CRISI DEL SACERDOZIO? cerchiamo di capire le ragioni...

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Caterina63
00giovedì 18 febbraio 2010 16:19
Consigliando la lettura anche di queste sezioni:

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I Documenti della Santa Sede possono non essere condivisi dai fedeli cattolici? NO!

Libertatis Nuntius correzione alla errata Teologia della Liberazione

RISPOSTE RIGUARDANTI ALCUNI ASPETTI CIRCA LA DOTTRINA SULLA CHIESA

IL CONCILIO NELLA CHIESA

e naturalmente ulteriore materiale inserito in questa sezione dedicata all'Anno Sacerdotale in particolare:

Catechesi Magisteriali di Benedetto XVI ai Sacerdoti


in quest'Anno dedicato, appunto al Sacerdote, non potevano mancare le somme....ossia portare alla luce ciò che si dice da tempo: CRISI DEL SACERDOZIO, CRISI DELLE VOCAZIONI...ma perchè?


tenteremo di spiegarlo con alcuni testi recenti...




Patologia psichica e normalità nel prete
Bisogna vigilare
sulla propria storia

    di Giuseppe Crea

    Oggi più che mai si sente il bisogno di recuperare il senso carismatico del sacerdozio, ed è doveroso farlo nel contesto di questo Anno sacerdotale. Celebrare la dignità di tanti presbiteri dediti al ministero e alla missione pastorale vuol dire saper vigilare sul dono di questa vocazione, con un atteggiamento di conversione e di rinnovamento che tenga conto anche delle emergenze educative che a volte affiorano nel loro stile di vita.
    Gli episodi delle problematiche affettive, come anche le difficoltà psichiche derivanti da una maturazione umana frammentaria e discontinua, fanno supporre che la psicologia e le scienze umane devono essere saggiamente integrate nel processo di strutturazione della personalità presbiterale (cfr. Pastores dabo vobis, n. 71) per aiutare ogni singolo a essere fedele al progetto di Dio.

    "A volte, come già osservava san Carlo Borromeo, siamo sommersi da troppe richieste, troppe cose contemporaneamente, troppo poco tempo per prepararsi, troppe emozioni da vivere...!", diceva un giovane prete indiano, indaffarato dalla mattina alla sera con le tante emergenze del suo lavoro pastorale tra i poveri della sua parrocchia. Tornano però in mente le parole di Carlo Borromeo ai presbiteri:  "Eserciti la cura d'anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso".
    Vigilare sulla propria storia vuol dire custodire un atteggiamento di gratitudine verso Colui che chiama al servizio dell'amore pastorale. Ma, vuol dire anche, saper guardare alle proprie difficoltà psichiche con un'ottica di crescita e di maturazione, prendendo sul serio la propria storia psichica e vocazionale, per assumersi la responsabilità d'uno stile di vita che sia coerente con la scelta presbiterale.

    Sacerdoti a rischio d'immaturità psico-affettiva

    È possibile parlare di disagio psichico nella vita sacerdotale? È possibile che quanti hanno accolto l'invito del Signore a vivere un amore perfetto, sull'esempio di Cristo buon pastore, vivano un'affettività malata?
    A sollevare questi interrogativi concorrono non solo le notizie di cronaca, ma anche molti studi relativi all'affettività dei preti nel campo della pastorale. Già da tempo si sottolinea l'urgenza d'una formazione adeguata che tenga conto non solo del cammino spirituale, ma anche della maturazione umana che deve continuare lungo tutta la loro esistenza. Tutti possono avere delle carenze o dei disturbi nel loro sistema di personalità, ma tali fragilità psichiche certamente s'acutizzano in alcuni contesti specifici, come quando la persona è sottoposta a condizioni stressanti, oppure nei contesti relazionali difficili e competitivi.

    Alcuni disturbi psicologici dell'area affettiva o dell'umore sono particolarmente accentuati quando i soggetti si trovano a vivere condizioni relazionali o pastorali che mettono a dura prova la struttura psichica della loro personalità e lo stesso processo di maturazione umana. Inoltre, se la persona ha una storia psichica di vulnerabilità e di disagio, essa s'abituerà ad attivare dei meccanismi nevrotici particolarmente negativi. Facciamo un esempio emerso durante un workshop di formazione permanente con alcuni parroci di una diocesi della regione dei Grandi Laghi in Africa. Immaginiamo un sacerdote che, abituato nel contesto culturale d'appartenenza, riconosce di essere piuttosto autoritario nel modo con cui gestisce i gruppi della sua parrocchia. Le persone dicono che è un tipo che vuole sempre avere ragione, ma anche lui s'accorge del suo bisogno di dominazione, perché gli dà fastidio quando gli altri non capiscono quello che dice.
    Imponendosi nel lavoro pastorale, agli occhi degli altri egli ne ricava il vantaggio d'essere ascoltato, anche se spesso deve vivere le relazioni con gli altri in modo conflittuale. "Non so perché non mi capiscono, sembra che lo facciano apposta a mettersi contro di me!", commentava sconsolato.

    Se la persona non è consapevole di tali reazioni, rischia logorarsi o d'irrigidirsi in uno stile di vita che acutizza le sue problematiche psichiche. Infatti, per difendersi dall'ansia dei suoi vissuti emotivi, l'individuo si rifugia in comportamenti disfunzionali, di ritiro emotivo, negativismo, insoddisfazione continua, dipendenza affettiva, depressione; tutte soluzioni difensive che servono a giustificare, ma anche a normalizzare il senso d'inadeguatezza interiore, nell'illusione di poter comunque corrispondere a un ideale che vorrebbe preservare, anche se a caro prezzo. Inoltre, quando questi comportamenti disfunzionali sono associati ad altri disturbi psichici presenti nella struttura di personalità del soggetto, il disagio che ne deriva può manifestarsi in un'incongruenza profonda che si riflette sulla stessa identità presbiterale.

    Malessere psichico e prevenzione nell'ottica della maturazione

    In tutto questo l'approccio della psicologia è essenziale, perché permette di contenere le situazioni patologiche e di canalizzare la funzionalità del soggetto verso un campo d'azione propositivo che riguarda l'intero sviluppo individuale. Infatti, ci sono situazioni di particolare fragilità psichica, che destabilizzano le persone e ne limitano la funzionalità. In questi casi, ricorrere all'intervento psicologico non solo è utile, ma è anche doveroso per non protrarre i problemi all'infinito.
    Allo stesso tempo, è necessario ricordare che l'intervento dello specialista in queste situazioni particolari non può essere avulso dal processo di crescita e di conversione della persona. In effetti, molti documenti del magistero sollecitano un'apertura equilibrata e costante all'apporto delle scienze umane nei diversi settori della vita presbiterale, in particolare per sostenere il cammino maturativo e di formazione necessari per cambiare e rinnovarsi in ogni stagione della propria vita (cfr. Pastores dabo vobis, n. 53).

    Spesso però, quando la persona presenta delle difficoltà psichiche, non è facile dare una risposta univoca ai suoi bisogni di cambiamento. Per esempio, un sacerdote che suppone d'essere più capace e disinvolto degli altri nell'attività pastorale, o che deve dimostrare a tutti che lui vale, può ovviamente convalidare questa convinzione enfatizzando i suoi attributi positivi, ma anche amplificando le carenze delle persone che collaborano con lui. Se non coglie l'occasione del disagio che emerge nel suo rapporto con gli altri, rischia di perpetrare dei comportamenti disfunzionali che necessitano l'intervento d'una psicologia intesa a "riparare" il suo malessere.
    L'esigenza di guardare ai fenomeni psichici da una prospettiva propositiva e teleologica, ridà alla persona, anche quella malata, la dignità della sua condizione.


(©L'Osservatore Romano - 18 febbraio 2010)




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....cerco di leggere i fatti da una esperienza diretta che proverò a spiegare...

Freud a parte e il dramma attuale che basta avere un incubo notturno per mettersi definitivamente in psichiatria... Occhi al cielo c'è un dato oggettivo da non sottovalutare: OPPOSIZIONE... Occhiolino

da dove nasce? come si genera? PERCHE'?

I motivi sono tanti ma uno vorrei che non venisse trascurato: molti giovani e molti sacerdoti della mia età (sono del 63) hanno vissuto esperienze drammatiche come il DIVORZIO   Imbarazzato
essere figli di genitori separati specialmente nei primi anni DEL CONSENSO quando, appunto, non si era neppure "preparati" (ma non esiste una preparazione a questo, piuttosto esiste l'abitudine culturale) ad affrontare gli eventi e i figli VENIVANO MESSI IN COLLEGIO...almeno questo fino alla fine degli anni '70...

In molti giovani di allora si è formato nell'animo una sorta di SCUDO atto AD OPPORSI a qualunque cosa avesse avuto a che fare con la loro indipendenza e creatività.... una sorta, se vogliamo, di AUTOSALVEZZA a causa di un ambiente familiare che aveva precluso loro ogni SICUREZZA ED AFFIDABILITA' NELL'ADULTO GENITORE... una sorta di istinto di sopravvivenza in parte necessario per affrontare una adolescenza con i genitori separati e che avevano DISTRUTTO in essi il valore DELLE PROMESSE, DELL'OBBEDIENZA, DELLA CREDIBILITA', DELLA SICUREZZA...

NEGLI ANNI '80 HO FATTO PARTE SIA DEI GRUPPI VOCAZIONALI GIOVANILI, SIA DEI GRUPPI, DIOCESANI, PER IL RECUPERO DEI TOSSICODIPENDENTI....ALLA RADICE DI OGNI PROBLEMA C'ERA, IN GRANDE PERCENTUALE, IL DISAGIO FAMILIARE Imbarazzato
genitori separati e conviventi con altri che con il loro comportamento avevano generato in molti di questi giovani, UNA OPPOSIZIONE a tutto ciò che riguardava una Istituzione, l'obbedienza,  IL SENSO DI FIDUCIA....tutto era stato minato dalle fondamenta... e già all'epoca ricordo che la Chiesa denunciava questi fatti con grande allarme e serietà, ma chi ascoltava? Occhi al cielo

In alcuni centri vocazionali dove sono stata testimone diretta, non mancavano le vocazioni appunto, ma L'EDUCAZIONE ALLA VOCAZIONE....tanto è vero che quando molti di loro capivano che con il sacerdozio ci si inseriva in una Istituzione che non vuole oppositori alla Legge di Dio ma al contrario vuole evangelizzatori del Regno dei Cieli che porta con se coerentemente anche il fatto che è necessario obbedire... MOLTI SE NE ANDAVANO proprio come nel racconto di Gesù al ricco che gli chiede cosa avesse dovuto fare oltre già a quanto faceva: VIENI, LASCIA TUTTO E SEGUIMI....ma il ragazzo non se la sentì di lasciare quel TUTTO....è una opposizione

Abbiamo così una schiera di sacerdoti VOLENTEROSI E BUONI D'ANIMO, MA CHE NON SANNO RINUNCIARE A QUELLA OPPOSIZIONE  che conduce inesorabilmente ad agire secondo la propria visione della vita e non quella del Magistero.... idem dicasi per i Laici naturalmente...e dunque anche per gli sposi che si dicono cattolici ma che di fatto hanno sposato un termine oggi in voga da 40 anni "NON PRATICANTE " ....come se il sacerdote affermasse: sono prete si, ma LIBERO, senza praticare l'obbedienza... Occhiolino

Il testo sopra  riportato che naturalmente si rivolge al problema dell'affettività del sacerdote anche a ridosso dello scandalo della pedofilia, deve inglobare anche questa serie di problematiche che finiscono per penalizzare TUTTA la realtà che è il Sacerdote il quale appunto proviene anche lui da famiglie disagiate e con gravi problemi di separazione alle spalle... Imbarazzato

Ma non c'è bisogno della psichiatria per sollevare questo genere di problema, serve la FIDUCIA IN CRISTO E NELLA CHIESA serve soprattutto abbassare quello scudo protettivo che impone una opposizione dal di dentro e per farlo serve che nei seminari si parli chiaramente di questi problemi non usando Freud, MA I SANTI... Occhiolino

Un Sacerdote infatti non va in seminario per diventare a sua volta psichiatra, ma per essere UN ALTER CHRISTI....è qui di fronte a questa realtà SCONVOLGENTE  che il seminarista deve riuscire ad abbassare lo scudo di opposizione che si è precostituito e deve FIDARSI DELLA CHIESA non di se stesso...

