CARI SACERDOTI Lettera del card. Arinze sull'OBBEDIENZA

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Caterina63
00mercoledì 17 dicembre 2008 00:03
...ed altri insegnamenti ai Sacerdoti


"CARO SACERDOTE" il card. Arinze scrive una Lettera ai Sacerdoti





Amici....siamo sotto Natale e una volta si scrivevano le "Letterine" a Gesù Bambino...

Il Cardinale Arinze (qui nella foto), per molti anni responsabile per la Congregazione del Culto Divino è andato in "pensione" ed ha scritto una Lettera ai Sacerdoti per richiamarli all'OBBEDIENZA del loro Ministero nella Chiesa.

Offriamo questo spazio alla meditazione che segue, Pregando incessantemente, affinchè i Sacerdoti scoprano la loro LIBERTA' nella Chiesa e nell'Obbedienza al Sommo Pontefice e non a qualche laico che....per una incomprensibile situazione... si ritrova a comandare su di LORO...
SIATE LIBERI, cari Sacerdoti, LIBERI da ogni condizionamento, LIBERI DA OGNI CAMMINO, perchè l'unico Cammino VERO e autentico è quello che NON condiziona il vostro Ministero, ma NELL'OBBEDIENZA E FEDELTA' AI SUPERIORI che sono il Vescovo e il Pontefice, siate veramente il "seme CHE MUORE" e che solo così potrà permettere anche a NOI, Laici, di ricevere degnamente i Sacramenti e la Riconciliazione con Dio...

Buon Natale.... Cari Sacerdoti!

Riflessioni in forma di lettera: Caro sacerdote ti scrivo...

Martedì 16 vengono presentati presso la Sala Marconi della Radio Vaticana i volumi dei cardinali Angelo Sodano Verso le origini, una genealogia episcopale (pagine 70, euro 8 ) e Francis Arinze Riflessioni sul sacerdozio, lettera a un giovane sacerdote (pagine 138, euro 12), entrambi appena pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana.

Anticipiamo ampi stralci del capitolo intitolato Il sacerdote e lo stile evangelico di vita tratto dal libro del prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

di Francis Arinze

Caro fratello sacerdote, è giusto tenere a mente che il presbitero ha come Maestro il Cristo. Non è certo possibile imitare l'agire di Cristo in ogni minimo dettaglio, ma ciò non ci esime dal seguirlo nel modo più vicino possibile. (...) Tra le tante cose che Gesù "fece e insegnò", scegliamo tre consigli evangelici a cui ogni sacerdote è chiamato a dare particolare attenzione: l'obbedienza, la povertà e la castità nel seguire Cristo Maestro.

Il sacerdote sa che la costituzione gerarchica della Chiesa deriva dal suo divino Fondatore. Il carisma e il ministero del Papa e del vescovo sono di istituzione divina. Gesù ha inviato gli apostoli come egli stesso è stato inviato dal Padre (cfr. Giovanni, 20, 21): "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me" (Luca, 10, 16). L'obbedienza che il presbitero dà al Santo Padre, al vescovo e ai loro rappresentanti, si basa sulla fede. Mediante questa obbedienza il sacerdote dà a Dio la possibilità di servirsi pienamente di lui nell'attuare la missione della Chiesa. L'obbedienza non ha lo scopo di sminuire il ruolo del prete, o di trattarlo come inferiore o di impedirgli la propria crescita personale.

Anche il sacerdote partecipa dell'esercizio dell'autorità nella Chiesa. Da quanti hanno autorità nella Chiesa ci si attende l'impegno di esercitare questo potere nel nome di Cristo. Un vescovo o un sacerdote deve fare il proprio dovere con tutta umiltà e coraggio. Non dimostra certo umiltà se abbandona la responsabilità pastorale: questo danneggerebbe solo il gregge. (...) D'altra parte, il sacerdote non deve tentare di introdurre una specie di democrazia secolare che non si accorda con la natura divina dell'istituzione gerarchica della Chiesa. Una cosa è la virtù dell'umiltà, tutt'altra è cercare di clericalizzare il laicato o laicizzare il clero.

