C'è la Tradizione (cosa buona) e c'è il tradizionalismo (cosa NON buona)

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Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 13:10

Amici....da dopo il Concilio Vaticano II e a causa di false interpretazioni, sono sorti come contrasto i termini quali:
- progressismo, per indicare la parte cattolica modernista;
- tradizionalisti, per indicare la parte di cattolici conservatori...

ma nel concetto di Tradizionalismo si è infiltrato un veleno pericoloso essere, infatti, con la Tradizione della Chiesa che include la Chiesa IERI, OGGI E SEMPRE, è cosa buona, ma essere tradizionalisti per contestare la Chiesa oggi, non è cosa buona...

Sulla scia di questi argomenti già trattati:

Un Concilio Ecumenico ha più valore di un NON ecumenico? Cosa significa?

CONCILIO ED ANTI-CONCILIO: le false interpretazioni

J.Ratzinger, Benedetto XVI, spiega il Concilio Vaticano II

Dialoghi UFFICIALI fra la Chiesa e la FSSPX (informazione e aggiornamenti)

Lettera del Papa ai Vescovi sull'Unità della Chiesa e la revoca alla FSSPX

vediamo di approfondire maggiormente...
Propongo un eccellente lavoro dell'amico Alessandro...
si eviti di estrapolare i contenuti, ma di assumerne il senso in termine INTEGRALE....


Il "tradizionalismo": azione di Satana contro la Chiesa di Cristo
,
Saggio sul tradizionalismo scismatico (Attenzione: non si parla della FSSPX ma dei Sedevacantisti, ossia di coloro che sostengono che il papato sarebbe finito con Pio XII)
La chiesa, come porzione della società, vive il travaglio che l'umano consorzio ha subito almeno dal 900 ad oggi, proprio in quanto porzione di esso. Come l'uomo ha vissuto l'apostasia silenziosa, il secolarismo, fascismo e nazismo, comunismo, “68”, rivoluzione culturale, movimenti studenteschi, contestazioni, pensiero debole, ateismo di massa, scientismo positivista nella sua fase pessimista (non esiste altra realtà oltre la scienza, e ciononostante, la cosa non basta all'uomo, che non può pretendere comunque di meglio), così gli uomini che hanno vissuto queste cose, e hanno incarnato teoreticamente tali ideali, in parte hanno vestito (o svestito) la veste talare, e gli uomini che erano giovani nei ‘70, sono i preti, i vescovi ed i teologi di oggi. Non si può pretendere che un fenomeno si compia in se stesso, senza che porti uno strascico nelle persone stesse che lo hanno incarnato. Le persone possono più o meno migliorare (o peggiorare), ma un asino non diventa un bue, e perciò chi faceva le barricate e sparava ai camerati 30 anni fa, ha la stessa mente di allora, poiché il suo pensiero è vincolato al suo dato empirico, e dunque anche alle barricate, al piombo, all'eskimo, ecc.

Ora ci troviamo ad avere a che fare con gente di questa risma e non possiamo permetterci di fare un confronto che sia onesto, con altri che hanno passato la gioventù nell'ascesi, nella vicinanza con Cristo, ad esempio nel mondo rurale, coi suoi valori di fede o in generale nella società cristiana: ovviamente hanno seguito il loro portato empirico, migliore di quello sessantottino e pertanto sono stati cattolici migliori. In ogni modo, viviamo il presente e con esso dobbiamo fare i nostri conti: non vivere di rimpianti, né piangersi addosso, né crearci una realtà illusoria in cui essere felici, poiché ciò è una irrealtà e non esiste. Tale è la chiesetta mentale (o il salottino mentale) dei tradizionalisti, in cui tutto è come lo si immagina e lo si vuole far funzionare: un mondo ideale a nostro giudizio, un’inversione satanica, però, poiché porta l'uomo a farsi demiurgo della propria realtà, secondo la propria volontà, scalzando Iddio. Ebbene, tornando all’analisi sul tempo presente, è logico che con tali premesse ci siano stati e permangano abusi teologici gravi, che pervertono le coscienze, sempre che non siano già più pervertite dei pervertitori! Giova ricordare che anche un bieco modernista, non farà mai l'elogio della pornografia, della sessualità bestializzata, dell'ateismo e del consumismo, della violenza, come il mondo propone al popolo e come il popolo spesso e volentieri accetta. Spesso il popolo è ben peggiore di certi cattivi maestri, i quali, anche volendo, non riuscirebbero di certo a pervertirlo, ideologicamente, di più di quanto non lo sia già. Pertanto un modernismo gaio, come se ne vede spesso in parrocchie e diocesi, è pur sempre meno peggio di un “mondanismo”, senza in ciò, nulla togliere al fatto che tale orientamento teologico modernista sia satanico e deleterio.
 
Noi non dobbiamo, pertanto, porci nell'ottica di condannare ed anatematizzare tutti coloro che sbagliano, al momento in cui ce ne rendiamo conto, anche perché non siamo l'autorità e non possiamo farlo. Dobbiamo testimoniare la verità “opportune et importune”: soprattutto “opportune”, ovvero evitando di dare ostentazione delle nostre conoscenze, o di scandalizzare gli altri, poiché ciò che conta è sempre il risultato. “Importune”, oltretutto, giova ricordarlo, non si riferisce tanto a quanto ciò sia inopportuno per gli altri, quanto per noi stessi, non avere il timore di perdere la faccia o di fare brutta figura, nella testimonianza della fede.
Se il risultato è quello che conta, allora è da evitarsi l’inopportunità controproducente, affettata. Andare da un “catto parrocchiano” e dirgli "sei modernista, comunista, brucerai all'inferno, e io me la riderò", non giova né a lui, perché per reazione continuerebbe nell'errore, né a noi, perché, oltre ad avere non solo mancato al compito missionario di evangelizzazione, ma anche di aver contribuito a “pervertire”, avremmo fatto come il fariseo che da pubblicità di sé, e in quello ottiene già il suo compenso. La carità prima di tutto, senza la quale la fede stessa è vuota.

Noi dobbiamo cercare di essere di aiuto ai nostri pastori e lavorare come la formica, cercando di ottenere piccoli progressi, nel tempo, sopportando tanto - ma è la via della croce -, cercando appunto di migliorare e di migliorarci poco per volta, senza avere l’intenzione di fare miracoli, che non ci competono.

Comprendiamo, alla luce di questo stato di umanità desolata e disperata, anche il Concilio Vaticano II. GAUDET MATER ECCLESIA, è un documento fondamentale, senza il quale non si può pretendere di capire il concilio. Dico che è pazzo chi sostiene che il concilio è una ventata di lieto rinnovamento, che è una gioiosa svolta, che la chiesa riparte libera, giovane, sincera, senza i legacci del passato, pronta al matrimonio con la modernità. Giovanni XXIII ci ammonisce severamente dicendo che il mondo si è perduto, poiché ha rifiutato Cristo, la salvezza che viene dal verbo incarnato e ha rifiutato la Chiesa. Il mondo si è evoluto (o deevoluto) e si è posto in contraddizione con la chiesa, e non il contrario.

Ma la Chiesa, ha anzitutto missione pastorale e quindi di amministrare il mondo, e il servizio pastorale è un compromesso per sua definizione, poiché è una condiscendenza –SYNCATABASIS-, un abbassamento dall'alto: a che serve ricordare, come fanno i tradizionalisti, che la Chiesa era dalla parte della ragione, mentre il mondo da quella del torto, e il fatto che la Chiesa si sia rivolta al mondo, costituisce un “perdere la ragione, per abbracciare l’errore”? Se le pecore fossero tutte sempre ligie ed ordinate, non servirebbe il pastore: dal momento in cui Cristo lo ha “inventato”, lo ha fatto perché facesse di tutto, anche sacrificarsi per il gregge, ovvero anche scendere a patti, a compromesso, NON DOTTRINALE, ma di linguaggio, di atteggiamento, di presentazione. Gaudium et spes al n°3, mi pare dica una cosa bellissima, che il concilio è al servizio dell'UOMO: ANTROPOCENTRISMO CRISTIANO. La religione serve all'uomo, non a Dio: è questo che il tradizionalismo non capisce.

Loro pensano che la religione sia rito, che serve a Dio e perciò, se cambia, è male, poiché non cambiando Dio, non Cambierebbero nemmeno le sue richieste rituali. ERRORE: a Dio non servono nè i sacramenti, né le messe, né i preti: servono a noi; a Dio non serve il concilio, lui è sussistente per se, “che gliene frega”? Il concilio serve a noi, ALL’UOMO, poiché come il concilio stesso dice, l'uomo si realizza in Cristo, e dunque servire l'uomo non è altro che aiutarlo ad arrivare a Cristo. Altro che “culto dell'uomo” massonico!

Il concilio è un faro, ma in una tempesta: il tradizionalismo è invece un idolo e l'idolatria è peccato mortale, poiché il tradizionalismo nega l'uomo, nega la sua dignità che viene dalla libertà, la dignità dell'uomo viene dall’essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio e dal fatto che Cristo si è incarnato nell'uomo: non solo in un uomo, in un corpo, ma ha assunto la natura umana e l'ha redenta. L'uomo può ben vantare un primato di dignità che è superiore anche a quello degli angeli(dignità, non essenza), poiché Cristo si è fatto uomo, non angelo. Ora capiamo bene che la libertà è la caratteristica di Dio: in Cristo noi conosceremo la Verità, ed essa ci renderà liberi come Lui, anzi, ci renderà Cristo, perché l'uomo ha come fine, diventare Cristo.