Le crisi avvengono quando si finisce per confidare esclusivamente in se stessi... qui si fallisce, qui ci si OPPONE a tutto ciò che mi sarebbe invece di aiuto per superare gli ostacoli giacchè LA CHIESA SALVA, GUARISCE e a sua volta ti fa guaritore del prossimo... Occhiolino

Diventare preti una volta era molto più facile di oggi proprio perchè non ci si era complicati la vita con la psicanalisi.... Occhi al cielo oggi per diventare prete servirebbe niente meno che conoscere i nemici della fede e della ragione... Occhiolino

Non a caso don Nicola Bux scrive, citando Paolo VI (nel primo link sopra riportato), quanto segue:
“una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un Cristianesimo avulso dalla tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi”.


Cristo E' IL NOSTRO MEDICO...la vocazione al sacerdozio che Dio suscita ha già il suo medico perchè Dio NON sbaglia nello scegliere, è l'Uomo che può tradire piuttosto le aspettative di Dio quando appunto, in qualche modo, gli si oppone...

 Occhiolino




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qui riporto ora un testo interessante riportato da Paolo Rodari:

Roma, “Il carrierismo nel sacerdozio è senz’altro un male. Un male che c’è sempre stato ma che oggi sembra avere proporzioni più vaste. Altrimenti non si spiegherebbero i continui richiami di Benedetto XVI in questo senso: ‘E’ una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella chiesa’, ha ricordato recentemente il Papa”.

Massimo Camisasca, superiore generale della Fraternità San Carlo – più di cento preti missionari e una quarantina di seminaristi –, per anni portavoce di Comunione e liberazione in Vaticano, parla col Foglio a pochi giorni dall’uscita nelle librerie del suo ultimo lavoro: “Padre. Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della chiesa?” (San Paolo). Uno scritto dedicato ai preti, come uno “schiaffo” che Camisasca dà alla sua categoria perché, l’ha scritto nella prefazione al volume il segretario della Congregazione per l’educazione cattolica, Jean-Louis Bruguès, “il pronostico è cupo, ma preciso: sono molti i sacerdoti che, in Europa e nell’America del nord, hanno perso il gusto della loro vocazione. La loro vita attraversa gravi difficoltà: la solitudine pesa, il rischio di abbandono li minaccia. Che fare? La risposta è semplice, evidente e nello stesso tempo terribilmente audace: una riforma”.

Un pronostico cupo, dati alla mano, quello delle vocazioni sacerdotali: in Italia, nel 1978, i preti diocesani erano 41.627, nel 2006 si erano ridotti a 33.409, il 25 per cento in meno. Anche i sacerdoti appartenenti a ordini religiosi sono in calo: da 21.500 a 13.000, il 40 per cento in meno. Un calo che riguarda un po’ tutta l’Europa e che in certi paesi (come la Francia, il Belgio e l’Olanda) ha proporzioni drammatiche. Certo, non c’è solo il carrierismo a influire negativamente sulla vocazione sacerdotale. C’è anche dell’altro, eppure “la tentazione” – come l’ha definita il Papa – del potere e della carriera sono un male oggi evidente. Spiega Camisasca: “Ritengo che il carrierismo altro non sia che un sintomo della crisi che sta investendo il sacerdozio oggi: spesso la carriera è una delle tante modalità tramite le quali si cerca di coprire l’insoddisfazione per la propria vocazione. Un prete soddisfatto, un prete realizzato, non ha vuoti da riempire attraverso il potere”.

Camisasca non offre ricette per supplire alla crisi vocazionale dell’oggi ma dà delle indicazioni per uscirne. Indicazioni che sono un ritorno all’essenziale, a ciò di cui la vita di un prete deve essere fatta perché sia piena: silenzio, preghiera, liturgia, messa, studio, vita in comune, amicizia, castità e missione. Tante cose, ma il contrario dell’“attivismo: una delle minacce più insidiose per la vita del prete”. “L’attivismo – scrive Camisasca – è un’azione di superficie: vede dei problemi, avverte dei bisogni, cerca di rispondere. Spesso il prete che vive così si disperde in una molteplicità di direzioni e di opere”. E ancora: “Dentro l’attivismo, spesso inconsapevolmente, si nasconde l’illusione di salvare gli altri attraverso il nostro ‘fare’.
 La carità, invece, ci spinge a entrare nell’azione di Dio, a diventare collaboratori di un’opera che ci precede e ci supera”.

Benedetto XVI l’ha detto nella notte di Natale che per ogni uomo “la liturgia è la prima priorità. Tutto il resto viene dopo”. Occorre “mettere in secondo piano altre occupazioni, per quanto importanti esse siano, per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo”. E forse questo è anche il cuore del messaggio che Camisasca vuole dare nel suo libro: oltre l’attivismo, oltre il carrierismo, oltre le lotte di potere sempre presenti nella chiesa cattolica, c’è l’essenziale: una vita sacerdotale riempita da Dio, dal suo silenzio, dalla preghiera. Che poi è probabilmente ciò che affascina del prete. Ciò che ha portato, ad esempio, Chesterton a scrivere di “Padre Brown”, Marshall di “Padre Smith”, Bernanos del suo “Curato di Campagna”.


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la mia riflessione che riepilogo così:


…bè, è la medesima crisi che attraversono anche i coniugi: la donna in carriera che mina le fondamenta del nucleo familiare perchè senza la donna in casa non si può costruire una famiglia solida…Genitori dunque insoddisfatti che crescono figli insoddisfatti che alla fine molti ce li ritroviamo sacerdoti, ergo sacerdoti insoddisfatti… Certo non è il tutto, ma un piccolo aspetto non meno importante di questa situazione! Il concetto di “solitudine” non può diventare il vero problema, anche i coniugi vivono momenti di solitudine pur essendo in due o in tre o in quattro…la solitudine nel sacerdote è già stata spiegata abbondantemente dagli scritti di molti Santi, peccato che non li si ascolta mai, come per esempio la Notte dell’anima di san Giovanni della Croce…!

Il problema è che quanto più si è voluto dal sacerdote la sua identificazione con il mondo e non più con la Chiesa e il cielo, tanto più egli ha incarnato i problemi del mondo e non certo l’antidoto che è quell’incarnare Cristo, divenire L’ALTER CHRISTI…
E’ necessario che in una eventuale riforma dei seminari si ritorni ad insegnare al seminarista il Mistero che è destinato ad incarnare per essere a sua volta Servo dell’Uomo come lo fu Cristo il quale NON conosce alcuna crisi…

Per troppi anni, da dopo il Concilio, si è preteso e voluto un prete UOMO… dove il concetto di servizio fosse tutto di livello SOCIALE, e i risultati non potevano che essere devastanti!
Perchè uno dovrebbe farsi prete, infatti, se anche da laico può servire il prossimo?
Ecco che il senso liturgico E’ LETTERALMENTE SCOMPARSO…ed è da qui che è maturata la crisi delle vocazioni non certo dalle situazioni di solitudine o altro, è dalla mancanza di LITURGIA, dalla carenza di preghiera e adorazione davanti al Santissimo, la carenza di preti che dicano il Rosario e che davvero portino il Cristo la dove c’è la disperazione…

La crisi c’è perchè il prete oggi fa di tutto, fuorchè il prete!
Così come c’è la crisi matrimoniale da quando i genitori hanno smesso di fare i genitori e i coniugi hanno smesso di fare i coniugi…

 Imbarazzato



Caterina63
00giovedì 18 febbraio 2010 16:23
...vi invito ad una ulteriore provocazione....

prendo dal blog Vitae Fratrum di alcuni novizi Domenicani che hanno ricevuto questa email e l'hanno postata come riflessione... a seguire posterò la mia risposta, ma dal link potrete leggere altri interventi:


Numeri e vocazioni: riceviamo e pubblichiamo
 
In seguito al post sui "numeri delle vocazioni", ho ricevuto questa e-mail che pubblico molto volentieri.

Ciao Luca,

ti scrivo qualche considerazione rispetto a come vedo il problema delle vocazioni.
Prima cosa, io non faccio distinzione tra vocazioni diocesane o di ordine religioso... non conosco cosi bene gli ordini religiosi per ipotizzare delle spiegazioni a riguardo del calo vocazionale. Credo che il problema sia generale e non solo di un "Ente", quindi ne parlo a livello generale.

Ciò che leggerai di seguito sono riflessioni mie personali, non mi sono documentato nello specifico, ma racconto un pò la mia esperienza nel campo, dei confronti che ho avuto con altre persone in merito alla questione che ponevi.
Ti scrivo a punti, cosi dovrebbe essere più facile:

1)L'essere prete non è più un ruolo di prestigio, una volta comandava: il sindaco, il dottore e il prete del paese. Il prete ha perso questo ruolo dagli anni 80 in poi, si fanno preti solo giovani veramente convinti di quello che cercano. L'essere prete non è più cosi ruolo aristocratico e segno di cultura.

2)Chi era povero o proveniva da una famiglia numerosa, spesso entrava in seminario per essere aiutato nel mantenimento, questa cosa faceva sì che uno entrasse laico e uscisse prete. Spesso le vocazioni erano dovute più allo stato di bisogno della famiglia che a un affidarsi per sempre a Dio.

3) Dagli anni '70 la gente ha iniziato a ribellarsi al potere della Chiesa. Sono iniziate le prime denunce contro il clero, le prime accuse di predicare bene e razzolare male, sono iniziate le accuse alla chiesa di non far nulla per la povertà e di possedere molte ricchezze.

4) Completamente assente una pastorale vocazionale. Gli unici che facevano propaganda vocazionale erano i missionari e i frati, che una volta al mese passavano di casa in casa lasciando opuscoli e informazioni sul loro ordine, cercavano poi ti coinvolgerti in campeggi o in altre attività. L'attività vocazionale dei diocesani non è stata un gran che....

5) Lo scandalo degli abusi sessuali dei preti, a partire dagli anni 2000 è emerso questo fenomeno, ma già se ne parlava molto prima...,i laici perdono fiducia in coloro che compiono questi atti....e purtroppo, spesso si generalizza il tutto: prete=pedofilo.

6) L'impronta sessuale: negli anni si è sviluppata una sessualità con sempre meno tabù... quindi si preferisce una sessualità fisica a una castità... si preferisce il prete sposato a quello celibe, ma se questo la Chiesa non lo permette, non si hanno preti...

7) I laici hanno sempre più preso posto e posizione all' interno della Chiesa....dai diacono permanenti ai ministri dell' eucarestia, ai catechisti.... questo a mio parere ha fatto si che le persone più volonterose, anzichè mettersi in discussione se fare preti o suore hanno deciso di fare altri servizi all' interno della Chiesa, a questo punto non serve farsi preti per sentirsi vivi e partecipi nella comunità cristiana, o forse per essere comunque più liberi a livello sessuale.

8) Forse più semplicemente la gente si rende sempre più conto che fare il prete, la suora, il consacrato è un impegno veramente pesante e pochi sono disponibili a seguirlo.

9) Che il C.V.II abbia avuto effetti negativi sulle vocazioni, questo io non lo so affermare nè contestualizzare, certo però che con il Vaticano II si è permesso ai laici di mettersi maggiormente in discussione sulle cose poste/imposte dalla Chiesa, il mettersi in discussione ha permesso maggior criticità nei ruoli e nelle posizioni assunte dalla Chiesa.

Ciao ciao e buona preghiera
M.

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Rispondo all'autore del testo M. seguendo la sua stessa numerazione:

1) assolutamente falso questo concetto del prestigio...basti pensare al Santo Curato d'Ars, o allo stesso Beato Giovanni XXIII o ad Albino Luciani...la loro provenienza, la fatica per diventare prete, l'impegno, l'amore e la passione per diventare PARROCI DI CAMPAGNA...basti pensare a san Filippo Neri che lascia Torino, si stabilisce a Roma e si dedica ai bambini romani senza famiglia e senza casa...
e la lista è lunghissima, ergo mi associo alle recenti denuncie del Pontefice contro l'attivismo e il carrierismo DI STAMPO RECENTE che davvero ha messo in crisi le Vocazioni perchè un prete che NON passa le ore nel Confessionale o in ginocchio davanti al Tabernacolo, perde col tempo la sua missione e la stessa vocazione e non da testimonianza...