La Chiesa non ha nulla da guadagnare, ma tutto da perdere, da simili dissennate iniziative. In tema di obbedienza del presbitero, è degno di speciale attenzione il suo atteggiamento verso i compiti affidatigli dal vescovo. Certamente da parte del vescovo ci si deve aspettare amore, attenta considerazione delle capacità di ciascun presbitero, apertura al dialogo, equità, giustizia e una chiara visione della missione della Chiesa nella diocesi. Se si trattasse di una lettera rivolta ai vescovi, potremmo scendere in maggiori dettagli sulle loro responsabilità. Ma qui stiamo esaminando il ruolo del sacerdote. Questi deve lasciare al vescovo e ai suoi collaboratori piena libertà nelle nomine riguardanti i preti. Dal presbitero bisogna attendersi un amorevole e leale atteggiamento di collaborazione e obbedienza. Se tuttavia un sacerdote reputa che una particolare nomina o incarico datogli dal vescovo possa danneggiare lui o altre persone, allora ha il diritto, e talvolta il dovere, di chiedere un dialogo con il vescovo per esporre ciò che pensa. Dopodiché, in tutta semplicità, il sacerdote accetti la decisione ultima del vescovo; anche nello scenario peggiore che il vescovo assegni un incarico che supera le capacità del presbitero o che possa farlo soffrire e danneggiarlo, Dio non mancherà certo di proteggere il sacerdote che obbedisce.

Il giudizio di Dio nei riguardi del vescovo è altra cosa e Dio non ha bisogno di consigli dal sacerdote per questo! Comunque, il sacerdote che disobbedisce a una direttiva chiara e ponderata del proprio Vescovo, non deve aspettarsi la benedizione del Signore. Si trova in balia di se stesso e non deve illudersi di star facendo la volontà di Dio. (...)

Ciò che voglio dire è che la mano invisibile di Dio guida gli eventi, anche quando i superiori possono essere carenti in qualche aspetto nell'esercizio dell'autorità. Alla fine, Dio protegge il sacerdote che rispetta e obbedisce al proprio vescovo con fedeltà ferma e nobiltà di carattere. L'intervento di Dio può apparire posticipato di mesi o anche di anni, ma alla fine arriva. Ad alcuni santi è stata fatta giustizia solo dopo la morte. Il sacerdote è un seguace di Cristo che, nella sua esistenza terrena, ha vissuto da povero. È nato in una stalla ed è stato deposto in una mangiatoia.

La Santa Famiglia di Nazaret viveva in povertà di mezzi. Cristo ha ammonito le persone che si offrivano spontaneamente a seguirlo di ricordarsi che le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo (cfr. Matteo, 8, 20). È vero che i sacerdoti membri di ordini e congregazioni religiose, in quanto religiosi, fanno il voto di povertà, mentre invece non lo fanno i sacerdoti diocesani. È però chiaro, dall'esempio e dall'insegnamento di Cristo, che ogni sacerdote deve coltivare la virtù della povertà. Un certo distacco dai beni terreni è richiesto al sacerdote diocesano. Questi, prima di tutto, deve essere onesto e trasparente nell'amministrazione dei beni della Chiesa. In situazioni riguardanti la parrocchia o la diocesi è tenuto a collaborare con il consiglio economico e ad osservare lealmente i regolamenti della diocesi in materia.

La virtù della povertà riguarda anche l'uso personale dei propri soldi. Evitando tutto ciò che può farlo apparire attaccato a beni terreni ed incline a spese eccessive, il sacerdote deve ricordarsi dei poveri, dei malati, degli anziani e di tutti i bisognosi in genere. I mezzi di trasporto, la casa, il mobilio, il vestito non devono collocarlo dalla parte dei ricchi e dei potenti. Per risparmiare al sacerdote un'eccessiva preoccupazione per i bisogni dovuti a malattia e a vecchiaia, la diocesi deve prevedere queste situazioni e predisporre adeguati programmi. Un test sulla generosità del prete può consistere nel domandarsi quali motivi di carità sono inclusi nei suoi desideri e quanta gente povera, poveri seminaristi o candidati alla vita consacrata piangeranno la sua morte, riconoscendo che è scomparso il loro padre in Cristo e il loro benefattore.

Il presbitero non deve identificare la povertà con la mancanza di pulizia e di ordine nella propria casa, e neppure assimilarla con l'uso di paramenti o suppellettili d'altare consunti. Occorre offrire il meglio a Dio per la sua lode. Nella sua casa ogni cosa deve essere segno di buon gusto e ordine, pur nella semplicità e sobrietà. Cristo ha vissuto una vita verginale, ha insegnato ai suoi discepoli la castità e ha proposto la verginità a coloro che sono disponibili e in grado di seguire una tale chiamata. La Chiesa, da sempre, ha tenuto in grande considerazione il celibato dei sacerdoti. Nella vita sacerdotale, la continenza perpetua per il regno dei cieli esprime e stimola la carità pastorale. È una sorgente speciale di fecondità spirituale nel mondo (cfr. Presbyterorum ordinis, 16).

(...)