 Infatti lo stesso corpo mistico è Cristo, le membra appartengono al corpo, e sono comunque corpo. Anche questo negano i tradizionalisti, osando bollarlo come pancristismo o tehilardismo, non capendo che negano la stessa visione beatifica, la comunione dei santi, il cielo, e dunque l'escaton, e quindi sono come gli atei: anzi peggio degli atei, poiché essi ( i tradizionalisti) sono contraddittori, non hanno un fine, ma pongono un codice di comportamento che lo presuppone, e assai duro, oltretutto, vivono cioè una vita di privazioni, senza una logica esplicazione finale (che è diventare Cristo, che essi negano).

Gli atei invece applicano il satanistico “fa ciò che vuoi”: se si deve morire, e dopo non c'è nulla, tanto vale divertirsi, piuttosto che menarsela, o meglio, è indifferente qualunque atteggiamento: il sesso, l'omicidio, il suicidio, il bene, il male, nulla ha senso, è il nichilismo totale, la contraddittorietà del mondo sensibile, l'abbandono all'angoscia di fronte al nulla, come in Heidegger, che muove l’uomo ad agire secondo il proprio utile meccanico e ed immediato. Ebbene la libertà ci rende degni di essere uomini, come lo fu Cristo.


continua.............


Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 13:19
Ora, il concilio non ha voluto fare altro che rendere più potabile, per questo uomo miserabile dei tempi d'oggi, Dio e il suo comunicarsi a noi. Ma ai tradizionalisti, questo gesto, non è affatto potabile. Questo per alcuni motivi oggettivi e soggettivi.


I motivi oggettivi sono che il concilio, pur essendo stato santo, è stato applicato da uomini, i quali avevano a disposizione un atto ispirato dal Paraclito, ma non sempre lo furono anche loro nell'applicarlo. E non parlo di Paolo VI, che poverino, si è sforzato di tenere la Chiesa nei binari della tradizione, anche se non sembra, poiché i tradizionalisti, e non solo loro, vedono solo la riforma della liturgia, e in ciò non vedono l'essenza, ma solo il contingente, l’accidentale, ovvero i paramenti brutti e la stilizzazione dei sacramenti.

Se parlo di mala interpretazione, parlo soprattutto di vescovi, di teologi, di preti e anche di fedeli, che anno voluto, vuoi per ignoranza, vuoi per maliziosa ed interessata complicità, fare come pareva a loro, come tornava comodo, cercando di attribuire al concilio santo, il loro pensiero perverso, cosicché la santità del primo desse una patina di accettabilità al secondo, come quando si dipinge una parete marcia, che sembra bella ma rimane marcia.

 
Cito Congar, il quale si vantò che il concilio aveva rotto con la tradizione: ciò è falso, lui stesso invece cerca di verniciare di santità questo concetto cattivo di rottura, per legittimare la disobbedienza al depositum fidei in nome del concilio e del Paraclito. Ma è Congar che rompe, non il concilio, ne tantomeno lo Spirito Santo.

 
Il card. Biffi mirabilmente spiega ciò in " La bella, la bestia, e il cavaliere"(libro essenziale). Ora l'errore degli interpreti è duplice: da un lato l’errore essenziale, cioè vera e propria eresia (ex.gr. dire che il concilio vieta il latino, dire che il concilio approva il modernismo, dire che il concilio insegna che tutte le religioni sono uguali e ugualmente salvifiche, dire che il concilio insegna che la chiesa cattolica è una tra le tante, nemmeno la migliore, dire che il concilio abroga il deicidio ebraico, dire che il concilio vieta di condannare l'errore ecc.).

 
Insomma quante volte abbiamo sentito dire ciò dai pastori? Molte, ma l'errore, è del concilio, o dei pastori gnucchi? non facciamo come lo stolto, che secondo il detto cinese, quando gli si indica la luna, guarda il dito. Questo è l'errore essenziale, poi vi è l'errore pastorale che non è meno grave del primo, sebbene non sia un vero errore contro la fede, ma contro la carità: voglio dire, l'errore dei pastori, che siccome il concilio vuole rivolgere la chiesa all'umanità deficiente (manchevole, di grazia, di intelligenza, di fede, ecc.), pensano di trattare tutti quanti, come dei deficienti, ovvero, non considerano che non tutta l'umanità si è ridotta allo stato neonatale, a livello di fede, col conseguente bisogno di una religione da "svezzamento", una poltiglia che anche gli stomachi più sensibili, possano potare. Esistono cattolici che sono ancora di sani principi, di fede cristallina, che sanno distinguere il bene dal male ed il vero dal falso e conoscono i propri doveri e li ottemperano, pertanto è crudele trattare tali cattolici come gli altri, con le stesse metodologie pastorali.

Un cattolico di fede adulta non può essere trattato come un bambino, poiché si mortifica e si umilia, non si può ridurre la religione al canto con la chitarra, al battimani, perché magari vi è chi non gradisce (non dico di fare messe per furbi e messe per tonti, non è mai stato così, solo che la condiscendenza del linguaggio e la chitarra ne è un esempio: andare incontro ai giovani coi loro metodi - sebbene vi sia tanto da ridire, dato che gli anni 70, Guccini, i Nomadi e gli Intillimani musicali sono finiti da un pezzo, così come l'epoca delle chitarre, che sopravvive solo negli oratori: se dobbiamo stare al passo coi tempi, oggi si usa la House, la psichedelia, e le canne.

Tuttavia non si può discriminare chi non si sente di cantare allegre canzonette di fronte al Sacrificio dell’altare, o a improvvisare balletti infantili, né tantomeno è lecito classificare a priori i fedeli: tu sei bambino e ti piace battere le mani, tu sei un “giovine” e ti piace la chitarra, gli altri sono vecchi che non gli piace niente. Il metodo della chiesa, lungi dall'essere al passo coi tempi, è fermo alla svolta, anni 70, mentre aveva un metodo diciamo così, atemporale, nella sua nobile antichità, ha preso un metodo che è stato attuale per 10 anni, poi è diventato VECCHIO. chi oggi vestirebbe alla anni 70, o metterebbe in casa quelle tappezzerie marron-giallo-arancio-rosso, a motivi geometrici? la Chiesa lo fa di se stessa.
E oltretutto, mi sto ancora domandando, senza trovare alcuna risposta, in che modo il passaggio dall’uso di arredi liturgici e paramenti dalla foggia tradizionale latina, all’uso dei camicioni con la cerniera e di vasellame etno-liturgico, abbia contribuito al dialogo e all’apertura verso il mondo moderno. Forse perché il popolo, formato sempre più da buzzurri, riesce a vedere così nel sacerdote uno di loro, e si sente più in un clima familiare?



Come si usa condiscendenza per gli svantaggiati -che pure auspicherei un po' più provvida ed intelligente, anziché limitata alla canzoncina e alla famigerata “animazione”- così la si deve usare nei limiti del lecito anche per chi ha una sensibilità tradizionale, poiché oggi “tradizionale”, sembra quasi una parolaccia, sembra voler dire “dinosauro” mentre la tradizione non è il passato, ma il presente: è la vita della chiesa, è consegna di generazione in generazione, cosa saremmo noi senza i genitori e i nonni? lo stesso dicasi della Chiesa senza la tradizione.
E fa orrore pensare che si permette al giorno d'oggi ogni modernità e ogni idiozia, e si odia, perché di odio si tratta, ogni tradizione. Certamente, simili atteggiamenti, non solo non sono pastorali, ma per quei fedeli più sensibili, di una religiosità più profonda, sono una vera e propria pugnalata alle spalle. Oltretutto, per uomini che amano la chiesa, fa doppiamente male, quando questo amore viene interpretato come “pericoloso attaccamento al passato”, “nostalgia” e quant’altro, dagli ecclesiastici stessi. Simili comportamenti sono la causa della migrazione dalle parrocchie alle cappelle clandestine dei vari mentecatti che popolano il tradizionalismo cattolico, non certo il fascino verso teorie bizzarre e perverse, che nelle medesime cappelle vengono inculcate.

Ma perlomeno si vede un prete vestito da prete, e non si viene accusati di non pensare abbastanza ai fratelli africani. L’idea di fondo, della maggior parte dei fedeli e degli ecclesiastici che definiremmo progressisti, è che, siccome il concilio segna il cambiamento, tutto ciò che non cambia è contro il concilio, retrogrado, mentre ogni cambiamento, anche rivoluzionario, anche distruttivo, segue lo “spirito del concilio”, ed è dunque una ventata di fresca novità, buona e santa. Il che non è esattamente ciò che il concilio pensava, ne i suoi legittimi interpreti (1).


Tornando a monte i tradizionalisti compiono l'errore soggettivo, se i pastori quello oggettivo, ovvero, i tradizionalisti non hanno capito la gravità dei fatti, non hanno capito cosa è successo, come e quando, e nell'incertezza, hanno rifutato tutto, in blocco, a priori. Certamente più comodo che prendersi la briga di studiare il problema, è di liquidarlo, e nel fare ciò, possibilmente incolpare qualcun altro.  Assai bizzarro pensare che ai grandi accusatori del concilio, non vennero in mente le accuse arcinote, di cui hanno riempito libri, libretti, fogli, riviste, omelie, mentre il concilio lo facevano, mentre firmavano i documenti, mentre il concilio era promulgato, e dopo la sua promulgazione, per almeno 4-5 annetti, in cui sembra che non ci fossero problemi, i quali riemersero improvvisamente, retrodatati al 1963 (o per i più zelanti addirittura nel 1958), all’atto che, nel 1970, si cominciò a dire la messa nuova.

