione dell’amore divino per gli uomini. Inoltre, essendo un mariologo di grande valore, autore di una raccolta di sermoni sulla Madonna intitolata “Mariale”, egli mette in evidenza il ruolo unico della Vergine Maria, di cui afferma con chiarezza l’Immacolata Concezione e la cooperazione all’opera della redenzione compiuta da Cristo.

Con fine sensibilità teologica, Lorenzo da Brindisi ha pure evidenziato l’azione dello Spirito Santo nell’esistenza del credente. Egli ci ricorda che con i suoi doni la Terza Persona della Santissima Trinità illumina e aiuta il nostro impegno a vivere gioiosamente il messaggio del Vangelo. “Lo Spirito Santo – scrive san Lorenzo – rende dolce il giogo della legge divina e leggero il suo peso, affinché osserviamo i comandamenti di Dio con grandissima facilità, persino con piacevolezza”.

Vorrei completare questa breve presentazione della vita e della dottrina di san Lorenzo da Brindisi sottolineando che tutta la sua attività è stata ispirata da un grande amore per la Sacra Scrittura, che sapeva ampiamente a memoria, e dalla convinzione che l’ascolto e l’accoglienza della Parola di Dio produce una trasformazione interiore che ci conduce alla santità. “La Parola del Signore – egli afferma – è luce per l’intelletto e fuoco per la volontà, perché l’uomo possa conoscere e amare Dio. Per l’uomo interiore, che per mezzo della grazia vive dello Spirito di Dio, è pane e acqua, ma pane più dolce del miele e acqua migliore del vino e del latte... È un maglio contro un cuore duramente ostinato nei vizi. È una spada contro la carne, il mondo e il demonio, per distruggere ogni peccato”. San Lorenzo da Brindisi ci insegna ad amare la Sacra Scrittura, a crescere nella familiarità con essa, a coltivare quotidianamente il rapporto di amicizia con il Signore nella preghiera, perché ogni nostra azione, ogni nostra attività abbia in Lui il suo inizio e il suo compimento. E’ questa la fonte da cui attingere affinché la nostra testimonianza cristiana sia luminosa e sia capace di condurre gli uomini del nostro tempo a Dio.

        Pope Benedict XVI reacts during his weekly general audience on March 23, 2011 at St Peter's square at The Vatican.Pope Benedict XVI arrives for his weekly general audience on March 23, 2011 at St Peter's square at The Vatican.


Caterina63
00mercoledì 30 marzo 2011 14:45

Il Papa: "Sant’Alfonso propone una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona”

L’UDIENZA GENERALE, 30.03.2011

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Sant'Alfonso Maria de' Liguori

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei presentarvi la figura di un santo Dottore della Chiesa a cui siamo molto debitori, perché è stato un insigne teologo moralista e un maestro di vita spirituale per tutti, soprattutto per la gente semplice. E’ l’autore delle parole e della musica di uno dei canti natalizi più popolari in Italia e non solo: Tu scendi dalle stelle.

Appartenente a una nobile e ricca famiglia napoletana, Alfonso Maria de’ Liguori nacque nel 1696. Dotato di spiccate qualità intellettuali, a soli 16 anni conseguì la laurea in diritto civile e canonico. Era l’avvocato più brillante del foro di Napoli: per otto anni vinse tutte le cause che difese. Tuttavia, nella sua anima assetata di Dio e desiderosa di perfezione, il Signore lo conduceva a comprendere che un’altra era la vocazione a cui lo chiamava. Infatti, nel 1723, indignato per la corruzione e l’ingiustizia che viziavano l’ambiente forense, abbandonò la sua professione - e con essa la ricchezza e il successo - e decise di diventare sacerdote, nonostante l’opposizione del padre. Ebbe degli ottimi maestri, che lo introdussero allo studio della Sacra Scrittura, della Storia della Chiesa e della mistica. Acquisì una vasta cultura teologica, che mise a frutto quando, dopo qualche anno, intraprese la sua opera di scrittore. Fu ordinato sacerdote nel 1726 e si legò, per l’esercizio del ministero, alla Congregazione diocesana delle Missioni Apostoliche. Alfonso iniziò un’azione di evangelizzazione e di catechesi tra gli strati più umili della società napoletana, a cui amava predicare, e che istruiva sulle verità basilari della fede. Non poche di queste persone, povere e modeste, a cui egli si rivolgeva, molto spesso erano dedite ai vizi e compivano azioni criminali. Con pazienza insegnava loro a pregare, incoraggiandole a migliorare il loro modo di vivere. Alfonso ottenne ottimi risultati: nei quartieri più miseri della città si moltiplicavano gruppi di persone che, alla sera, si riunivano nelle case private e nelle botteghe, per pregare e per meditare la Parola di Dio, sotto la guida di alcuni catechisti formati da Alfonso e da altri sacerdoti, che visitavano regolarmente questi gruppi di fedeli. Quando, per desiderio dell’arcivescovo di Napoli, queste riunioni vennero tenute nelle cappelle della città, presero il nome di “cappelle serotine”. Esse furono una vera e propria fonte di educazione morale, di risanamento sociale, di aiuto reciproco tra i poveri: furti, duelli, prostituzione finirono quasi per scomparire.