Ciò di cui ha bisogno è il silenzio, la quiete e il raccoglimento per stare alla presenza di Dio, dare maggior attenzione a Dio e incontrare Cristo nella preghiera personale davanti al tabernacolo
.
Solo allora sarà capace di vedere Cristo in ogni persona che incontra nel ministero. Perché i grandi santi, che dedicano molto tempo per stare soli con Dio, sono così bravi nell'incontrare la gente? Hanno una identità chiara, trovano Dio e così trovano se stessi e gli altri in Dio. Non dobbiamo sottovalutare l'apporto positivo della fraternità tra sacerdoti per vivere il celibato. Come è bello quando i presbiteri vivono in unione e armonia (cfr. Salmi, 133, 1). L'ideale è che il vescovo faccia in modo che i sacerdoti vivano in due o tre per parrocchia, piuttosto che da soli.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri per far crescere al massimo le nostre potenzialità. L'auspicio è di costituire comunità di presbiteri che vivono insieme, che si raccolgono insieme in cappella, che preghino parte della Liturgia delle Ore insieme, discutano insieme i problemi pastorali, mangino e scherzino insieme - si formino tali comunità in gran numero in una diocesi, e avremo testimoni migliori di Cristo, anche in rapporto al celibato sacerdotale, come pure al ministero presbiterale in genere. Quasi in ogni epoca si incontra chi presenta ragioni per persuadere la Chiesa latina a rendere il celibato "facoltativo", così dicono. E ogni volta la Chiesa ha detto di no, per buone ragioni.

L'ultima parola della Chiesa su questa materia è di Papa Benedetto XVI, nella Esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis.

Voglio citare per esteso quanto ha detto: "In tale scelta del sacerdote, infatti, trovano peculiare espressione la dedizione che lo conforma a Cristo e l'offerta esclusiva di se stesso per il Regno di Dio. Il fatto che Cristo stesso, sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della tradizione della Chiesa latina a questo proposito. Pertanto, non è sufficiente comprendere il celibato sacerdotale in termini meramente funzionali. In realtà, esso rappresenta una speciale conformazione allo stile di vita di Cristo stesso. Tale scelta è innanzitutto sponsale; è immedesimazione con il cuore di Cristo Sposo che dà la vita per la sua Sposa.

In unità con la grande tradizione ecclesiale, con il concilio Vaticano ii e con i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la bellezza e l'importanza di una vita sacerdotale vissuta nel celibato come segno espressivo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio, e ne confermo quindi l'obbligatorietà per la tradizione latina. Il celibato sacerdotale vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società" (Sacramentum caritatis, 24).

(©L'Osservatore Romano - 15-16 dicembre 2008)


Caterina63
00giovedì 18 dicembre 2008 14:31
 
Perdonami, Signore,
se a volte non capisco i preti.
Ci insegnano a vivere
dalla quiete della sacrestía
ci predicano amore
dal silenzio dell'altare
uniscono le coppie
senza avere famiglia
ci trattano da figli
senza avere procreato.
A volte non li capisco,
ma Tu aiutami a considerarli
uomini scelti da Te
Tuoi Testimoni
seminatori della Tua Parola
nella nostra realtà.

[SM=g1740720]

Padre
non odono la Tua voce
che ripete il mio nome.
Credono folle che io abbia lasciato tutto per seguire Te.
Reputano inverosimile
la Tua chiamata; non credono che Tu mi hai chiamato....
Spiega loro
il Tuo progetto
per la mia vita.

Non sono interessato al rispetto del mondo per me, non importa se mi oltraggiano, non importa se m'insultano, non importa se mi accusano... 
Annunzia loro
la scelta
di farmi Tuo.

Aiutami ad essere un buon sacerdote, aiutami ad essere credibile quando parlo di Te; infondi la Tua Verità quando Ti servi di me peccatore per trasformare una semplice Ostia nel Tuo Corpo Santo che è Cibo che nutre.

Fai loro comprendere che sono uomo come loro, uno fra tanti, scelto dalla Tua infinita misericordia e non per meriti, più semplicemente perchè Tu possa essere conosciuto, Amato, adorato, servito, creduto!

Fai loro comprendere che la vocazione sacerdotale è una Tua scelta personale, e non un mestiere qualsiasi...attraverso la quale possiamo dispensare i Tuoi Sacramenti, atti preziosi per la vita d'ogni uomo e per il nutrimento di ogni anima.

Dirti Grazie è poca cosa, mio Signore e mio Dio...cosa farò per renderti grazie? Alzerò il Calice della salvezza e invocherò in Nome del Signore...

Nel Sacrificio perfetto del Tuo amatissimo Figlio e Signore Nostro Gesù Cristo, per intercessione di Maria, Madre piena di ogni Grazia, concedimi di essere un buon e santo testimone della Grazia vocazionale che hai voluto elargirmi a Gloria del Tuo Nome, per la salvezza di ogni uomo e per la Chiesa nostra Madre!

AMEN



[SM=g1740744]

E Gesù intanto seguitava:

 << Amate i vostri nemici,

fate del bene a chi vi vuole male,

benedite chi vi maledice,

pregate per chi inventa male di voi.