2) è troppo semplicistico ridurre le vocazioni del passato solo a necessità e bisogni come ad escludere LA CHIAMATA E LA VOCAZIONE, anche qui le testimonianze che raccontano i dettagli di una CHIAMATA vera e propria sono a migliaia...
il "non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" di Gesù, è sempre valido, anche oggi, solo che oggi si è diventati più sordi, come si è sordi alle richieste del Pontefice in tema Liturgico...etico e morale...

3)mi unisco alla risposta sopra: la ribellione è contro DIO, la Chiesa è sempre stato il capro espiatorio (come Cristo del resto) per rivendicare i propri diritti escludendo quelli di Dio.... da qui le conseguenze! La povertà dal Cristo è ben altra cosa dal momento che egli stesso promette il centuplo già da qui, sulla terra, a chi lo segue e non si riferisce al denaro, ma a quel "NULLA VI MANCHERA'" inoltre attenzione, si vuole una Chiesa povera economicamente proprio per IMPEDIRLE di evangelizzare perchè si sa che per organizzarsi e VIVERE il denaro è necessario, le case sono necessarie, i libri sono necessari... un conto è la ricchezza sfrenata privata del suo uso evangelico, altra cosa è appunto essere ricchi e non appartenere a Dio...

 4) su questo punto concordo....^__^
oggi ci si affatica tanto per non raccogliere nulla...come mai? Io credo che le pastorali vocazionali non mancano di per se, ma sono fatte male, sono proiettate esclusivamente sul sociale e non rendono chiaro il mistero del divenire "l'Alter Christi"...perchè i seminari e gli Istituti "tradizionali" pur affaticandosi di meno rispetto ai soldi spesi dalle Diocesi ( tradizionali in comunione con la Chiesa per esempio) raccolgono in proprorzione più vocazioni? ;-)

5)gli scandali esplosero negli anni '90 perchè venivano a galla...ad ogni modo questa è solo una scusa...il problema seppur grave non può compromettere il resto è come se da domani non ci sposasse più perchè tanto ci sono i divorzi...ed effettivamente ciò già avviene, ma è appunto una scusa...

6) altra scusa come sopra....il celibato dimostra ancora oggi il suo valore così come lo dimostrano la fedeltà dei coniugi...il problema non è nel celibato, ma nella carente testimonianza non solo effettiva ma anche TEOLOGICA con le molte infiltrazioni di frasi rapite qua e la di vescovi e perfino cardinali compiacenti a forme di sacerdozio private di questa virtù... Occorre RITORNARE alla serietà della vocazione.. e non al fatto di vederla come una sorta di mestiere a servizio dell'uomo giacchè si è prima AL SERVIZIO DI DIO sposando la Chiesa...e il sacerdote diventa così PADRE...

7) concordo, non è recentissimo infatti che il Papa stesso parlando ai vescovi del Brasile ha sottolineato l'importanza che i preti TORNINO a fare i preti e i laici a fare i laici...occorre che ognuno rimanga al suo posto ^__^

 8) credo che il problema sta NELL'IMMAGINE....si, spesso ci si innamora DI UNA IMMAGINE DI CRISTO E DELLA CHIESA e non del Corpo vero e autentico...^__^ spesso si vive un amore platonico e al risveglio ecco la delusione...

9) Il Concilio è diventato il capro espiatorio per coprire una moltitudine di errori di cui oggi si preferisce non parlare...c'è chi difende il Concilio gridando "viva il concilio" ma di fatto non ha ancora capito che se in esso si scardina Calcedonia, Nicea, Firenze, Trento o il Vaticano I tanto per citarne alcuni, si finisce con l'usare il Concilio per una CHIESA NUOVA che abbia una teologia NUOVA, una liturgia NUOVA, una catechesi NUOVA dove nuovo non sta per riforma come sarebbe più naturale per la Chiesa, ma starebbe per VIA L'ANTICO, VIA LA VECCHIA TEOLOGIA, VIA IL SACERDOZIO PASSATO...ecc..

Un consiglio? si legga con meditazione padre Tomas Tyn O.P. di venerata memoria proprio sugli errori del DOPO Concilio...
^__^


e visto che si parla di "riforma dei seminari" andrebbero con essi riformati anche i "formatori" e le varie iniziative vocazionali... ^__^
tanto per intenderci ritornare all'Haerent Animo o, citato dal card. Bertone, il beato Pio IX nella sua "Nemo certe ignorat" quando dice:

"Ognuno di voi sa benissimo quanto sia importante per la Chiesa, soprattutto in tempi tanto avversi, avere ministri idonei, che non possono venire se non da chierici ottimamente formati. Perciò, venerabili fratelli, non desistete mai dal dedicare tutte le vostre cure e i vostri pensieri con indefesso zelo, affinché gli adolescenti chierici, fin dai primi anni, siano tempestivamente educati ad ogni pietà, virtù e spirito ecclesiastico, e siano accuratamente istruiti sia nelle umane lettere, sia nelle più severe discipline, specialmente quelle sacre…’”.

non credo che sia un caso che il cardinale Bertone abbia usato questo passo nell'Omelia di questo 8 febbraio per la Memoria Liturgica...
;-)

Caterina63
00giovedì 18 febbraio 2010 17:50

Per esempio? ...di recente il Seminario maggiore di Torino ha pubblicato una emerita (non saprei come definirla) sui requisiti che dovrebbero avere i "nuovi" candidati al sacerdozio...è una vera offesa alla ragione oltre che alla fede, scrivono:
 
dal blog del predetto seminario, "Il Tesoro nel Campo", leggiamo:
 
Pro Vocazione

Qualcuno a volte ci chiede quali siano i requisiti per entrare in seminario. E quali gli eventuali impedimenti. In modo arbitrario e parziale mi soffermo oggi su alcuni aspetti che mi sembrano normalmente sottovalutati.

In seminario, non cerchiamo persone rigide,
bloccate sui propri schemi,
disinteressate al confronto e al dialogo.

Non stiamo cercando individui
che disprezzino questi nostri tempi,
e con essi gli uomini e le donne che li abitano.

Non ci interessano censori e giudici,
incompetenti della misericordia di Dio,
sempre pronti a condannare
e a trovare nemici della fede e della Chiesa.

Non stiamo cercando giovani nostalgici del Concilio di Trento,
a metà strada tra l'immaginario barocco e il narcisismo del postmoderno. E troviamo poco credibili quelle persone che sono contemporaneamente estimatori sinceri del Papa e spietati detrattori del proprio Vescovo.

Non cerchiamo neppure le avanguardie, proiettate sul futuristico Vaticano III, picconatori o bombaroli, troppo spietati e intelligenti per accontentarsi di questa povera santa Chiesa.


***
 
è solo un passo....ma assai eloquente e DRAMMATICO...il bello è che tale Seminario nasce proprio con un Decreto al Concilio di Trento... ma guai a dimostrare nostalgia o amore per quel Concilio, si perderebbe la candidatura...certamente qui si intende una "nostalgia" negativa, probabilmente per colpire i così detti "tradizionalisti".... ma in questa lista suona davvero male, stona quando la stessa Sacrosanctum Concilium cita Trento, quel Concilio, e più di una volta, per riaffermare valori teologici dottrinali nella continuità liturgica...
Si può essere dunque anche favorevolmente nostalgici in modo positivo dopo tanti anni di negatività del nostro passato ecclesiale...

ma... Occhi al cielo il problema è che loro stessi sono così diventati  censori e giudici, lo stesso curriculum è già in se UN GIUDIZIO....
tra l'altro questo dimostra che LA CHIAMATA NON VIENE DA CRISTO MA DA UN CURRICULUM IMPOSTO SECONDO UNO SCHEMA...
i requisiti infatti, descritti per il sacerdozio, sono già una Norma, una normativa DELLA CHIESA e non implicano affatto quanto sopra riportato, sarebbe del resto la chiusura alla ragione stessa, al confronto e al dialogo, al dibattito per altro tanto invocato proprio da questo modernismo...

i requisiti per entrare in seminario sono principalmente:

- LA FEDE e fiducia in Cristo  CHE MI HA CHIAMATO ! (completamente assente nel curriculum)

- L'UMILTA' di capire se questa chiamata che sento è autentica, ergo MI FACCIO AIUTARE ed entro in un ambiente che sostenga LA MIA MEDIZATIONE... (completamente assente nel curriculum)

- LA CARITA' SENZA PREGIUDIZI (assente nel curriculum visto che si pone con uno schema della carità PILOTATO) e la Carità NELLA VERITA', la prima forma della Carità è infatti la Verità....

- AMORE PER LA CHIESA..... requisito INDISPENSABILE per attivare le virtù dell'obbedienza e della pazienza...innamorarsi NON di una immagine di Chiesa preconfezionata dalle proprie idee ed opinioni, ma innamorarsi di questo CORPO che sulla Croce si è reso visibile nella pienezza di questo Amore che chiama alla vozacione....

Insomma...il curriculum si premunisce di NON avere tra le sue file delle PERSONE forse anche un pò rigide, magari anche un pò amanti del barocco e del CANTO GREGORIANO....magari anche un pò nostalgici, persone limitate e difficili PER LA LORO MENTALITA' ma potrebbe esserci dietro una AUTENTICA CHIAMATA che grazie al curriculum gli verrebbe preclusa...


Comunque sia, il diavolo fa le pentole e non i coperchi...è evidente che a chi ha scritto questo curriculum è sfuggito che gente così NON entrerà MAI, di propria iniziativa, in questo seminario e di fatti i numeri parlano chiaro....ossia che ben altri seminari che si occupano più di altri requisiti son quelli che SI RIEMPIONO e i loro restano scarni... continuando ad alimentare la divisione, la rottura, l'incomprensione...l'astio verso quei giovani attirati anche dal canto Gregoriano e perchè mai vergognarsene? Non si innamora forse un uomo della propria donna anche dal suo aspetto, magari dalla voce canterina, magari da uno sguardo particolare, magari perchè veste elegantemente?

Chi ha scritto questo curriculum dovrebbe rileggersi Osea, il libro della Bibbia...così come il Cantico dei Cantici... e riscoprire magari il valore autentico anche della Bellezza esteriore....Occhi al cielo


chi non fosse convinto di ciò, si rilegga i tanti interventi di Ratzinger sulla Liturgia...

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E ancora....a Parma sono in crisi di Vocazioni e cosa si inventano? aprire le porte del Seminario Minore alle RAGAZZE....certo non per farle diventare sacerdoti, ma per fare esperienza vocazionale...


DAL SITO DELLA DIOCESI DI PARMA:

In Seminario Minore
(v.le Solferino 25, tel. 0521.960628)

Si tratta di gruppi maschili o femminili che vogliono aiutare chi partecipa a vivere il cammino della crescita con proposte concrete di vita comunitaria, di servizio, di spiritualità, di dialogo e accompagnamento personale. L’obiettivo ultimo è l’approdo alla maturità umana e cristiana che corrisponde alla scoperta e alla adesione generosa alla propria specifica, originale, personale vocazione.

I cammini sono segnati da tappe intermedie che tengono conto dei dinamismi di crescita, in particolare di quelli legati all’adolescenza, età delicata, decisiva e difficile.

Per cui ogni giovane è aiutato:

•a scoprire se stesso senza chiudersi in se stesso
•ad aprirsi agli altri senza diventare dipendente o succube degli altri
•a scegliere i valori autentici della vita e del Vangelo senza superficialità, ambiguità o confusione.
I cammini sono pensati per integrare e supportare quelli ordinari, parrocchiali o associativi, dove ogni ragazzo/a è invitato/a a portare la propria testimonianza di cammino e scoperta personale della fede.

I gruppi sono diversificati per età e cadenza degli incontri.

Gruppi maschili

"Venite e vedrete": per ragazzi dalla 5a elementare alla 3a media. Un week-end al mese, campo invernale e campo estivo.

"Seguimi": per giovani dalla 1a alla 5a superiore. Un appuntamento settimanale, il mercoledì, con pranzo insieme, gioco e incontro formativo. A questo si aggiungono esperienze di servizio insieme e alcune settimane nell’anno di vita comunitaria più intensa.

Gruppi femminili

" Seconoscessi il dono di Dio"  - arancioni - : per ragazze dalla 4a elementare alla 1a media. Un week-end al mese e campo estivo.

"Se conoscessi il dono di Dio" - blu - : per ragazze dalla 2a media alla 1a superiore. Un week-end al mese; campo invernale, campo estivo, esperienze di servizio.