 
L'errore tradizionalista, in questo caso potremmo chiamarlo della reductio ad unum, ovvero non volere considerare l’universalità dei problemi, degli errori e delle cause, degli agenti dei medesimi, per trovare un unico semplificato e fondamentale CAPRO ESPIATORIO. Tale errore infatti si consuma nel voler far cadere sul capo della organizzazione, le colpe di tutti, anche di se stessi, ciò invero molto farisaico ed ebraico. Hanno caricato su Paolo VI, davvero Vicario e figura di Cristo (2) i peccati propri e di tutto il mondo, tutti gli errori, le contraddizioni e le cause dei mali, e lo hanno crocifisso calunniato, dileggiato, percosso e sputato, poiché non hanno capito (come i loro padri ebrei non capirono l’innocenza di Cristo) che l'errore è negli applicatori, non nel papa.

E loro stessi sono applicatori: all'atto stesso che utilizzano la loro nota "tragica necessità di opzione" essi applicano ed interpretano il concilio, NON RICONOSCENDOLO O NON APPLICANDOLO e quindi non sbagliano meno dei Congar e dei Suenens nella valutazione di esso, e nella pratica a ciò si aggiunge anche la superbia, che è il peccato del diavolo, che impedisce loro di ipotizzare anche soltanto di rimettersi in discussione; si arrogano il diritto di giudicare tutto il mondo e di pronunciare condanne non sapendo di essere sulla medesima barca che affonda, ma con la colpevolezza di allargare la falla. Mentre infatti vi sono critici, che, come l'Opus Dei, cercano di lavorare per salvare la Chiesa, loro se ne guardano bene, sprecando fatiche ed intelligenze, che spesso ci sono, e rimangono sterili e strumentali a se stesse.

 
Dell'errore del tradizionalismo posso dire brevemente che è la gnosi, ovvero una cognizione di tradizione, non come un vivo bagaglio da tramandare e attualizzare - traditio=consegna - ma come età aurea in cui tutto è sublime e il cui distaccarsi è sempre male e peccato. La tradizione primordiale di Giulio Evola e Réné Guénon, è proprio questa. Si pensi: "la messa", ogni ritocco è sacrilego, Giovanni XXIII ha osato introdurre le dalmatiche violacee, perciò è reo di morte: << noi abbiamo una legge (la gnosi) e secondo questa legge, egli deve essere messo a morte>>. Inoltre della gnosi hanno anche questo concetto: “ la verità la conoscono in pochi, noi siamo tra quelli ed odiamo coloro che non sono come noi”, cioè che non conoscono la verità.

 
 Pensare che solo i cattolici siano redenti da Cristo, ovvero che solo essi sono resi capaci di Dio, e non tutta l’umanità, è un concetto gnostico, esoterico: significa che il Verbo, si sarebbe incarnato per pochi. I tradizionalisti antepongono un finto devoto esclusivismo, e confondono la salvezza, col la redenzione, l’atto con la potenza. Tutti gli uomini, per volere divino, e tramite la Rivelazione, ovvero con l’Incarnazione del Verbo, sono resi capaci di Dio, senza alcuna distinzione. La salvezza consiste nell’accogliere la redenzione operata da Cristo, rendendola concreta, attraverso la sequela di Cristo, che è l’adeguarsi alla volontà di Dio. Dio volle che tutti gli uomini seguissero Cristo, proprio perché volle comunicarsi alla umanità intera (incarnazione).

continua........

Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 13:27
La Chiesa è depositaria del messaggio salvifico, e sola è voluta da Cristo stesso per dispensarlo agli uomini. In ciò si comprende il significato dell’articolo di fede “Nulla salus extra ecclesia”.
 
L’uomo trova il suo fine solo in Dio, e grazie alla Rivelazione, comprende il proprio mistero (e dunque si da un senso) solo nel mistero di Dio che si rivela (Gaudium et Spes, n°22). Negare tale articolo, significa sostenere che l’uomo possa avere un fine diverso da quello rivelato, e ciò è impossibile, poiché Dio non inganna né si contraddice.

Sebbene comunque la conoscenza salvifica sia unica, ed operata da Dio mediante il Cristo, sebbene essa sia il fine dell’uomo, e solo la chiesa ne sia depositaria, avendo essa soltanto la pienezza della rivelazione, è possibile che alcuni uomini, non per loro colpa, di fatto seguano materialmente il piano divino, essendo però inconsapevoli della sua reale portata. Questi uomini perseguono nei fatti il disegno divino, osservando la legge naturale, per quello che, incolpevolmente, è in loro potere, e dunque, sebbene in modo improprio ed inconsapevole, attuano e mettono in pratica la redenzione di Cristo.

 
Non può dunque il Dio giusto, non tenere conto di questo, e non dispensare ai meritevoli, la salvezza. Lo stesso insegna il Concilio Vaticano II, in Lumen Gentium n°8, la Chiesa di Cristo (corpo mistico, formato da Cristo e da tutti i beati, oltre che da chi, con la grazia santificante e in comunione con Cristo sulla terra) sussiste nella Chiesa Cattolica, ha cioè una consistenza più ampia, della sola Chiesa Cattolica. La differenza è costituita proprio dalle anime di chi è riuscito a salvarsi “ex opere operato”, si potrebbe dire, grazie ai propri meriti, alla buona fede, e alla mancanza di colpa. Si comprende che sia la nozione di buona fede, che quella di colpa, sottendono al principio che tale via per la salvezza è comunque residuale ed irregolare, oltre che imperfetta, poiché la vera salvezza è solo in Cristo e nella Chiesa.

 
Infatti anche coloro che si salvano fuori dalla Chiesa cattolica, e sono dunque nella Chiesa di Cristo, possono ben dirsi cristiani: lo sono certamente nella beatitudine, dove non potrebbe essere diversamente, lo furono “in voto”, durante la loro vita, tant’è che si potrebbe dire che il loro ingresso nella cristianità, è avvenuto con un battesimo di desiderio. Ciò dimostra come Lumen Gentium n°8 sia assolutamente concorde con l’articolo “Nulla salus extra ecclesia”, riuscendo a determinarne la portata pratica concreta.

 
Ne consegue il fatto che è assolutamente falsa ed erronea l’accusa tradizionalista al “subsistit in”, come foriero di indifferentismo religioso, allo stesso modo in cui è falso e pericoloso l’esclusivismo cattolico sulla salvezza, propugnato dai tradizionalisti, per i sui risvolti gnostici, cui accennavo all’inizio di questo discorso. La avversione alla gerarchia, al papato, alla autorità, ecc. confermano che la pianta non è certo piantata da Gesù, piuttosto dal Baphometto.

 
Si pensi anche solo al concetto di episcopato: per loro il vescovo è la negazione del dogma cattolico, il successore degli apostoli che pasce ovvero insegna-governa-santifica (tria munera ecclesiae). Il concilio lo afferma in modo netto in Lumen Gentium e soprattutto con la dottrina della collegialità. Il collegio è l'insieme dei vescovi che sono nello stato di sottomissione ed obbedienza, e comunione gerarchica col papa (quando dicono che la Chiesa non ha mai affermato tale dottrina, mi chiedo davvero se si riferiscano a Roma o a Mosca; certo, se loro devono fare la figura di quelli che “fanno ciò che fa la Chiesa”, quando insegnano e quando ordinano, è più semplice falsificare l’insegnamento di quest’ultima e fare bella figura, piuttosto che dire “è sbagliato, ma ci va di farlo”).

La consacrazione è l'introduzione nel collegio, ovvero la sottomissione gerarchica, che si compie nel rito stesso. La consacrazione, al pari della riconciliazione ha due aspetti, sessio e missio, ordine e giurisdizione, ma sebbene distinti, essi si compenetrano a tal punto che risulta impossibile avere uno senza avere l'altro, poichè uno è ordinato all’altro, in modo che si rendono vicendevolmente indispensabili. Uno è creato vescovo per il collegio, come il collegio, cioè la giurisdizione, che viene dalla sottomissione al papa (ovvero l'autorità da Dio mediata dal papa, con la sottomissione) esiste per chi è vescovo salvo casi particolari, quali abati nullius, protonotari, legati pontifici, ma si capisce che sono una eccezione di miserrime proporzioni, che comunque a poco c’entra con tale discorso: il fatto non è che uno non vescovo possa esercitare una giurisdizione, o che esista una giurisdizione fuori dal collegio episcopale, ma che non esistono vescovi senza giurisdizione.

 
 A tal proposito ricordo che non esercitare giurisdizione, non significa non averla: sono membri del collegio anche i vescovi in partibus, sebbene non abbiano diocesi, poiché la loro missione di pascere il gregge di Cristo, si esercita semplicemente in modi diversi da quelli dell’ordinario, quali ad esempio la direzione di uffici di Curia, di Congregazioni, di organi, ecc. Mentre esercitare una giurisdizione, senza essere vescovo, è una deroga al principio generale, che Cristo ha affidato agli apostoli il compito di pascere il gregge.

 
La figura dell’abate, come del legato pontificio, sono innovazioni rispetto all’uso antico della Chiesa, permessi che la Chiesa ha affidato, in nome e per conto di essa, di pascere in modo limitato, una porzione di gregge. Dico limitato, poiché ad esempio, nel compito di santificare, esiste anche l’amministrazione dei sacramenti, tra cui Ordine Sacro e Confermazione, che un abate, o un prelato nullius, evidentemente non può dare, e dunque non può sostituirsi ad un vescovo nel pascolo del popolo di Dio.