Se no, non siete figli del vostro Padre che è nei cieli.

Lui fa levare il sole e manda la pioggia tanto sul campo di chi gli vuol bene come su quello                   di chi lo bestemmia.

Se uno vi dà un ceffone sulla guancia porgetegli anche quell'altra. Se vi porta via il mantello, dategli anche il vestito.

E come vorreste che gli uomini facessero a voi, così fate voi a essi >>.



[SM=g1740717]

Caterina63
00venerdì 26 dicembre 2008 22:08

 



Caro Don... per il tuo Natale![SM=g1740717]

Caro don, sacerdote immaginario,

ti scrivo anche se non sono un cardinale, per la gioia di farlo e per riprendere un ragionamento interrotto. Innanzitutto ringrazio te di esserci e Chi, volendoti, da sempre ti ha conosciuto e formato nel seno di tua madre.

Mi immagino, avendo studiato con tanti seminaristi, come sia stato complicato per te seguire la tua strada, ogni giorno un piccolo passo, esami da fare, impegni pastorali, pranzi e cene da metter su in cinque minuti, sacramenti da amministrare, dalla culla alla tomba, in mezzo qualche fiore d’arancio, con te che benedici gli anelli e, solo per un secondo, ti immalinconisci per quei figli che gli sposi avranno e tu no. Poi, però, ripigli il sorriso, guardi la chiesa colma e pensi: grazie Signore per tutti questi figli, della Tua paternità che mi affidi come causa seconda, del Tuo amore del quale devo essere eco risonante con la Parola che è la tua Parola e non quella di altri.

Caro don immaginario, credo che la libertà di cui un vero cardinale parla e ti consiglia di seguire, sia la moneta spicciola di questa perseveranza umana e divina che deve passare per le tue mani, visibile nella tua presenza orante a tutti i tuoi figli, percepibile nella concentrazione con cui tracci la croce sul pane e sul vino con la grazia di uno stupore sempre nuovo e, ogni volta, sempre diverso.

Caro don immaginario, se puoi, ripristina il campanello per le confessioni urgenti. Quando ero bambino, fuori dalla canonica, c’era una campana con una lunga funicella a cui si aggrappava, in ore notturne, le ore del rimorso bruciante, il peccatore insonne e, oltre la porta, sonnecchiava un altro don molto più vecchio di te, con la stola della misericordia viola avvolta tre giri di collo, come una sciarpa. Sobbalzava, si rassettava la stola e apriva il portone.

Caro don immaginario, se puoi, cerca di non confessare su appuntamento…

Ti raccomando, caro don immaginario, di leggere, leggere, leggere per allargare la tua percezione antropologica, psicologica, teologica sulle persone che ti verranno a chiedere aiuto. A tutti, sappi dare la risposta giusta, olio sulle ferite, conforto nel dolore. A tutti, perché tu sei di tutti e tutti ti apparteniamo come figli, con età diverse ma pur sempre bambini per come ci comportiamo agli occhi di Dio, dati con lo slancio del padre nello spirito, incoraggiaci, rimproveraci, dacci caramella o scappellotto a secondo dei casi. Dacci te stesso nella tua libertà liberante perché liberata da Cristo, tuo e nostro Maestro.

Sii forte nelle questioni nelle quali tu devi essere padre, non altri inventori di verità che non siano quelle della Chiesa, custodisci forte nel cuore la tua missione di essere uomo tra gli uomini col dono dell’ordine che ti è toccato: liberamente lo hai accolto, liberamente esercitalo giacché quel dono, quella libertà, è il tuo tesoro che può liberare anche noi… Buon Natale, caro don immaginario.

Chisolm[SM=g1740717]


Un pro-memoria per i Sacerdoti, da stampare e portare con se....





Rhythmus Sancti Thomae Aquinatis.

Indulgentia quinque annorum toties quoties; septem annorum, si rhythmus
vel ejusdem potrema tantum stropha coram Ss.mo Eucharistiae Sacramento recitatus fuerit;
plenaria suetis conditionibus, quotidiana rhythmi recitatione in integrum mensem producta.
Pius Pp. XI, 12 Martii 1936 et Pius Pp. XII, 12 Julii 1941
ADóro te devóte, latens Déitas,
Quae sub his figúris ver e látitas:
Tibi se cor meum totum súbjicit,
Quia, te contémplans, totum déficit.

Visus, tactus, gustus in te fállitur,
Sed audítu solo tuto créditur:
Credo, quidquid dixit Dei Fílius,
Nil hoc verbo Veritátis vérius.

In Cruce latébat sola Déitas,
At hic latet simul et humánitas;
Ambo tamen credens atque cónfitens,
Peto, quod petívit latro paenitens.

Plagas, sicut Thomas, non intúeor,
Deum tamen meum te confíteor:
Fac me tibi semper magis credere,
In te spem habére, te dilígere.