Anche se il contesto sociale e religioso dell’epoca di sant’Alfonso era ben diverso dal nostro, le “cappelle serotine” appaiono un modello di azione missionaria a cui possiamo ispirarci anche oggi per una “nuova evangelizzazione”, particolarmente dei più poveri, e per costruire una convivenza umana più giusta, fraterna e solidale. Ai sacerdoti è affidato un compito di ministero spirituale, mentre laici ben formati possono essere efficaci animatori cristiani, autentico lievito evangelico in seno alla società.

Dopo aver pensato di partire per evangelizzare i popoli pagani, Alfonso, all’età di 35 anni, entrò in contatto con i contadini e i pastori delle regioni interne del Regno di Napoli e, colpito dalla loro ignoranza religiosa e dallo stato di abbandono in cui versavano, decise di lasciare la capitale e di dedicarsi a queste persone, che erano povere spiritualmente e materialmente. Nel 1732 fondò la Congregazione religiosa del Santissimo Redentore, che pose sotto la tutela del vescovo Tommaso Falcoia, e di cui successivamente egli stesso divenne il superiore. Questi religiosi, guidati da Alfonso, furono degli autentici missionari itineranti, che raggiungevano anche i villaggi più remoti esortando alla conversione e alla perseveranza nella vita cristiana soprattutto per mezzo della preghiera. Ancor oggi i Redentoristi, sparsi in tanti Paesi del mondo, con nuove forme di apostolato, continuano questa missione di evangelizzazione. A loro penso con riconoscenza, esortandoli ad essere sempre fedeli all’esempio del loro santo Fondatore.

Stimato per la sua bontà e per il suo zelo pastorale, nel 1762 Alfonso fu nominato Vescovo di Sant’Agata dei Goti, ministero che, in seguito alle malattie da cui era afflitto, lasciò nel 1775, per concessione del Papa Pio VI. Lo stesso Pontefice, nel 1787, apprendendo la notizia della sua morte, avvenuta dopo molte sofferenze, esclamò: “Era un santo!”. E non si sbagliava: Alfonso fu canonizzato nel 1839, e nel 1871 venne dichiarato Dottore della Chiesa. Questo titolo gli si addice per molteplici ragioni.

Anzitutto, perché ha proposto un ricco insegnamento di teologia morale, che esprime adeguatamente la dottrina cattolica, al punto che fu proclamato dal Papa Pio XII “Patrono di tutti i confessori e i moralisti”. Ai suoi tempi, si era diffusa un’interpretazione molto rigorista della vita morale anche a motivo della mentalità giansenista che, anziché alimentare la fiducia e la speranza nella misericordia di Dio, fomentava la paura e presentava un volto di Dio arcigno e severo, ben lontano da quello rivelatoci da Gesù.

Sant’Alfonso, soprattutto nella sua opera principale intitolata Teologia Morale, propone una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona.