 
Ma considerando anche i casi in cui non vescovi sono ordinari, si capisce perché ciò sia permesso: un abate è ordinario della propria abbazia (qualora grande, per ragioni logistiche, anche dei limitrofi), non ha bisogno di espletare tutte le possibilità della missione, ma solo quelle legate ai bisogni reali dei suoi monaci.


Tornando a trattare della consacrazione, dopo questo piccolo excursus, dico che lo stesso rito, prevede come parte integrante, la lettura del mandato. Falsa è la tesi di Ricossa, secondo cui il concilio attribuirebbe alla consacrazione, come sacramento, il potere di giurisdizione, in alternativa alla posizione classica che la vorrebbe mediata dal pontefice.

 
 La giurisdizione si ottiene NELLA consacrazione, attraverso la sottomissine al pontefice, e cioè l’inserimento nel collegio, e non PER la consacrazione, come se automaticamente generasse nel consacrato la potestà, la sola imposizione delle mani del consacrante. Questa è la tesi dei gallicani e degli scismatici, in generale, non della Chiesa, come lui sa bene. Proprio perché sa bene che chi non crede alla legittimità di una consacrazione che con la lettura del mandato, interga l’eletto nel collegio, in modo dunque mediato, è scismatico, si è dovuto prendere la briga di dimostrare che si possa scindere sessio e missio, senza essere scismatici.

 
 E invero non è che ci sia riuscito molto. Sul tema della giurisdizione si dovette fare una eccezione per gli orientali, per giustificare la loro successione apostolica valida: per loro si parla infatti di una supplenza materiale della giurisdizione, per il fatto che amministrano una porzione di popolo e non hanno l'espresso divieto a farlo del pontefice, pur essendo in situazione di irregolarità, e un tempo anche di scomunica. Questa è l'opinione di padre Dragone s.s.p., come scriveva nel ‘37 sull'Enciclopedia Apologetica delle Paoline.

 
Il concetto tradizionalista dell'episcopato è invece sempre di usurpazione della giurisdizione, o esplicitamente, tipo lefebvriani o conclavisti, o negazionista, tipo Verrua, la quale si arroga una giurisdizione nell'atto stesso della consacrazione (che ricordo ha compenetrati sessio e missio, e ciò anche se Ricossa, con dovizia di particolari, fa vedere come una vada fin lì e l'altra vada fin là.

 
 Tuttavia se è vero che si possono vedere distinte, è falso che si possano scindere, così come non si può scindere l'anima dal corpo, e avere ancora un corpo vivo, o una anima in terra: a parte le forme pure, non si può separare la potenza dall’atto, senza distruggere l’ente stesso), che poi però rifiuta di usare, ma questa è una scelta posteriore.

 
Tutti però, indistintamente vedono il vescovo come un fuco, che pronuncia parole magiche su di un altro, e gli conferisce il suo potere magico di creare altri “eletti cohen” (sacerdoti), che abbiano a loro volta il potere magico di tramutare l’ ostia sacrificale in divinità, e di tramutare uomini normali in pontefici, ossia in interlocutori con l'occulto, col trascendente, o meglio, iniziati, nell'ambito di una concezione gnostica, ovvero uomini “completi”, che a differenza degli altri, hanno un carattere magico, poiché oltretutto a loro è preclusa qualunque forma di insegnamento, santificazione, governo, rimane il dato sacramentale dell’ordine, che svincolato dalle potestà sue proprie, date dalla giurisdizione, decade nel magico e questo, indipendentemente che sia avvertito o meno da tutti, od anche dai più.

 
Non dubito della buona fede dei più, senz’altro la quasi totalità, ma certo gli iniziatori del tradizionalismo avevano tale concezione, pertanto il prete tradizionalista è una sorta di massone, cioè iniziato ad una ars regia (3) , nel nostro caso la arte reale è quella della potestà su Dio, che altro non è che la cabala, la quale con l'uso del nome di Dio, del sacro tetragramma YHWH, vuole avere la potestà sul potere divino stesso. Così il tradizionalismo, che a differenza dei giudei, i quali conoscevano e “possedevano” Dio solo dal nome, anzi, dalla letteralità del nome (4) , non ha bisogno di scrivere il tetragramma sui propri turbanti o su magiche tavolette, ha potestà sul corpo di cristo attraverso la celebrazione eucaristica.

 
Esiste una dimostrazione pratica della natura maligna del tradizionalismo e della loro pratica sacramentale: è il fatto che tutto ciò che di sacro fanno è un sacrilegio, poiché loro stessi fanno sacramenti da scismatici, da eretici e in un qualche modo da apostati, poiché arrivano a negare lo stesso Dio, negando nella pratica la sua presenza salvifica nella Chiesa, che ammettono solo teoricamente con ragionamenti bislacchi. Se dunque dai frutti li riconosceremo.... li abbiamo riconosciuti.

 
 Ovviamente non c'è dolo in tutti, ripeto, come d'altronde nemmeno in tutti i massoni esiste la cognizione del proprio status di adoratori del diavolo, però. Ci sono anche massoni che credono di fare solo cose culturali e massoni cattolici, e anche ferventi devoti, meglio di tanti altri profani, eppure con ciò non voglio accusare tutti i singoli tradizionalisti, fedeli e preti, per molti nutro amicizia e stima (sempre meno a dire il vero), ma critico il tradizionalismo in sé, e coloro che scientemente vi soggiacciono, così come non voglio dire che il mio amico Giuseppe, massone, è un uomo cattivo, come si dedurrebbe dall’insegnamento che abbiamo ricevuto su cosa è tale setta, perché so invece essere un uomo buono, che dice addirittura il rosario la sera, quasi sempre, a differenza di tanti (anche mia), ma la massoneria è da condannare, senza se e senza ma.

 
Questo è fare come diceva Giovanni XXIII, distinguere l'errore dall'errante, condannare senza tregua l'errore, combatterlo con ogni mezzo, ma non dimenticare che chi sbaglia, indipendentemente dalla gravità, è sempre un uomo, creato ad immagine di Dio ed un fratello e dunque non può mancare la carità, e ciò è VANGELO, non buonismo, ed imitazione di Cristo. Oltretutto sbagliano ancora i tradizionalisti che affermano che Giovanni XXIII ha esautorato i cattolici dal redarguire chi sbaglia, semplicemente la carità impone anche la correzione fraterna evangelica, l'insegnamento, l'aiuto, la solidarietà cristiana, e pertanto occorre aiutare chi sbaglia a non sbagliare più, senza per fare ciò offendere e rovinare tutto, per manie di protagonismo superbo e saccente.



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Note:

(1) Paolo VI e Giovanni Paolo II parlano entrambi di concilio da interpretare alla luce della santa tradizione.

(2) Non dimentichiamo Paolo VI: se Giovanni Paolo II è stato a ragione definito figura di Cristo, per averne testimoniato la sofferenza, possiamo ben dire che Paolo VI è figura del Cristo deriso ed ingiustamente accusato e offeso.

(3) Si rifletta a tal proposito, sul disprezzo che il mondo tradizionalista nutre nei confronti del laicato, dei profani dunque, e sul travisamento di “carattere” sacramentale, per arrivare a Dire che il sacerdote, è in pratica un migliore uomo e cristiano del semplice laico, specialmente se non sposato, il quale così appare inutile ed inferiore, poiché oltretutto non procrea. Da queste considerazioni si può capire come il tradizionalismo abbia in odio l’Opus Dei in particolare, che a detta di un tradizionalista piuttosto noto, “osa santificare la società senza passare dalla missio”. Il che oltretutto è falso.

(4) Secondo una fredda ed erronea interpretazione: poiché Dio che rivela il suo nome, non è altro che Dio che affida all’uomo la sua parola, il Verbo, Cristo, ovvero se stesso. Questo non hanno capito, né tuttora capiscono gli ebrei.


Nota Explicativa Praevia



In questo mio scritto ho usato indifferentemente il termine "tradizionalismo", per alludere a variegate realtà, che spaziano dal lefebvrismo più estremista (non quello dialogante), al sedevacantismo, con tutte le sfumature intermedie che possono esistervi. Ho voluto parlare solo di quel tradizionalismo infedele a Roma e alla Chiesa Cattolica, che merita solo esecrazione ed indignazione. Certamente non volevo irritare i tanti cattolici tradizionalisti, che amano il Papa, il magistero della Chiesa ed il Concilio Vaticano II. La mia scelta ha voluto sottolineare invece una precisa osservazione di carattere semantico ed ermeneutico.

Ogni vero cattolico è tradizionalista. Un cattolico che non amasse la tradizione, sarebbe un eretico, e degno delle peggiori censure. La tradizione è infatti una fonte della Rivelazione, senza di essa non ci è possibile giungere a Dio per Gesù Cristo suo Figlio. Tale affermazione è talmente grave che se ne intuisce la portata: chi non venera la tradizione cattolica, non può salvarsi e non è nella Chiesa, poichè non potendo attingere alla Rivelazione, non può gingere a Dio, vero fine di ogni uomo.

Mi è sembrato pertanto un pleonasma irriguardoso nei confronti dei veri cattolici, che si sottolineasse il loro essere "tradizionalisti", come se si potesse essere diversamente (e va da se che coloro che si vantano di esserlo, disprezzando la tradizione, NON SONO NELLA CHIESA).