O memoriále mortis Dómini,
Panis vivus, vitam praestans hómini,
Praesta meae menti de te vívere,
Et te illi semper dulce sápere.

Pie pellicáne, Jesu Dómine,
Me immúndum munda tuo Sánguine,
Cujus una stilla salvum fácere
Totum mundum quit ab omni scélere.

Jesu, quem velátum nunc aspício,
Oro, fiat illud, quod tam sítio:
Ut, te reveláta cernens fácie,
Visu sim beátus tuae glóriae.

Amen

__________________
"Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (Santa Caterina da Siena)




   


Il sacerdote? Un uomo libero anche dalle proprie opinioni



Anticipiamo stralci di due delle relazioni che nel pomeriggio di venerdì 12 apriranno a Genova il convegno "Momenti, aspetti e figure del ministero del cardinale Giuseppe Siri nell'ottantesimo dell'ordinazione sacerdotale".

di Mauro Piacenza
Arcivescovo
Segretario della Congregazione per il Clero



Sono molto lieto di poter modestamente contribuire a mettere in luce il magistero del cardinale Siri sul sacerdozio in occasione dell'ottantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Come premessa introduttiva desidero condividere con voi lo stupore provato mentre, rileggendo alcuni testi del cardinale, constatavo la straordinaria attualità e assonanza con il magistero dell'attuale Sommo Pontefice. Temi come il relativismo, l'edonismo, il materialismo - certamente in termini consoni al linguaggio teologico e pastorale di quegli anni - sono ben presenti nell'insegnamento del cardinale Siri, con un "anticipo" di mezzo secolo, che non esiterei a definire profetico. Su molte cose il venerato cardinale ha visto molto lontano, ha avuto l'intelligenza - nel senso dell'intuslegere delle premesse - e ne ha previsto, fin quasi nel dettaglio, le conseguenze con l'acutezza propria dell'uomo di Dio.


Un primo aspetto che colpisce è la sua profonda convinzione che il sacerdozio abbia un suo fondamento "in natura", che sia "la natura stessa che postula il sacerdozio". Tale convinzione si fonda su un presupposto altrettanto evidente, oggi purtroppo gravemente misconosciuto, ma assolutamente inoppugnabile:  quello secondo il quale l'elemento religioso è un dato costitutivo della natura umana e non una personale e indimostrabile opzione della libertà.
In altri termini, tutti ben conosciamo come una certa scuola di pensiero, che affonda le proprie radici remote nel materialismo di matrice marxista, e prossime nel neopositivismo relativista, che relega le certezze morali nell'ambito dell'opinabile, tenda a "ridurre" il fenomeno religioso a semplice manifestazione storico-culturale, a prodotto dell'uomo nel confronto con il cosmo.


La conseguenza diretta di questa diffusa corrente storico-religiosa, anzi storicistica, è il misconoscimento del dato religioso come costitutivo della natura dell'uomo, e il conseguente approccio, puramente fenomenico, alla presenza della religione in ogni cultura della storia umana.
Se il senso religioso è un dato antropologico universale, a esso sono legati il rapporto con il Creatore, la morale e il culto; tutte dimensioni che la storia, in ogni esperienza religiosa, anche la meno strutturata, vede come essenziali nel rapporto con l'Assoluto.


Risulta evidente come in un contesto secolarizzato come quello nel quale viviamo, che pretende di fare a meno di Dio e restringe la questione religiosa all'interno dei convincimenti meramente soggettivi, divenga sempre più difficile la comprensione del sacerdozio come strutturale alla società e "bene" per l'umanità tutta.
È necessario constatare tuttavia come la perdita di un tale concetto universalistico del sacerdozio sia stata, in certa teologia, solo apparentemente a favore del "presbiterato neotestamentario". L'avere infatti abdicato al ruolo di "mediatori" nel rapporto con Dio, non ha certamente esaurito la sete di sacro degli uomini, i quali, anche ai livelli più alti della società e della cultura, non cessano di rivolgersi ad altri mediatori, spesso in modo totalmente irrazionale e ingiustificato sia storicamente, sia culturalmente.


In questa chiara concezione di sacerdozio naturale e necessario all'umanità si inserisce il magistero del cardinale Siri sul sacerdozio cristiano, il quale "concepito e fondato da Gesù risponde a tutte le esigenze naturali e le trascende di molto".
Il sacerdozio nasce dalle esigenze poste dai rapporti tra Dio e l'uomo; dopo la redenzione, i rapporti tra Dio e gli uomini non sono più solamente quelli tra creature e Creatore ma tra figli adottivi e Padre. (...) In un contesto come quello contemporaneo, sostanzialmente desacralizzato, non privo di derive moralistiche, appare quanto mai urgente recuperare, anche per noi sacerdoti, questo profilo alto del ministero soprannaturale di salvezza che il Signore ha voluto affidare alla nostra libertà.


