Benedetto XVI spiega Guglielmo di Saint-Thierry e la vocazione all'Amore

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Caterina63
00mercoledì 2 dicembre 2009 23:48
All'udienza generale il Papa parla di Guglielmo di Saint-Thierry

L'amore è energia dell'animo
e compimento dell'uomo




"La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell'amare". Lo ha ricordato il Papa all'udienza generale di mercoledì 2 dicembre, in piazza San Pietro, parlando di Guglielmo di Saint-Thierry, amico e biografo di san Bernardo di Chiaravalle.

Cari fratelli e sorelle,
in una precedente Catechesi ho presentato la figura di Bernardo di Chiaravalle, il "Dottore della dolcezza", grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo - amico ed estimatore - fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina.

Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un'intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell'epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims.

In quel periodo era molto diffusa l'esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all'interno del proprio monastero, e in genere nell'Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell'amico Bernardo, nel 1135, lasciò l'abbazia benedettina, smise l'abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.

Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell'amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L'energia principale che muove l'animo umano - egli dice - è l'amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell'amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l'uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato.

Scrive infatti Guglielmo: "L'arte delle arti è l'arte dell'amore... L'amore è suscitato dal Creatore della natura. L'amore è una forza dell'anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio" (La natura e la dignità dell'amore 1, PL 184, 379). Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell'uomo: l'infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia.

In questo itinerario la persona deve imporsi un'ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all'egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell'amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come "sapienza". A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell'uomo - intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.

Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all'amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell'uomo. In una meditazione egli dice che l'oggetto di questo amore è l'Amore con la "A" maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d'amore è il compimento dell'uomo" (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83). Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell'amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l'Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!

Secondo Guglielmo, poi, l'amore ha un'altra proprietà importante: illumina l'intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall'intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l'oggetto, tra l'io e il tu. L'amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un'assimilazione tra il soggetto che ama e l'oggetto amato.
Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: "Amor ipse intellectus est - già in se stesso l'amore è principio di conoscenza". Cari amici, ci domandiamo: non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!

Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d'oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre - egli dice - passare dall'uomo "animale" a quello "razionale", per approdare a quello "spirituale". Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni?

All'inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un'armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell'anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell'amore e per amore.

Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell'uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell'uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L'immagine di Dio presente nell'uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un'identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama "unità di spirito", non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un'altra cosa.

Questa perfezione si raggiunge per l'azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell'anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d'amore presente nell'uomo. "Vi è poi un'altra somiglianza con Dio", leggiamo nell'Epistola aurea, "che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l'uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l'unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l'uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l'uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura" (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).

Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il "Cantore dell'amore, della carità", ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna.

Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere.

Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d'amore. E concludo proprio con una preghiera di questa Santa: "Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d'amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d'amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario ... quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d'amore".

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L'importanza della riconciliazione
nella vita della Chiesa


Dopo la catechesi dedicata a Guglielmo di Saint-Thierry il Papa ricorda il venticinquesimo dell'esortazione apostolica "Reconciliatio et paenitentia": l'invito a "confidare sempre nella bontà di Dio, accostandosi e celebrando con fiducia il Sacramento della Penitenza", è stato rivolto dal Papa a sacerdoti e fedeli al termine dell'udienza generale di mercoledì 2 dicembre:

" Proprio oggi ricorre il 25° anniversario di promulgazione dell'Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia, che richiamò l'attenzione sull'importanza del sacramento della penitenza nella vita della Chiesa. In questa significativa ricorrenza, desidero rievocare alcune figure straordinarie di "apostoli del confessionale", instancabili dispensatori della misericordia divina: san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso, san Leopoldo Mandic, san Pio da Pietrelcina.

La loro testimonianza di fede e di carità incoraggi voi, cari giovani, a fuggire il peccato e a progettare il vostro futuro come un generoso servizio a Dio e al prossimo. Aiuti voi, cari malati, a sperimentare nella sofferenza la misericordia di Cristo crocifisso. E solleciti voi, cari sposi novelli, a creare in famiglia un clima costante di fede e di reciproca comprensione. L'esempio di questi Santi, assidui e fedeli ministri del perdono divino, sia infine per i sacerdoti - specialmente in questo Anno sacerdotale - e per tutti i cristiani un invito a confidare sempre nella bontà di Dio, accostandosi e celebrando con fidu- cia il Sacramento della Riconciliazione. "



(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2009)

Caterina63
00giovedì 27 gennaio 2011 18:54
Nel discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins

Quel monaco che è in noi


Nella serata di giovedì 27 gennaio si svolge nel Palazzo Apostolico Lateranense la seconda delle letture teologiche dedicate a "I grandi discorsi di Benedetto XVI". Al centro del dibattito il discorso tenuto il 12 settembre 2008 a Parigi al Collège des Bernardins. Anticipiamo ampi stralci di due delle relazioni.

di Giuseppe Dalla Torre

Che il cristianesimo abbia dato un contributo fondamentale a plasmare l'identità europea e, quindi, la sua cultura, è un dato storico innegabile, che solo da posizioni ideologiche di parte può essere - come peraltro non di rado oggi accade - ignorato o addirittura negato.