Invece ho associato tale termine, agli eretici e scismatici cultori di una mitica età dell'oro, che va perdendosi sempre di più.
Questa dottrina noi infatti bene la conosciamo già. E' la gnosi, o tradizionalismo. Vede come suoi esponenti di spicco il Guenon, l'Evola, ed altri personaggi parimenti poco raccomandabili, quanto invece rispettati e venerati da una certa parte religiosa (che chissà perchè, combacia anche con una certa parte politica). E' dunque un concetto deviato e depravato di tradizione che ottenebra la dottrina e le intenzioni di questi sventurati, e per questo ho voluto descriverli col termine che li identifica meglio.


Pertanto la mia descrizione, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta: ma se invece fossi riuscito ad annoiarvi o ad offendervi, credete che non s'è fatto apposta.



Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 15:59

RIFLESSIONI "INTRA MUROS"

Chiarimenti in seguito agli accordi di Campos con la Santa Sede
Redatti a cura dell'Amministrazione Apostolica Personale
San Giovanni Maria Vianney
 

Questi chiarimenti sono incentrati sulla controversia sorta tra 
la Fraternità San Pio X e la stessa Amministrazione Apostolica S. G. M. Vianney
dopo l'erezione di quest'ultima
 

(le sottolineature sono nostre
http://www.unavox.it/doc82.htm#5 )



(Il testo è stato pubblicato sul sito dell'Amministrazione Apostolica:
http://www.seminario-campos.org.br/portugues/index.html
(La traduzione e l'organizzazione del testo sono nostre)



 
 

1) Il problema che ci preoccupa
2)
“La questione della visibilità della Chiesa è troppo importante per la sua esistenza…"
3)
“Né eretici né scismatici: questa dev’essere la nostra attitudine nel corso della crisi attuale”
4)
«Chi disprezza voi, disprezza me» (Luca, 10, 16). Rispetto delle autorità della Chiesa.
5)
“Preoccupatevi per espressioni come “due Rome”, “due Chiese”.
6)
“A causa della sfiducia nella gerarchia, è sovversione eretica seguire abitualmente qualcuno, non appartenente alla 
      
gerarchia, come portavoce e giudice dell’ortodossia”.
7)
“La soluzione potrà arrivare a tappe, anche con una situazione un poco ibrida, delle parrocchie personali riconosciute 
      
a fianco delle parrocchie attuali”.
8)
“Lasciateci fare l’esperienza della Tradizione”.
9)
“Tutto a suo tempo… tempo per tacere e tempo per parlare”.
10)
“Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati” (Luca 6, 37). 
         
“Non giudicate prima del tempo” (I Cor. 4, 5).
11)
“Una rondine non fa primavera, ma può contribuirvi”.
12)
“In questo momento io credo nella possibilità di un accordo pratico e nella totale inutilità delle discussioni dottrinali”.
13)
“Il caso della Fraternità San Pio X è diverso dal caso della diocesi di Campos. Non si deve collegare il caso di Campos 
         
alla Fraternità.”
14)
“Se il Papa mi chiama, io vado. Per obbedienza.”
15)
“Et nos credidimus caritati”.
16)
“… Maestro … glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci. Ma Gesú gli rispose: Non glielo 
        
impedite, perché chi non è contro di voi è per voi.” (Luca 9, 49-50).
 

1) Il problema che ci preoccupa (Mons. Marcel Lefebvre).
Il fatto di non essere riconosciuto come cattolico, essere in qualche modo fuori dalla gerarchia, benché per stato di necessità, deve costituire per ogni buon cattolico uno stato anormale, temporaneo, un problema che preoccupa, dal quale bisogna provare ad uscire al piú presto nei limiti del possibile e sentirsi felice per la possibilità che permette di giungere alla fine di tale anormalità.
Questo era il pensiero di Mons. Marcel Lefebvre, quando, nel corso dei colloquii con la Santa Sede, nel 1988, egli scriveva al Card. Ratzinger: «Avendo potuto seguire i lavori della Commissione incaricata di preparare una soluzione accettabile per il problema che ci preoccupa, mi sembra che, con la grazia di Dio, ci stiamo avviando verso un accordo, del quale siamo molto felici» (Lettera del 15/4/1988 - cf. Fideliter - Dossier completo).
Di conseguenza, sentirsi soddisfatti con la separazione, essere felici con la condizione anormale, non essere inquieti per il problema, non voler giungere in alcun modo ad una intesa, rifiutare a priori ogni tentativo di accordo, non corrisponde al giusto spirito e sentimento cattolici di cui abbiamo un esempio in Mons. Marcel Lefebvre.
Ed è bene notare la data: 1988, due anni dopo l’“incontro di Assisi”, un anno dopo l’“incontro di Kyoto” e un anno dopo la risposta ai “dubia” di Mons. Lefebvre. In quella occasione, non si era verificata alcuna “conversione” delle autorità. E malgrado ciò, Mons. Lefebvre, inquieto per il problema, cercava un accordo e si diceva felice per la sua realizzazione.