Perdere tale visione, come profeticamente indicato dal cardinale Siri, significa inevitabilmente indebolire la realtà e l'idea stessa del sacerdozio e, in definitiva, porre i presupposti per una sua sempre più difficile comprensione e piena accettazione.
È indispensabile recuperare la lucida consapevolezza che il sacerdote, nell'amministrare i sacramenti, è "vicario di Dio"; non produce da sé l'effetto divino sacramentale, il quale, necessariamente, eccede ogni causa strumentale e naturale. Conseguentemente il sacerdote riveste una personalità di molto superiore alla propria, formando, nell'amministrazione dei sacramenti, una sola persona con Gesù Cristo.
Una tale concezione del sacerdozio ricolloca ciascun uomo-sacerdote all'interno di una posizione capace di superare d'un sol colpo tutte le contemporanee riduzioni pratico-funzionalistiche del ministero, ridisegnandone l'autentico volto, quale uomo di Dio per la salvezza degli uomini.


Il sacerdote desidera semplicemente, ma efficacemente, essere padre di tutti quelli che incontra, partecipando loro la dolcezza e la verità di quei Misteri, dei quali egli stesso è stato, per grazia, reso partecipe. Una tale coscienza rende il sacerdote un uomo libero, non condizionato né condizionabile dalle mode. Un uomo libero anche dalle proprie personali opinioni, per aderire con sempre più perfetta letizia alla verità di Cristo e della Chiesa, in special modo al sacro magistero, nella lucida consapevolezza che solo "trasmettendo ciò che ha ricevuto" potrà condurre gli uomini a un'autentica esperienza di Dio (...). Altra caratteristica essenziale del sacerdote è la gioia. Il cardinale aveva una profondissima concezione della gioia cristiana, di cui era intriso essendo un uomo cristallino, evangelicamente povero e semplice. Richiamandone il senso ai suoi preti, e ai seminaristi, nella Lettera pastorale del 10 agosto 1979, affermava innanzitutto che la gioia non è l'allegria, anche se può con essa coesistere, ricordando che mentre la seconda è un fatto più esterno, la prima è essenzialmente un fatto interiore.

La gioia, per il cardinale "è uno stato dell'anima in pace con Dio, con se stessa, con gli altri. (...) Fruisce di una luce della quale gode e che spande su tutto l'ambiente, al quale dà un'imperturbabile festosità".
Ovviamente si tratta della luce della fede, che, specialmente nel sacerdote, è chiamata a riflettere costantemente il suo splendore su tutto, rendendo bello anche il sacrificio e il dolore, per il loro profondo valore redentivo.
Certamente una gioia autenticamente vissuta e profondamente radicata è una delle caratteristiche più pastorali e missionarie del sacerdote. I giovani che vedranno un sacerdote così potranno porsi più efficacemente l'interrogativo sulla radice di una tale gioia e disporsi con maggiore apertura all'ascolto della volontà divina sulla loro vita.


Emerge con chiarezza come il ministro di Dio debba fondamentalmente essere un uomo di orazione. Potremmo chiederci, e l'esperienza alla Congregazione per il Clero è eloquente in tal senso, quante delle fatiche del ministero dipendano dall'infedeltà o addirittura dal non aver mai maturato un autentico spirito di orazione.
L'orazione del sacerdote infatti prende forza dal suo carattere, impresso dall'ordine sacro, e non si fonda appena sulla personale, seppur legittima, devozione (...). Il cardinale era solito ricordare ai suoi preti come, nella celebrazione della liturgia delle ore, in modo speciale, non fosse il singolo sacerdote a pregare ma in lui pregasse la Chiesa intera; la fede di tutta la Chiesa soccorre quella del singolo sacerdote, fino al punto che egli potrà sentire nelle alternanze dei versetti l'eco dell'intera Chiesa, "come il coro della Gerusalemme celeste e della Comunione dei santi".
L'essere così radicati nella vita di orazione rende il sacerdote un uomo straordinariamente libero, perché fondato sulla certezza della presenza divina nell'Eucaristia, della grazia di stato che rende capaci di compiere atti che non si sarebbe mai pensato di poter compiere. Un uomo capace di memoria, di ricordo, tenendo presente che il termine ricordo, da cordis, indica innanzitutto un "far passare nuovamente nel cuore".