"Se conoscessi il dono di Dio" - blu-issime - : per ragazze dalla 2a alla 5a superiore. Un appuntamento settimanale, il giovedì, con pranzo insieme, gioco e incontro formativo. A questo si aggiungono esperienze di servizio insieme e alcune settimane nell’anno di vita comunitaria più intensa.


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Chiariamo subito l'errore devastante dell'iniziativa...il termine stesso SEMINARIO MINORE, inteso cattolicamente e gestito dalla Diocesi ha come compito NON LA PSICANALISI DEL BAMBINO/A E DELL'ADOLESCENTE, MA LA FORMAZIONE ALLA VITA SACERDOTALE

Io avrei capito gruppi di attività della Diocesi aperti a tutti, ma NON dentro UN SEMINARIO equiparando i corsi, ce' scritto chiaro, le attività senza DIVERSIFICARE....
equiparare la VOCAZIONE SACERDOTALE A QUALSIASI ALTRA VOCAZIONE (per quanto lodevole) LA SNATURALIZZA... Imbarazzato

il fatto che i ragazzi, come si legge:
quanto alla difficoltà di molti giovani, oggi, nel ricercare ed accettare la propria vocazione. Molti hanno paura a prendersi dei rischi, hanno paura a sposare il Signore, anche se sentono che è ciò che vogliono. E su questo ha decisamente inciso il mondo di oggi”.

non è solo "paura", i giovani di oggi sono invece molto più DECISIONISTI di quanto lo fossimo noi alla loro età...quanto piuttosto non si decidono PERCHE' SONO CONFUSI.... a cosa mi serve diventare sacerdote se la vocazione sacerdotale equivale ALLO STESSO PERCORSO DI UNA QUALSIASI VOCAZIONE INTRAPRESA ANCHE DALLE RAGAZZE?


FUGGIRE LE TENTAZIONI E LE OCCASIONI è un modo di EDUCARE IL GIOVANE ALLA RINUNCIA PER UNA CHIAMATA PIU' GRANDE...
io COME DONNA E SPOSATA E MAMMA SO PERFETTAMENTE CHE LA MIA VOCAZIONE è GRANDE, MA SENZA SACERDOTE NON AVREI CRISTO, NON AVREI I SACRAMENTI....E SENZA FAMIGLIE NON CI SAREBBERO SACERDOTI...sono due Sacramenti DISTINTI CON PERCORSI DIVERSI, CON PROBLEMATICHE DIVERSE, CON SUPPORTI DIVERSI, CON RISOLUZIONI DIVERSE....CON ESIGENZE DIVERSE...


Sta cosa di EQUIPARARE TUTTO con l'uguaglianza è devastante...confonde i giovani...

All'appello di queste attività mancano gli incontri DI PREGHIERA, DI ROSARIO E DI ADORAZIONE EUCARISTICA, certamente, nessuno dubita che ciò sarà fatto, ma non viene messo nella lista delle priorità, saranno un RIEMPITIVO perchè il supporto principale è l'aggregazione:
- il gioco;
- il pranzo insieme;
- la formazione...

Manca tutto il resto e soprattutto manca per i giovani maschi la loro caratteristica vocazionale che non si distingue per nulla dagli incontri al femminile...

E ci lamentiamo ancora della crisi delle VOCAZIONI?

Un ulteriore riflessione:

CRISI DEL SACERDOZIO è un termine improprio, il Sacerdozio infatti è perenne e mai in crisi
...
in crisi è l'Uomo, in crisi è la sua scelta, in crisi sono le sue Promesse Battesimali, in crisi NON è la Chiamata di Dio ma bensì IL NOSTRO ASCOLTARE E' ENTRATO IN CRISI...
in crisi sono i formatori dei seminari....
che questo sia ben chiaro...



Caterina63
00sabato 13 marzo 2010 09:19

Le cause del declino delle vocazioni

Il sociologo delle religioni Massimo Introvigne, in un convegno alla Lateranense sul sacerdozio, lo scorso 11 marzo, ha presentato queste interessantissime riflessioni che, tra le altre cose, forniscono supporto empirico e scientifico (nei termini della scienza sociologica) a quel che noi tradizionalisti sappiamo fin troppo bene: ossia che la rivoluzione postconciliare è la CAUSA, e non certo il RIMEDIO, dell'attuale disfacimento nella Chiesa. Spesso sostengono i progressisti che i problemi della Chiesa derivano da un'insufficiente modernizzazione e apertura al mondo, e concludono dicendo che, senza le innovazioni del Concilio (che in realtà son quasi tutte del postconcilio, ma lasciam correre), la situazione sarebbe peggiore. Contro questo argomento, ricorrente, soccorrono ora analisi come quella che segue. Ma prima ancora, a livello più generale, basta una semplicissima osservazione. Nel cattolicesimo, in quali nazioni la situazione della fede è peggiore (meno pratica, meno vocazioni, meno battesimi ecc.)? In quelle del Nordeuropa, dove maggiore è stata l'impronta progressista (in Italia, ad es., siam messi un po' meno peggio): pensiamo a Olanda, Belgio, Germania, Francia... E più in generale, confrontando le religioni, quali decrescono e quali avanzano? Nel primo gruppo: luterani, anglicani, calvinisti (che hanno aperto al divorzio, all'eutanasia, alla contraccezione se non addirittura all'aborto, ai matrimoni gay, ecc.). Nel secondo gruppo: evangelici, pentecostali, musulmani... religioni rigide ed inflessibili. E' innegabile che c'è una relazione biunivoca tra modernismo e perdita del senso religioso.


L’analisi di alcuni mutazioni antropologiche che sembrano di particolare rilievo per un accostamento sociologico ai problemi che il sacerdozio cattolico incontra oggi è condotta in questo contributo secondo i principi della teoria sociologica detta dell’economia religiosa. I fondatori di questa teoria sono i sociologi statunitensi Rodney Stark, Roger Finke e Laurence R. Iannaccone, e il punto di partenza del loro metodo è l’idea che alla sociologia delle religioni sia possibile applicare con frutto modelli che derivano dagli studi sull’economia. Il “campo religioso” è studiato anche come una forma di “mercato” in cui organizzazioni in concorrenza fra loro si contendono la fedeltà di “consumatori religiosi”. La teoria può sembrare brutale e perfino “scandalosa” in alcune sue formulazioni: va interpretata con un certo beneficio d’inventario, non senza affiancarle altri modelli interpretativi. Quella del “mercato religioso” non può che essere una metafora, un utensile metodologico, se non si vuole correre il rischio di ridurre la religione a un prodotto fra altri. Con queste precisazioni, la teoria si è rivelata però spesso utile come strumento sia d’interpretazione ex post sia di previsione ex ante.

Occorre, del resto, sgomberare il terreno da un equivoco frequente in tema di teorie dell’economia religiosa. Potrebbe sembrare che queste teorie s’interessino solo di come è “venduto” ciascun “prodotto” religioso, trascurando le dottrine. È precisamente il contrario. Proprio se si applicano modelli mutuati dalla scienza economica non ha senso ignorare le dottrine, perché sono le dottrine il “prodotto” che le “aziende religiose” offrono. Sarebbe come occuparsi del mercato delle automobili ignorando le automobili. Scrivono Stark e Finke che “nella pratica i comportamenti religiosi e la teologia sono collegati. Contrariamente alle proteste dei nostri critici meno attenti secondo cui il nostro accostamento riduce semplicemente la religione al marketing, abbiamo sempre sostenuto che l’incapacità di alcune denominazioni, quelle ‘progressiste,’ di ‘vendersi’ con successo trova le sue radici nelle loro dottrine – solo vivide concezioni di un soprannaturale attivo e provvidente possono generare un’atmosfera religiosa vigorosa” (Stark e Finke 2000a, 257-258).

Le teorie dell’economia religiosa si sono occupate anche del sacerdozio e della vita consacrata cattolica. Corre quest’anno il decennale di uno studio molto famoso e anche discusso – che vorrei particolarmente analizzare in questo intervento – pubblicato nel numero di dicembre del 2000 della Review of Religious Research, organo della Religious Research Association, dagli stessi Stark e Finke, con il titolo Catholic Religious Vocation: Decline and Revival, “La vocazione religiosa cattolica: declino e risveglio” (Stark e Finke 2000b). A giusto titolo, questa ricerca è stata considerata un esempio tipico e paradigmatico di come “funziona” in concreto il metodo dell’economia religiosa. Potrà essere il punto di partenza anche per le nostre considerazioni.

I due sociologi prendono in esame la caduta libera delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile cattolica in sei Paesi – Stati Uniti d’America, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda – nei trent’anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II e ne indagano le cause. Dal punto di vista quantitativo, la caduta è stata indubbiamente spettacolare soprattutto fra i candidati al sacerdozio – da -81% in Olanda a -54% in Gran Bretagna –, quindi fra le vocazioni religiose maschili, da -82% in Gran Bretagna a -68% in Francia, nonché, in misura minore, fra quelle femminili: da -51% in Olanda a -43% in Gran Bretagna (ibid., 125-126). Per una serie di ragioni metodologiche – prima fra tutte la popolarità dei gender studies nella sociologia delle religioni di lingua inglese – la maggior parte degli studi si sono concentrati, più che sui sacerdoti, sulle suore, e sono stati dominati dai lavori dalla sociologa dell’Università di Houston Helen Rose Ebaugh (a partire da Ebaugh 1977; Ebaugh 1993) e dei suoi allievi. Secondo la Ebaugh, il numero delle suore è diminuito a causa delle maggiori possibilità offerte alle donne cattoliche — cui la scelta della vita religiosa offriva in precedenza opportunità uniche di mobilità verso l’alto — nei campi dell’educazione e del lavoro secolari.

Stark e Finke nella ricerca citata contestano questa conclusione della sociologa di Houston. Pur riconoscendola come “elegante” e bene argomentata (Stark e Finke 2000b, 126), i due teorici dell’economia religiosa sospettando che la tesi della Ebaugh abbia qualcosa a che fare con la sua stessa biografia di ex-suora (dell’ordine della Divina Provvidenza) sposata e non sia completamente confermata dai dati empirici. E questo per diverse ragioni, di cui tre decisive. Anzitutto, perché negli stessi anni insieme al numero di vocazioni religiose femminili è diminuito anche quello delle vocazioni maschili sia religiose sia sacerdotali – anzi, quest’ultimo in misura maggiore –, che non dovrebbe avere relazioni dirette con le opportunità di realizzarsi nella vita secolare offerte alle donne. Tra l’altro le mutazioni sono “recenti” fra virgolette – come nel titolo che gli organizzatori hanno assegnato a questa comunicazione – perché la ricerca di Stark e Finke mostra come la caduta davvero impressionante negli Stati Uniti delle vocazioni maschili inizi alla fine degli anni 1960 e abbia i suoi tassi più significativi in un’epoca precedente agli episodi di pedofilia attribuiti a sacerdoti, i quali dunque – per quanto possano avere contribuito alla crisi vocazionale – non ne sono la causa principale.

In secondo luogo la tesi della Ebaugh non appare convincente perché applicando gli “indici” costruiti dalla sociologa del Texas per misurare le “possibilità secolari” offerte alle donne, si conclude che queste “possibilità” aumentano in modo continuo almeno a partire dal 1948. Ma, dal 1948 al 1965, pur crescendo le possibilità di educazione e carriera secolari offerte alle donne negli Stati Uniti, cresce anche il numero di suore. Dal 1965 in poi, le “possibilità secolari” continuano a crescere, ma il numero di suore invece diminuisce.

Infine, mentre il processo di crescita delle “possibilità secolari” – anche per i cattolici americani di sesso maschile, le cui comunità hanno conosciuto una notevole mobilità sociale verso l’alto – è graduale e continuo, la caduta del numero delle vocazioni è repentina e discontinua, e avviene principalmente nel quadriennio 1966-1969, con successiva stabilizzazione verso il basso fino almeno alla fine del XX secolo. Finke e Stark ne concludono che si deve cercare come causa principale del declino delle vocazioni un avvenimento, o una serie di avvenimenti, che si è verificato nella seconda metà degli anni 1960 in modo improvviso e che ha coinvolto sia gli uomini sia le donne cattoliche. Questo avvenimento, secondo i due sociologi americani, può essere solo l’insieme di fattori che derivano dalla crisi successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II, come è noto particolarmente grave negli Stati Uniti. Applicando il modello dell’economia religiosa, Stark e Finke affermano che, con questi avvenimenti, i costi della scelta sacerdotale e religiosa cattolica sono diminuiti in modo marginale – forse la disciplina si è rilassata, ma la struttura fondamentale improntata a rinuncia al matrimonio, povertà e obbedienza è rimasta ben presente – mentre i benefici sono diminuiti in modo repentino e drammatico. La crisi postconciliare ha reso meno viva sia la communitas all’interno dei presbiteri e dei conventi, sia la stima unica di cui le figure sacerdotali e religiose godevano all’interno del mondo cattolico in generale, anche in forza della loro “separatezza” segnata da particolari caratteristiche distintive.