2) “La questione della visibilità della Chiesa è troppo importante per la sua esistenza…” (Mons. Marcel Lefebvre)
La Chiesa cattolica non è una società spirituale invisibile, l’insieme dei fedeli in possesso della vera Fede. Sarebbe, questo, un concetto protestante di Chiesa, condannato dal Magistero della Chiesa (cf. Hervé, Manuale Theologiae Dogmaticae, de Ecclesia Christi, n. 332). La Teologia Cattolica insegna che la Chiesa è visibile in quanto società gerarchica, con unità di Fede e di Governo.
La visibilità della Chiesa consiste nella sua organizzazione esterna, manifesta a tutti, e a detta organizzazione devono appartenere tutti i fedeli per il legame visibile della stessa fede, esternamente professata, per il legame della stessa comune obbedienza ad una autorità visibile e per il legame della condivisione degli stessi sacramenti istituiti da Cristo: questo è l’elemento visibile della Chiesa” (Dictionnaire de Théologie Catholique - D.T.C., v. Église, col  2144).
Ecco cosa insegna il Papa Pio XII: «Si trovano quindi in un pericoloso errore quelli che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra. Sottratto infatti questo visibile Capo e spezzati i visibili vincoli dell’unità, essi oscurano e deformano talmente il Corpo mistico del Redentore, da non potersi più ne vedere né rinvenire il porto della salute eterna.» (Enciclica Mystici Corporis, n. 36).
Il concilio Vaticano I ha definito che il Papa è il «principio perpetuo e il fondamento visibile dell’unità della Chiesa» (Denz 3051), e anatemizza coloro che affermano che San Pietro non avrebbe dei perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa (Denz 3058). Ripetendo sempre questa stessa dottrina, Mons. Antonio de Castro Mayer insegnava: «Il Papa è il Capo della Chiesa e, come tale, il segno e la causa dell’unità visibile della società soprannaturale, internamente comandata e vivificata dallo Spirito Santo» (Istruzione Pastorale sulla Chiesa, 2/3/1965, cap. II).
Ed ecco cosa pensava Mons. Marcel Lefebvre: «La questione della visibilità della Chiesa è troppo importante per la sua esistenza perché Dio possa ometterla per dei decenni» (In Mons. Lefebvre y la Sede Romana, Roma Aeterna, n. 112, p. 5).
3) “Né eretici né scismatici: questa dev’essere la nostra attitudine nel corso della crisi attuale” (Mons. Marcel Lefebvre).
È questa la posizione di equilibrio che dobbiamo tenere nel corso dell’attuale crisi che attraversa la Santa Chiesa. Non essere degli eretici, e cioè non lasciarsi coinvolgere negli errori già condannati dal Magistero della Chiesa, soprattutto il modernismo, il falso ecumenismo, l’indifferentismo religioso, ecc. Non essere degli scismatici, e cioè non separarci dall’unità di governo della Chiesa. E se per necessità si verifica una situazione di separazione, che essa sia temporanea, mentre noi dobbiamo sempre mantenere il vivo desiderio della normalizzazione, senza mai nutrire alcun sentimento scismatico.
Il Magistero della Chiesa (Leone XIII, Satis Cognitum) ci insegna che l’unità di regime o di governo è altrettanto necessaria che l’unità di Fede. 
È quello che insegnava Mons. Lefebvre: «Preferisco partire dal principio che si deve difendere la nostra fede… Se qualcuno attacca la nostra fede, noi diciamo: No! Ma non per questo si può dire poi che se attacca la nostra fede è un eretico, dunque non ha piú autorità, quindi i suoi atti non hanno piú alcun valore… Attenzione, attenzione, attenzione! … Non poniamoci in un circolo infernale da cui non sapremmo come uscire. Questa attitudine comporta un vero pericolo di scisma… Noi vogliamo rimanere legati a Roma, al successore di Pietro, ma rigettiamo il suo liberalismo con la fedeltà ai suoi predecessori… È per questo che, lungi dal rifiutare le preghiere per il Papa, noi le aumentiamo e supplichiamo perché lo Spirito Santo lo illumini e lo fortifichi nel sostegno e nella difesa della fede… È per questo che non ho mai rifiutato di andare a Roma ad una sua chiamata o alla chiamata dei suoi rappresentanti. La verità deve affermarsi a Roma piú che in ogni altro posto. Appartiene a Dio farla trionfare… Io credo sia necessario fare queste precisazioni per rimanere nello spirito della Chiesa…» (In Mons. Lefebvre y la Sede Romana, Roma Aeterna, n.112, p. 5 et 6).
Mons. Marcel Lefebvre conosceva la condanna delle proposizioni di Wiclef e di Jean Huss, predecessori degli eretici del Protestantesimo, che affermavano che un papa malvagio perde l’autorità sui fedeli (Cf Denz 1158 e 1222), proposizioni condannate come non cattoliche (Denz 1251).
D’altronde, è dogma di fede cattolica: «Noi dichiariamo, affermiamo e definiamo essere totalmente necessario alla salvezza che tutti gli uomini siano sottomessi al Romano Pontefice» (Bonifacio VIII, Bolla Unam Sanctam, Denz 875).
E l’abbé Franz Schmidberger, primo successore di mons. Lefebvre come Superiore della Fraternità San Pio X, parlando degli attuali colloquii con la Santa Sede, ha esposto «l’importanza di mantenere dei contatti con Roma per non cadere in una mentalità scismatica» (Conferenza negli Stati Uniti, secondo la “newletter of SSPX in the UK”, agosto-settembre 2001, editoriale).
4) «Chi disprezza voi, disprezza me» (Gesú agli Apostoli e ai loro successori, Luca, 10, 16). Rispetto delle autorità della Chiesa.
Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi Spirituali, alla regola 10 per sentire con la Chiesa, insegna che dobbiamo essere piú pronti a lodare le direttive e i comportamenti dei nostri superiori che a criticarli. E anche quando essi non sono buoni, parlare contro di loro, pubblicamente o conversando, procurerebbe piú critiche e scandalo che profitto. Si causerebbe discredito all’autorità. Ciò che può essere utile è parlarne a delle persone che possono rimediare al male.
Dunque, Mons. Fellay, in una intervista alla rivista 30 Giorni, alla domanda del giornalista che gli faceva notare: “Siamo realisti. È veramente difficile che Roma possa dire: ci siamo sbagliati col concilio Vaticano II”, rispondeva: «Avete ragione: occorre essere realisti. Noi non ci aspettiamo che il Vaticano faccia un grande mea culpa, dicendo delle cose come: “Abbiamo promulgato una falsa messa”. Non vogliamo che l’autorità della Chiesa sia ancor piú diminuita. Lo è stata abbastanza: ora basta…» 
5) “Preoccupatevi per espressioni come “due Rome”, “due Chiese” (Abbé Michel Simoulin della Fraternità San Pio X).
“Le espressioni: due Rome, due chiese, due religioni che si opporrebbero e si affronterebbero, non avendo apparentemente niente in comune tra loro. Queste formule sono… suggestive e giuste, ma solo nei limiti dell’analogia: se se ne forza il significato esse possono diventare infatti fonte di terribile confusione e possono generare un manicheismo in cui il senso della Chiesa, la fede nella sua divinità e il semplice senso del soprannaturale sarebbero le prime vittime. (Abbé Michel Simoulin, Superiore del Distretto d’Italia della Fraternità San Pio X, articolo “Dans la crise de l'Église, un peu de vrai romainité”, in Communicantes, maggio 2001).
“…Mons. Lefebvre non ha mai esitato a recarsi a Roma, o a chiedere alla Roma modernista di lasciarci fare l’esperienza della Tradizione, o a chiedere il riconoscimento della Fraternità e il permesso di effettuare le consacrazioni, ecc.…, perché egli credeva che la Chiesa vive ancora a Roma e poteva utilizzare gli stessi organi conciliari per trarne del bene. …” “Non dobbiamo aiutarla se ce ne viene offerta la possibilità?” (Abbé Michel Simoulin, ibidem).
Dobbiamo ricordarci anche della condanna dei Fraticelli e della loro teoria erronea delle due chiese (Denz 911), condannata come eretica e insana (Denz 916).
6) “A causa della sfiducia nella gerarchia, è sovversione eretica seguire abitualmente qualcuno, non appartenente alla gerarchia, come portavoce e giudice dell’ortodossia” (Mons. Antonio de Castro Mayer, vescovo diocesano di Campos).
Parlando di un altro argomento, Mons. Antonio de Castro Mayer ci fornisce i principi che possono servire di riferimento per il caso attuale: “Sfortunatamente, oggi vi sono altri tipi di eresia. Come quella che va alla ricerca di un profeta, di una guida, col pretesto che l’intera gerarchia ha sbagliato! Nel caso in cui fosse l’intera gerarchia a sbagliare, verrebbero meno le parole di Gesú Cristo, poiché il Divino Salvatore ha affidato alla gerarchia il governo e la direzione della sua Chiesa fino alla fine dei secoli e, in piú, la sua assistenza perché essa non sbagli (Monitor Campista, 26/1/1986).
Lo stesso san Roberto Bellarmino ha detto: «Se tutti i vescovi si sbagliassero, la Chiesa intera si sbaglierebbe, poiché il popolo è obbligato a seguire i suoi Pastori, come ha detto Gesú in san Luca, 10, 16: “Chi ascolta voi, ascolta me”, e in san Matteo, 23, 3: Fate ciò che vi dicono”» (Liber III, cap. XIV De Ecclesia militante).
7) “La soluzione potrà arrivare a tappe, anche con una situazione un poco ibrida, delle parrocchie personali riconosciute a fianco delle parrocchie attuali” (Mons. Marcel Lefebvre).
Mons. Lefebvre accettava che la soluzione potesse arrivare per tappe: «È possibile che un giorno i vescovi, consci del loro compito, possano arrivare a dire: Bene, questa parrocchia è ormai riconosciuta; forse anche con una situazione un po’ ibrida, direi, nel senso che sosterrebbero: “le parrocchie attuali continuino in quello che hanno fatto fino ad oggi, ma riconosciamo questa parrocchia personale per tutti coloro che vogliono venire a frequentarla e servirsi dei suoi preti, noi riconosciamo anche questa”. Sarebbe una soluzione, forse… Direi… una tappa, forse, non prevedo il futuro… Ma è possibile. In ogni caso, è necessario trovarsi in questa disposizione di spirito e non in una disposizione di rottura né in una disposizione di opposizione per l’opposizione, di opposizione alla Chiesa, per non si sa bene che cosa” (Mons. Marcel Lefebvre, Ecône, 3/3/1977 - Cf. DICI n° 7, 11/5/2001, p. 17).
Nell’intervista a 30 Giorni, alla domanda: “Allora, cosa potrebbe fare il Vaticano, concretamente, per riannodare i rapporti con voi?”, Mons. Fellay ha risposto: “Nelle questioni pratiche, su come fare per risolvere i problemi, la saggezza e la capacità di Roma sono molto grandi. Quindi Roma può trovare le formule appropriate.
E sulla proposta dell’Amministrazione Apostolica, Mons. Fellay ha commentato: “È una proposta straordinaria, e se Roma vuole una vera riforma, questa è la strada che occorre intraprendere…” (Intervista a Pacte, n. 56, estate 2001 - Cf. DICI n. 16, 13/7/2001 - [sito internet della pubblicazione DICI:
http://www.dici.org/accueil.php] -). 8) “Lasciateci fare l’esperienza della Tradizione” (Mons. Marcel Lefebvre al Papa).
Qualche volta, nei colloqui di riconciliazione, è necessario utilizzare l’argomento “ad hominem”, e cioè usare le parole e ricordare i principi che sono accettati dagli interlocutori, affinché con buona logica essi ne traggano delle buone conclusioni, senza con questo voler dire che anche noi accettiamo quel punto di vista.
Cosí, Mons. Lefebvre chiedeva anche che, in nome del corrente pluralismo, gli lasciassero la tradizione nell’insieme del gran numero di “esperienze” attuali: «Il Papa Giovanni Paolo II…, in occasione dell’udienza che mi ha concessa nel novembre del 1979, sembrava essere disposto, dopo una prolungata conversazione, a lasciarmi la libertà di scelta nella liturgia, a lasciarmi fare ciò che, in fin dei conti, ho sempre sollecitato fin dall’inizio: l’esperienza della tradizione tra tutte le esperienze che si sono effettuate nella Chiesa» (Mons. Marcel Lefebvre, 1984, in Lettera aperta ai cattolici perplessi, XX). 