Ai pastori d’anime e ai confessori Alfonso raccomandava di essere fedeli alla dottrina morale cattolica, assumendo, nel contempo, un atteggiamento caritatevole, comprensivo, dolce perché i penitenti potessero sentirsi accompagnati, sostenuti, incoraggiati nel loro cammino di fede e di vita cristiana. Sant’Alfonso non si stancava mai di ripetere che i sacerdoti sono un segno visibile dell’infinita misericordia di Dio, che perdona e illumina la mente e il cuore del peccatore affinché si converta e cambi vita. Nella nostra epoca, in cui vi sono chiari segni di smarrimento della coscienza morale e – occorre riconoscerlo – di una certa mancanza di stima verso il Sacramento della Confessione, l’insegnamento di sant’Alfonso è ancora di grande attualità.

Insieme alle opere di teologia, sant’Alfonso compose moltissimi altri scritti, destinati alla formazione religiosa del popolo. Lo stile è semplice e piacevole. Lette e tradotte in numerose lingue, le opere di sant’Alfonso hanno contribuito a plasmare la spiritualità popolare degli ultimi due secoli. Alcune di esse sono testi da leggere con grande profitto ancor oggi, come Le Massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica d’amare Gesù Cristo, opera – quest’ultima – che rappresenta la sintesi del suo pensiero e il suo capolavoro. Egli insiste molto sulla necessità della preghiera, che consente di aprirsi alla Grazia divina per compiere quotidianamente la volontà di Dio e conseguire la propria santificazione. Riguardo alla preghiera egli scrive: “Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, con la quale si ottiene l’aiuto a vincere ogni concupiscenza e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre, sino a che avrò vita, che tutta la nostra salvezza sta nel pregare”. Di qui il suo famoso assioma: “Chi prega si salva” (Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini. Opere ascetiche II, Roma 1962, p. 171). Mi torna in mente, a questo proposito, l’esortazione del mio precedessore, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II: “Le nostre comunità cristiane devono diventare «scuole di preghiera»... Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi un punto qualificante di ogni programmazione pastorale” (Lett. ap. Novo Millennio ineunte, 33,34).

Tra le forme di preghiera consigliate fervidamente da sant’Alfonso spicca la visita al Santissimo Sacramento o, come diremmo oggi, l’adorazione, breve o prolungata, personale o comunitaria, dinanzi all’Eucaristia. “Certamente – scrive Alfonso – fra tutte le devozioni questa di adorare Gesù sacramentato è la prima dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi... Oh, che bella delizia starsene avanti ad un altare con fede... e presentargli i propri bisogni, come fa un amico a un altro amico con cui si abbia tutta la confidenza!” (Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese. Introduzione). La spiritualità alfonsiana è infatti eminentemente cristologica, centrata su Cristo e il Suo Vangelo. La meditazione del mistero dell’Incarnazione e della Passione del Signore sono frequentemente oggetto della sua predicazione. In questi eventi, infatti, la Redenzione viene offerta a tutti gli uomini “copiosamente”. E proprio perché cristologica, la pietà alfonsiana è anche squisitamente mariana. Devotissimo di Maria, egli ne illustra il ruolo nella storia della salvezza: socia della Redenzione e Mediatrice di grazia, Madre, Avvocata e Regina. Inoltre, sant’Alfonso afferma che la devozione a Maria ci sarà di grande conforto nel momento della nostra morte. Egli era convinto che la meditazione sul nostro destino eterno, sulla nostra chiamata a partecipare per sempre alla beatitudine di Dio, come pure sulla tragica possibilità della dannazione, contribuisce a vivere con serenità ed impegno, e ad affrontare la realtà della morte conservando sempre piena fiducia nella bontà di Dio.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è un esempio di pastore zelante, che ha conquistato le anime predicando il Vangelo e amministrando i Sacramenti, unito ad un modo di agire improntato a una soave e mite bontà, che nasceva dall’intenso rapporto con Dio, Bontà infinita. Ha avuto una visione realisticamente ottimista delle risorse di bene che il Signore dona ad ogni uomo e ha dato importanza agli affetti e ai sentimenti del cuore, oltre che alla mente, per poter amare Dio e il prossimo.