In effetti tra tardo antico ed età di mezzo operano fattori che costruiscono l'identità europea:  la cultura classica greco-romana, la cultura germanica, la cultura celtica, la cultura slava vengono poste nel crogiolo di fusione dato dal cristianesimo. La religione forgia la cultura del continente, base, almeno per l'Europa occidentale, della sua stessa unità politica nel medioevo. E la cultura ha le sue parole, i suoi paradigmi, i suoi valori; modula sensibilità e promuove processi intellettuali e materiali. I relativi processi sono lunghi nel tempo, ma mettono radici profonde.

Anche i modelli cambiano. Ad esempio è stato giustamente osservato da Jacques Le Goff che "l'Europa medievale inventa anche nuovi modelli culturali diversi dall'eroe guerriero e dall'oratore dell'antichità. Il primo è l'espressione della nuova religione, del cristianesimo. È il modello del santo"; ed aggiunge:  "Anche quando il medioevo si allontanerà e gli ideali religiosi si andranno affievolendo, il santo rimarrà presente tra gli europei, presente nell'arte e nella letteratura, presente in un'idea di perfezione umana (ci saranno i santi laici), presente nel calendario delle feste e nella grande quantità di nomi che molti europei portano tuttora".

Nel suo affascinante discorso tenuto al Collège des Bernardins a Parigi, il 12 settembre 2008, Benedetto XVI ha richiamato un altro grande modello che il cristianesimo ha introdotto nella cultura europea, nell'atto di forgiarla, vale a dire il monachesimo. Un monachesimo diverso da quello proprio di altre esperienze, come quello tardogiudaico degli esseni, col suo dualismo tra Dio e Belial, tra luce e tenebre; come quello induista e buddista; come lo stesso monachesimo cristiano orientale, di un Antonio abate, padre degli anacoreti, dalle forme di ascesi estreme, o di un Pacomio, padre dei cenobiti, che addita la possibilità di una vita monastica comunitaria.

Quello cui fa riferimento Benedetto XVI è un monachesimo nuovo, che nella scelta di una condizione di vita non ordinaria non fugge peraltro dal mondo, ma entra a trasformarlo profondamente. Come infatti annota il Papa sin dall'inizio delle proprie riflessioni, la vita dei monaci era caratterizzata dalla ricerca:  "Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo "escatologico". Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale:  dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum".

La componente essenziale e caratteristica del monachesimo cristiano è racchiusa nel noto principio dell'ora et labora, che unisce l'orientamento alla parola, che appartiene all'essenza della ricerca dalle verità penultime alla Verità ultima, con l'orientamento al lavoro, cioè a quella peculiarità della condizione umana data dal suo coinvolgimento nell'opera di Dio nella creazione del mondo.
Il monachesimo incarna in maniera esemplare l'atteggiamento nuovo del cristianesimo nei confronti del mondo. La sua esperienza si distacca nettamente da esperienze precristiane e non cristiane alle quali solo apparentemente potrebbe assimilarsi.

Si distacca innanzitutto dall'idea della scelta monastica quale paradigma della fuga dal mondo al quale, in una prospettiva salvifica, l'uomo religioso si crede e si sente obbligato. La scelta monastica non è trascendimento della dimensione mondana, non è fuga dalle realtà create, non è annullamento della persona in un misticismo disincarnato, non è tantomeno contrapposizione dualistica di anima e di corpo, non è tensione, come nella prospettiva platonica, verso la liberazione dell'anima dalla prigione corporea. L'ora et labora di Benedetto ha costituito, nei secoli, un antidoto forte alle tentazioni che periodicamente si sono ripresentate per il cristiano:  di uno spiritualismo disincarnato; di un manicheismo - nascente da una mala interpretazione di Agostino - che vede nel mondo il male da rifuggire; di un escatologismo apocalittico, che induce al disimpegno, alla rassegnazione, al terrore; di un rifiuto dall'impegno sociale e politico perché gli Stati sono percepiti solo come magna latrocinia.

