Breve storia del TABERNACOLO di don Enrico Finotti e IL TABERNACOLO SFRATTATO oggi dalle nostre Chiese

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Caterina63
00sabato 27 agosto 2011 23:46
La storia del TABERNACOLO

di don Enrico Finotti

a. La conservazione, l’adorazione e la comunione alla santissima Eucarestia al di fuori della celebrazione del Sacrificio sono sempre state presenti nella prassi liturgica della Chiesa. Questa affermazione oggi potrebbe suscitare una immediata perplessità e reazione. Bisogna allora intendersi bene ed argomentare con precisione. Certamente la custodia pubblica e solenne, come i riti del culto eucaristico (esposizione, benedizione, processioni, ecc.) sono maturati nei secoli ed hanno uno sviluppo storico ben definito.

Tabernacolo



Tuttavia il fatto che l’Eucarestia sia sempre stata conservata, intimamente adorata e frequentemente assunta anche fuori della celebrazione è inconfutabile. Conservazione, adorazione e comunione fuori della Messa, sono, quindi, elementi originali, insiti nelle radici stesse della liturgia e rilevabili nell’esperienza cultuale della Chiesa fino dalle sue prime manifestazioni.

 La santissima Eucaristia, infatti, veniva consegnata ai diaconi per gli assenti e i fedeli stessi, laici ed eremiti, la portavano con sé nelle loro dimore per cibarsene frequentemente. La custodia eucaristica nasce così nelle case dei cristiani per conservare con circospezione il Sacramento. è evidente che quella cura con la quale conservavano e ricevevano il Pane santo non poteva essere altro che quell’adorazione intima e profonda che già san Paolo esigeva - ciascuno esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna (1 Cor 11, 28-29) - e che s. Agostino ribadiva - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo (Enarrationes in Psalmos 98, 9, CCL XXXIX, 1385). Ed ecco che i tre aspetti riserva, adorazione e comunione sono inscindibili in quanto l’uno è finalizzato agli altri: il sacramento è conservato perché con spirito adorante si possa assumere anche ogni giorno.

In analogia con le case anche le chiese dovevano avere un luogo di conservazione dell’Eucaristia, sempre più necessario nella misura in cui veniva a scomparire l’uso domestico. Il luogo veniva chiamato Pastoforio (in Oriente) o Sacrarium (in Occidente) (RIGHETTI, Storia liturgica, Ancora edizione anastatica, 1998, vol. I, p. 546), ed era attiguo al presbiterio. Conservare, adorare e comunicare alla santissima Eucaristia fuori della Messa, quindi, non sono sintomi di una corruzione intervenuta successivamente, ma, nella loro sostanza, sono aspetti connessi alla forma primitiva della celebrazione dei santi Misteri.

b. Nel secondo millennio il SS. Sacramento tende ad uscire dal segreto ed entrare progressivamente nelle chiese in modo pubblico e sempre più solenne. Ne sono testimonianza la piccola capsa, detta Propitiatorium, posta sulla mensa dell’altare o la Colomba eucaristica pendente sopra l’altare. è interessante osservare che, appena il Sacramento esce dalla sacrestia, subito individua l’altare come sua dimora, lì dove è “nato”. Ben presto le esigenze della sicurezza e lo sviluppo crescente del culto eucaristico portarono a forme monumentali, come le edicole eucaristiche, che dovettero di necessità lasciare l’altare per creare un loro spazio architettonico autonomo. Tuttavia il sacramento non rientrò più nel segreto del sacrario, ma iniziò la sua ascesa trionfale, confortata dallo sviluppo del dogma e della spiritualità eucaristica.

 
Colomba Eucaristica


[Colomba eucaristica - Roma S. Atanasio]

c. In seguito al Concilio Tridentino il tabernacolo, già monumentale, non teme di salire sull’altare stesso, quale suo luogo proprio: il tabernacolo, infatti, contiene ontologicamente quel medesimo Mistero vivo e vero che sull’altare si celebra. Se questa fu la norma più diffusa e raccomandata, tuttavia, la Chiesa, almeno nella liturgia pontificale, non volle lasciare l’antico costume, che distingueva l’altare dalla riserva eucaristica. Al contempo si doveva accettare il progresso dogmatico e le forme nuove del culto eucaristico, che imponevano ormai una custodia pubblica, visibile e solenne della SS. Eucaristia. In tal modo, nelle cattedrali e nelle collegiate, si eresse la cappella del SS. Sacramento che, pur distinta dalla navata ne era collegata e con la sua preziosità e sacralità veniva ad essere il Sancta sanctorum della chiesa stessa.

 - fine prima parte - continua


Caterina63
00sabato 27 agosto 2011 23:52
IL SENSO TEOLOGICO DEL TABERNACOLO (II parte)

di don Enrico Finotti

L’identità e il ruolo del tabernacolo eucaristico non possono attingere soltanto ad una indagine storica, ma è necessaria soprattutto una riflessione teologica. Le basi teologiche, infatti, sono quelle che possono mutare, emendare o perfezionare, sia le scelte storiche del passato, sia quelle della prassi liturgica attuale. Senza teologia eucaristica, infatti, si è facilmente esposti o all’archeologismo o al funzionalismo pastorale.

Tabernacolo


L’altare e il tabernacolo – a livello di principio – sono inseparabili. Questa affermazione, a prima vista, potrebbe creare difficoltà, ma, alla luce di una serena argomentazione se ne comprenderà la verità.

L’altare è il luogo santo sul quale si compie in modo sacramentale il Mistero pasquale della nostra Redenzione. In modo simultaneo nel cuore della Prece Eucaristica si attualizza la Presenza del Signore, il suo atto sacrificale e la sua forma di cibo e bevanda. Presenza Sacrificio e Convito sono tre aspetti indissolubili e sincronici del grande Mistero che con la Consacrazione è donato alla Chiesa.

L’altare è anche il simbolo più qualificato, che esprime con la sua stessa struttura le tre dimensioni del Mistero che su di esso si compie. Infatti: la sua dignità e centralità è il segno di Cristo presente nella Chiesa quale Capo dell’assemblea liturgica; come ara in pietra ed elevata richiama il Sacrificio della Croce, attualizzato nella celebrazione dei santi misteri; la sua mensa ricoperta con la tovaglia ricorda il sacro convivio in cui ci è dato il Pane santo della vita eterna e il calice dell’eterna salvezza. L’altare in tal modo porta impresse su di sé simbolicamente le coordinate fondamentali dell’Eucaristia.

Separare dall’altare il Sacramento, a celebrazione conclusa, crea per sé qualche disagio, sia all’altare come al tabernacolo. Infatti, l’altare improvvisamente si spegne e la sua vita passa al tabernacolo. Se in antico l’altare era l’incontestato luogo sacro al quale tutti si volgevano durante e dopo la celebrazione, essendo il Sacramento custodito nella sagrestia, con il tabernacolo in chiesa, ma separato dall’altare, si crea una bipolarità, che dopo la celebrazione va decisamente a favore del tabernacolo, perché i fedeli, istruiti dal dogma della fede, accorrono lì dov’è la realtà, lasciando in disparte il simbolo, anche se non privo di una certa efficacia spirituale qualora l’altare fosse dedicato. La statua o il ritratto si oscurano quando la persona viva è presente.

Ecco perché il papa Paolo VI potrà affermare del tabernacolo e non dell’altare che è il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese (Credo del popolo di Dio 1968) e Benedetto XVI dirà che questa presenza fa’ si che nella chiesa ci sia sempre l’eucaristia… una chiesa senza presenza eucaristica è in qualche modo morta, anche se invita alla preghiera… (RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, 2001, p. 86). Già il beato card. Ildefonso Schuster espresse così il medesimo concetto:”…la santissima Eucaristia conservata perennemente nelle chiese dà carattere di perennità al Sacrificio incruento dell’altare…”(Liber sacramentorum, Casale Monferrato, ed. Marietti, 1932, vol. I, p. 24). Infatti Cristo, anche dopo l’offerta del sacrificio, allorché viene conservata l’Eucaristia nelle chiese o negli oratori, è veramente l’Emmanuele, cioè ‘Dio con noi’. Giorno e notte resta in mezzo a noi, e in noi abita, pieno di grazia e di verità (RCCE2).

Altare Tabernacolo


ma anche il tabernacolo subisce danno dalla separazione dall’altare. Infatti esso richiama soprattutto la reale presenza, ma non altrettanto quella virtus sacrificalis, che non abbandona mai l’Agnello immolato e glorioso; e neppure quella forma convivialis, che rimane insita nel Sacramento, il quale, prima o poi, dovrà essere assunto nella comunione. In altri termini, l’altare è il miglior interprete del tabernacolo, perché garantisce l’espressione simbolica di tutti gli aspetti del Mistero. L’autentica formazione eucaristica del cristiano, infatti, implica una triplice attenzione: la percezione adorante della Presenza del Signore, l’unione al suo Sacrificio e il nutrirsi degnamente del suo Corpo e del suo Sangue. L’insufficienza di uno o l’altro di questi aspetti o la loro non adeguata composizione ha portato talvolta a visioni dottrinali, a prassi pastorali o a itinerari spirituali non sempre conformi alla completezza del Mistero nell’equilibrio delle sue parti: “Per ben orientare la pietà verso il santissimo Sacramento dell’Eucaristia e per alimentarla a dovere, è necessario tener presente il mistero eucaristico in tutta la sua ampiezza, sia nella celebrazione della Messa che nel culto delle sacre specie, conservate dopo la Messa per estendere la grazia del sacrificio” (RCCE4).

Tabernacolo Altare


Per questo le norme liturgiche stabiliscono che l’esposizione del SS. Sacramento avvenga normalmente sull’altare, affinché il senso del Sacrificio e il rimando alla Comunione sacramentale non siano estranei dall’Adorazione: ”Nelle esposizioni si deve porre attenzione che il culto del santissimo Sacramento appaia con chiarezza nel suo rapporto con la Messa” (RCCE90) e “La pisside o l’ostensorio si colloca sulla mensa dell’altare…”(RCCE110). Questa relazione tra l’altare e la SS. Eucaristia è affermata anche dall’invocazione tradizionale: Benedetto Gesù nel santissimo Sacramento dell’altare (RCCE237)

Si comprende allora come il rapporto altare-tabernacolo non sia questione secondaria, ma coinvolga la teologia, la catechesi, la liturgia, la spiritualità e la retta devozione del popolo di Dio. Siccome la storia ci offre soluzioni variabili e la teologia ci richiama all’unità del Mistero, si dovrà essere aperti a normative diversificate, ma sempre attenti a non posporre la presenza personale - vera, reale e sostanziale - del Signore ai suoi simboli.

“Nessun dubbio quindi che tutti i fedeli in linea con la pratica tradizionale e costante della Chiesa cattolica, nella loro venerazione verso questo santissimo Sacramento, rendano ad esso quel culto di latrìa che è dovuto al vero Dio. E se Cristo Signore ha istituito questo sacramento come nostro cibo, non per questo ne è sminuito il dovere di adorarlo” (RCCE3).


fine seconda parte - continua






Caterina63
00domenica 28 agosto 2011 00:09
[SM=g1740717]La normativa liturgica riguardante il tabernacolo
(III parte)

di don Enrico Finotti

Dopo il Concilio Vaticano II la disposizione liturgica del tabernacolo è condizionata da due scelte specifiche: la celebrazione della Messa verso il popolo e la ragione del segno. Sulla base di queste due condizioni si comprendono le normative vigenti che definiscono il posto per la custodia della santissima Eucaristia.