Giacché la teoria dell’economia religiosa postula che le scelte vocazionali non si sottraggono alla normale dinamica di una stima implicita del rapporto costi-benefici, Finke e Stark concludono che questo rapporto è stato improvvisamente e drammaticamente alterato negli anni tumultuosi del postconcilio statunitense, evidentemente sia per gli uomini sia per le donne. Lo stesso Benedetto XVI ha notato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale, la ‘funzionalità’ diviene l’unica decisiva categoria”, “la concezione cattolica del sacerdozio” ha rischiato “di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale” (Benedetto XVI 2009a). La visione esclusivamente funzionalistica del sacerdozio, che ne attenua l’unicità e la visibilità – mentre per Benedetto XVI la concezione “sacramentale-ontologica” e quella “sociale-funzionale” non devono essere “contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno” (ibid.) – deriva certamente da condizioni esterne alla Chiesa, ma ha pure cause interne: “anche all’interno della coscienza ecclesiale”, afferma il Papa.

È possibile una controprova empirica. Se si paragona la situazione dei sei Paesi studiati da Stark e Finke con quella del Portogallo, della Spagna e dell’Italia – trascuriamo la Polonia, la Lituania o Malta, dove giocano fattori nazionali identitari che rendono il paragone con gli Stati Uniti o il Nord Europa meno omogeneo – ci si accorge che dopo il 1965 in questi Paesi il numero di vocazioni, se diminuisce, non lo fa con lo stesso ritmo drammatico. Qui il declino delle vocazioni sembra essere stato frenato anzitutto da ragioni di tipo culturale: le figure sacerdotali e religiose continuano a godere di autorevolezza e stima confermata da numerose indagini statistiche e anche dalla cultura popolare. Pensiamo a come nei film e negli sceneggiati televisivi in Italia i sacerdoti e le suore siano rappresentati in modo in genere più favorevole rispetto ai prodotti di Hollywood. Ma è anche vero che in Italia o nella penisola iberica la crisi e il dissenso postconciliari, pure non assenti, non hanno raggiunto quel grado di virulenza bene illustrato per gli Stati Uniti da un piccolo libro giustamente famoso e influente del grande filosofo e romanziere cattolico recentemente scomparso Ralph McInerny (1929-2010), What Went Wrong With Vatican II (McInerny 1998).

Non si deve naturalmente esagerare la tenuta dei dati quantitativi relativi alla Chiesa Cattolica in Paesi come l’Italia. Sappiamo che anche qui ci sono problemi, non solo in tema di sacerdoti ma anche di fedeli. Tra l’altro i dati sulla partecipazione alla Messa, che non è l’unico indice dello stato di salute sociologico di una Chiesa ma è considerato da molti il più significativo, devono tenere conto del cosiddetto over-reporting, cioè della discrepanza fra quanti affermano di andare a Messa tutte le domeniche nelle survey condotte per telefono o via questionari e quanti di fatto sono contati alle porte delle chiese in un week-end tipo. Sono in grado di anticipare i risultati di una ricerca, non ancora pubblicata, da me diretta nel 2009 nella diocesi siciliana di Piazza Armerina, che comprende oltre al capoluogo alcuni grossi centri come Enna e Gela. Questa ricerca ha cercato di superare obiezioni metodologiche rivolte a precedenti studi analoghi e ha combinato una survey telefonica (metodo CATI) con una rilevazione molto minuta dei presenti a tutte le Messe in un week-end considerato tipico, considerando anche le celebrazioni di piccoli gruppi e movimenti e perfino le comunioni portate a casa ai malati. Ebbene nell’area della ricerca dichiara di andare a Messa almeno una volta la settimana il 30,1% della popolazione (il 33,6% afferma di partecipare alla Messa o ad altri riti religiosi ma si deve considerare un 3,5% di fedeli di confessioni religiose non cattoliche, in un’area che ha una forte presenza di protestanti pentecostali). La rilevazione alle porte delle chiese ha attestato una frequenza del 18,3%.

Leggendo questi dati occorre evitare la tentazione di considerare la rilevazione come lo strumento che ci permette di scoprire i praticanti “veri”, nella specie il 18,3%, contrapposti a ipotetici praticanti “falsi”, il 30,1%. Al dato statistico non va fatto dire più di quello che effettivamente dice. Anche il risultato della survey telefonica è a suo modo importante, oltre che in linea con survey italiane precedenti, e non è “smentito” dalla rilevazione. Indica un’intenzione e un’aspirazione a partecipare alla Messa che è di assoluto rilievo per ogni discorso sull’identità e l’identificazione dei cattolici della zona. Ci sono poi, emerse dalla stessa ricerca, le cerchie più vaste dei praticanti occasionali (51,4%) e dei cattolici che dichiarano di sentirsi parte della Chiesa (92,2%), dato quest’ultimo a sua volta inferiore al numero dei battezzati, il quale comprende pure persone che dopo il Battesimo hanno aderito ad altra religione o che si dichiarano non credenti. Una situazione, come si vede, complessa. Ma che mostra come anche in Italia i “numeri della crisi” meritino qualche riflessione.

Un’altra controprova delle tesi di Stark e Finke, sulla cui pista metteva precisamente già la loro ricerca del 2000, consiste nel fatto che dove è promossa, in particolare a partire dagli anni 1990, una vita religiosa e sacerdotale più immune dalla contestazione, più vivace e calorosa e più fedele alle indicazioni del Magistero della Chiesa, lì le vocazioni riprendono ad aumentare. Questo si verifica in comunità e ordini religiosi considerati – almeno nel linguaggio giornalistico – “conservatori” e anche in alcune diocesi statunitensi. In base a certi parametri, già Stark e Finke costruivano nella loro ricerca due elenchi, uno delle diocesi statunitensi considerate – almeno dalla stampa – più “ortodosse” e l’altro di quelle più toccate dal dissenso e dalla contestazione del Magistero. Esaminavano poi i dati relativi alle ordinazioni e ai seminaristi negli anni 1990 per concludere che il loro numero in percentuale sul numero dei cattolici diocesani era tre volte superiore nelle diocesi “ortodosse” rispetto a quelle dove più forte era il dissenso.

Stark e Finke – che non sono cattolici, anche se Stark ha recentemente annunciato, proprio sulla base di una riflessione sociologica sulla storia, il suo ritorno al cristianesimo, che non è però maturato nell’adesione a una specifica comunità o Chiesa – ribadivano nel loro studio di non volere affatto sostenere “che la Chiesa cattolica deve adottare una soluzione conservatrice per risolvere i suoi problemi di vocazioni” (Stark e Finke 2000b, 136). Evidentemente fornire indicazioni di questo genere non spetta alle scienze umane. Dal loro punto di vista, meramente tecnico, Stark e Finke osservavano che la Chiesa Cattolica avrebbe potuto risolvere la crisi vocazionale in due modi: diminuendo i costi o “restaurando i benefici tradizionali” (ibid., 137). Come emergeva in quello studio (ibid.), e ancor più nelle discussioni che ha generato, “diminuire i costi” è una formula che è stata perseguita, per esempio, da diverse branche della Comunione Anglicana: “paghe alte” – soprattutto negli Stati Uniti, buoni stipendi da manager per i vescovi – e “virtualmente nessuna restrizione”; porte aperte ai divorziati, agli omosessuali praticanti, e così via. I risultati anglicani, come è noto, non sono stati brillantissimi. “Restaurare i benefici tradizionali” sembrerebbe dunque più promettente che “diminuire i costi”.

Tutta la discussione sulla ricerca di Stark e Finke va inquadrata in un contesto sociologico più generale. Da molti anni la sociologia delle religioni nota che – contrariamente alla vulgata secondo cui il cristianesimo perde colpi perché non è in sintonia con il mondo moderno e mantiene posizioni anacronistiche e premoderne, soprattutto in tema di morale sessuale – di fatto, nel mondo protestante avanzano le denominazioni evangelical e pentecostali, la cui morale sessuale è spesso rigorosa, e il cui antagonismo verso la modernità è notevole. Perdono invece membri le comunità liberal, che pure ricevono l’applauso di certi media per le loro posizioni tolleranti in materia di aborto, eutanasia o omosessualità. Questo non avviene perché i cristiani siano irragionevoli e masochisti ma, al contrario, perché quelli che la teoria che ho illustrato chiama “consumatori religiosi” sono a loro modo eminentemente ragionevoli e, come tutti i consumatori, non considerano né i soli costi, né i soli benefici, ma il rapporto costi-benefici, che nelle religioni è spesso più favorevole là dove i costi sono più alti.

Questi fenomeni sono stati spiegati applicando alle organizzazioni religiose la teoria del free rider (cfr. Iannaccone 1992, 1994; Iannaccone, Olson e Stark, 1995). La formulazione classica di questa teoria si deve a Mancur Olson (1932-1998). Il free rider, il viaggiatore “che non paga il biglietto”, è colui che partecipa a una qualunque forma di organizzazione sociale cercando di ottenerne i benefici senza pagare i costi. Chi sale a bordo di un autobus senza pagare corrisponde perfettamente alla definizione: riesce a “viaggiare gratis”, ma solo nel senso che in realtà sono gli altri a pagare per lui. Secondo Olson la strategia del free rider può avere successo solo se il numero degli stessi free rider è limitato. Se alcuni non pagano il biglietto, l’autobus continuerà a viaggiare – al massimo, ai viaggiatori onesti sarà chiesto di pagare di più. Ma se quasi nessuno paga il biglietto la linea di autobus sarà costretta a chiudere, e nemmeno il free rider potrà più viaggiare gratuitamente. Lo stesso vale per organizzazioni assai più complesse di una linea di autobus, comprese le parrocchie: possono tollerare un certo numero di free rider, ma se il numero cresce, si trovano di fronte a problemi sempre più difficili da risolvere e infine cessano di funzionare. Anche nelle organizzazioni religiose o tra chi frequenta i sacerdoti e va a Messa molti vogliono solo “assistere”, non “partecipare” o contribuire. Sono tipici free rider. Il problema, però, è che i beni simbolici offerti dalle organizzazioni religiose sono non soltanto fruiti, ma anche prodotti collettivamente.

Le organizzazioni, le congregazioni e le parrocchie più rigorose e “ortodosse” chiedono di più, e quindi diminuiscono il numero di free rider. Si potrebbe ritenere che chiedendo di più – in linguaggio economico, aumentando i costi – sia i fedeli sia le vocazioni diminuiscano. In realtà spesso avviene il contrario. Le teorie economiche infatti c’insegnano che i consumatori cercano di minimizzare i costi e massimizzare i benefici. Non cercano soltanto di limitare i costi, a qualunque condizione, ma si sforzano di arrivare a un ragionevole equilibrio fra costi e benefici. Chi acquista un’automobile non cerca semplicemente di spendere il meno possibile: anzi, sa che spendendo troppo poco sarà verosimilmente ingannato dal proverbiale venditore disonesto di auto usate. Anche i “consumatori religiosi” sono disposti a pagare di più – entro certi limiti – se pensano di ottenere di più. Nel loro caso non si tratta principalmente di costi economici, ma di costi simbolici. Chiedendo di rispettare norme che creano tensione con la maggioranza sociale in settori come la morale sessuale o il rapporto con la verità in una cultura dominata dal relativismo, le organizzazioni religiose creano barriere di entrata e riducono il numero di potenziali free rider che potrebbero entrare.