Il sacerdote, così radicato nell'orazione, conoscerà un affetto che è più puro perché frutto dell'apostolato, del sacrificio e, in definitiva, dell'offerta dei beni di Dio agli uomini.
Come non ricordare, a proposito della profeticità e dell'assonanza del pensiero del cardinale Siri con il cuore palpitante della Chiesa, le parole dell'allora cardinale Ratzinger, nell'omelia tenuta durante la Santa Messa esequiale del Servo di Dio Giovanni Paolo II:  "Chi crede non è mai solo, né nella vita né nella morte".
Particolarmente attuale, nel contemporaneo contesto culturale e sociale, è il costante invito, che il cardinale rivolgeva ai suoi sacerdoti, a non avere paura e a superare ogni complesso di inferiorità verso il mondo, in particolare verso ciò che è definito "moderno". Il cardinale richiamava al rischio del cedimento, in fondo mai superato, ad alcuni luoghi comuni; è necessario evitare l'ingenuo ottimismo nei confronti del mondo e degli uomini, di certa cultura oggettivamente anticristiana, anche se talora ammantata di filosofica problematicità e ospitata in non pochi ambienti e media "nostri"; allo stesso tempo è bene non essere vittime dell'opinione pubblica, soprattutto per il solo fatto che è pubblica, cioè numero, folla, forza. Il cardinale elenca ancora, come tentazioni e possibili complessi di inferiorità dei sacerdoti, l'ammirazione per i vari "messianismi", che si succedono nella storia e che falsamente promettono liberazioni "altre" da quella di Cristo.


In conclusione il cardinale Siri aveva ben previsto a quali fatiche sarebbe andata incontro la figura del sacerdote in questi ultimi anni, per cui è necessario ribadire il suo prezioso magistero, perché nessun sacerdote si lasci intimidire da una cultura disposta a tutto pur di soffocare il più possibile il senso del sacro nelle coscienze degli uomini. Diceva ai suoi preti:  "Miei cari confratelli, voi non siete miseri se porterete destini sì grandi da non essere minacciati. (...) Voi non siete più deboli, se non avrete bisogno di quello che è superfluo. Voi non siete meno sapienti, se non conoscete i misteri di questo mondo. (...) Se avrete da entrare in concorrenza, fatelo, ma con gli angeli del cielo, con i martiri, con i confessori della fede".


(©L'Osservatore Romano - 12 settembre 2008)

Caterina63
00lunedì 26 gennaio 2009 15:13
siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni, ma il mistero di Cristo e, in Lui, la misura del vero umanesimo

(Benedetto XVI al Clero di Roma)



La Liturgia di:

Mercoledi 14 Settembre 2005

ci ricorda l'ESALTAZIONE DELLA CROCE........il Santo Padre, Benedetto XVI, ci aiuta a comprendere questa Liturgia con queste parole, sottolineando l'importanza del SEGNO DELLA CROCE quale "gesto fondamentale della preghiera del cristiano. Segnare se stessi con il segno della Croce è pronunciare un sì visibile e pubblico ":

Cari fratelli e sorelle!

Mercoledì prossimo, 14 settembre, celebreremo la festa liturgica dell’Esaltazione della santa Croce. Nell’Anno dedicato all’Eucaristia, questa ricorrenza acquista un significato particolare: ci invita a meditare sul profondo e indissolubile legame che unisce la celebrazione eucaristica e il mistero della Croce. Ogni santa Messa, infatti, rende attuale il sacrificio redentore di Cristo. Al Golgota e all’"ora" della morte in croce - scrive l’amato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia - "si riporta spiritualmente ogni presbitero che celebra la santa Messa, insieme con la comunità cristiana che vi partecipa" (n. 4).

L’Eucaristia è dunque il memoriale dell’intero mistero pasquale: passione, morte, discesa agli inferi, risurrezione e ascensione al cielo, e la Croce è la manifestazione toccante dell’atto d’amore infinito con il quale il Figlio di Dio ha salvato l’uomo e il mondo dal peccato e dalla morte. Per questo il segno della Croce è il gesto fondamentale della preghiera del cristiano. Segnare se stessi con il segno della Croce è pronunciare un sì visibile e pubblico a Colui che è morto per noi e che è risorto, al Dio che nell’umiltà e debolezza del suo amore è l’Onnipotente, più forte di tutta la potenza e l’intelligenza del mondo.

Dopo la consacrazione, l’assemblea dei fedeli, consapevole di essere alla reale presenza di Cristo crocifisso e risorto, così acclama: "Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta". Con gli occhi della fede la Comunità riconosce Gesù vivo con i segni della sua passione e, insieme a Tommaso, piena di stupore, può ripetere: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20,28). L’Eucaristia è mistero di morte e di gloria come la Croce, che non è un incidente di percorso, ma il passaggio attraverso cui Cristo è entrato nella sua gloria (cfr Lc 24,26) e ha riconciliato l’umanità intera, sconfiggendo ogni inimicizia. Per questo la liturgia ci invita a pregare con fiduciosa speranza: Mane nobiscum Domine! Resta con noi, Signore, che con la tua santa Croce hai redento il mondo!