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a. è evidente che il tabernacolo sulla mensa dell’altare, soprattutto se monumentale, non consente di celebrare rivolti al popolo. La diffusione universale di questo modo di celebrare ha portato prevalentemente alla separazione dei due luoghi liturgici. In alcuni casi il tabernacolo di piccole dimensioni continua ad essere mantenuto sull’altare, soprattutto in cappelle esigue.

b. L’altro motivo è così espresso: In ragione del segno, è più conveniente che il tabernacolo in cui si conserva la SS. ma Eucaristia non sia collocato sull’altare su cui si celebra la Messa (OGMR 315). La ragione del segno viene ulteriormente spiegata nelle premesse al Rito della Comunione fuori della Messa e Culto eucaristico (RCCR6) dove, riferendosi alla Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium n.7, si afferma: “Nella celebrazione della Messa sono gradualmente messi in evidenza i modi principali della presenza di Cristo nella Chiesa. è presente in primo luogo nell’assemblea stessa dei fedeli riuniti in suo nome;  è presente nella sua parola, allorché si legge in chiesa la Scrittura e se ne fa il commento; è presente nella persona del ministro; è presente infine e soprattutto sotto le specie eucaristiche: una presenza, questa, assolutamente unica, perché nel sacramento dell’Eucaristia vi è il Cristo tutto e intero, Dio e uomo, sostanzialmente e ininterrottamente. Proprio per questo la presenza di Cristo sotto le specie consacrate viene chiamata reale, non per esclusione, come se le altre non fossero tali, ma per antonomasia. Ne consegue che, per ragione del segno, è più consono alla natura della sacra celebrazione che sull’altare sul quale viene celebrata la Messa non ci sia fin dall’inizio, con le specie consacrate conservate in un tabernacolo la presenza eucaristica di Cristo: essa infatti è il frutto della consacrazione, e come tale deve apparire”.

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Tale intento è certo importante in quanto vuole mettere in luce le varie forme della presenza del Signore nelle azioni liturgiche e dare a ciascuna la possibilità di essere percepita e valorizzata. Tuttavia, non deve essere assolutizzato. Infatti, la tradizione liturgica attesta anche un incontro col SS. Sacramento immediatamente prima della celebrazione eucaristica stessa, soprattutto quella stazionale del Papa o del Vescovo. L’Ordo Romanus I ci informa che nella processione introitale il Papa sosta per venerare i Sancta che gli sono portati dagli accoliti, che a loro volta recano i doni presantificati presso l’altare, affinché il Pontefice nel rito dell’immixtio li infonda nel calice (RIGHETTI, Storia liturgica, Ancora edizione anastatica, 1998, vol. III, p. 164 ). Ancor oggi nell’ingresso corale del Vescovo, prima della Messa stazionale o nella visita pastorale, è prevista una breve adorazione davanti al SS. Sacramento (CE79 e 1180). Anche in alcune Liturgie Orientali l’Eucaristia è custodita sulla mensa dell’altare insieme con l’Evangeliario e la Croce. Per questo, se da un lato deve essere osservata con precisione la normativa attuale della Chiesa, non si deve disdegnare di celebrare su un altare sul quale vi è già il SS. Sacramento, né, a determinate condizioni, escludere che il tabernacolo possa essere posto permanentemente sull’altare della celebrazione. Occorre inoltre osservare che soltanto nel caso in cui il SS. Sacramento è effettivamente fuori dal presbiterio nella sua cappella propria si realizza visivamente la ragione del segno. Infatti, anche se assente dalla mensa dell’altare sul quale si celebra, nella gran parte dei casi il tabernacolo si trova comunque nell’orizzonte ottico dei fedeli che partecipano alla celebrazione eucaristica.

c. L’ Institutio generalis del Messale Romano del 1970 recita: Si raccomanda vivamente che il tabernacolo in cui si conserva la santissima Eucaristia sia collocato in una cappella adatta alla preghiera e alla adorazione privata dei fedeli. Se però, data la struttura particolare della chiesa e in forza di legittime consuetudini locali, tale sistemazione non fosse possibile, il Santissimo venga collocato su qualche altare o anche fuori dell’altare in posto d’onore e debitamente ornato (IGMR 276).

La Chiesa, oggi, sceglie come posto ideale per il tabernacolo la cappella, distinta dalla chiesa, degna e adatta alla preghiera personale dei fedeli. Il costume tradizionale e costante, che costituisce la regola nella liturgia pontificale - Si raccomanda che il tabernacolo, secondo un’antichissima tradizione conservata nelle chiese cattedrali, sia collocata in una cappella separata dall’aula centrale…(CE49) - viene proposto a tutte le chiese. Nelle chiese di nuova costruzione sarà facile realizzare con le qualità necessarie la cappella del SS. Sacramento. Invece nella maggioranza delle chiese storiche tale cappella non esiste e perciò si prevedeva che il Sacramento fosse conservato su un altare laterale o in un altro posto d’onore. Questa disposizione, tuttavia, ha provocato qualche difficoltà in quanto il SS. Sacramento è stato posto in linea con le devozioni e così fu privato della sua centralità e della sua unicità. In molte chiese il grande tabernacolo dell’altar maggiore rimane ancora vuoto e il SS. Sacramento giace in un tabernacolo laterale e dimesso. Ciò ha contribuito al collasso della pietà eucaristica nei fedeli e ha ridotto la portata dogmatica dell’Eucaristia e la sua assoluta preminenza nella chiesa. Fu certamente opportuno allora l’emendamento introdotto nell’ Ordinamento Generale della terza edizione del Messale Romano (2000) che recita: …Conviene quindi che il tabernacolo sia collocato, a giudizio del vescovo diocesano: a. o in presbiterio, non però sull’altare della celebrazione, nella forma e nel luogo più adatti, non escluso il vecchio altare che non si usa più per la celebrazione; b. o anche in qualche cappella adatta all’adorazione e alla preghiera privata dei fedeli, che però sia unita strutturalmente con la chiesa e ben visibile ai fedeli (OGMR 315).

Nel medesimo Ordinamento assegnare alla normativa sul tabernacolo il penultimo posto (OGMR 314-317), immediatamente prima delle norme relative alle immagini sacre (OGMR 318), potrebbe insinuare una certa marginalità, prossima alle devozioni. Di esso si dovrebbe trattare subito dopo l’altare e prima degli altri luoghi liturgici, come già è contemplato nel vigente Cerimoniale dei Vescovi (CE 49).

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Alla luce di queste indicazioni possiamo raccogliere alcuni elementi di sintesi.

Nelle chiese nuove sarà possibile progettare la cappella del SS. Sacramento fin dall’inizio curando i criteri liturgici stabiliti:

Essa dovrà essere distinta e non separata dall’aula della chiesa, essendo uno dei luoghi liturgici specifici e più importanti della chiesa stessa. Non si dovrà, perciò, far valere al suo posto la cappella feriale o un oratorio esterno alla chiesa anche se comunicante con essa.

-  Dovrà essere unica ed eminente. Non sarà una della serie delle eventuali altre cappelle devozionali e dovrà distinguersi tra tutte per l’architettura ed emergere per l’arte.

- Sarà ben visibile, facilmente accessibile e adatta all’adorazione e alla preghiera personale, in modo che i fedeli possano con facilità e con frutto venerare, anche con culto privato, il Signore presente nel Sacramento (RCCE 9).

Nelle piccole chiese, dove non si potrà costruire una apposita cappella, l’Eucaristia dovrebbe essere conservata nel presbiterio e in luogo centrale, per evitare che i simboli prevalgano sulla Realtà e i cuori dei fedeli siano intiepiditi nel sentire la Presenza adorabile del Signore.

Nelle chiese storiche nelle quali già vi è la cappella del SS. Sacramento il problema non esiste. Nella maggioranza di esse, però, tale cappella non c’è e il Sacramento è da sempre conservato nel tabernacolo dell’altar maggiore. In questo caso esso rimane il luogo più degno e opportuno per custodire l’Eucaristia.
E' necessario inoltre osservare che adattare alla custodia del Sacramento una cappella, per quanto suntuosa, ma eretta per il culto della SS. Vergine o di un Santo potrebbe interferire nella percezione piena della Presenza eucaristica, perché i fedeli vi accorrono per venerare l’immagine o il corpo santo. In ogni caso si dovrà evitare un altare laterale o un altro luogo qualunque privo di un proprio spazio e di una spiccata dignità. A tal proposito è indispensabile acquisire un concetto più equilibrato di adattamento, che abbia rispetto di soluzioni diverse intervenute nel corso dei secoli ed eviti di piegare ad ogni costo alla visione attuale la configurazione architettonica artistica e liturgica delle chiese storiche. In tale prospettiva il tabernacolo dovrebbe essere mantenuto lì dove fu originariamente progettato: l’edicola eucaristica in certe rare chiese antiche; il tabernacolo monumentale sull’altar maggiore delle chiese barocche; la cappella del SS. Sacramento nelle chiese che ne possono disporre; ecc. Solo così la tradizione della Chiesa si esibisce in tutta la sua varietà e ricchezza e il mistero eucaristico è descritto nell’ampio ventaglio delle sue realizzazioni storiche, che rivelano soluzioni variabili, riverbero di  visioni teologiche successive e complementari, ma sempre valide e legittime.

Queste indicazioni di principio contengono esigenze di coerenza con la dottrina della fede, che devono essere conosciute e valutate prima di procedere alla realizzazione pratica del luogo per la custodia della santissima Eucaristia. è necessario che una corretta teologia eucaristica stia alla base della costruzione o dell’adattamen-to del tabernacolo per assicurare ai fedeli una catechesi, una celebrazione e una spiritualità complete sotto ogni aspetto del Mistero. Questa molteplice educazione deve sgorgare dalla posizione e dalla forma dello stesso tabernacolo, che deve poter significare e comunicare con l’immediatezza e l’eloquenza dell’arte quella realtà invisibile e soprannaturale che custodisce.

Si potrà dire che queste norme sono ancora legate all’architettura classica, ma che non possono valere per quella moderna, così diversificata e nuova nella composizione delle varie parti di una chiesa. Tuttavia, questi principi valgono comunque. Infatti, il tabernacolo in una chiesa cattolica dovrà essere sempre quel luogo santo ed eminente che custodisce tutto il bene spirituale della Chiesa, Cristo stesso, nostra Pasqua e Pane vivo che dà vita agli uomini (PO 5; RCCE 1).

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Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica postsinodale Sacramentum caritatis espone con chiarezza l’interpretazione più attuale della normativa relativa al tabernacolo:

“In relazione all’importanza della custodia eucaristica e dell’adorazione e riverenza nei confronti del sacramento del Sacrificio di Cristo, il Sinodo dei Vescovi si è interrogato riguardo all’adeguata collocazione del tabernacolo all’interno delle nostre chiese. La sua corretta posizione, infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento. è necessario pertanto che il luogo in cui vengono conservate le specie eucaristiche sia facilmente individuabile, grazie anche alla lampada perenne, da chiunque entri in chiesa. A tal fine, occorre tenere conto della disposizione architettonica dell’edificio sacro: nelle chiese in cui non esiste la cappella del Santissimo Sacramento e permane l’altar maggiore con il tabernacolo, è opportuno continuare ad avvalersi di tale struttura per la conservazione ed adorazione dell’Eucaristia, evitando di collocarvi innanzi la sede del celebrante. Nelle nuove chiese è bene predisporre la cappella del Santissimo in prossimità del presbiterio; ove ciò non sia possibile, è preferibile situare il tabernacolo nel presbiterio, in luogo sufficientemente elevato, al centro della zona absidale, oppure in altro punto ove sia ugualmente ben visibile. Tali accorgimenti concorrono a conferire dignità al tabernacolo, che deve sempre essere curato anche sotto il profilo artistico. Ovviamente è necessario tener conto di quanto afferma in proposito l’Ordinamento Generale del Messale Romano. Il giudizio ultimo su questa materia spetta comunque al Vescovo diocesano” (in Supplemento a L’Osservatore Romano, n. 60, mercoledì 14 marzo 2007, n. 69).

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Sigle:
OGMR = Conferenza Episcopale Italiana, Messale Romano. Ordinamento generale, Roma 2004.
CE = Sacra Congregazione per il culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, Caerimoniale Episcoporum,
Editio Typica, Città del Vaticano 1984.
RCCE = Conferenza Episcopale Italiana, Rituale Romano, riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico
Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI. Rito della comunione fuori della Messa e culto eucaristico, LEV, Città
del Vaticano 1979.
PO = Concilio Ecumenico Vaticano II,Presbyterorum Ordinis, Decreto sul ministero e la vita dei Presbiteri, 7
dicembre 1965.