In conclusione, vorrei ricordare che il nostro Santo, analogamente a san Francesco di Sales – di cui ho parlato qualche settimana fa – insiste nel dire che la santità è accessibile ad ogni cristiano: “Il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercante da mercante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato” (Pratica di amare Gesù Cristo. Opere ascetiche I, Roma 1933, p. 79). Ringraziamo il Signore che, con la sua Provvidenza, suscita santi e dottori in luoghi e tempi diversi, che parlano lo stesso linguaggio per invitarci a crescere nella fede e a vivere con amore e con gioia il nostro essere cristiani nelle semplici azioni di ogni giorno, per camminare sulla strada della santità, sulla strada verso Dio e verso la vera gioia.


                     A faithful holds a crucifix as Pope Benedict XVI leads his weekly audience in Saint Peter's Square at the Vatican March 30, 2011.

                       Pope Benedict XVI kisses a child during his weekly general audience on March 30, 2011 at St Peter's square at The Vatican.



APPELLO DEL SANTO PADRE

Depuis longtemps, ma pensée va souvent aux populations de la Côte d’Ivoire, traumatisées par de douloureuses luttes internes et de graves tensions sociales et politiques.

Alors que j’exprime ma proximité à tous ceux qui ont perdu un être cher et souffrent de la violence, je lance un appel pressant afin que soit engagé le plus vite possible un processus de dialogue constructif pour le bien commun. L’opposition dramatique rend plus urgent le rétablissement du respect et de la cohabitation pacifique. Aucun effort ne doit être épargné dans ce sens.

Avec ces sentiments, j’ai décidé d’envoyer dans ce noble Pays, le Cardinal Peter Kodwo Turkson, Président du Conseil pontifical “Justice et Paix”, afin qu’il manifeste ma solidarité et celle de l’Église universelle aux victimes du conflit, et encourage à la réconciliation et à la paix.


*********************

COSTA D'AVORIO E ARCIVESCOVO MAGGIORE KYIV-HALYCH
 
CITTA' DEL VATICANO, 30 MAR. 2011 (VIS). Al termine della catechesi odierna, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricordato, nei saluti nelle diverse lingue, la popolazione della Costa d'Avorio "traumatizzata da dolorose lotte interne e da gravi tensioni sociali e politiche".
 
  "Nell'esprimere la mia vicinanza a tutti coloro che hanno perduto una persona cara e subiscono violenze" - ha detto il Santo Padre in francese -  "lancio un pressante appello affinché ci si impegni al più presto in un processo di dialogo costruttivo per il bene comune. La drammatica opposizione rende più urgente il ristabilimento del rispetto e della convivenza pacifica. Non si devono risparmiare gli sforzi volti a questo fine".
 
  "Con tali sentimenti, ho deciso di inviare in questo nobile Paese, il Cardinale Peter Kodwo Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, per esprimere la mia solidarietà e quella della Chiesa universale alle vittime del conflitto ed invitando alla riconciliazione e alla pace".
 
  Successivamente, esprimendosi in lingua ucraina, il Papa ha salutato Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, nuovo Arcivescovo Maggiore di Kyiv-Halych, i Vescovi e i fedeli della Chiesa Greco-Cattolica Ucraina che l'accompagnavano, assicurando la sua "costante preghiera, perché la Santissima Trinità conceda abbondanza di beni, confermando nella pace e nella concordia l'amata nazione ucraina".
 
  "Beatitudine" - ha detto Benedetto XVI al nuovo Arcivescovo - "il Signore L'ha chiamata al servizio e alla guida di questa nobile Chiesa, parte di quel popolo che oltre mille anni fa ha ricevuto il Battesimo a Kyiv. Sono certo che, illuminato dall'azione dello Spirito Santo, presiederà la sua Chiesa, guidandola nella fede in Cristo Gesù secondo la propria tradizione e spiritualità, in comunione con la Sede di Pietro, che è vincolo visibile di quella unità per la quale tanti figli non hanno esitato ad offrire persino la propria vita".



                          Pope Benedict XVI waves as he leads his weekly audience in Saint Peter's Square at the Vatican March 30, 2011.

                          Pope Benedict XVI waves as he leads his weekly audience in Saint Peter's Square at the Vatican March 30, 2011.