Questo non significa che Mons. Lefebvre fosse d’accordo con tutte queste “esperienze che si sono effettuate nella Chiesa”.
9) “Tutto a suo tempo… tempo per tacere e tempo per parlare” (Eccl 3, 1 e 7)
Gesú visse nel tempo in cui la schiavitú era diffusa nella società. La schiavitú è un male. E Gesú non parla nemmeno una volta contro la schiavitú. La cosa avrebbe provocato una dissoluzione sociale. Ma Gesú ha posto le basi - le virtú cristiane di giustizia, umiltà e carità - che hanno permesso, con la penetrazione del cristianesimo nella società, l’abolizione della schiavitú. Qualche volta è necessario attendere il momento opportuno. È necessario tenere conto delle circostanze e della capacità di ricezione della critica. E qualche volta la battaglia positiva è piú fruttuosa della negativa.
Anche la Fraternità San Pio X, quando ha avuto la possibilità di utilizzare le Basiliche romane nel corso del Giubileo del 2000, non ha approfittato dei microfoni per parlare contro gli errori diffusi nella cosiddetta “Roma modernista”. E i sacerdoti della Fraternità che hanno organizzato il Giubileo hanno chiesto agli altri che avrebbero parlato nelle Basiliche di abbassare il tono e di non parlare con durezza delle autorità. E Mons. Fellay, passando per le Porte Sante, non ha protestato per il fatto che il Papa le avesse aperte accompagnato dai rappresentanti di altre religioni. E sempre Mons. Fellay, quando ha parlato ai microfoni delle Basiliche, ha usato un tono molto moderato e non ha criticato la “Chiesa conciliare”, malgrado si trattasse di un’occasione irripetibile. Lo stesso è accaduto quando ha celebrato la Messa nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Solo la gente mal disposta ha potuto immaginare che, comportandosi cosí, egli avesse mancato alla professione di Fede.
“Tutto a suo tempo”.
10) “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati” (Gesú in Luca 6, 37). “Non giudicate prima del tempo” (San Paolo in I Cor. 4, 5)
“Tutte le cose sembrano gialle agli occhi di chi è affetto da itterizia… La malizia del giudizio affrettato, al pari di questa malattia, fa sembrare che tutto è malvagio agli occhi di coloro che ne sono affetti… Se un’azione presenta cento aspetti diversi, noi dobbiamo considerarla solo per i suoi aspetti migliori… (San Francesco di Sales, Filoteia, III, 27).
“E chi toglie ingiustamente la reputazione al suo prossimo, oltre al peccato che fa, è tenuto alla restituzione…” (Ibidem, III, 28).
11) “Una rondine non fa primavera, ma può contribuirvi” (Abbé Michel Beaumont della Fraternità San Pio X, sull’elogio che il Papa ha fatto del Messale tradizionale, detto di san Pio V, e a proposito delle valide osservazioni avanzate dal card. Ratzinger sulla liturgia):
“Di fronte a un muro ostile ogni breccia è benvenuta. Essa dimostra almeno che la battaglia non è inutile. Una rondine attraversa il cielo. Essa non fa primavera, non sostituisce la primavera della Chiesa che auspichiamo e alla quale lavoriamo. Ma una rondine annuncia la primavera, e può dunque dar forza e coraggio per attenderla” 
(Cf
http://www.le-combat-catholique.com).
È in questa ottica che Mons. Fellay ha detto molto bene: “Se vi è una possibilità, una sola, che i contatti con Roma possano far ritornare un po’ piú di Tradizione nella Chiesa, io penso che dobbiamo approfittare dell’occasione” (Mons. Fellay, Fideliter, n. 140, p. 7).
Ecco perché l’abbé Pierre-Marie Laurençon, Superiore del Distretto di Francia della Fraternità San Pio X, ha considerato come una grande vittoria per la Tradizione il fatto che i fedeli tradizionalisti abbiano ottenuto di celebrare la Messa di san Pio V, per la prima volta in 20 anni, nella Basilica sotterranea (moderna) di san Pio X, nel Santuario di Lourdes, nel corso del pellegrinaggio del 28 ottobre 2001. “Questo è forse il miracolo di Lourdes per il 2001! In ogni caso, i nostri fedeli non potranno piú rimproverarci di “accontentarci delle briciole”, lasciando che le autorità di Lourdes ci confinassero in una sala periferica del Santuario!… Non dobbiamo interpretare questa bella vittoria come un segno di speranza per il ritorno di Roma alla Tradizione?” (Lettera agli amici e benefattori, gennaio 2002).
12) “In questo momento io credo nella possibilità di un accordo pratico e nella totale inutilità delle discussioni dottrinali” (Abbé Philipe Laguérie della Fraternità San Pio X).
“Ecco la mia conclusione, forse sorprendente: io credo, in questo momento, alla possibilità di un accordo pratico e all’inutilità totale delle discussioni dottrinali… Si perde tempo - forse la propria ànima - con delle discussioni che non giungono mai ad una conclusione, per la ragione evidente che non hanno la minima problematica in comune. Questo significa che sono contrario ad ogni accordo? Tutt’altro. Se un accordo dottrinale sarà possibile solo tra 20 o 30 anni, questa non è una ragione per rinunciare all’accordo…” (DICI, n. 8, 18/5/2001, p. 12).
La Fraternità San Pio X ha chiesto al cardinale di Parigi una chiesa che i fedeli potessero visitare per il Giubileo del 2000. È stata concessa la chiesa di San Sulpicio, nella quale i fedeli hanno pregato, condotti dai sacerdoti della Fraternità, che sono stati ricevuti dal curato della parrocchia locale, che ha rivolto loro delle parole di benvenuto. Si trattò di un accordo pratico, fruttuoso, senza che fosse stata risolta la questione dottrinale.
Sempre la Fraternità San Pio X, in occasione del pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 2000, ha fatto un accordo pratico col Vaticano, nel senso che le è stato concesso il permesso per accedere alle Basiliche. Il Vaticano ha concesso l’uso delle Basiliche, l’uso dei microfoni per i vescovi, ma non li ha autorizzati a celebrare la Messa. Si trattò di un accordo pratico, non totalmente soddisfacente per il mancato permesso della Santa Messa tradizionale, ma esso ha portato molti frutti, anche senza che fossero state risolte le questioni dottrinali.
13) “Il caso della Fraternità San Pio X è diverso dal caso della diocesi di Campos. Non si deve collegare il caso di Campos alla Fraternità.” (Mons. Marcel Lefebvre).
Dio, nell’attuale crisi della Chiesa, ha voluto suscitare due vescovi fedeli che resistessero al modernismo corrente in maniera particolare, ognuno con le sue proprie caratteristiche: Mons. Marcel Lefebvre, un vescovo missionario, per un apostolato piú universale, e Mons. Antonio de Castro Mayer, un vescovo diocesano, per un apostolato di tipo diocesano. I loro figli dovrebbero continuare nel sacerdozio con le medesime caratteristiche: uniti nella stessa dottrina, ma ognuno con la sua propria strada.
Era questa l’opinione di Mons. Antonio de Castro Mayer, condivisa da Mons. Lefebvre, il quale, sul problema di una eventuale consacrazione, scriveva: “Il caso della Fraternità Sacerdotale San Pio X si presenta diverso dal caso della diocesi di Campos. Penso che il caso della diocesi di Campos sia piú semplice, piú classico… È per questo, a mio avviso, che non bisogna collegare il caso di Campos alla Fraternità… I due casi devono rimanere separati. La cosa è di una certa importanza per l’opinione pubblica e per la Roma attuale. La Fraternità non dev’essere implicata e deve lasciare tutta la responsabilità, peraltro legittima, ai sacerdoti e ai fedeli di Campos… Ecco la mia opinione; penso che essa si fondi sulle leggi fondamentali del diritto ecclesiastico e sulla Tradizione…” (Lettera del 4/12/1990, Communicantes, n. 40, gennaio 1992).
14) “Se il Papa mi chiama, io vado. Per obbedienza.” (Mons. Fellay).
“Se il Papa mi chiama, io vado, anzi corro. Questo è certo. Per obbedienza. Per rispetto filiale verso il Capo della Chiesa” (Mons. Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità San Pio X, intervista a 30 Giorni, settembre 2000).
Noi vogliamo rimanere legati a Roma, al successore di Pietro… È per questo che non mi sono mai rifiutato di andare a Roma ad una sua chiamata o alla chiamata dei suoi rappresentanti” (Mons. Marcel Lefebvre).
La preoccupazione per la nostra unità e per la nostra preservazione è essenziale, essa non deve farci dimenticare il nostro dovere di servire la Chiesa” (Mons. Fellay, Fideliter, n. 140, p. 7).
15) “Et nos credidimus caritati” (Divisa di mons. Marcel Lefebvre).
“Siamo gli eredi della sua carità… I membri della Fraternità potrebbero essere tentati di conformarsi con ciò che hanno. Perché di piú, se stiamo bene cosí? Conserviamo i nostri pochi fedeli… Io correrei se qualcuno mi offrisse la parrocchia de La Reja… Ma facciamo attenzione a non conservare il denaro che ci è stato dato senza lasciarlo fruttare, perché ci verrebbe tolto. Si, oggi lo dico soprattutto in relazione ai contatti che la Fraternità ha avuto con Roma. Certo che essi ci colpiscono. Noi stiamo bene, perché volere di piú? Ma non è per noi, è per tutti coloro che ci sono vicini che non possiamo dimenticare senza tradire la spinta alla carità che Dio ha posto nel cuore del nostro fondatore”. (Abbé Alvaro Calderón della Fraternità san Pio X, sermone del 25 marzo 2001).
16) “… Maestro … glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci. Ma Gesú gli rispose: Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi è per voi.” (Gesú in Luca 9, 49-50).
Commento: “Il Signore avverte gli Apostoli, e con essi tutti i cristiani, contro l’esclusivismo e lo spirito del partito unico nella cura apostolica, che si esprime nel falso assunto: Il bene, se non è fatto da me, non è il bene. Al contrario, noi dobbiamo assimilare questo insegnamento di Cristo, perché il bene è il bene, anche se non faccio io”. (Sacra Bibbia, Ed. Theologica Braga). (Cf Fil 1, 15-18).
È lo spirito di apertura che aveva Mons. Marcel Lefebvre, quando vedeva del vantaggio per la Chiesa anche nelle “messe dell’indulto”, le quali sono state concesse, secondo lui, a condizioni inaccettabili: “Ma questo primo gesto - preghiamo perché ce ne siano altri dello stesso tipo - solleva il sospetto gettato ingiustamente sulla messa e libera le coscienze dei cattolici perplessi che ancora esitano ad assistervi.” (Mons. Marcel Lefebvre, Lettera aperta ai cattolici perplessi, XX).
Anche Mons. Bernard Fellay, in una conferenza a Campos nel novembre del 2000, ha detto ai nostri fedeli, con compiacimento, che la messa tradizionale è celebrata in quasi cento diocesi degli Stati Uniti. “Messe dell’indulto”, in gran parte, sostenute da altri gruppi tradizionalisti diversi dalla Fraternità San Pio X.
Lo stesso Mons. Lefebvre, in una lettera ai sacerdoti del Distretto di Francia, diceva: “Penso che dobbiamo andare soprattutto là dove siamo chiamati e non dare l’impressione che abbiamo una giurisdizione universale, né una giurisdizione su un paese o una regione. Sarebbe come basare il nostro apostolato su un fondamento falso e illusorio. Anche per questo, se altri sacerdoti soddisfano abitualmente i bisogni dei fedeli, non è il caso che noi ci immischiamo nel loro apostolato, ma siamo contenti perché vi sono altri sacerdoti cattolici che si dedicano alla salvezza delle ànime” (27/4/1987).
Tutte queste considerazioni non devono essere prese necessariamente alla lettera, ma esse dimostrano proprio il “sensus romanus”, il buono spirito cattolico che animava Mons. Marcel Lefebvre e mons. Antonio de Castro Mayer. Che i loro figli nel sacerdozio conservino lo stesso spirito.