Caterina63
00martedì 30 agosto 2011 10:43

Inginocchiarsi di nuovo davanti a Dio


L'ARTE CATTOLICA DELL'INGINOCCHIARSI DAVANTI A DIO





Il santo Padre Benedetto XVI
da maggio 2008 in occasione della Festa del Corpus Domini, ha deciso, nelle Messe da lui celebrate, che i fedeli ricevano la Comunione dalla sue mani in bocca e in ginocchio, su inginocchiatoi messi a tal fine davanti all’altare. Nello stesso tempo aveva già riportato il Crocefisso sull'Altare raccomandando, con  mitezza e con responsabilizzazione, che tutte le Chiese (ossia anche le Parrocchie) si adoperassero per una corretta interpretazione della Riforma liturgica del Concilio Vaticano II, la quale non ha mai fatto propria Norma quelle alcune modifiche nella Messa che, invece, presero il sopravvento producendo abusi e dissacralità nella Messa stessa.

Approfondiamo, almeno un poco, la disciplina della Chiesa su questo tema!

Il Cardinale Antonio Cañizares, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti l’ha esposto in sintesi e con grande chiarezza nel febbraio del 2009 in un’intervista alla rivista “30 Giorni”:
Come è noto, l’attuale disciplina universale della Chiesa prevede che di norma la Comunione venga distribuita nella bocca dei fedeli. C’è poi un indulto che permette, su richiesta degli episcopati, di distribuire la Comunione anche sul palmo della mano. Questo è bene ricordarlo. Il Papa, poi, per dare maggiore risalto alla dovuta reverenza con cui dobbiamo accostarci al Corpo di Gesù, ha voluto che i fedeli che prendono la Comunione dalle sue mani lo facciano in ginocchio. Mi è sembrata un’iniziativa bella ed edificante del Vescovo di Roma.”
Di conseguenza, lo stesso Cardinale, che allora era ancora Primate di Spagna e Arcivescovo di Toledo, dispose che nella chiesa Cattedrale di Toledo si ponesse un inginocchiatoio per coloro che desideravano “comunicarsi con rispetto e come lo fa il Papa”, ricevendo la Comunione in ginocchio.
E ancora: “Le liturgie pontificie infatti sono sempre state, e sono tuttora, di esempio per tutto l’orbe cattolico”.

Non è un segreto che Benedetto XVI ha sempre sostenuto la Comunione in ginocchio. Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sottolineava che la pratica di inginocchiarsi per ricevere la Sacra Comunione ha a suo favore una tradizione plurisecolare, ed è un segno particolarmente espressivo di adorazione, del tutto appropriato in ragione della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate. Dietro il gesto di inginocchiarsi il Papa vede, dunque, niente meno che una conseguenza della fede cattolica nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.

Vale la pena penetrare maggiormente il suo pensiero, attraverso le pagine della sua opera “Lo spirito della Liturgia”, pubblicata quando era ancora Cardinale. Nel capitolo dedicato al tema della prostrazione, dice: “L’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani  è sconosciuta nel greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana. Può essere che la cultura moderna non capisca il gesto di inginocchiarsi, nella misura in cui è una cultura che si è allontanata dalla fede e non conosce ormai Colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto appropriato, anzi, interiormente necessario. Chi impara a credere, impara anche ad inginocchiarsi. Una fede o una liturgia che non conoscesse l’atto di inginocchiarsi sarebbe ammalata nel punto centrale. Là dove questo gesto sia andato perduto, bisogna impararlo di nuovo, per rimanere con la nostra preghiera in comunione con gli apostoli e i martiri, in comunione con tutto il cosmo e in unità con Gesù Cristo stesso”.
Conoscere, credere, rimanere nella fede, queste sono le condizioni di base da cui nasce il “bisogno interiore” di inginocchiarsi.

Dove la pratica di inginocchiarsi si è persa, “bisogna impararla di nuovo”, diceva l’allora Cardinale Ratzinger.
E di nuovo, nella sua prima Esortazione Apostolica, Sacramentum Caritatis (2007), il Santo Padre riafferma: “Un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli. Penso, in senso generale, all’importanza dei gesti e della postura, come l’inginocchiarsi durante i momenti salienti della preghiera eucaristica”.

Monsignor Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, riassume quest’insegnamento papale dicendo che, ricevendo la Comunione in ginocchio e in bocca, si sottolinea “la verità della presenza Reale di Cristo nell’Eucaristia, aiuta la devozione dei fedeli e introduce più facilmente il senso di mistero”.
Inoltre egli faceva presente in una intervista a Radio Vaticana, nell'aprile 2011: "Nell'ambito liturgico, ciò che il Papa sta indicando con la sua parola e con il suo esempio, è l'applicazione compiuta e fedele del Concilio Vaticano II, in sviluppo armonico con tutta la tradizione liturgica precedente della Chiesa. Il Santo Padre è un Maestro di liturgia, per quanto riguarda i contenuti, l'insegnamento e il pensiero, e allo stesso tempo un grande 'liturgo', perché ci insegna l'arte della celebrazione.
Benedetto XVI ha mutato la liturgia con il suo stesso stile celebrativo e allo stesso tempo con le sue indicazioni e orientamenti. Il Papa ha applicato e sta applicando alla lettera come deve essere celebrata la Messa voluta dalla Riforma del Concilio...", i sacerdoti e i Vescovi, pertanto, dovrebbero così obbedire al Papa nel fare proprie le sue istanze liturgiche. E lo stesso Pontefice, spiegava mons. Guido Marini, è ritornato spesso sul concetto che Roma rimane "il modello verso il quale tutte le altre chiese devono guardare".
Insomma, è il Papa a chiedere che si celebri la Liturgia con quella sacralità venuta meno nelle celebrazioni parrocchiali, ci vuole una buona dose di mala fede per dire "io non lo sapevo!"....

Ci piace sottolineare che grazie anche al Motu Proprio Summorum Pontificum, assistiamo di recente ad una responsabilizzazione da parte di molti Vescovi della Chiesa, verso questa santa disciplina. Sarebbe infatti fuorviante relegare questo prezioso MP esclusivamente al ritorno della Messa nella forma Straordinaria, poichè è il Papa stesso a richiedere attraverso questo Documento, una riforma della Messa nella forma Ordinaria, purificandola dai tanti abusi di questi anni e dove la Messa nella forma Straordinaria, invece, resta un 'ottimo esempio ed una grande testimonianza della sacralità liturgica che dobbiamo riportare allo scoperto.
Vorremmo menzionare soprattutto il Vescovo Athanasius Schenider il quale ha scritto anche un prezioso libretto "Dominus Est" edito dalla Libreria Vaticana, sul come ricevere la Sacra Comunione e il perchè dell'inginocchiarsi davanti al Mistero.

L'arte dell'inginocchiarsi è, per noi cattolici, un segno caratteristico e identificativo non semplicemente di una forma di cultura, ma molto più, di quella identità che ci vede consapevoli del Mistero di Gesù-Ostia-Santa che abbiamo davanti a noi e davanti al quale, appunto, ci inginocchiamo.
Taluni hanno frettolosamente ingannato se stessi e molti fedeli ricorrendo ad immagini della Chiesa primitiva secondo le quali, e secondo la loro interpretazione, i cristiani non si inginocchiavano davanti al Risorto, ma si prostravano!
A rigor del vero occorre dire che questa motivazione è sbagliata ed è malamente interpretata. Nessuno di fatto sa con certezza quale atteggiamento assunsero i Discepoli davanti al Cristo Risorto, parlando di prostrazione va detto che essa veniva fatta generalmente proprio da una posizione che partiva dallo stare in ginocchio e, seduti sui talloni, ci si prostrava con la fronte fino a toccare terra.
Bisogna sottolineare che in discussione non viene messo lo stare in piedi, per esempio, nelle invocazioni, nell'ascoltare la Parola di Dio, o nel seguire i canti, quanto piuttosto assistiamo da tempo ad una battaglia contro la forma dell'inginocchiarsi.

Del resto, per noi Cattolici, vale per tutto il suggerimento della Sacra Scrittura che lo stesso sante Padre Domenico insegnava ai suoi Frati:

Venite, prostràti adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati (Salmo 94,6).

Sant'Agostino, con una immagine efficace, ci spiega la nostra situazione.
E' vero, spiega il santo Padre della Chiesa, che la nostra fede cristiana è racchiusa nella gioia della Risurrezione, la Pasqua rende incontenibile la nostra gioia con inni, salmi, canti di lode e giubilo, ma la nostra vita sulla terra è una Quaresima!

Il santo Padre Agostino, in alcune sue catechesi, rimarca l'atteggiamento che dobbiamo assumere, ci ricorda che la Pasqua per noi è prefigurazione della gloria che vivremo mentre, la realtà che viviamo sulla terra è la Quaresima, per questo la Chiesa insegna il digiuno, la penitenza, la prostrazione, quello stare in ginocchio mentre mendichiamo davanti a Dio le nostre suppliche. Sant'Agostino cita, come esempio i passi dei Vangeli in cui è insegnato quale atteggiamento dobbiamo assumere quando Preghiamo, quando siamo davanti al Signore:

- Matteo 17,15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche nell'acqua;
- Marco 1,40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!».
- Marco 10,17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
- Luca 5,8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore».

In un articolo comparso sull'Osservatore Romano 4 agosto 2008, così spiegava mons. Nicola Bux: Il sacerdote, per celebrare con arte il servizio liturgico, non deve ricorrere ad accorgimenti mondani ma concentrarsi sulla verità dell'Eucaristia. L'Ordinamento generale del messale romano stabilisce:  "Anche il presbitero...quando celebra l'eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo".  Il prete non escogita nulla, ma col suo servizio deve rendere al meglio agli occhi e agli orecchi, ma anche al tatto, al gusto e all'olfatto dei fedeli, il sacrificio e rendimento di grazie di Cristo e della Chiesa, al cui mistero tremendo possono avvicinarsi quanti si sono purificati dai peccati. Come possiamo avvicinarci a lui se non abbiamo il sentimento di Giovanni il precursore:  "è necessario che egli cresca e io diminuisca"(Gv 3, 20)? Se vogliamo che il Signore cammini con noi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza, altrimenti priviamo dell'efficacia il nostro atto devoto:  l'effetto dipende dalla nostra fede e dal nostro amore.

"è necessario che egli cresca e io diminuisca", per fare questo è indispensabile che ci si attivi non solo spiritualmente, ma anche esternamente con atteggiamenti atti a far capire come funziona questo meccanismo:
- inginocchiandomi davanti all'Altissimo, Egli cresce di importanza davanti a me, io mi faccio piccolo ed umile (inginocchiandomi) davanti a Lui.
L'atteggiamento che assumiamo davanti agli altri, poichè siamo umani e sensibili ai gesti, ai segni, è pertanto indispensabile per dare una vera, o presunta, o perfino una falsa immagine del Mistero che celebriamo!
Nella Lettera alla Congregazione per il Culto Divino, del 21.9.2009, il futuro beato, Giovanni Paolo II, così scriveva e ammoniva:  "Il Popolo di Dio ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale Romano, detto di San Pio V, come in diverse Liturgie orientali, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia".

" anche senza tante parole e spiegazioni "....  Spesso è l'atteggiamento che assumiamo ad essere per noi la testimonianza più concreta di quello in cui crediamo.

Se vogliamo essere credibili, dobbiamo assumere anche un atteggiamento di credibilità: se diciamo che Dio è Vivo è vero nell'Eucarestia, allora non possiamo restare in piedi, o peggio seduti ( a meno che non vi sia qualche grave impedimento fisico) è la stessa virtù dell'umiltà sincera che ci fa piegare le ginocchia davanti al Sommo Re per poter supplicare ieri come oggi:
- Matteo 17,15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio......;
- Marco 1,40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!».
- Marco 10,17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
- Luca 5,8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore»...

Sia lodato Gesù Cristo!
LDCaterina63

[SM=g1740733] piccolo pro-memoria:

Inginocchiarsi da "I santi segni" di Romano Guardini

Cosa fa una persona quando s'inorgoglisce? Si drizza, alza il capo, irrigidisce le spalle e l'intera figura. Tutto in essa dice: «Io sono più grande di te! Io sono da più di te!».