PER L'AUDIO DELLA CATECHESI, CLICCATE QUI
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Caterina63
00mercoledì 6 aprile 2011 12:47

Il Papa: Santa Teresa di Lisieux è uno dei “piccoli” del Vangelo che si lasciano condurre da Dio nelle profondità del suo Mistero. Una guida per tutti, soprattutto per coloro che, nel Popolo di Dio, svolgono il ministero di teologi. Con l'umiltà e la carità, la fede e la speranza, Teresa entra continuamente nel cuore della Sacra Scrittura che racchiude il Mistero di Cristo



L’UDIENZA GENERALE, 06.04.2011


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Santa Teresa di Lisieux

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlarvi di santa Teresa di Lisieux, Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, che visse in questo mondo solo 24 anni, alla fine del XIX secolo, conducendo una vita molto semplice e nascosta, ma che, dopo la morte e la pubblicazione dei suoi scritti, è diventata una delle sante più conosciute e amate. La "piccola Teresa" non ha mai smesso di aiutare le anime più semplici, i piccoli, i poveri e i sofferenti che la pregano, ma ha anche illuminato tutta la Chiesa con la sua profonda dottrina spirituale, a tal punto che il Venerabile Giovanni Paolo II, nel 1997, ha voluto darle il titolo di Dottore della Chiesa, in aggiunta a quello di Patrona delle Missioni, già attribuitole da Pio XI nel 1939.

Il mio amato Predecessore la definì "esperta della scientia amoris" (Novo Millennio ineunte, 27). Questa scienza, che vede risplendere nell'amore tutta la verità della fede, Teresa la esprime principalmente nel racconto della sua vita, pubblicato un anno dopo la sua morte sotto il titolo di Storia di un'anima. E’ un libro che ebbe subito un enorme successo, fu tradotto in molte lingue e diffuso in tutto il mondo. Vorrei invitarvi a riscoprire questo piccolo-grande tesoro, questo luminoso commento del Vangelo pienamente vissuto!
La Storia di un'anima, infatti, è una meravigliosa storia d'Amore, raccontata con una tale autenticità, semplicità e freschezza che il lettore non può non rimanerne affascinato! Ma qual è questo Amore che ha riempito tutta la vita di Teresa, dall’infanzia fino alla morte? Cari amici, questo Amore ha un Volto, ha un Nome, è Gesù! La Santa parla continuamente di Gesù. Vogliamo ripercorrere, allora, le grandi tappe della sua vita, per entrare nel cuore della sua dottrina.

Teresa nasce il 2 gennaio 1873 ad Alençon, una città della Normandia, in Francia. E' l'ultima figlia di Luigi e Zelia Martin, sposi e genitori esemplari, beatificati insieme il 19 ottobre 2008. Ebbero nove figli; di essi quattro morirono in tenera età. Rimasero le cinque figlie, che diventarono tutte religiose. Teresa, a 4 anni, rimase profondamente ferita dalla morte della madre (Ms A, 13r). Il padre con le figlie si trasferì allora nella città di Lisieux, dove si svolgerà tutta la vita della Santa. Più tardi Teresa, colpita da una grave malattia nervosa, guarì per una grazia divina, che lei stessa definisce il "sorriso della Madonna" (ibid., 29v-30v). Ricevette poi la Prima Comunione, intensamente vissuta (ibid., 35r), e mise Gesù Eucaristia al centro della sua esistenza.
La "Grazia di Natale" del 1886 segna la grande svolta, da lei chiamata la sua "completa conversione" (ibid., 44v-45r). Guarisce, infatti, totalmente dalla sua ipersensibilità infantile e inizia una "corsa da gigante". All'età di 14 anni, Teresa si avvicina sempre più, con grande fede, a Gesù Crocifisso, e si prende a cuore il caso, apparentemente disperato, di un criminale condannato a morte e impenitente (ibid., 45v-46v). "Volli ad ogni costo impedirgli di cadere nell'inferno", scrive la Santa, con la certezza che la sua preghiera lo avrebbe messo a contatto con il Sangue redentore di Gesù. E' la sua prima e fondamentale esperienza di maternità spirituale: "Tanta fiducia avevo nella Misericordia Infinita di Gesù", scrive. Con Maria Santissima, la giovane Teresa ama, crede e spera con "un cuore di madre" (cfr PR 6/10r).