Ma quella monastica si distacca da esperienze apparentemente analoghe anche sul fronte, opposto, di una escatologia tutta inframondana, di un annullamento dell'io nel mare della natura, di un eterno ritorno nelle forme più varie degli esseri viventi. Anche qui l'ora et labora di Benedetto ha costituito, nel divenire della storia, un antitodo forte contro le risorgenti tentazioni nascenti da una cattiva lettura di Tommaso, vale a dire di un regno di Dio realizzabile e da realizzare tutto qui e ora, di una funzione meramente politica del messaggio evangelico, nella prospettiva - pur condivisibile, ma non esclusiva né ultima - di una rivoluzione trasformante le strutture sociali e politiche in un senso più giusto, più sociale, più umano. Cioè, capovolgendo la nota immagine agostiniana, in un impegno a modellare la città di Dio sul paradigma della città terrena.

Come annota Benedetto XVI, "del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili". Ma aggiunge:  "Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell'uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l'uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione". Dunque nel discorso aux Bernardins vi è una forte provocazione a noi europei:  quella diretta a far crescere il "monaco che è in noi". Il riferimento qui non è ovviamente allo stato di vita, tra i vari possibili per i christifideles; il riferimento è ad uno spirito, ad un'idea di esperienza, ad un percorso intellettuale, ad una metodologia di ricerca. In quanto tale, l'invito sotteso al discorso parigino a far crescere "il monaco che è in noi" si rivolge non solo ai credenti, ma a tutti noi europei - che crocianamente non possiamo non dirci cristiani - come esperienza probabile, nel senso che si può provare, di una ricerca intellettuale aperta alla scoperta di Dio:  quaerere Deum. In questo senso si coglie appieno l'invito, fatto dal Pontefice in altre occasioni, a sviluppare le esperienze personali e sociali nella prospettiva dell'etiamsi Deus daretur.

Centrale nell'esperienza monastica, che viene assunta a paradigma imitabile, è la parola. Nel senso che "le désir de Dieu, include l'amour des lettres, l'amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni". E poiché "nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi". Parlando agli uomini, Dio si esprime in parole umane:  dunque occorre affinare gli strumenti intellettuali e culturali per cogliere, dietro e dentro le parole umane, la Parola di Dio. In questo senso, fa notare Benedetto XVI, "il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all'erudizione dell'uomo - una formazione con l'obbiettivo ultimo che l'uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l'erudizione, in base alla quale l'uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola".

Ma il monachesimo può dirci ancora qualcosa? Può ancora oggi, nella nostra società tecnologicamente raffinata e disincantata dalla secolarizzazione, costituire per tutti, credenti ed in ricerca, un modello ancora proponibile? Può offrire ragioni di speranza e rimedi allo scetticismo, alla rassegnazione o al disimpegno?

Attraverso il paradigma del monachesimo cristiano Benedetto XVI indica una via possibile per l'oggi, con quanto c'è di diverso dal passato, ma anche con quanto c'è di analogo; con quanto, meglio, è proprio sempre, per tutti e dappertutto, della condizione umana. Una via possibile a chi è credente e a chi non lo è, dunque, giacché si tratta di non di mortificare l'intelligenza e la ragione, ma di stimolarle a cogliere la struttura interna dell'intera creazione, con le sue leggi intrinseche immesse da Dio creatore e ordinatore.

Ma il Papa mette in guardia contro due pericoli, che possono allontanare dal paradigma proposto. Il primo è quello dell'individualismo, dell'arbitrio individuale, che se dal punto di vista soggettivo non tiene conto della naturale struttura relazionale propria dell'uomo, dal punto di vista oggettivo non tiene conto del legame che deriva da una ragione che, purificata, conosce la verità oggettiva; così come ignora e prescinde dal legame che deriva dall'amore.

L'altro pericolo è quello del fondamentalismo. Si tratta di un pericolo rispetto al quale siamo più avvertiti e sensibili:  ma, dobbiamo riconoscerlo, essenzialmente nella misura in cui riguarda l'esterno; cioè verso quelle manifestazioni che vengono da realtà culturali ed esperienze religiose estranee alla nostra tradizione. Per noi, oggi, il fondamentalismo coincide essenzialmente con l'islam.

In realtà anche nel nostro interno, dentro la nostra civiltà così come s'è storicamente sviluppata, nelle derive moderne del processo di secolarizzazione, a fronte di un apparente trionfo della tolleranza come virtù, cioè dell'affermarsi dell'idea relativistica della dignità di ogni posizione, si riscontra spesso la sostanza di nuove forme di fanatismo fondamentalista. In configurazioni nuove, sono riapparsi gli idola fori, nei cui confronti è richiesto in maniera intransigente l'omaggio cultuale. Anche qui si ripropone quella tensione tra legame e libertà, che ha segnato l'esperienza monastica e ha plasmato profondamente la cultura occidentale, e che è data dal binomio "intelletto" ed "amore".

"Sarebbe fatale - ammonisce conclusivamente Benedetto XVI -, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l'arbitrio", perché "mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà ma la sua distruzione".


(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)

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