Quando uno invece è di umile sentimento e si sente piccolo, china il capo, la sua persona si rattrappisce: egli «si abbassa». Tanto più profondamente, quanto più grande è colui che gli sta dinanzi; quanto meno egli sente di valere agli stessi propri occhi.

Ma quando mai percepiamo noi più chiaramente la nostra pochezza di quando stiamo dinanzi a Dio? Al grande Iddio che era ieri come è oggi, tra secoli e millenni! Al grande Iddio che riempie questa stanza e l'intera città ed il vasto mondo e l'incommensurabile cielo stellato, dinanzi a cui tutto è come un granello di sabbia! Al Dio santo, puro, giusto, infinitamente sublime...

Come è grande Lui... e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi a confronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla! Non è vero - e vien con tutta evidenza da sé - che non si può stare da superbi dinanzi a Lui? Ci si «fa piccoli»; si vorrebbe impicciolire la propria persona, perché essa non si presenti così, con tanta presunzione: l'uomo s'inginocchia.

E se al suo cuore questo non basta ancora, egli può inoltre prostrarsi. E la persona profondamente chinata dice: «Tu sei il Dio grande, mentre io sono un nulla!». Quando pieghi il ginocchio, non farlo né frettolosamente né sbadatamente. Dà all'atto tuo un'anima!

Ma l'anima del tuo inginocchiarti sia che anche interiormente il cuore si pieghi dinanzi a Dio in profonda reverenza. Quando entri in chiesa o ne esci, oppure passi davanti all'altare, piega il tuo ginocchio profondamente, lentamente; ché questo ha da significare: «Mio grande Iddio!...».
Ciò infatti è umiltà ed è verità ed ogni volta farà bene all'anima tua.


[SM=g1740757]

Caterina63
00sabato 3 settembre 2011 16:12

ANTONIO SOCCI SUL TRAGICO OCCULTAMENTO DEI TABERNACOLI


Tabernacolo di Star Treck del Santuario di Fatima

Cari amici, qui sopra vedete una foto della cosiddetta "Cappella del SS. Sacramento" del nuovo - diabolico - santuario di Fatima (Chiesa della SS. Trinità). La cappella si trova nel sotterraneo del santuario. All'interno dell'enorme chiesa consacrata dal Card. Bertone, non esiste il tabernacolo. Quello della cappella sotterranea non è un tabernacolo ma un abominio geometrico che sembra realizzato più per una divinità massonica che per Cristo... E' uno dei tanti esempi di dislocazione perversa del Tabernacolo in angoli inaccessibili delle nostre chiese.

A tal riguardo qui di seguito potete leggere lo splendido e tragico articolo di Antonio Socci apparso oggi su Libero. Una voce autorevole si leva contro il vezzo di anteporre i contenuti della "nota pastorale" della CEI del 1996 sull'adeguamento liturgico all'esempio pratico e magisteriale di Papa Benedetto XVI (Sacramentum Caritatis del 2007). Speriamo che i Vescovi italiani e qualche competente dicastero vaticano (Congregazione per il Culto Divino) sappiano raccogliere l'appello al ripristino della centralità del Tabernacolo nelle nostre chiese. Un ripristino che non può essere emotivo o temporaneo, ma che andrebbe sancito nero su bianco in documenti e decreti ben più solidi di una vaga "nota pastorale" assurta a legge federale dei Vescovi italiani. Buona lettura!

Francesco Colafemmina



di Antonio Socci

Un giorno, conversando con amici, Ratzinger (ancora cardinale) se ne uscì con una battuta: “Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica”.
Se ne sentono infatti di tutti i colori. Non c’è solo il prete che – è notizia di ieri – in una basilica della Brianza diffonde una preghiera islamica in cui si inneggia ad Allah. Ci sono quelli che consigliano la lettura di Mancuso o Augias… E si trovano “installazioni” di arte contemporanea nelle cattedrali che fanno accapponare la pelle. D’altra parte pure i cardinali di Milano hanno dato sfogo alla “creatività”. Leggo dal sito di Sandro Magister: “Nel 2005, l’11 maggio, per introdurre un ciclo dedicato al libro di Giobbe è stato chiamato a parlare in Duomo il professor Massimo Cacciari: oltre che sindaco di Venezia, filosofo ‘non credente’ come altri che in anni precedenti avevano preso parte a incontri promossi dal cardinale Martini col titolo, appunto, di ‘Cattedra dei non credenti’. Cacciari ha tessuto l’elogio del vivere senza fede e senza certezze”. Insomma nelle chiese si può trovare di tutto. Tranne la centralità di Gesù Cristo.

Infatti – nella disattenzione generale – i vescovi italiani hanno estromesso dalle chiese (o almeno vistosamente allontanato dall’altare centrale e accantonato in qualche angolo) proprio Colui che ne sarebbe il legittimo “proprietario”, cioè il Figlio di Dio, presente nel Santissimo Sacramento.

Non sembri una banale battuta. Al Congresso eucaristico nazionale che si sta aprendo ad Ancona dovrebbero considerare gli effetti devastanti prodotti dall’incredibile documento della Commissione Episcopale per la liturgia del 1996 che è il vademecum in base al quale sono state progettate le nuove chiese italiane e i relativi tabernacoli, o sono state “ripensate” le chiese più antiche.

Non si capisce quale sia lo statuto teologico di cui gode una Commissione della Cei (a mio avviso nessuno). Ma la cosa singolare è questa: che nell’ambiente ecclesiastico – a partire da seminari e facoltà teologiche – trovi legioni di teologi pronti (senza alcuna ragione seria) a mettere in discussione i Vangeli (nella loro attendibilità storica) e le parole del Papa, ma se si tratta di testi partoriti dalle loro sapienti meningi, e firmati da qualche commissione episcopale, ti dicono che quelli devono essere considerati sacri e intoccabili.

Dunque in quel testo del 1996, fra le altre cose discutibili, si “consiglia vivamente” di collocare il tabernacolo non solo lontano dall’altare su cui si celebra, ma pure dalla cosiddetta area presbiterale. Relegandolo “in un luogo a parte”. Le motivazioni – come sempre – sono apparentemente “devote”. Si dice infatti che il tabernacolo potrebbe distrarre dalla celebrazione eucaristica.
Motivazione ridicola e – nella sua enfasi sull’evento celebrativo a discapito della presenza nel tabernacolo – anche pericolosamente somigliante alle tesi di Lutero.

L’effetto inaudito di queste norme è il seguente: nelle chiese si assiste da qualche anno a un accantonamento progressivo del tabernacolo, cioè del luogo più importante della chiesa, quello in cui è presente il Signore. Prima lo si è collocato in un posto defilato (una colonna o un altare laterale), quindi in una cappella, parzialmente visibile. Alla fine probabilmente sarà del tutto estromesso dalle chiese. Come risulta essere nell’incredibile edificio di San Giovanni Rotondo in cui è stato portato il corpo di san Pio. L’edificio, progettato da Renzo Piano, non ha inginocchiatoi e la figura centrale e incombente è l’enorme e spaventoso drago rosso dell’apocalisse rappresentato trionfante nell’immensa vetrata: ebbene il tabernacolo lì non c’è.

Tabernacolo/Totem di San Giovanni Rotondo

Non so a chi sia venuto in mente questo progressivo occultamento dei tabernacoli nelle chiese (che avrebbe fatto inorridire padre Pio). Esso non corrisponde affatto all’insegnamento del Concilio Vaticano II, visto che l’istruzione post-conciliare “Inter Oecumenici” del 1964 affermava che il luogo ordinario del tabernacolo deve essere l’altare maggiore.
E non piace nemmeno al Papa come si vede nell’Esortazione post sinodale “Sacramentum Caritatis” dove egli sottolinea il legame strettissimo che deve esserci fra celebrazione eucaristica e adorazione. Sottolineatura emersa dall’XI Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2005 che ha richiesto la centralità ed eminenza del tabernacolo.

Basterà per tornare sulla retta via? Nient’affatto. Come dimostra il comportamento – a volte di aperta contestazione al Papa – tenuto da certi vescovi quando il suo famoso “Motu proprio” ha restaurato la libertà di celebrare anche con l’antico messale. Purtroppo le idee sbagliate dei liturgisti “creativi” continueranno a prevalere sul papa, sul Concilio e sul Sinodo (forse faranno strada anche altre balordaggini come la “prima comunione” a 13 anni). Fa da corollario a questa estromissione di Gesù eucaristico dalle chiese, la stupefacente pratica del biglietto di ingresso istituito perfino per alcune Cattedrali. Degradate così a musei.
La protestantizzazione o la museizzazione delle chiese è un fenomeno dagli effetti spaventosi per la Chiesa Cattolica. Si dovrebbero prendere subito provvedimenti.

Per capire cosa era – e cosa dovrebbe essere – una chiesa cattolica voglio ricordare la storia di due persone significative. La prima è Edith Stein, una donna straordinaria, filosofa agnostica, di famiglia ebrea, che divenne cattolica, si fece suora carmelitana ed è morta nel lager nazista di Auschwitz. E’ stata proclamata santa da Giovanni Paolo II nel 1998 e nell’anno successivo compatrona d’Europa. La Stein ha raccontato che un primo episodio che la portò verso la conversione accadde nel 1917 quando lei, giovinetta, vide una popolana, con la cesta della spesa, entrare nel Duomo di Francoforte e fermarsi per una preghiera: “Ciò fu per me qualcosa di completamente nuovo. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti, che ho frequentato, i credenti si recano alle funzioni. Qui però entrò una persona nella chiesa deserta, come se si recasse ad un intimo colloquio. Non ho mai potuto dimenticare l’accaduto”.

Lì infatti c’era Gesù eucaristico. Un altro caso riguarda il famoso intellettuale francese André Frossard. Era il figlio del segretario del Partito comunista francese. Era ateo, aveva vent’anni e quel giorno aveva un appuntamento con una ragazza. L’amico con cui stava camminando, essendo cattolico, gli chiese di aspettarlo qualche istante mentre entrava in una chiesa. Dopo alcuni minuti Frossard decise di andare a chiamarlo perché aveva fretta di incontrare “la nuova fiamma”. Lo scrittore sottolinea che lui non aveva proprio nessuno dei tormenti religiosi che hanno tanti altri. Per loro, giovani comunisti, la religione era un vecchio rottame della storia e Dio un problema “risolto in senso negativo da due o tre secoli”.


Cappella eucaristica della chiesa di Montmartre (San Giovanni di Montmartre): il tabernacolo è un cubo di metallo nell'angolo estremo della sala. Tutte le sedie sono rivolte all'altare/scrivania di quart'ordine, così da offrire le terga al Santissimo.


Eppure quando entrò in quella chiesa era in corso un’adorazione eucaristica e, racconta, “è allora che è accaduto l’imprevedibile”. Dice: “il ragazzo che ero allora non ha dimenticato lo stupore che si impadronì di lui quando, dal fondo di quella cappella, priva di particolare bellezza, vide sorgere all’improvviso davanti a sé un mondo, un altro mondo di splendore insopportabile, di densità pazzesca, la cui luce rivelava e nascondeva a un tempo la presenza di Dio, di quel Dio, di cui, un istante prima, avrebbe giurato che mai era esistito se non nell’immaginazione degli uomini; nello stesso tempo era sommerso da un’onda, da cui dilagavano insieme gioia e dolcezza, un flutto la cui potenza spezzava il cuore e di cui mai ha perso il ricordo”.

La sua vita ne fu capovolta. “Insisto. Fu un’esperienza oggettiva, fu quasi un esperimento di fisica”, ha scritto. Frossard è diventato il più celebre giornalista cattolico. In una chiesa di oggi non avrebbe incontrato il Verbo fatto carne, ma le chiacchiere di carta.