Nel novembre del 1887, Teresa si reca in pellegrinaggio a Roma insieme al padre e alla sorella Celina (ibid., 55v-67r). Per lei, il momento culminante è l'Udienza del Papa Leone XIII, al quale domanda il permesso di entrare, appena quindicenne, nel Carmelo di Lisieux. Un anno dopo, il suo desiderio si realizza: si fa Carmelitana, "per salvare le anime e pregare per i sacerdoti" (ibid., 69v). Contemporaneamente, inizia anche la dolorosa ed umiliante malattia mentale di suo padre. E’ una grande sofferenza che conduce Teresa alla contemplazione del Volto di Gesù nella sua Passione (ibid., 71rv). Così, il suo nome da Religiosa - suor Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo - esprime il programma di tutta la sua vita, nella comunione ai Misteri centrali dell'Incarnazione e della Redenzione.

La sua professione religiosa, nella festa della Natività di Maria, l’8 settembre 1890, è per lei un vero matrimonio spirituale nella “piccolezza” evangelica, caratterizzata dal simbolo del fiore: "Che bella festa la Natività di Maria per diventare la sposa di Gesù! - scrive - Era la piccola Vergine Santa di un giorno che presentava il suo piccolo fiore al piccolo Gesù" (ibid., 77r). Per Teresa essere religiosa significa essere sposa di Gesù e madre delle anime (cfr Ms B, 2v). Lo stesso giorno, la Santa scrive una preghiera che indica tutto l'orientamento della sua vita: chiede a Gesù il dono del suo Amore infinito, di essere la più piccola, e sopratutto chiede la salvezza di tutti gli uomini: "Che nessuna anima sia dannata oggi" (Pr 2). Di grande importanza è la sua Offerta all'Amore Misericordioso, fatta nella festa della Santissima Trinità del 1895 (Ms A, 83v-84r; Pr 6): un'offerta che Teresa condivide subito con le sue consorelle, essendo già vice maestra delle novizie.

Dieci anni dopo la "Grazia di Natale", nel 1896, viene la "Grazia di Pasqua", che apre l'ultimo periodo della vita di Teresa, con l'inizio della sua passione in unione profonda alla Passione di Gesù; si tratta della passione del corpo, con la malattia che la condurrà alla morte attraverso grandi sofferenze, ma soprattutto si tratta della passione dell'anima, con una dolorosissima prova della fede (Ms C, 4v-7v). Con Maria accanto alla Croce di Gesù, Teresa vive allora la fede più eroica, come luce nelle tenebre che le invadono l’anima. La Carmelitana ha coscienza di vivere questa grande prova per la salvezza di tutti gli atei del mondo moderno, chiamati da lei "fratelli". Vive allora ancora più intensamente l'amore fraterno (8r-33v): verso le sorelle della sua comunità, verso i suoi due fratelli spirituali missionari, verso i sacerdoti e tutti gli uomini, specialmente i più lontani. Diventa veramente una "sorella universale"! La sua carità amabile e sorridente è l'espressione della gioia profonda di cui ci rivela il segreto: "Gesù, la mia gioia è amare Te" (P 45/7). In questo contesto di sofferenza, vivendo il più grande amore nelle più piccole cose della vita quotidiana, la Santa porta a compimento la sua vocazione di essere l’Amore nel cuore della Chiesa (cfr Ms B, 3v).

Teresa muore la sera del 30 settembre 1897, pronunciando le semplici parole "Mio Dio, vi amo!", guardando il Crocifisso che stringeva nelle sue mani. Queste ultime parole della Santa sono la chiave di tutta la sua dottrina, della sua interpretazione del Vangelo. L'atto d'amore, espresso nel suo ultimo soffio, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore. Le semplici parole “Gesù Ti amo” sono al centro di tutti i suoi scritti. L'atto d'amore a Gesù la immerge nella Santissima Trinità. Ella scrive: "Ah tu lo sai, Divin Gesù Ti amo, / Lo Spirito d'Amore m'infiamma col suo fuoco, / E' amando Te che io attiro il Padre" (P 17/2).