Naturalmente perché una congregazione cattolica sia viva, non sia composta in maggioranza di free rider, abbia un buon rapporto con i suoi sacerdoti e generi anche vocazioni sacerdotali e religiose non basta una sociologia dell’efficienza. Occorre che ciascuno si senta partecipe e non solo spettatore, e prima di dare il suo contributo si senta “preso in cura” personalmente dal sacerdote. Da questo punto di vista se si vuole ridurre il numero di free rider occorre assicurarsi che il contatto personale e autorevole fra sacerdote – particolarmente, parroco – e fedeli sia sempre garantito. E ci si può chiedere se sia proprio così quando si passa dalle parrocchie alle unità pastorali, con la conseguenza di “allungare” le relazioni mentre sono proprio quelle che la sociologia chiama “relazioni corte”, più personali e dirette, a garantire contro la proliferazione dei free rider: i quali, si potrebbe dire, non sono sempre free rider per colpa loro.

Ancora una volta, da sociologo, vorrei insistere sul fatto che la sociologia di per sé non risolve nessun problema pastorale e può dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà metodologica. L’accostamento alla religione in termini di mercato, consumatori, costi e benefici potrà perfino scandalizzare chi ha meno familiarità con le teorie della religious economy. E sarebbe giusto che fosse così se queste non fossero – insisto sul punto, a costo di ripetermi – soltanto metafore, elementi metodologici da considerare come semplici – e umili – strumenti. Ultimamente, vale anche per i sociologi il richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009, dedicata all’Anno Sacerdotale: “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino [1225-1274]: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’ (Summa Theologiae, I-II, q. 113, a. 9, ad 2)” (Benedetto XVI 2009b).


Fonte: Cesnur
Caterina63
00sabato 13 marzo 2010 09:22
Questo testo (postato sopra) è una BOMBA in tutti i sensi Laughing  ottimo Introvigne....  
 
Nel mio piccolo vorrei che si focalizzasse, accanto alle motivazioni sopra trattate, che il problema delle vocazioni scaturisce anche dallo sviluppo femminista del '68 che con lo slogan (uno fra i tanti) "l'utero è MIO e lo gestisco io" ha cominciato da allora a mettere in crisi non solo la stessa identità delle donne ma anche degli uomini con il risultato della decadenza DELLE FAMIGLIE...  
La Vocazione sacerdotale, o religiosa in generale, è strettamente collegata con il barometro standart della FAMIGLIA: se la Famiglia è in crisi lo saranno anche le vocazioni religiose, non si scappa...giacchè le Famiglie vengono consacrate e santificate dai sacerdoti e dalle Famiglie santificate maturano le nuove Vocazioni...  
 
Al Concilio Vaticano II, anzi, attenzione, al suo DOPO....attribuisco la grave responsabilità di aver non soltanto sottovalutato il problema, ma di averlo in qualche modo sostenuto!  
Al Catechismo per esempio, specialmente alle Prime Comunioni ed alle Cresime, E' QUASI VIETATO PARLARE DI VOCAZIONI....rammento che una volta, negli anni '90, per aver fatto due lezioni ai cresimandi sulla Vocazione ed aver chiesto ai ragazzi di chiedersi se davvero in loro non ci fosse il seme di una chiamata, VENNI ACCUSATA DAL PARROCO DI FARE PROSELITISMO... Surprised  
Allora non capii il perchè di quel rimprovero, ed umilmente obbedendo, non ne feci più menzione....solo dopo qualche anno mi resi conto di aver commesso un errore, quello di tacere...  
Come Catechista ero responsabile ed invece mi piegai, come molti, ad una obbedienza sbagliata, oggetto di ignoranza e frutto del caos...  
 
I nostri giovani NON sono più abituati AL DISCERNIMENTO...solo da 5 anni finalmente le cose stanno cambiando, ma quanti danni abbiamo fatto !!!  
I Genitori in Famiglia ALLONTANANO I FIGLI dalla Chiesa perchè in Famiglia si usa la Parrocchia solo per ricevere i due Sacramenti e per le gite....a Catechismo si fanno i CARTELLONI mica la dottrina, mica il discernimento vocazionale!!  

Piazzatevi all'esterno di una qualsiasi parrocchia e chiedete ai ragazzi che escono dalla catechesi che cosa hanno imparato o cosa hanno fatto: vi diranno: "abbiamo cantato, abbiamo giocato, abbiamo fatto i cartelloni, abbiamo imparato che Dio è buono..." Undecided  
Infine, proprio in questi giorni, il Papa stesso è ritornato sull'argomento sottolineando l'importanza di RI-IMPARARE l'identità del Sacerdote che non è affatto l'Uomo dell'impegno "nel sociale", ma è molto di più, un di più che deve essere riscoperto e ri-insegnato...



Altri link utili sono:

Dottrina sul Sacerdozio prima durante e dopo il Concilio a cura di don Gagliardi (da Messainlatino) IMPERDIBILE

CARE MAMME, PREGATE PER I VOSTRI FIGLI, PREGATE PER I SACERDOTI

Mi si conceda un appello:  
 
Care Mamme: PREGATE e preghiamo per i nostri Figli affinchè NON abbiano a rinunciare alla chiamata per colpa nostra...NON temiamo di vederli un domani SACERDOTI, come li abbiamo aiutati a muovere i primi passi nel mondo, sosteniamoli nei primi passi verso la VOCAZIONE RELIGIOSA... non temete di perderli, al contrario...  

Una Mamma, separata e divorziata mi disse di non avere il coraggio di aiutare il figlio nel discernimento vocazione che credeve il figlio stesse maturando, a causa della sua situazione della quale riconosceva l'incompatibilità e l'adulterio...  

Le risposi che a maggior ragione avrebbe dovuto aiutare il figlio a questo discernimento incoraggiandolo verso un sacerdote spirituale e che la sua situazione adulterina non doveva essere un ostacolo nè essere usata come giustificazione per TACERE sul futuro eventuale del figlio...  
Le dissi: PRENDI IL ROSARIO E PREGA PER TUO FIGLIO  e prega affinchè il Signore ti conceda la forza di rimettere ordine nella tua vita, E' UNA GRAZIA quella che ti sta dando!!!  

Da allora questa mia amica seppur divorziata, ha smesso ogni relazione adulterina IN RISPETTO DEL FIGLIO ENTRATO IN SEMINARIO....  
ora si prodiga per la divulgazione del Rosario e si è aggregata ad un gruppo di Preghiera di Padre Pio, vive continuamente di preghiera ed aiutando il Prossimo e mi ha confidato di aver trovato la pace e la serenità che cercava da tempo....  

Le Grazie si attirano e la Preghiera fa il resto!  

Care Mamme non abbiate timore se i vostri figli sentono la Vocazione....PRENDETE IL ROSARIO E PREGATE...preghiamo davvero insieme e il Signore non mancherà di aiutare tutti...questa è la vera applicazione della Misericordia di Dio, non il bonismo verso un Dio tollerante anche nel peccato....



Caterina63
00sabato 13 marzo 2010 16:00

desertum faciunt et pacem appellant

Proponiamo un interessante contributo per l'Anno sacerdotale pubblicato su "Il Foglio" di ieri, come sempre Gnocchi e Palmaro mettono il dito sulla piaga che va sanata prima che sia troppo tardi. In questi giorni possiamo vedere come la Provvidenza abbia guidato il nostro Santo Padre nella decisione di indire un Anno speciale di riflessione e preghiera per i sacerdoti. Parce populo tuo, Domine!

Il curato fallimentare
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

I santi parroci esistono ancora, e vanno in pellegrinaggio ad Ars. Le risposte sociologiche alla crisi del clero stanno facendo un deserto


Grazie a Dio, ci sono ancora parroci che, quando li si cerca, si trovano in chiesa, magari in ginocchio davanti al Santissimo oppure a confessare. Sono quei parroci che celebrano la Messa con devozione, consci di offrire sull’altare, a soddisfazione del Padre e per il bene dei fedeli, il sacrificio del Figlio. Sono quei parroci consapevoli del fatto che anche il più indegno dei sacerdoti può compiere ciò che nemmeno centomila battezzati integerrimi possono fare: perdonare un peccato mortale e trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Sono quei parroci che, durante l’Anno sacerdotale voluto da Papa Benedetto XVI, non li si è visti per qualche giorno tra canonica, sacrestia e chiesa perché sono andati in pellegrinaggio ad Ars, dipartimento dell’Ain, Francia, 45° e 58’ di latitudine nord, 4° e 49’ di longitudine est e hanno fatto delle coordinate del villaggio a suo tempo affidato al Santo Curato la croce che segna il cuore del loro sacerdozio. Ma quanti sono? Il parroco moderno, di solito, si presenta sotto altre spoglie. E’ iperattivo e impegnato altrove. In tipografia per il bollettino parrocchiale, sul cantiere del nuovo oratorio, a controllare le attività della Caritas, a discutere con l’assessore ai Servizi sociali, a passare le carte dell’ennesimo piano pastorale partorito dall’ennesimo ufficio diocesano, a barcamenarsi nelle discussioni del consiglio pastorale. Altrove. Non di rado una vittima del sistema, spesso è anche un onest’uomo. Ma noi fedeli non possiamo accontentarci di parroci che siano solo onest’uomini.

L’abate Giovanni Battista Chautard in un aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”. Anche i più inguaribili ottimisti devono riconoscere che la crisi pluridecennale in cui si dibatte il cattolicesimo è essenzialmente una crisi del sacerdozio e dei sacerdoti. Un dramma in tre atti. Il primo, andato in scena negli anni successivi al Concilio, è stato accompagnato da clamorosi fenomeni di contestazione e da una imponente emorragia di preti che hanno abbandonato la tonaca. Nel secondo, gli abbandoni sono diminuiti e i fenomeni di dissenso sono andati scemando, lasciando il posto a una diffusa visione burocratica del ruolo del sacerdote, fedele esecutore della linea dettata dal vescovo e insensibile, quando non addirittura refrattario, alla volontà del Papa. Si è così affermata una figura di parroco conservatore nella sua fedeltà incrollabile alla teologia moderna e allo “spirito del Concilio”, ma, proprio per questo, progressista nella sua aperta dissonanza dal magistero e dalla tradizione. Il terzo atto è appena cominciato ed è caratterizzato dall’inesorabile declino numerico dei sacerdoti nella vecchia Europa, cui corrisponde un tremendo “che fare?”.

Molti sostengono che la mancanza di vocazioni sia un fatto che deve essere accettato senza tentare alcuna contromisura. Anzi, dicono, siccome è Dio che manda operai nella vigna, è Lui stesso che decide di rallentare o addirittura estinguere il flusso delle vocazioni. Ragion per cui saremmo di fronte a uno di quei famosi “segni dei tempi” che esigono di “pensare” una chiesa diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto. Tradotto in parole più semplici, bisogna prepararsi a una chiesa senza sacerdoti. Ma chi nella storia aveva pensato a costruire una chiesa senza preti? Martin Lutero. L’ombra della protestantizzazione si allunga su non poche diocesi sotto le mentite spoglie dell’emergenza vocazionale. Ecco così fiorire l’idea di parrocchie in cui i laici impegnati, quasi sempre donne, rimpiazzino il prete nelle sue funzioni. Ed ecco attuarsi, come ad esempio nella diocesi di Milano, un complesso piano di accorpamento delle parrocchie sotto il cappello delle comunità pastorali, con la regia di sacerdoti-funzionari di mezza età. Una riforma che in questi mesi sta mettendo tutti d’accordo, nel senso che laici e sacerdoti non ne possono più.

Quello milanese è un laboratorio tanto pericoloso quanto interessante. Chiunque vi si applichi può osservare da vicino il rischio di sgomberare il campo dalla vecchia figura del parroco, che nel diritto canonico ha una sua potestas molto robusta, per sostituirlo con dei preti che appaiono più simili a dei burocrati diocesani. I danni pastorali di una simile impostazione sono evidenti. Il prete che non risiede stabilmente in una comunità non riesce a essere un punto di riferimento per i fedeli. E, soprattutto, non diventa un modello, anche sul piano antropologico, per i ragazzi e i giovani che sempre meno avranno voglia di diventare come lui e verificare se hanno la vocazione al sacerdozio. Non a caso, nella terra di Ambrogio, si stanno affidando alcuni oratori a degli “animatori” stipendiati. Non a caso, nella diocesi che fu di San Carlo, un parroco può spiegare ai fedeli attoniti che “la domenica, invece di prendere la macchina e andare a Messa in una chiesa vicina, potete riunirvi e leggere insieme il Vangelo”. Il progetto sembra evidente. Siccome ci sono meno preti, si fanno fare più cose ai laici, con la conseguenza che ci saranno sempre meno preti e sempre più laici, finché il sistema progettato per funzionare perfettamente senza preti arriverà a pieno regime. Come sarebbe piaciuto a Lutero.