Copyright Libero - 3 settembre 2011


Caterina63
00martedì 6 settembre 2011 21:27
Estetica eucaristica tra San Vitale a Ravenna e San Pietro in Vaticano

L'arte e l'Uomo
che si è dato nel pane

di TIMOTHY VERDON

Di loro stessa natura, l'architettura e l'arte della Chiesa hanno un rapporto privilegiato con l'Eucaristia, nascendo e sviluppandosi al servizio di comunità che celebrano i sacramenti cristiani, di cui il principale - fons et culmen di tutta la vita ecclesiale - è quello del corpo e sangue di Cristo.
Gli edifici di culto costruiti da queste comunità servono in primo luogo ad accogliere assemblee eucaristiche, e gli arredi interni similmente rimandano all'Eucaristia, con programmi d'immagini concentrati nelle aree celebrative, che non di rado esplicitano il rapporto col sacramento mediante soggetti quali l'Ultima Cena o la Cena d'Emmaus, chiaramente allusivi all'Eucaristia.

Ma l'impatto visivo dello stesso sacramento è forte - nelle messe di rito latino il pane e il vino consacrati vengono "mostrati" ai credenti, "innalzati" perché tutti li possano "vedere" - così che, avvicinato all'altare dove si celebra, quasi ogni soggetto sacro assume connotati eucaristici: la Madonna col Bambino, che invita a meditare la corporeità assunta da Dio all'interno della relazionalità umana; i santi cristiani, la cui rappresentazione evoca la comunione tra persone creata dal sacrificio del corpo di Cristo e che diventa suo "corpo mistico"; e eventi dell'antica historia salutis quali il sacrificio d'Isacco o la manna scesa per il popolo d'Israele nel deserto, che la Chiesa "rilegge" alla luce dell'Eucaristia.

La centrale importanza della celebrazione eucaristica nella vita della primitiva comunità cristiana, testimoniata da Giustino Martire già nel II secolo, trova eloquenti riflessi nell'arte catacombale del III secolo in scene agapiche e in codificate formulazioni simboliche come Il pesce eucaristico con una cesta di pani nelle catacombe di San Callisto, a Roma. Simili immagini alludono al mistero senza però tentarne l'esegesi, ed è solo nei secoli successivi - nei secoli dei concili cristologici e della mistagogia patristica - che l'arte cristiana inventa meccanismi atti a introdurre nel mistero del sacramento del corpus Christi. La più esplicita "esegesi eucaristica" dei primi secoli cristiani è offerta dal programma realizzato in un'altra chiesa ravennate, San Vitale, dove nella profondità dell'abside due mosaici raffigurano un'ideale processione offertoriale, con gli uomini da una parte, le donne dall'altra: l'imperatore Giustiniano e l'imperatrice Teodora con le rispettive scorte di dignitari tra cui, alla sinistra di lui, il vescovo che ultimò San Vitale nel 547, Massimiano.

Questi personaggi contemporanei dovevano essere visti (come i ministri sacri che si sarebbero seduti sotto i mosaici) in rapporto al principale segno dell'area liturgica, l'altare, collocato in un alto vano antistante l'abside, così che i doni che Giustiniano e Teodora portano su grandi vassoi sono chiaramente da intendere come quelli per il sacrificio celebrato all'altare, l'Eucaristia. Nel vano dell'altare stesso, nei timpani degli archi a destra e sinistra della mensa, troviamo sacrifici veterotestamentari che collegano il "presente" di Giustiniano e Teodora al "passato" della storia della salvezza. Dalla parte di Giustiniano (a sinistra per chi entra, ma alla destra del celebrante quando questi è alla sedia), vediamo l'incontro di Abramo con tre misteriosi viaggiatori a Mamre, quando gli venne promessa la nascita di Isacco, e poi il suo sacrificio dello stesso Isacco su Monte Moria. Dalla parte opposta, sono raffigurati i rispettivi sacrifici di Abele e Melchisedek. Così la liturgia in cui l'imperatore e l'imperatrice recano doni all'altare è rivelata come continuazione nel presente di un lontano passato in cui le offerte di alcuni uomini erano graditi a Dio, il quale, proprio nel contesto liturgico-sacrificale, benedice e dà la vita.

Abramo che, servendo Dio a tavola a Mamre ricevette la promessa di un figlio, e che, pronto ad offrire quel figlio sull'altare, si sentì dire "perché tu hai fatto questo (...) io ti benedirò"; Abele che, offrendo un agnello diventa figura della Chiesa che offre l'Agnello Cristo; e Melchisedek che offriva pane e vino: sono tutti personaggi ed eventi "segnici" riferiti all'Eucaristia. Non è perciò un caso che in ambo questi mosaici troviamo anche mense che sembrano altari eucaristici: il tavolo di Mamre imbandito con tre pani segnati dalla croce, e l'altare splendidamente rivestito su cui Melchisedek praticamente "canta Messa", con l'ostia grande e il calice.

Il vero soggetto dell'intero programma, in un certo senso, è la liturgia eucaristica celebrata all'altare posto tra i due mosaici, ed è altamente significativo che, in questo periodo che vide la redazione quasi definitiva di molti testi liturgici, troviamo qui raffigurati precisamente i personaggi biblici ricordati nel Canone Romano, quando la Chiesa chiede al Padre di volgere "sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l'oblazione pura e santa di Melchisedek, tuo sommo sacerdote". Nel Canone Romano, questa preghiera segue immediatamente una descrizione dell'azione liturgica stessa - "In questo sacrificio, o Padre, noi tuoi ministri e il tuo popolo santo offriamo alla tua maestà divina (...) la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell'eterna salvezza" - e quindi, oltre a collocare la comunità che prega in rapporto ai personaggi veterotestamentari, la colloca, soprattutto, in rapporto a Cristo.

Non sorprende perciò vedere a San Vitale, nel catino dell'abside, in linea con l'altare e sopra la sedia del vescovo, l'immagine del Salvatore risorto, vestito della porpora imperiale e assiso su una sfera celeste, che porge una corona gemmata al martire Vitale. Visto nel contesto della messa, nella prospettiva del passato (Abele, Abramo e Melchisedek) e del presente (Giustiniano e Teodora), questa immagine rivela il futuro, il ritorno alla fine dei tempi di Colui che, nell'Eucaristia, è già in mezzo alla sua Chiesa. Sopra l'ostia innalzata all'altare di San Vitale come pignus futurae gloriae, contempliamo precisamente quella gloria, Cristo che "porta con sé il premio".
Cinquant'anni dopo i mosaici di San Vitale a Ravenna, a Roma viene operato un significativo cambiamento architettonico in una delle maggiori chiese della Cristianità, la basilica di San Pietro in Vaticano, eretta dall'imperatore Costantino nel primo IV secolo e quindi già vecchia di duecento anni all'epoca che c'interessa.

L'intervento, voluto dal Papa a cui la tradizione attribuisce una prima riforma del canto ecclesiastico, nonché il riordino e la codificazione dei riti, san Gregorio Magno (590-604), conferma la tendenza a drammatizzare l'esperienza visiva della Messa, ingrandendo il presbiterio di San Pietro e innalzandolo di un metro e quarantacinque centimetri. Laddove il presbiterio originale non invadeva il transetto, ad eccezione del ciborio della Memoria di Pietro, ora l'intera area celebrativa fu portata avanti di quattro metri, creando uno spazio rituale molto più ampio; e mentre prima la visuale era dominata dalla Memoria nel suo casamento marmoreo, ora emergevano solo i novanta centimetri superiori della Memoria, trasformati in altare.

Lo scopo dell'intervento, infatti, era di permettere al Papa di celebrare la messa direttamente sulla Memoria, sulla tomba di Pietro, nella logica devozionale più tardi espresso da san Massimo di Torino: "Giustamente e per una certa somiglianza è stato stabilito di collocare il sepolcro dei martiri nel luogo dove si celebra la morte del Signore (...); coloro che sono morti a causa della sua morte riposano nel suo sacramento" (Sermones, 77). La sola differenza era che, a San Pietro, non fu il sepolcro ma l'altare a essere collocato in posizione sin dal I secolo.

Questo intervento, pensato certamente in funzione della nuova articolazione rituale della liturgia eucaristica, ebbe anche l'effetto di creare un nuovo clima di mistero intorno all'altare papale e alla tomba dell'Apostolo, ormai praticamente assorbito dall'altare. Nel medesimo spirito era poi la sistemazione di colonne vitinee di marmo - quelle successivamente replicate in bronzo e in grande scala dal Bernini - davanti alla piattaforma presbiteriale, dove, distanziate dall'altare, con la loro trabeazione configuravano un divisorio successivamente chiamata perghula che teneva i fedeli lontani dall'altare. Quando poi, a metà VIII secolo, Gregorio III collocò altre sei colonne vitinee davanti all'altare (regalo dall'esarca di Ravenna Eutichio), l'effetto barriera era completo, grazie anche all'aggiunta di alti cancelli.

Gregorio III, intrepido difensore dell'arte al servizio della fede, inviò un rappresentante a Costantinopoli nel 731 con lettere per l'imperatore, per indurlo a revocare l'ingiurioso editto contro le sacre immagini, e nel novembre di quell'anno convocò a San Pietro un sinodo per condannare il movimento iconoclasta. Nella logica di questa sua presa di posizione, poi, abbellì la perghula davanti all'altare papale con icone, trasformandola in vera e propria iconostasi bizantina e, in quel modo, esaltando il ruolo delle immagini nell'esperienza percettiva dei fedeli che partecipavano alla liturgia eucaristica.

Fu l'inizio di un graduale processo di ierofanizzazione dell'area presbiteriale in occidente: un processo che, in San Pietro, riceverà nuovo impulso mezzo secolo dopo, sotto Adriano I (772-795), il quale fa ricoprire il pavimento dell'area celebrativa con lastre d'argento del peso di centocinquanta libbre, ne riveste le pareti con lastre d'oro e cinge il tutto con una balaustra d'oro del peso di 1328 libbre. Adriano I rifà anche i cancelli del presbiterio in argento, appendendo al loro esterno sei nuove immagini d'argento raffigurando Cristo, Maria, gli arcangeli Gabriele e Michele, i santi Andrea e Giovanni. Inoltre, perché tanto splendore fosse pienamente visibile, donò un candelabro cruciforme capace di portare 1365 candele: prima indicazione di una passione per effetti d'illuminotecnica che sarà caratteristica delle celebrazioni vaticanensi nei secoli successivi.

Tutte queste opere d'oreficeria massiccia - la balaustra, le lastre parietali e pavimentali, il candelabro - finirono in mano ai saraceni che invasero Roma nel 846, e non sono più. Ma l'immagine che la sola loro catalogazione proietta, dal sapore decisamente orientale, suggerisce una "estetica eucaristica" destinata a durare in occidente fino al medioevo avanzato, di cui l'opera superstite esemplare è la Pala d'Oro della basilica marciana di Venezia, il cui nucleo più antico risale al "dogado" di Pietro Orseolo negli anni 976-78, anche se verrà ultimata solo nel 1345.

Larga tre metri e quarantotto e alta un metro e quaranta, è un assemblaggio di ottantatre lastre d'oro con immagini in smalto cloisonné e trentotto piccoli tondi in smalto raffiguranti angeli. La superficie è tempestata di 1300 perle, 400 granati, 300 smeraldi, 90 ametiste, 15 rubini e 4 topazi.
Vista alla luce delle lampade nella luminosità diffusa dell'interno mosaicato di San Marco, la Pala d'Oro "sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste", per usare una frase di Pavel Florenskij. È un effetto, questo, vicino alla spiritualità esicasta: la corrente mistica ed estatica che si sviluppa nel mondo bizantino dal XI al XIV secolo e che riceve eloquente articolazione negli scritti di Gregorio Palamas. Tra gli obiettivi dell'esicasmo c'era quello di contemplare l'increata, eterna luce di Dio, accecante per occhi mortali - traguardo, questo, che entrerà a far parte della spiritualità eucaristica occidentale dal medioevo in avanti. Alla messa celebrata davanti alla Pala d'Oro, come nell'esposizione del Santissimo in ostensori gemmati nei secoli successivi, i fedeli vedevano l'ostia avvicinata a materiali preziosi e a brillanti colori cavati dai luoghi segreti della terra.