Cari amici, anche noi con santa Teresa di Gesù Bambino dovremmo poter ripetere ogni giorno al Signore che vogliamo vivere di amore a Lui e agli altri, imparare alla scuola dei santi ad amare in modo autentico e totale.

Teresa è uno dei “piccoli” del Vangelo che si lasciano condurre da Dio nelle profondità del suo Mistero. Una guida per tutti, soprattutto per coloro che, nel Popolo di Dio, svolgono il ministero di teologi. Con l'umiltà e la carità, la fede e la speranza, Teresa entra continuamente nel cuore della Sacra Scrittura che racchiude il Mistero di Cristo. E tale lettura della Bibbia, nutrita dalla scienza dell’amore, non si oppone alla scienza accademica. La scienza dei santi, infatti, di cui lei stessa parla nell'ultima pagina della Storia di un'anima, è la scienza più alta "Tutti i santi l'hanno capito e in modo più particolare forse quelli che riempirono l'universo con l'irradiazione della dottrina evangelica. Non è forse dall'orazione che i Santi Paolo, Agostino, Giovanni della Croce, Tommaso d'Aquino, Francesco, Domenico e tanti altri illustri Amici di Dio hanno attinto questa scienza divina che affascina i geni più grandi?" (Ms C, 36r). Inseparabile dal Vangelo, l'Eucaristia è per Teresa il Sacramento dell'Amore Divino che si abbassa all'estremo per innalzarci fino a Lui. Nella sua ultima Lettera, su un'immagine che rappresenta Gesù Bambino nell'Ostia consacrata, la Santa scrive queste semplici parole: "Non posso temere un Dio che per me si è fatto così piccolo! (...) Io Lo amo! Infatti, Egli non è che Amore e Misericordia!" (LT 266).

Nel Vangelo, Teresa scopre soprattutto la Misericordia di Gesù, al punto da affermare: "A me Egli ha dato la sua Misericordia infinita, attraverso essa contemplo e adoro le altre perfezioni divine! (...) Allora tutte mi paiono raggianti d'amore, la Giustizia stessa (e forse ancor più di qualsiasi altra) mi sembra rivestita d'amore" (Ms A, 84r). Così si esprime anche nelle ultime righe della Storia di un'anima: "Appena do un'occhiata al Santo Vangelo, subito respiro i profumi della vita di Gesù e so da che parte correre... Non è al primo posto, ma all'ultimo che mi slancio… Sì lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, con il cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, perché so quanto ami il figliol prodigo che ritorna a Lui" (Ms C, 36v-37r).
 
"Fiducia e Amore" sono dunque il punto finale del racconto della sua vita, due parole che come fari hanno illuminato tutto il suo cammino di santità, per poter guidare gli altri sulla stessa sua "piccola via di fiducia e di amore", dell’infanzia spirituale (cf Ms C, 2v-3r; LT 226). Fiducia come quella del bambino che si abbandona nelle mani di Dio, inseparabile dall'impegno forte, radicale del vero amore, che è dono totale di sé, per sempre, come dice la Santa contemplando Maria: "Amare è dare tutto, e dare se stesso" (Perché ti amo, o Maria, P 54/22). Così Teresa indica a tutti noi che la vita cristiana consiste nel vivere pienamente la grazia del Battesimo nel dono totale di sé all'Amore del Padre, per vivere come Cristo, nel fuoco dello Spirito Santo, il Suo stesso amore per gli altri.


                         Pope Benedict XVI gestures during his weekly general audience on March 30, 2011 in St Peter's square at The Vatican.

APPELLO DEL SANTO PADRE

“Continuo a seguire con grande apprensione le drammatiche vicende che le care popolazioni della Costa d’Avorio e della Libia stanno vivendo in questi giorni. Mi auguro, inoltre, che il Cardinale Turkson, che avevo incaricato di recarsi in Costa d’Avorio per manifestare la mia solidarietà, possa presto entrare nel Paese. Prego per le vittime e sono vicino a tutti coloro che stanno soffrendo. La violenza e l’odio sono sempre una sconfitta! Per questo rivolgo un nuovo e accorato appello a tutte le parti in causa, affinché si avvii l’opera di pacificazione e di dialogo e si evitino ulteriori spargimenti di sangue”.



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