Ma questo ragionamento, viziato da una conclusione precofenzionata, risulta di conseguenza viziato anche in origine. E’ proprio vero che non esistono vocazioni? Oppure le si va a cercare dove non ci sono? A riprova di questa idea, sta il fatto che, mentre i seminari diocesani si svuotano, molte famiglie religiose di recente fondazione e fortemente incentrate sul sacerdozio cattolico hanno i loro seminari, anche minori, stracolmi. Forse, a voler leggere i “segni dei tempi”, si impara qualcosa dallo svuotarsi dei seminari diocesani. Innanzi tutto che sono un problema. Nessuno sa dire con certezza quale siano gli standard dottrinali comuni ai luoghi in cui si devono vagliare e far crescere le vocazioni. C’è però un’aneddotica inquietante che racconta di seminaristi costretti a recitare il rosario di nascosto, a non rimanere inginocchiati durante la Messa, a farsi mandare a casa propria riviste di apologetica come Il Timone, ad ascoltare clandestinamente Radio Maria. Per le misteriose vie della Provvidenza, nonostante un simile apparato deformante, ci sono ancora buoni preti cattolici che oggi si affacciano, giovani e freschi di ordinazione, alla loro missione apostolica. Ma sono fiori nel deserto, perché la crisi è ben più drammatica di quanto si voglia dire.

E' sufficiente una ricognizione della prassi liturgica invalsa in questi anni per rendersene conto. Le Messe domenicali offrono esempi a non finire. Dal prete che, al momento della comunione, si fa da parte e va a dirigere i canti mentre i ministri straordinari dell’eucaristia svolgono ordinariamente ciò che non toccherebbe loro, a quello che alla Messa per la Prima Comunione invita i bambini a recitare la formula di consacrazione assieme a lui, a quello che fa tenere l’omelia alla catechista. E’ il sacerdozio universale, bellezza. Una deriva ormai lontana mille miglia da quanto la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. San Tommaso d’Aquino spiega benissimo che il sacerdozio dei fedeli consiste nel “ricevere” da Dio, mentre il sacerdozio ordinato consiste nell’“offrire” a Dio. Ma, una volta oscurato nella teologia l’aspetto sacrificale della Messa, il sacerdote ordinato finisce per essere come un comune fedele.

E’ doloroso portarne le prove, ma non si può raccontare la progressiva scomparsa dei parroci nascondendone i segni. E’ capitato per esempio che, venute a scarseggiare le ostie consacrate per la comunione in una chiesa di un’importante città lombarda, si sia corsi in fretta e furia a prendere delle particole in sacrestia e le si sia mischiate alle altre, quasi che la consacrazione possa avvenire per semplice contatto. Qui è in gioco il cuore della fede cattolica. Qui ci si balocca con il dogma della presenza reale di corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo nell’ostia consacrata a opera del sacerdote. Sarà brutale, ma senza presenza reale non c’è sacerdozio. Senza la certezza che nell’ostia c’è tutto Gesù Cristo, senza riverenza per quel pane bianco e immacolato, senza sacro timore al cospetto di tanta grandezza, senza dolcezza al cospetto del manifestarsi della Grazia pallida e pura, il sacerdote può solo farsi da parte. Quando si arriva a questo, si comprende che il vecchio parroco, quello che anche tanti atei ricordano con un certo rispetto o persino un certo affetto, quello che magari metteva soggezione ma era capace di dire la parola giusta al momento giusto, quello che induceva a guardare in Cielo quando si rischiava di affezionarsi troppo alla terra, quel parroco non c’è più.

Non poteva andare diversamente viste le premesse. Quando il 24 ottobre 1967, davanti al Sinodo dei vescovi, si tenne nella Cappella Sistina una celebrazione sperimentale della Messa prodotta dalla riforma postconciliare, l’impressione più diffusa venne riassunta benissimo dai molti che definirono il rito “freddo come una cena luterana”. Col risultato che più della metà dei padri sinodali votò contro o, quanto meno, chiese modifiche sostanziali. Monsignor Annibale Bugnini, artefice della riforma, accusò il colpo, ma non arretrò, anzi. Nel suo libro “La riforma liturgica” spiega quanto inadeguati fossero quei vescovi che non avevano gradito il suo lavoro. In particolare, riserva parole poco benevole per quelli “assillati dal dogma della presenza reale” che, poveri ruderi medievali, “avevano visto con preoccupazione qualche riduzione nei gesti e nelle genuflessioni, l’allungarsi della liturgia della Parola”.

Proprio così, tra i vescovi di santa romana chiesa ce n’erano ancora molti con la fissa della presenza reale di Nostro Signore nell’eucaristia. Levata quella fissa, oggi, in gran parte dei seminari, è considerato chiaro segno di non-vocazione rimanere inginocchiati per il ringraziamento dopo la comunione. Ma se un sacerdote non insegna ai suoi parrocchiani la reverenza per Dio che cos’altro può fare? Se non vuol rimanere con le mani in mano, ecco che insegnerà la reverenza per qualcos’altro: per l’ambiente, per la pace, per i poveri, per le balene in via d’estinzione. Persino per il dio delle altre religioni: ma non per il proprio. Non è un caso se, nell’udienza generale del 1° luglio 2009, a proposito dell’anno sacerdotale, Papa Benedetto XVI ha detto: “Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società”. Ma non è in un progetto umanitario che trova compimento la vocazione al sacerdozio.

Il sacerdote radica la sua identità nel primato della Grazia divina. “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della Grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”.

Nell’udienza precedente aveva inoltre spiegato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale la funzionalità diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale”. Perso di vista tutto questo, il destino del parroco è quello di essere uno fra i tanti. A far marciare le cose per bene in parrocchia ci pensa il popolo che, liberato da secoli di oppressione liturgica, può dare finalmente sfogo alla sua democratica creatività. Ma il popolo, quand’anche sia il “popolo di Dio”, una volta abbandonato a se stesso, al massimo riesce a mettere su la Festa dell’Unità, fosse pure la Festa dell’Unità dei cristiani.

E il prete, nella gran parte dei casi cresciuto nella stessa temperie, partecipa con entusiasmo. Poiché l’entusiasmo è l’unico criterio che oggi misura la riuscita di qualsiasi iniziativa ecclesiale, dalla celebrazione della Messa alla raccolta di carta per il Mato Grosso. Se una Messa non è partecipata entusiasticamente, se non è animata entusiasticamente pare quasi non sia valida. Così, ognuno ci mette del suo. C’è chi si affanna nella corsa al microfono per leggere chilometriche preghiere dei fedeli, chi compie gesti simbolici che danno un senso ulteriore alla Messa, chi sale alla ribalta per spiegare che cosa significhino quei gesti simbolici, chi dai gesti simbolici si sente edificato e chi, ma raramente, volta i tacchi dicendo: “Se me lo devi spiegare che razza di simbolo è?”.

Quanto sono lontane le Messe del Curato d’Ars. Quanto lontana la sua concezione del sacerdozio. Quanto lontano il suo essere parroco, responsabile davanti a Dio del destino eterno di ogni anima affidatagli. “Tolto il sacramento dell’Ordine” diceva ai suoi parrocchiani il santo “noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote”. E poi ancora sopraffatto dalla responsabilità di dare a Dio ciò che gli spetta anche per conto altrui: “E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti, è lui che apre la porta, è lui l’economo del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni. Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie”.

Caterina63
00sabato 13 marzo 2010 19:34
 Sorriso Importante il discorso del Santo Padre che trovate qui


ai partecipanti al convegno promosso dalla Congregazione per il Clero

Vi lascio con un passo:


 "Carissimi sacerdoti - ha rimarcato il Papa teologo -, gli uomini e le donne del nostro tempo ci chiedono soltanto di essere fino in fondo sacerdoti e nient'altro. I fedeli laici troveranno in tante altre persone cio' di cui umanamente hanno bisogno, ma solo nel sacerdote potranno trovare quella Parola di Dio che deve essere sempre sulle sue labbra; la Misericordia del Padre, abbondantemente e gratuitamente elargita nel Sacramento della Riconciliazione; il Pane di Vita nuova, vero cibo dato agli uomini".

 "Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire e amare, di relazionarsi con le persone, anche nell'abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale, dal suo essere profondo", ha infine osservato Ratzinger. "Di conseguenza -, ha concluso - il sacerdote deve porre ogni cura nel sottrarsi alla mentalita' dominante che tende ad associare il valore del ministro non al suo essere, ma alla sua funzione, misconoscendo, cosi', l'opera di Dio, che incide nell'identita' profonda della persona del sacerdote, configurandolo a Se' in modo definitivo".




Caterina63
00sabato 13 marzo 2010 23:18

Sacerdozio ed ermeneutica della continuità


Relazione del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna


ROMA, sabato, 13 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la relazione tenuta dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, intervenendo al Convegno teologico internazionale organizzato dalla Congregazione per il Clero e che si è tenuto dall'11 al 12 marzo presso la Pontificia Università Lateranense sul tema "Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote".

* * *

 01. Nella mia riflessione sono accostate due realtà: il sacerdozio ordinato e l'ermeneutica della continuità.

Sicuramente riguardo alla seconda viene subito in mente il discorso fatto alla Curia Romana da Benedetto XVI in occasione del Natale 2005 [cfr. Insegnamenti di Benedetto XVI, I (2005), LEV, pag. 1018-1032]. Una grande parte del medesimo infatti è dedicato al tema dell'ermeneutica della continuità [cfr. pag. 1025-1031].     

Penso necessario in ordine alla costruzione della domanda a cui cercherò di rispondere colla mia relazione, definire già in limine l'ermeneutica della continuità. 

Distinguo "continuità" che è un fatto che accade o non accade, da "ermeneutica " che connota l'attività dello spirito che verifica il fatto della continuità, e lo spiega.             

La continuità è il permanere della stessa identità all'interno del suo cambiamento. La continuità quindi è un  processo intrinseco ad ogni organismo vivente, pena la morte. Ciò accade anche in quell'organismo vivente che è la Chiesa: essa permane nel Principio che l'ha costituita perché ed in quanto ne vive in ogni tempo e luogo.               

I fattori della continuità sono due: uno interno alla esperienza della fede; uno esterno alla medesima. Il primo è descritto da Benedetto XVI nel modo seguente: «la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e ... dall'altra parte la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede» [pag. 1026]. Il secondo fattore è costituito dalla necessità che la predicazione del Vangelo si  confronti col modo con cui l'uomo interpreta la realtà e si pone in essa; si confronti cioè colla cultura.     

Distinto è il fatto della continuità dallo sforzo ermeneutico per verificare se esso sia o no accaduto; e in caso affermativo cogliere la logica interna al cambiamento. I due atti ermeneutici sono distinti solo logicamente, non in realtà.            

02. Fatta questa prima premessa risulta chiaro quale è il tema su cui mi è stato chiesto di riflettere.   

Si tratta di riflettere su una realtà che è propria dell'economia salvifica cristiana: il sacerdozio ordinato. Dobbiamo considerarlo nella sua vicenda storica a partire dal Concilio Vaticano II (compreso) fino ai giorni nostri, e mettere  in atto un'ermeneutica della continuità.

Quest'opera ermeneutica può essere fatta in due modi: o analizzando nella loro concatenazione logica i testi magisteriali e le principali riflessioni teologiche sul sacerdozio ordinato, oppure studiando il vissuto sacerdotale di questi anni post-conciliari.       

La mia riflessione si colloca dentro la prima prospettiva, ma non come puntuale analisi di testi magisteriali, ed opere teologiche. Presupposta questa, la mia domanda invece è la seguente:      quale è l'identità permanente del ministero ordinato, e come essa si confronta colla cultura odierna? Due parole ancora di spiegazione.

Il termine «identità» non si riferisce ad un concetto, ad un'idea; «ma al Logos immanente (al ministero ordinato), all'intrinseca verità vivente, all'immagine originaria cui fanno riferimento tutte le altre  manifestazioni [dell'essere e della vita sacerdotale] innervandole all'interno» [L. Scheffczyk, il mondo delle fede cattolica, V&P, Milano 2007, pag. 36].

1L'identità permanente

L'identità del ministero può essere colta solo dallo "sguardo semplice della fede", non attraverso l'analisi dei singoli fattori che la costituiscono. Per distinguere lo stile romanico dallo stile gotico è necessario guardare nel suo insieme il monumento, e cogliere quella "forma" che metta insieme le singole parti nel modo proprio del gotico o del romanico.    