Et nos credidimus caritati” 
(divisa di Mons. Marcel Lefebvre)

Ipsa conteret” 
(divisa di Mons. Antonio de Castro Mayer)

In principiis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas” 
(Sant’Agostino)






(settembre 2002)

Caterina63
00martedì 1 settembre 2009 14:40
Durante la catechesi, il Papa ha definito via via Beda il Venerabile esperto di Sacre Scritture, “insigne maestro di teologia liturgica”, attento storico della Chiesa della quale traccia, tra l’altro, una cronologia dei primi sei Concili ecumenici e la descrizione delle eresie che essi denunciarono. E’ autore anche di una famosa “Storia ecclesiastica dei Popoli Angli”, che lo rende “padre” della storiografia inglese, ma soprattutto – ha affermato Benedetto XVI - di una visione della Chiesa in senso pienamente cristologico, dove cioè l’Antico Testamento trova spiegazione e compimento in Cristo:

 

“I tratti caratteristici della Chiesa che Beda ama evidenziare sono: primo, la cattolicità come fedeltà alla tradizione e insieme apertura agli sviluppi storici, e come ricerca della unità nella molteplicità, nella diversità della storia e delle culture. (…) Secondo, l’apostolicità e la romanità: a questo riguardo ritiene di primaria importanza convincere tutte le Chiese Iro-Celtiche e dei Pitti a celebrare unitariamente la Pasqua secondo il calendario romano”.


18 febbraio 2009, Beda il Venerabile
[Croato, Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]

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Altra catechesi bellissima di Benedetto XVI è quella incentrata sugli scritti paolini dove spiega il DEPOSITO DELLA FEDE e dunque il senso della Tradizione che siamo chiamati a difendere e a tramandare...

Leggiamo e meditiamo:


 Si legge la Scrittura giustamente ponendosi in colloquio con lo Spirito Santo, così da trarne luce “per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia” (2 Tm 3,16). In questo senso aggiunge la Lettera: “perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tm 3,17).

L’altro richiamo consiste nell’accenno al buon “deposito” (parathéke): è una parola speciale delle Lettere pastorali con cui si indica la tradizione della fede apostolica da custodire con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Questo cosiddetto “deposito” è quindi da considerare come la somma della Tradizione apostolica e come criterio di fedeltà all’annuncio del Vangelo. E qui dobbiamo tenere presente che nelle Lettere pastorali come in tutto il Nuovo Testamento, il termine “Scritture” significa esplicitamente l’Antico Testamento, perché gli scritti del Nuovo Testamento o non c’erano ancora o non facevano ancora parte di un canone delle Scritture.

Quindi la Tradizione dell’annuncio apostolico, questo “deposito”, è la chiave di lettura per capire la Scrittura, il Nuovo Testamento.
In questo senso, Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio apostolico come chiave di lettura, vengono accostate e quasi si fondono, per formare insieme il “fondamento saldo gettato da Dio” (2 Tm 2,19). L’annuncio apostolico, cioè la Tradizione, è necessario per introdursi nella comprensione della Scrittura e cogliervi la voce di Cristo. Occorre infatti essere “tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme agli insegnamenti ricevuti” (Tt 1,9). Alla base di tutto c'è appunto la fede nella rivelazione storica della bontà di Dio, il quale in Gesù Cristo ha manifestato concretamente il suo “amore per gli uomini”, un amore che nel testo originale greco è significativamente qualificato come filanthropía (Tt 3,4; cfr 2 Tm 1,9-10); Dio ama l’umanità.


Nell’insieme, si vede bene che la comunità cristiana va configurandosi in termini molto netti, secondo una identità che non solo prende le distanze da interpretazioni incongrue, ma soprattutto afferma il proprio ancoraggio ai punti essenziali della fede, che qui è sinonimo di “verità” (1 Tm 2,4.7; 4,3; 6,5; 2 Tm 2,15.18.25; 3,7.8; 4,4; Tt 1,1.14).

Nella fede appare la verità essenziale di chi siamo noi, chi è Dio, come dobbiamo vivere. E di questa verità (la verità della fede) la Chiesa è definita “colonna e sostegno” (1 Tm 3,15). In ogni caso, essa resta una comunità aperta, dal respiro universale, la quale prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado, perché giungano alla conoscenza della verità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”, perche “Gesù Cristo ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tm 2,4-5).

Quindi il senso dell’universalità, anche se le comunità sono ancora piccole, è forte e determinante per queste Lettere. Inoltre tale comunità cristiana “non parla male di nessuno” e “mostra ogni dolcezza verso tutti gli uomini” (Tt 3,2). Questa è una prima componente importante di queste Lettere: l’universalità e la fede come verità, come chiave di lettura della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento e così si delinea una unità di annuncio e di Scrittura e una fede viva aperta a tutti e testimone dell’amore di Dio per tutti.

Un’altra componente tipica di queste Lettere è la loro riflessione sulla struttura ministeriale della Chiesa.
Sono esse che per la prima volta presentano la triplice suddivisione di episcopi, presbiteri e diaconi (cfr 1 Tm 3,1-13; 4,13; 2 Tm 1,6; Tt 1,5-9). Possiamo osservare nelle Lettere pastorali il confluire di due diverse strutture ministeriali e così la costituzione della forma definitiva del ministero nella Chiesa. Nelle Lettere paoline degli anni centrali della sua vita, Paolo parla di “episcopi” (Fil 1,1), e di “diaconi”: questa è la struttura tipica della Chiesa formatasi all’epoca nel mondo pagano. Rimane pertanto dominante la figura dell’apostolo stesso e perciò solo man mano si sviluppano gli altri ministeri.

Se, come detto, nelle Chiese formate nel mondo pagano abbiamo episcopi e diaconi, e non presbiteri, nelle Chiese formate nel mondo giudeo-cristiano i presbiteri sono la struttura dominante. Alla fine nelle Lettere pastorali, le due strutture si uniscono: appare adesso “l’episcopo”, (il vescovo) (cfr 1 Tm 3,2; Tt 1,7), sempre al singolare, accompagnato dall’articolo determinativo “l’episcopo”. E accanto a “l’episcopo” troviamo i presbiteri e i diaconi. Sempre ancora è determinante la figura dell’Apostolo, ma le tre Lettere, come ho già detto, sono indirizzate non più a comunità, ma a persone: Timoteo e Tito, i quali da una parte appaiono come Vescovi, dall’altra cominciano a stare al posto dell’Apostolo.

Si nota così inizialmente la realtà che più tardi si chiamerà “successione apostolica”. Paolo dice con tono di grande solennità a Timoteo: “Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri” (1 Tim 4, 14). Possiamo dire che in queste parole appare inizialmente anche il carattere sacramentale del ministero. E così abbiamo l’essenziale della struttura cattolica: Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio, formano un insieme, ma a questa struttura, per così dire dottrinale, deve aggiungersi la struttura personale, i successori degli Apostoli, come testimoni dell’annuncio apostolico.

Importante infine  notare che in queste Lettere la Chiesa comprende se stessa in termini molto umani, in analogia con la casa e la famiglia. Particolarmente in 1 Tm 3,2-7 si leggono istruzioni molto dettagliate sull'episcopo, come queste: egli dev'essere “irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?

Inoltre... è necessario che egli goda buona testimonianza presso quelli di fuori”. Si devono notare qui soprattutto l'importante attitudine all'insegnamento (cfr anche 1 Tm 5,17), di cui si trovano echi anche in altri passi (cfr 1 Tm 6,2c; 2 Tm 3,10; Tt 2,1), e poi una speciale caratteristica personale, quella della “paternità”. L’episcopo infatti è considerato padre della comunità cristiana (cfr anche 1 Tm 3,15). Del resto l'idea di Chiesa come “casa di Dio” affonda le sue radici nell'Antico Testamento (cfr Nm 12,7) e si trova riformulata in Eb 3,2.6, mentre altrove si legge che tutti i cristiani non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio (cfr Ef 2,19).

Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla società in cui viviamo, come membri della “famiglia di Dio”. E preghiamo anche perché i pastori della Chiesa acquisiscano sempre più sentimenti paterni, insieme teneri e forti, nella formazione della Casa di Dio, della comunità, della Chiesa.



28 gennaio 2009, San Paolo (19): La visione teologica delle Lettere pastorali
[Croato, Francese, Inglese, Italiano, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]



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