Maria, presente sul Calvario presso la Croce, è ugualmente presente, con la Chiesa e come Madre della Chiesa, in ciascuna delle nostre Celebrazioni eucaristiche (cfr Enc. Ecclesia de Eucharistia, 57). Per questo, nessuno meglio di lei può insegnarci a comprendere e vivere con fede e amore la santa Messa, unendoci al sacrificio redentore di Cristo. Quando riceviamo la santa Comunione anche noi, come Maria e a lei uniti, ci stringiamo al legno, che Gesù col suo amore ha trasformato in strumento di salvezza, e pronunciamo il nostro "Amen", il nostro "sì" all’Amore crocifisso e risorto.
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Caterina63
00venerdì 19 giugno 2009 14:59
Il Papa apre l'Anno Sacerdotale: intervista col cardinale Arinze

Il Papa – come abbiamo detto – inaugurerà questa sera nella Basilica di San Pietro
l’Anno Sacerdotale. Benedetto XVI presiederà la celebrazione dei Secondi Vespri nella Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, che saranno preceduti da un atto di venerazione delle reliquie del Santo Curato d’Ars.

La nostra emittente seguirà in diretta l'evento a partire dalle 17.30.

Nella
Lettera pubblicata ieri per l’apertura di questo anno speciale il Pontefice propone a tutti i sacerdoti del mondo proprio l’esempio di San Giovanni Maria Vianney, che cercò di “incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica”. Sui frutti che si attendono da questo Anno indetto dal Papa, ascoltiamo il cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, al microfono di Alessandro Gisotti:

R. – Possiamo aspettarci molti frutti: la riflessione da parte dei sacerdoti e anche dagli altri membri nella Chiesa, religiosi e laici, e la preghiera perché è da Dio che viene la forza di seguire Gesù. Possiamo attenderci anche seminaristi più determinati e meglio formati.

D. - Nella Lettera per l’apertura dell’Anno Sacerdotale il Papa sottolinea che abbiamo bisogno di sacerdoti che siano “pastori secondo il cuore di Dio”. Come raccogliere questo invito del Papa all’inizio del Terzo Millennio?

R. – Il sacerdote non è stato ordinato per se stesso ma per il popolo di Dio. Quando lui si vede come ministro di Cristo, che è ministro di misericordia, lui si vedrà come pastore che viene dal cuore misericordioso di Gesù.

D. – Il Papa in tante occasioni non ha nascosto le difficoltà che tanti sacerdoti vivono oggi. Fa un richiamo anche in questa Lettera per l’Anno Sacerdotale, in particolare ribadisce l’importanza del Sacramento della Penitenza. Come riavvicinare i fedeli al confessionale?

R. - Il Papa parla del mondo di oggi dove in alcune aree culturali non tanti vanno a confessarsi, non credono di essere peccatori. Allora il sacerdote, come il Curato d’Ars, deve riportare al popolo il senso di Dio. Se accettiamo di essere peccatori possiamo dire: “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”, e non colpa di mia suocera, colpa del governo… Così, se il sacerdote stesso è convinto del Sacramento della Penitenza e lui si confessa regolarmente sarà in grado di fare i sacrifici per confessare il popolo come il Curato d’Ars che - come il Papa ha notato - sedeva in confessionale 16 ore al giorno e il resto del tempo era davanti al Santissimo.

D. - Benedetto XVI scrive nella Lettera che il celibato è un “dono da vivere in pienezza” proprio mentre anche nella Chiesa c’è chi vorrebbe metterlo in discussione. Un sua riflessione a riguardo…

R. - La mia riflessione è che il celibato sacerdotale non è un tema da discutere ma è un dono da vivere. Dobbiamo ringraziare per questo dono che non manca nella Chiesa da secoli. Ci sono quelli che invece di pregare impiegano il tempo a discutere. San Giovani Maria Vianney guardava al tabernacolo con gli occhi di un innamorato, aveva un tale amore per Gesù che la castità seguiva come conseguenza necessaria. I grandi Santi, San Giovanni Bosco, il Curato d’Ars, San Tommaso d’Aquino, San Bonaventura, loro non spendevano il tempo a discutere il celibato ma a vivere l’amore di Dio.

D. - Il Papa nella Lettera ricorda con tenerezza il suo parroco. Lei ha dei ricordi particolari di un sacerdote, di un parroco legato alla sua infanzia?

R . – Il primo sacerdote che ho conosciuto è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II. E’ il Beato Cipriano Michele Iwene Tansi. Lui ha cominciato nella nostra parrocchia nel 1939 e lì mi ha battezzato nel 1941. Io ero il suo chierichetto di Messa nel 1945. Guardando questo sacerdote si voleva essere come lui ed è molto significativo che nelle due parrocchie dove lui ha lavorato ci siano tante vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.

 Radio Vaticana


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