Il Dio che si è fatto uomo, l'Uomo che si è dato nel pane, il pane fatto di chicchi germogliati nella terra da cui nascono oro e gemme, sono contemplate nell'inebriante varietà di un creato che rivela il Creatore, e che viene così ricapitolato, unificato, esaltato. Il cosmo intero in un disco di pane, vino che riflette lo sfavillio di rari metalli e gemme, il tutto nella luce di mille candele: ecco al servizio dell'Eucaristia materiali e forme d'arte che proiettano l'attenzione verso l'al di là di Dio.



L'Osservatore Romano 7 settembre 2011
Caterina63
00sabato 10 settembre 2011 16:31

la fretta urticante della nuova liturgia

L’adorazione
La messa in latino cancella la fretta urticante della nuova liturgia e ci fa girare
di Francesco Agnoli

Ai piedi di una bella montagna, slanciata verso il cielo, ogni uomo sente dentro di sé qualcosa, un movimento segreto, intimo, incomunicabile, che la parola non sa esprimere, ma che assomiglia molto ad un desiderio di umile adorazione. L’immensità buona e potente della montagna risveglia nell’uomo di città, nell’uomo delle moderne metropoli piatte e monotone, confuse e rumorose, quello che Romano Amerio considerava il cuore dell’esperienza umana: “Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza”. Che l’adorazione sia il problema dell’uomo, oggi, non è tanto facile capirlo. Non ci aiutano a farlo né le infinite occupazioni, né gli svaghi senza uscita offertici dalla tecnologia, né il diluvio di parole in cui siamo sommersi. Eppure, come scrive il Radaelli, nel suo bellissimo “Ingresso alla bellezza” (Fede & Cultura), “l’adorazione è un atto che soddisfa perfettamente il fine ultimo dell’universo, il quale, a cominciare dal nome, esige in primo luogo l’unità: ma non solo e non tanto l’unità del proprio essere universo, ma l’unità con l’Essere da cui esso, ‘ente per partecipazione’, in tutto dipende: con Dio, con l’Ente in sé sussistente; l’adorazione è l’atto che permette di non fratturarsi da Lui, pena trovarsi, statim, nulla”.

Su un pensiero analogo a questo si fonda la recente decisione di Benedetto XVI di liberalizzare l’antica messa latina, e di attuare col tempo una riforma liturgica nella riforma del 1970. Perché è innegabile che là dove l’adorazione dovrebbe trovare il suo culmine, nella sacra liturgia, nella preghiera comune della chiesa, nel sacrificio che unisce cielo e terra, purgatorio e paradiso, uomini e angeli, vi è sempre di più, oggi, qualcosa di assolutamente incongruo, dissonante. Al punto che il momento fondante della Messa, l’incontro con Gesù eucarestia, che dovrebbe rappresentare il massimo della umiliazione e divinizzazione, al tempo stesso, del fedele, avviene nella nuova liturgia nel più completo anonimato, alla fine della celebrazione, quasi in extremis, non più in ginocchio, come un tempo, ma in piedi, da pari a pari, con una frettolosità orticante, per chi, appunto, desideri adorare, prostrarsi; non più in bocca, con quella riverenza che si conviene, ma in mano, come se la comunione fosse non un panis angelicus caduto dal cielo ma un cibo qualsiasi, che si prende da soli, che si sceglie di afferrare, e non di ricevere in dono, così come si fa dalla tavola, a ogni pasto.

Per non degenerare in show

L’adorazione infatti implica un atto di umile sottomissione, e soprattutto un verso, una direzione: è un orare ad, cioè verso qualcuno, e quel qualcuno può e deve essere solo Dio, a cui è presente tutta l’umanità, non solo il “popolo”, la comunità di un determinato istante o di un determinato luogo. Pregare verso Dio, verso oriente, esige allora un atteggiamento del cuore e del corpo, che tutta la celebrazione deve contribuire a creare. La messa deve tornare a essere dialogo tra Dio e gli uomini, tramite il Dio che si è fatto uomo e che si presenta a noi sotto le spoglie del sacerdote, non dialogo tra un presidente e la sua assemblea.

E tutto, dall’arte, alle statue, all’altare, alla musica, deve tornare a servire a questo, perché “se manca il genius dell’adorazione trinitaria, subito subentra e gli si impone il genius opposto dell’antiadorazione, ossia della dispersione, della vacuità, del laicismo irrazionale e relativizzante”.

Antiadorazione significa, come scriveva il cardinal Ratzinger nella prefazione ad un libro del grande liturgista Klaus Gamber, “liturgia degenerata in show, nella quale si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali seducenti, con successi momentanei nel gruppo dei fabbricatori liturgici, e di conseguenza una tendenza al ripiegamento sempre più forte in coloro che nella liturgia non cercano lo showmaster spirituale ma l’incontro col Dio vivente”. Dio vivente, come nota sempre il Radaelli, che viene addirittura eliminato nelle immagini, nelle piante non più a croce, e nelle croci stesse, con una strana furia iconoclasta: “Non c’è più Volto, perché spesso il sacro Volto non lo si figura più o, se lo si figura, gli si svellono i caratteri dell’individuo: sacri volti senza occhi, sante mani senza dita, croci senza Crocifissi…”. Lo notava, quasi quarant’anni fa, anche Guareschi, in una amara lettera al suo don Camillo, in cui lo invitava ironicamente a seguire le disposizioni della riforma liturgica, a dimenticare la sua storia, ad abbandonare la liturgia che aveva sempre celebrato: “Lei don Camillo… aveva pur visto alla tv la suggestiva povertà dell’ambiente e la toccante semplicità dell’Altare, ridotto a una proletaria tavola. Come poteva pretendere di piazzare in mezzo a quell’umile sacro desco un arnese alto tre metri come il suo famoso crocifisso cui lei è tanto affezionato? … non si era accorto che il crocifisso situato al centro della tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni?”.

Ecco, dopo oltre trent’anni, torneremo, piano piano, alla centralità della croce, e alla centralità dell’Altare: verso il Signore.

E’ questa la restaurazione liturgica che Benedetto XVI persegue da quando era cardinale. La Croce che, come scrive Radaelli, significa “umiltà, obbedienza, dipendenza, contrizione, conversione del cuore, sacrificio, penitenza, silenzio”; la croce senza la quale il cristianesimo diviene una filosofia, una sociologia, una forma di moralismo, una forma di scoutismo, una serie di cose per le quali “mestier non era parturir Maria”.


da Il Foglio del 2 agosto 2007

Il corretto atteggiamento del corpo nella Liturgia, di Mons.Klaus Gamber





Fino a cinquant'anni orsono, e in molti luoghi fino a oggi, i cattolici usavano stare in ginocchio durante l'intera celebrazione della santa messa, con l'eccezione del Vangelo, alla lettura del quale si stava in piedi, e della predica che si ascoltava seduti. In genere erano solo i ritardatari che restavano in piedi per tutta la durata della funzione, fermandosi presso la porta della chiesa. Nel servizio evangelico, ove come è noto il momento centrale è dato dalla predica, e che non intende essere una celebrazione sacrificale, i fedeli in genere siedo¬no anche durante il resto della liturgia, cantando tutti insieme i canti del giorno.
Ci si alza solo al termine per la recita comune del Padre nostro e la benedizione del pastore. Lo stare in ginocchio, a eccezione del momento in cui ci si accosta alla "cena", è sconosciuto ai protestanti: esso è tipicamente cattolico.
Nelle chiese ortodosse orientali le cose stanno diversamente.
Qui l'atteggiamento liturgico fondamentale è da sempre lo stare in piedi, tanto è vero che nelle chiese si trovano pochissimi banchi per sedersi.
Questi sono collocati lungo le pareti laterali, come da noi gli stalli corali nelle chiese dei monasteri e nelle cattedrali, e sono riservati soprattutto alle persone anziane. In oriente le funzioni liturgiche durano sempre parecchio, come minimo un'ora buona e di solito ancor di più: ciò nono-stante i fedeli vi partecipano in piedi. Qui inginocchiarsi sul nudo pavimento o prostrarsi al suolo lunghi distesi è un segno di preghiera fervente o di penitenza.
Al pari che da noi, lo si può vedere soprattutto nei santuari che sono meta di pellegrinaggi.
Anche nell'entrare nella Casa di Dio molti fedeli si prostrano per terra in adorazione, come dice il Salmo 94,6: "Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio da- vanti al Signore che ci ha creati".
Purtroppo da noi la genuflessione quando si entra in chiesa va sempre più scomparendo.
Ora ci si chiederà: com'era nella Chiesa antica? non sedevano forse i fedeli attorno all'altare, al pari degli apostoli all'Ultima Cena?
No, anche allora si partecipava alla liturgia stando in piedi.
Nelle basiliche paleocristiane non esisteva la possibilità di sedersi.
Come poi mostra un mosaico del XII secolo, che si trova nella basilica di S. Marco a Venezia, fin nel medioevo, durante la preghiera sacrificale del canone della messa, si usava alzare le mani insieme con il sacerdote.
Questo però non avveniva in modo estatico e allungandosi verso l'alto, come fanno oggi i pentecostali, bensì in atteggiamento modesto. Ciò dovrebbe rendere evidente come il sacerdote non offra il sacrificio da solo, ma lo faccia insieme con i fedeli.
Dell'alzare le mani parla Paolo, quando scrive nella prima lettera a Timoteo (2,8): "Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al ciclo le mani pure senza ira e senza contese". Nell'antichità cristiana si stava in piedi anche per ricevere la santa comunione: i fedeli si mettevano in fila, come mostrano le antiche raffigurazioni della "Comunione degli apostoli", in atto di adorazione, vale a dire con atteggiamento devoto.
Anche nella Chiesa primitiva in verità si usava piegare le ginocchia, come quando Luca negli Atti degli apostoli (21,5) narra di Paolo: "Tutti ci accompagnarono con le mogli e i figli sin fuori della città. Inginocchiati sulla spiaggia pregammo..."; oppure quando Paolo scrive nella lettera agli Efesini (3,14): "Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre di nostro Signore Gesù Cristo...".
La questione che a noi interessa in concreto è la seguente: quale posizione del corpo si adotta oggi nella liturgia?
L'ideale è attenersi, come il più delle volte ritorna ad avvenire oggi, all'uso della Chiesa antica, ove stare in piedi era l'atteggiamento liturgico fondamentale.
Lo star seduti — a parte il caso delle letture e della predica — dovrebbe essere lascia¬to ai fedeli anziani. Questi ultimi in ogni caso non debbono essere spinti a confor¬marsi alla posizione degli altri, come di massima va evitato ogni regolamento rigido a questo riguardo.
Ma deve essere uno stare in piedi con modestia, con la consapevolezza di stare davanti a Dio.
Un tale atteggiamento è in pari tempo ascesi del corpo, e innalza lo spirito, cosa che non si ottiene altrettanto facilmente col sedere comodamente, magari accavallando le gambe.
Il movimento giovanile degli anni venti ha riscoperto lo stare in piedi come atteg¬giamento liturgico: alla celebrazione della messa comunitaria i suoi aderenti evitava¬no di trattenersi nei banchi. Se le circostan¬ze lo consentivano, si ponevano invece di¬rettamente davanti all'altare, nel caso che non si avesse a disposizione una cappella laterale oppure, questo era l'ideale, una cripta (senza banchi). I giovani se ne rendevano conto: la mes¬sa non è la stessa cosa di un pio esercizio, al quale ci si inginocchia, ma neppure una rappresentazione teatrale, cui si assiste comodamente seduti.
La messa è la celebrazione del sacrificio eucaristico, e come tale esige un atteggiamento corrispon¬dente. Che alle letture e alla predica si possa sedere dovrebbe risultare chiaro per chiunque.
Chi frequenta la messa in Russia non ha tale comodità.
Come si è detto qui nelle chiese non vi sono banchi, e non vi sono anche per un particolare motivo, per consentire che nel numero limitato di chiese aperte possa partecipare alla liturgia il maggior numero possibile di fedeli. Per tutto il corso della funzione essi stanno fittamente accalcati, tanto che in Russia è diffuso il modo di dire: "Qui è stretto come in chiesa".
Fin dalle origini, già lo si è detto, inginocchiarsi è espressione di fervente supplica, ma è anche segno di adorazione.
Davanti al Santissimo esposto oppure quando viene trasportato solennemente, per esempio alla processione del Corpus Domini, secondo possibilità bisognerebbe inginocchiarsi. In pubblico questo è anche una testimonianza di fede.
E a nessuno si dovrebbe impedire di inginocchiarsi per ricevere la comunione, secondo l'uso vigente da noi fino a un recente passato.
Questa posizione è in ogni caso accettabile, e ha contribuito di molto a che i fedeli si accostassero con profondo rispetto all'eucarestia. Tuttavia se oggi sia opportuno come singoli comunicarsi in ginocchio è altra questione.
Di massima bisognerebbe, se possibile, addattarsi alla posizione degli altri fedeli, anche se non la si consideri corretta.
D'altra parte però nessuno dovrebbe essere obbligato ad assumere una determinata posizione.
Come è bello che tutto sia fatto in comune, così è altrettanto importante tollerare il punto di vista o l'abitudine dell'altro.
Mons. Klaus Gamber
( Dal Bollettino di Una Voce Italia n.106-107 del 1993 (Titolo originale: Die richtige Kòrperhaltung im Got-tesdienst, in Fragen in àie Zeit. Kirche una Liturgie nachàem Vatikanum II, Regensburg 1989, 132-134. Traduzione italiana di Fabio Marino).

da: Tradizione Catholica Romana di Andrea
 


Caterina63
00lunedì 19 settembre 2011 17:38

CARDINALE ANGELO COMASTRI : OMELIA DEL CORPUS DOMINI

Voglio condividere con Voi, cari amici, un dono che mi ha fatto Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Angelo Comastri, Arciprete della Papale Basilica Vaticana e Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, il 26 giugno scorso : il testo di una sua bellissima omelia, inedita.
I fedeli delle Marche sono  molto affezionati al Cardinal Comastri, che per diversi anni  fu indimenticabile Arcivescovo-Prelato di Loreto.
Viene da tutti considerato, con grato affetto, come

" marchigiano ad honorem" .

Poeta e cantore   di Maria Santissima, uomo della carità, che sostenne con la preghiera e l'aiuto concreto diverse realizzazioni della Beata Teresa di Calcutta non tralasciando di aiutare , nello stesso tempo, quanti bussavano alla porta del suo ufficio lauretano, il Cardinale Angelo Comastri ora è Arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano e con la sua parola di fede guida tanti fedeli alla devozione verso Pietro e il suo attuale successore : il Papa.




OMELIA DEL  "CORPUS DOMINI"

1 Francois-Marie Arouet, universalmente noto con lo pseudonimo di Voltaire, è stato uno scrittore acido, dissacrante e fortemente polemico nei confronti della religione cattolica e, in particolare, nei confronti della Santa Eucaristia. Egli è arrivato a dire: "L'Eucaristia è una superstizione mostruosa, ultimo termine della sfacciataggine dei preti e della stupidità dei credenti".

Queste parole irriverenti sono manciate di fango lanciate contro l'Eucaristia, che viene presentata come un mistero, razionalmente insostenibile. E’ consolante ed edificante il fatto che tante persone di cultura e di grande intelligenza non abbiano avuto una minima esitazione nel credere dell’eternità e nell’inginocchiarsi devotamente davanti all’Eucaristia. Eppure Galileo Galilei,uomo che indiscutibilmente sapeva ragionare, si inginocchiava come un bambino davanti all'Eucaristia; Biagio Pascal, genio da tutti ammirato, attese il Viatico (cioè, l'ultima Comunione) con le lacrime agli occhi e con un desiderio così struggente che colpì coloro che gli stavano accanto; André-Marie Ampère, notissimo studioso soprannominato il "Newton dell'elettricità", si inginocchiava sul nudo pavimento per pregare davanti all'Eucaristia, suscitando la meraviglia dei suoi stessi studenti; Alessandro Volta, anch'egli celebre studioso dei fenomeni elettrici, volle lui stesso fare il catechismo ai propri figli per prepararli all'incontro con Gesù nella Santa Eucaristia; Louis Pasteur, celeberrimo scienziato dei batteri e del complesso fenomeno delle malattie infettive, si confessava regolarmente dall'Abbé Huvelin, il padre spirituale di Carlo de Foucauld, e si accostava con grande devozione alla Santa Eucaristia.
E Guglielmo Marconi, in tempi più vicini a noi, passava ore intere in preghiera davanti al Santissimo Sacramento. E Alcide de Gasperi, politico di grande levatura morale e intellettuale, amava dire: "Mi inginocchio davanti all'Eucaristia per poter stare in piedi davanti agli uomini!". Costoro (e potremmo continuare con tantissimi altri esempi) erano ingenui? Erano intelligenti in tutto, fuorché nella fede? No, erano credenti lucidi, convinti, coerenti e intelligenti: nessuno lo può mettere in dubbio! Del resto Biagio Pascal, in uno dei suoi luminosi pensieri, arriva ad affermare: "Se Gesù è il Figlio di Dio, quali problemi possono esistere davanti all' Eucaristia? Chi può stabilire un limite all'onnipotenza di Dio?" Accogliamo, allora, con gioia e con commossa gratitudine questo grande dono di Gesù.

2 L'Eucaristia è il grande dono di Gesù: è il regalo dell'ultima ora, il regalo del momento dell'addio. E, come ogni dono, porta l'impronta del donatore: infatti quando qualcuno ci fa un regalo, certamente ci rivela anche i suoi gusti, le sue preferenze, il suo cuore. Così accade anche per Dio. Cerchiamo allora di scoprire Dio partendo dall'Eucaristia. L'Eucaristia grida l'umiltà di Dio. Se Dio fosse stato un orgoglioso, ci avrebbe fatto un dono completamente diverso; si sarebbe reso presente in maniera spettacolare e appariscente. Invece no! Dio è umile! E l'Eucaristia porta il profumo della paglia di Betlemme e quasi ci fa sentire il fruscio dell'acqua che Gesù versò sui piedi degli apostoli.

S. Francesco d'Assisi si emozionava quando meditava questa verità. E nelle "Ammonizioni" scrive: "Ecco, ogni giorno Egli si umilia nella Santa Eucaristia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine Maria; Egli stesso ogni giorno viene a noi in apparenza umile, ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani del Sacerdote". E nella "Lettera a tutto l'Ordine" esclama: "Quanto deve essere santo, giusto e degno colui che stringe nelle sue mani e riceve nel cuore e offre agli altri questo Santissimo Sacramento. O umiltà sublime1. O sublimità umile, il Signore dell'universo, Dio e Figlio di Dio, così si umilia da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane. Guardate, fratelli, E umiltà di Dio !" L'Eucaristia, pertanto, ci ricorda chiaramente che, senza umiltà, non possiamo incontrare Dio.
E bene che teniamo sempre presente questa decisiva verità.

3. L'Eucaristia, dall'altra parte, grida anche la povertà dell'uomo. Gesù ha voluto rendersi presente nel segno del "pane" per dirci che noi siamo poveri di Dio, bisognosi di Dio, affamati di Dio. Com'è vero e come è attuale questo messaggio! Tutto il benessere di oggi non ha fatto crescere di un solo millimetro il livello della felicità umana: guardatevi attorno, guardate la tristezza dei sabato sera, guardate la frenesia dei divertimenti che debbono continuamente cambiare e diventare sempre più stravaganti per dare l'illusione di accendere una scintilla di veloce piacere. L'Eucaristia chiaramente ci dice che, senza Dio, l'uomo non si sfamerà mai: è Dio il "pane" proporzionato alla fame sconfinata del cuore umano. E
cco perché l'Eucaristia ha attirato un giovane inquieto e sbandato come Carlo de Foucauld... e l'ha reso felice!
Ecco perché l'Eucaristia ha affascinato Madre Teresa di Calcutta al punto da farla esclamare: "Senza Eucaristia non potrei vivere un solo giorno. E senza Eucaristia non potrei portare l’amore ai poveri!".

Signore Gesù, aumenta la nostra fede nella Santissima Eucaristia! Facci prendere coscienza della nostra povertà e apri i nostri occhi davanti al mistero del tuo dono, che è l'unica terapia della nostra inquietudine e della nostra infelicità.
Amen!

Angelo Card. Comastri
Arciprete della Papale Basilica Vaticana
Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano

Caterina63
00martedì 11 ottobre 2011 13:49

SCANDALUM OECUMENICUM!

Se Nestorio non avesse toccato la liturgia, forse, avrebbe terminato i suoi giorni sul Seggio patriarcale di Costantinopoli. In fondo, nell’epoca pre-calcedonese (il concilio di Calcedonia è del 451) la terminologia cristologica non era ancora così precisa e, d’altra parte, le espressioni di Nestorio erano sempre state abbastanza vaghe, tali almeno da non destare eccessivi sospetti. Qualche imprecisione, per altro, la si perdonava anche a San Cirillo (come ad esempio l’espressione “l’unica natura del Verbo incarnato” che il Santo Patriarca d’Alessandria aveva recepito in buona fede pensando che fosse del suo venerato predecessore Sant’Atanasio, mentre in vero era stata formulata dall’infido Apollinare di Laodicea!). E poi il nemico numero uno contro cui ogni bravo vescovo doveva lottare era l’arianesimo: per il resto era inutile andare tanto per il sottile.

Ma Nestorio toccò la liturgia. Le sue orecchie non potevano più tollerare quello stuolo di monaci e di vecchie beghine che onoravano la Vergine Maria con il titolo devozionale di “Madre di Dio”. La loro voce come un boato attraversava le aurate volte dei templi di Bisanzio e l’impietosita Eco dava loro risposta: per il povero Patriarca era un tonfo al cuore! Fu così che Nestorio ingaggiò alcuni teologi predicatori per eradicare dalla liturgia e dalla fede dei suoi sudditi quel titolo tanto aborrito. Il popolo ha bisogno di formazione liturgica – pensò il Patriarca – solo così potrà raggiungere una fede adulta e abbandonare quelle forme di pietà che sono contrarie al Vangelo.
Tutto sarebbe filato liscio se non fosse che “legem credendi lex statuit supplicandi”: il dogma della Chiesa è contenuto ed espresso nella sua liturgia. Un aspetto centrale della fede e della predicazione della Chiesa era stato attaccato sotto gli occhi dei semplici fedeli e dei loro vescovi. La cosa era tanto più seria in quanto “Theotokos” (Dei Genitrix) era una parola chiave per la fede nell’Incarnazione.

San Cirillo, Patriarca di Alessandria, mosso da santo zelo dettò subito un’epistola (Ep. II ad Nestorium) indirizzata al suo collega di Costantinopoli per denunciare lo “scandalum oecumenicum” che egli aveva provocato con il suo atteggiamento irriguardoso nei confronti della Tradizione. Il santo vescovo, affacciato dalla loggia del suo palazzo, guardava pensieroso verso l’antico Faro che dominava il porto della sua città; in quei giorni travagliati la divina Provvidenza aveva eletto proprio lui affinché divenisse “faro” per tutta la Cristianità e irraggiasse sull’orbe cattolico la luce purissima della retta fede (Cfr. Pio XI, enc. “Lux veritatis”, 1931). Di certo San Cirillo non poteva immaginare che molti secoli dopo, mentre altri scandali si sarebbero perpetuati ai danni della liturgia e della dottrina, molti teologhetti, incapaci di schiogliergli perfino il laccio dei sandali, avrebbero riprovato aspramente i suoi metodi talvolta un po’ sanguigni e lo avrebbero accusato di fanatismo.

La disputa nestoriana accese prontamente gli animi e, sebbene lo scontro sia stato abbastanza breve, non per questo fu meno violento. Il Concilio di Efeso (431) pose fine alla controversia : la Vergine Maria fu solennemente proclamata “Madre di Dio” tra il plauso entusiasta dei fedeli che accolsero tale notizia con ingenti manifestazioni di fede. Nel 1931 Pio XI , nel xv centenario della definizione efesina, estese a tutta la chiesa la Ferta della Divina Maternità da celebrarsi ogni anno l'11 Ottobre.

Tale vicenda impone alcune riflessioni per l’oggi. Domandiamoci, ad esempio, se la riforma liturgica sia stata sempre ed in tutto rispettosa della Tradizione della Chiesa; coloro che hanno mutato il Messale senza fermarsi neppure dinanzi al Canone, che hanno stravolto le forme del Culto eucaristico (pensiamo al modo di ricevere l’Eucaristia!), la lingua liturgica, l’architettura dei templi hanno sempre tenuto presente il rischio di scandalum oecumenicum? Quei pastori (poco) zelanti che, nell’intento di suscitare tra il popolo una fede “più autenticamente evangelica”, hanno distrutto le forme della pietà popolare (processioni, benedizioni, tridui, etc.), definendole ingenue o, peggio ancora, erronee, non hanno forse reiterato l’errore di Nestorio? Infine, coloro che non vogliono aderire alla richiesta del Papa per il ripristino del “per molti” nella fomula di consacrazione della Messa non si distaccano forse dalla Tradizione diacronica (quod semper) e sincronica (quod ubique et ab omnibus) della Chiesa rifiutandosi di “dire” ciò che si dice da sempre e in tutto il mondo (anche nelle principali lingue vernacole come l’inglese e lo spagnolo!)?

Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis!
D.F. da Messainlatino





[SM=g1740771]
Caterina63
00venerdì 25 novembre 2011 22:39

Pavimenti per le ginocchia


Un significativo articolo del veronese Mons. Marco Agostini, Cerimoniere Pontificio:

È impressionante la cura che l'architettura antica e moderna, fino alla metà del Novecento, riservò ai pavimenti delle chiese. Non solo mosaici e affreschi per le pareti, ma pittura in pietra, intarsi, tappeti marmorei anche per i pavimenti.

Mi sovviene il ricordo del variopinto "tessellatum" delle basiliche di San Zenone o dell'ipogeo di Santa Maria in Stelle a Verona, o di quello vasto e raffinato delle basiliche di Teodoro ad Aquileia, di Santa Maria a Grado, di San Marco a Venezia, o quello misterioso della cattedrale di Otranto. L'"opus tessulare" cosmatesco luccicante d'oro delle basiliche romane di Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, San Clemente, San Lorenzo al Verano, di Santa Maria in Aracoeli, in Cosmedin, in Trastevere, o del complesso episcopale di Tuscania o della Cappella Sistina in Vaticano.


E ancora gli intarsi marmorei di Santo Stefano Rotondo, San Giorgio al Velabro, Santa Costanza, Sant'Agnese a Roma e della basilica di San Marco a Venezia, del battistero di San Giovanni e della chiesa di San Miniato al Monte a Firenze, o l'impareggiabile "opus sectile" del duomo di Siena, o le pelte marmoree bianche, nere e rosse in Sant'Anastasia a Verona o i pavimenti della cappella grande del vescovo Giberti o delle settecentesche cappelle della Madonna del Popolo e del Sacramento, sempre nel duomo veronese, e, soprattutto, lo stupefacente e prezioso tappeto lapideo della basilica vaticana di San Pietro.


In verità la cura per l'impiantito non è solo cristiana: sono emozionanti i pavimenti a mosaico delle ville greche di Olinto o di Pella in Macedonia, o dell'imperiale villa romana del Casale a Piazza Armerina in Sicilia, o quelli delle ville di Ostia o della casa del Fauno a Pompei o la preziosità delle scene del Nilo del santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. Ma anche i pavimenti in "opus sectile" della curia senatoria nel Foro romano, i lacerti provenienti dalla basilica di Giunio Basso, sempre a Roma, o gli intarsi marmorei della "domus" di Amore e Psiche a Ostia.


La cura greca e romana per il pavimento non era evidente nei templi, ma nelle ville, nelle terme e negli altri ambienti pubblici dove la famiglia o la società civile si radunava. Anche il mosaico di Palestrina non era in un ambiente di culto in senso stretto. La cella del tempio pagano era abitata solo dalla statua del dio e il culto avveniva all'esterno innanzi al tempio, attorno all'ara sacrificale. Per tale ragione gli interni non erano quasi mai decorati.


Il culto cristiano è, invece, un culto interiore. Istituito nella stanza bella del cenacolo, ornata di tappeti al piano superiore di una casa di amici, e propagatosi inizialmente nell'intimo del focolare domestico, nella "domus ecclesiae", quando il culto cristiano assunse dimensione pubblica trasformò la casa in chiesa. La basilica di San Martino ai Monti sorge sopra una "domus ecclesiae", e non è la sola. Le chiese non furono mai il luogo di un simulacro, ma la casa di Dio tra gli uomini, il tabernacolo della reale presenza di Cristo nel santissimo sacramento, la casa comune della famiglia cristiana. Anche il più umile dei cristiani, il più povero, come membro del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa, in chiesa era a casa e signore: calpestava pavimenti preziosi, godeva dei mosaici e degli affreschi delle pareti, dei dipinti sugli altari, odorava il profumo dell'incenso, sentiva la gioia della musica e del canto, vedeva lo splendore degli ornamenti indossati a gloria di Dio, gustava il dono ineffabile dell'eucaristia che gli veniva amministrata in calici d'oro, si muoveva processionalmente sentendosi parte dell'ordine che è anima del mondo.


I pavimenti delle chiese, lontani dall'essere ostentazione di lusso, oltre a costituire il piano di calpestio avevano anche altre funzioni. Sicuramente non erano fatti per essere coperti dai banchi, questi ultimi introdotti in età relativamente recente allorquando si pensò di disporre le navate delle chiese all'ascolto comodo di lunghi sermoni. I pavimenti delle chiese dovevano essere ben visibili: conservano nelle figurazioni, negli intrecci geometrici, nella simbologia dei colori la mistagogia cristiana, le direzioni processionali della liturgia. Sono un monumento al fondamento, alle radici.


Questi pavimenti sono principalmente per coloro che la liturgia la vivono e in essa si muovono, sono per coloro che si inginocchiano innanzi all'epifania di Cristo. L'inginocchiarsi è la risposta all'epifania donata per grazia a una singola persona. Colui che è colpito dal bagliore della visione si prostra a terra e da lì vede più di tutti quelli che gli sono rimasti attorno in piedi. Costoro, adorando, o riconoscendosi peccatori, vedono riflessi nelle pietre preziose, nelle tessere d'oro di cui talvolta sono composti i pavimenti antichi, la luce del mistero che rifulge dall'altare e la grandezza della misericordia divina.


Pensare che quei pavimenti così belli sono fatti per le ginocchia dei fedeli è commovente: un tappeto di pietra perenne per la preghiera cristiana, per l'umiltà; un tappeto per ricchi e poveri indistintamente, un tappeto per farisei e pubblicani, ma che soprattutto questi ultimi sanno apprezzare.


Oggi gli inginocchiatoi sono scomparsi da molte chiese e si tende a rimuovere le balaustre alle quali ci si poteva accostare alla comunione in ginocchio. Eppure nel Nuovo Testamento il gesto dell'inginocchiarsi si presenta ogni qualvolta a un uomo appare la divinità di Cristo: si pensi ai Magi, al cieco nato, all'unzione di Betania, alla Maddalena nel giardino il mattino di Pasqua.


Gesù stesso disse a Satana, che gli voleva imporre una genuflessione sbagliata, che solo a Dio si devono piegare le ginocchia. Satana sollecita ancora oggi a scegliere tra Dio o il potere, Dio o la ricchezza, e tenta ancora più in profondità. Ma così non si renderà gloria a Dio per nulla; le ginocchia si piegheranno a coloro che il potere l'hanno favorito, a coloro ai quali si è legato il cuore attraverso un atto.


Buon esercizio di allenamento per vincere l'idolatria nella vita è tornare a inginocchiarsi nella messa, peraltro uno dei modi di "actuosa participatio" di cui parla l'ultimo Concilio. La pratica è utile anche per accorgersi della bellezza dei pavimenti (almeno di quelli antichi) delle nostre chiese. Davanti ad alcuni verrebbe da togliersi le scarpe come fece Mosè davanti a Dio che gli parlava dal roveto ardente.



da chiesa.espresso.repubblica.it via ministrantimdg.blogspot.com. Titolo originale: "
INGINOCCHIATOI DI PIETRA


Caterina63
00domenica 26 febbraio 2012 17:02
Risposta al dubbio "An non liceat tabernaculum" circa la materia con cui il  tabernacolo deve essere costruito, 28 febbraio 2002 (data del fascicolo): Notitiae 37(2001), 18-19

CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI
Il tabernacolo non sia in vetro
28 febbraio 2001

E' lecito costruire un tabernacolo, nel quale conservare il ss.mo sacramento, in vetro?
R. No. [SM=g1740733]


Il vetro è per sua natura trasparente e fragile, anzi facilmente frangibile. Detto questo, le norme vigenti circa il tabernacolo stabiliscono non solo che esso sia collocato, “tenuta presente la struttura di ciascuna chiesa e le legittime consuetudini di ogni luogo, [...] in un luogo della chiesa eccellente, insigne, molto visibile, debitamente ornato, e adatto alla preghiera privata” (Principi e norme per l'uso del Messale romano [2000], n. 314; cf. Codice di diritto canonico, can. 938 § 2; cf. S. Congr. dei riti, istr. Eucharisticum mysterium, n. 54; istr. Inter oecumenici, n. 95), ma anche che “ sia inamovibile e solido, non trasparente ” (Principi e norme per l'uso del Messale romano [2000], n. 314; cf. Codice di diritto canonico, can. 938 § 3; cf. S Congr. per i sacramenti e il culto divino, istr. Inaestimabile donum, n. 25; istr. Eucharisticum mysterium, n. 52: istr. Inter oecumenici, n. 95; S. Congr. per i sacramenti, istr. Nullo unquam tempore, 28 maggio 1938, n. 4: AAS 30/1938, 199-200; Rituale romano, Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, ed. tipica 1973, nn. 10-11).

Questa necessaria inviolabilità scaturisce dalla fede cristiana, nel senso che il dovuto rispetto verso il corpo del Signore richiede questo per evitare “il più possibile il pericolo di una profanazione” (ivi) delle sacre specie eucaristiche. Perciò il Concilio Vaticano II ha decretato che fossero rivedute le leggi ecclesiastiche riguardanti la sicurezza del tabernacolo come pure la sua nobiltà e disposizione (Sacrosanctum concilium, n. 128). Nel nostro tempo, purtroppo, non raramente i tabernacoli vengono violati, cosicché “sarebbe davvero una decisione saggia se ii tabernacolo fosse una vera cassa di ferro, una cassaforte con chiave” (Istr. Nulla umquam tempore, n. 4).

Che non si debba usare una materia trasparente nel costruire il tabernacolo, lo si deduce sia dalla natura della celebrazione eucaristica, sia dal nesso della custodia della ss.ma eucaristia con la celebrazione della messa. Infatti “per rispettare il valore del segno, è più giusto” che nella celebrazione della messa “la presenza eucaristica del Cristo, che è il frutto della consacrazione, e come tale deve apparire”, sia collocata in modo da non poter essere vista dai fedeli (cf. S. Congr. dei riti, istr. Eucharisticum mysterium, n. 55; cf. anche Principi e norme per l'uso del Messale romano [2000], n. 315). Pertanto è anche vietata “durante l'esposizione del ss.mo sacramento la celebrazione della messa nella stessa navata della chiesa”. Infatti “la celebrazione del mistero eucaristico racchiude in modo più perfetto quella comunione interna alla quale l'esposizione vuole condurre i fedeli, e perciò non ha bisogno di tale sussidio” (ivi, n. 61).

Inoltre si deve tenere presente che la tradizione della Chiesa richiede che, al di fuori della celebrazione della messa e della sacra comunione da portare agli infermi fuori della messa, il pane consacrato venga esposto alla contemplazione e venerazione degli uomini soltanto in quei tempi nei quali si può tributargli un particolare onore e culto di adorazione."

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