Vorrei molto semplicemente dirvi che cosa vedo nel ministero quando lo guardo con lo "sguardo semplice della fede". Vedo   il segno sacramentale della presenza di Cristo nella sua Chiesa: «il Vescovo, il presbitero, il diacono, sono simbolo di realtà vere corrispondenti a questi nomi» [Origene, Commento al Vangelo di Matteo, CN ed., Roma 1999, pag. 168]. 

Che cosa ci aiuta ad avere una intuizione intellettiva di questa "intrinseca verità vivente" del ministero sacerdotale? Una serie di elementi che derivano dalla denkform cattolica.    

La dimensione sacramentale dell'economia salvifica è il primo elemento. L'atto salvifico di Cristo non è una tangente che tocca la circonferenza della storia umana solo in un punto per allontanarsene subito all'infinito. Esso entra dentro la storia e vi rimane permanentemente presente. Non può essere solo ricordato: può essere realmente incontrato e fatto proprio.

La presenza reale, perenne, duratura dell'Evento salvifico è assicurata dal sacramento. Il sacramento è precisamente la presenza di Cristo nella Chiesa, in forma di segno o di simbolo, nella modalità propria a ciascun segno o simbolo medesimo.     

      Il realismo della salvezza è il secondo elemento, strettamente connesso con quello precedente. La salvezza incontra realmente l'uomo nel sacramento e l'uomo la salvezza. Essa non è solo sperata, ma anche realizzata sia pure in forma incoativa. È operato un vero e proprio cambiamento nella condizione ontologica della persona: «carissimi, noi fin da ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» [1Gv 3,2]. L'atto redentivo dell'uomo è un fatto che accade realmente e perennemente, ed introduce l'uomo nella patria della sua identità.

          L'intrinseca verità del ministro sacerdotale è costituita all'interno della dimensione sacramentale della salvezza e del carattere realistico della redenzione

            Questa costituzione è percepibile da un duplice punto di vista: dal legame fra ministero sacerdotale e sacramenti; dal rapporto fra la persona di Cristo vivente nella Chiesa e la persona del sacerdote.

            I due punti di vista devono essere tenuti assieme, diversamente si avrebbe una visione scorretta. Il legame infatti fra sacerdote e sacramenti non va pensato come un caso particolare di una legge ricorrente, e che troviamo presso ogni religione. Il sacrum è sempre affidato ad alcune persone consacrate, deputate a custodirlo ed amministrarlo.

            Il luogo teologico dove il rapporto fra la persona di Cristo, l'economia sacramentale, e la persona del sacerdote è visibile nella sua pura ed intrinseca verità, è la celebrazione dell'Eucarestia.

            Non casualmente Cristo ha istituito uno actu e il sacramento dell'Eucarestia e il ministero della Nuova ed eterna Alleanza.

            Nella santa Eucarestia non è presente solo la grazia e l'opera della salvezza: è realmente presente Cristo stesso che si dona sulla Croce per la redenzione dell'uomo.

            Ma questa presenza non può essere realizzata senza un riferimento alla persona di Cristo: è lui stesso che la deve realizzare. Ovviamente non con una modalità percepibile dai sensi, ma nella modalità sacramentale propria dell'economia salvifica: sub signo. È il ministero della nuova Alleanza che rende presente sacramentalmente il Cristo  che compie l'opus redemptionis nostrae.

            Veramente la celebrazione dell'Eucarestia è la cifra dell'esistenza  del sacerdote; è il criterio ermeneutico adeguato del suo esserci; è il Logos immanente della sua esistenza che ne spiega tutte le manifestazioni.

            Potremmo a questo punto dimostrare, in base a molti testi, come il Concilio abbia ripreso chiaramente l'idea della "rappresentanza di Cristo" per definire il ministero [cfr. Sacrosanctum Concilum 33; Lumen Gentium 10 e 28; Presbyterorum ordinis 2 e 13]. Così come l'altro grande documento Magisteriale, l'Es. Apost. Pastores dabo vobis [cfr. 11,3 (nexus ontologici peculiaris qui iungit presbyterum Christo]; 12,2 (cui, tamquam capiti et populi pastori configuratur peculiari quodam modo); 15,4 (sunt igitur presbyteri in Ecclesia et pro Ecclesia velut repraesentatio sacramentalis Christi capitis et pastoris ... exsistunt et operantur ... et nomine et persona Christi capitis et pastoris); 16,6 (locum coram Ecclesia occpupat - per suum ministerium - quod non nisi signum et continuatio sacramentalis et visibilis est ipsuis Christi)].

            La relazione obiettiva del sacerdote a Cristo capo e pastore è la relazione che costituisce il sacerdozio. Dunque è un'identità di relazione; una identità  che sussiste in una relazione.

Dal punto di vista soggettivo che cosa significa questa particolare forma di identità? Significa l'identificazione del proprio io colla missione, la coincidenza della coscienza del proprio io colla missione. Vorrei fare alcune essenziali riflessioni su questo punto.

            La relazione a Cristo è sempre pensata nella Tradizione in termini di missione [«come il Padre ha mandato me, così io mando voi»], in continuità colla relazione di Cristo al Padre. Il contenuto del rapporto dell'apostolo con Cristo è l'essere mandato da Cristo medesimo come segno efficace della sua presenza operante. La sua identità è la sua missione.

            Il sacerdote viene espropriato del chiuso "essere per se stesso" e consegnato ad "essere per e mediante il Signore" [cfr. Rom 14,7-8], che poi significa concretamente "cercare di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo" [cfr. Rom 15,2-3].

            A Simone viene cambiato il nome «poiché egli è ciò che dice il suo nome» [1Sam 25,25]. Poiché l'identità del sacerdote sussiste nella relazione di vicarietà [vius gerens Christi] o rappresentanza; egli diventa se stesso quanto più dimentica la sua privata soggettività e si identifica sempre più colla sua missione.

            Ho concluso questo primo punto, in cui ho cercato di riflettere sull'identità del sacerdote, e sul versante oggettivo e sul versante soggettivo.

            Sul primo, l'identità diventa comprensibile alla luce dell'analogia fidei, che tiene assieme la dimensione sacramentale dell'economia salvifica e il realismo della salvezza. Sul versante soggettivo, l'identità è definibile come coincidenza del proprio io colla missione.

2.         Nella condizione attuale

            «Certamente c'è una fisionomia essenziale del sacerdote che non muta... Il presbitero del terzo millennio sarà in questo senso, il continuatore dei presbiteri che, nei precedenti millenni, hanno animato la vita della Chiesa ... Altrettanto certamente la vita e il ministero del sacerdote devono anche adattarsi ad ogni epoca ... dobbiamo perciò cercare di aprirci, per quanto possibile, alla superiore illuminazione dello Spirito Santo, per scoprire gli orientamenti della società contemporanea, riconoscere i bisogni spirituali più profondi» [Es. ap. Pastores dabo vobis 5,5].

L'esortazione apostolica post-sinodale prospetta precisamente quell'ermeneutica della continuità che guida questa riflessione. Il testo post-sinodale infatti parla di una "fisionomia essenziale del sacerdote che non muta" ed ugualmente della necessità che essa prenda corpo in relazione agli "orientamenti della società contemporanea ed ai suoi bisogni spirituali più profondi".   

Cercherò ora di mettere in atto questa "ermeneutica della continuità", dopo aver descritto nel paragrafo precedente quella "fisionomia essenziale del sacerdote che non muta". Ed inizio dalla descrizione di quello che mi sembra il bisogno spirituale più profondo.     

L'itinerario mentis in Deum partiva sempre da un presupposto, poggiava i piedi su una terra ferma: l'intelligibilità del reale di cui ho esperienza. E pertanto la convinzione che il desiderio insonne della ragione di scoprire l'intelligibilità del reale, non era da considerare un desiderio vacuo che non poteva trovare risposta.

L'incontro fra l'intelligibilità del reale e la ragione che cerca è la verità. Come scrisse C. Fabro in due aforismi: «la verità è una qualità fondamentale del reale e una qualità fondamentale dell'essere», e «la verità è un atteggiamento radicale esistenziale: di stare in attesa della rivelazione dell'essere» [Libro dell'esistenza e della libertà vagabonda, Piemme, Casale M. 2000, pag. 116].

Ne deriva che la ricerca di Dio e l'esistenza della verità  simul stant et simul cadunt. Se si nega che esista la verità, la ricerca di Dio non può neppure cominciare.

Secondo studiosi competenti, chi ha scalzato questa base è stato Nietzsche, e la piena accettazione, fino ai suoi esiti finali, di quella demolizione è diventata la temperie spirituale del tempo presente. In che senso? Almeno in due significati.      

Il primo. È accettato, come nostro destino, come il destino dell'Occidente, quello di pensare che l'universo degli enti non nasconda, non rimandi, non significhi una Presenza che non sia a misura dell'ente stesso. Esiste solo la verità propria dei progetti tecnici dell'uomo. Un esempio. L'atto di porre le condizioni della venuta all'esistenza di una nuova persona  - l'atto procreativo - non ha in se stesso una verità che rimanda ad una Presenza. È un mero fatto che può essere anche tecnicamente riprodotto in laboratorio.     

Il secondo. La domanda quindi di senso è una domanda priva di senso: si vive, e basta. E così si dica di ogni fondamentale vissuto umano. L'assenza di Dio è il destino dell'uomo, e, alla fine, si vive ugualmente bene. È questo il volto più tragico [per noi] del nichilismo, non tanto il relativismo morale conseguente.      

Abbiamo così individuato il bisogno spirituale più profondo: il bisogno della Presenza. Nella lettera inviata da Benedetto XVI a tutti i vescovi nel marzo scorso, il S. Padre confida che attribuisce al suo pontificato come compito supremo quello di rendere presente Dio nella vita degli uomini. Ed è a questo bisogno supremo che il sacerdote, la cui identità abbiamo già schizzata, è chiamato oggi a rispondere. Come?

La questione dunque è questa: è possibile riconoscere una Presenza eccedente l'universo dell'ente, ma che abita dentro esso? Esiste la possibilità di toccare l'Infinito mentre vivo nel finito? o dobbiamo rassegnarci all'impossibilità di fare questo incontro?

Queste sono le domande ultime a cui oggi il sacerdote è chiamato a rispondere.     

Sarebbe un grave errore ritenere che il problema sia fondamentalmente di carattere etico; e che quindi il bisogno spirituale principale sia il bisogno di una seria proposta etica. Errore, perché una tale diagnosi confonderebbe i sintomi colla malattia. E sarebbe come pensare che ad una persona in preda ad una grave indigestione, la cosa più necessaria sia di spiegargli la chimica della digestione.   

Non dobbiamo mai dimenticare che comunque l'immagine di Dio impressa nell'uomo non può essere cancellata, e che pertanto, pur confuso in mezzo a tanti rumori, il "mormorio del cuore" che invoca la Presenza beatificante continua a farsi sentire. La capacità della verità resta indistruttibile nell'uomo.      

L'uomo che vive oggi la gaia farsa dell'Assenza, ha bisogno di essere risvegliato alla coscienza della sua dignità di persona e ciò lo può fare solo la testimonianza della carità. Nell'inferno del non-senso che furono i lager nazisti, dove ogni possibilità di avvertire la Presenza era consumata, P. Kolbe ha riconosciuto una ragione per cui vivere è bene: la ragione del dono di sé. Una ragione che era il segno e la voce di una Presenza reale.

Non si intenda questo come in primo luogo un dovere derivante dal sacramento dell'Ordine, assieme ad altri doveri. È la "forma vitae", quel Logos intrinseco di cui ho parlato all'inizio poiché il sacerdote è e agisce "in persona Christi": di Cristo che redime l'uomo nel dono della Croce, eucaristicamente sempre presente dentro al nostro mondo dell'Assenza.

È quanto insegna anche l'Es. ap. Pastores dabo vobis: «Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo capo e pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo ... Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé» [23,1.2]. Tralascio le conseguenze pedagogiche nella formazione dei futuri sacerdoti. Non sono oggetto della presente riflessione.

3.         A modo di conclusione

Abbiamo saputo dopo la sua morte, che la B. Teresa di Calcutta ha condiviso per lunghi anni l'esperienza dell'Assenza con l'uomo di oggi.              

Essa l'ha vissuta nella certezza che in fondo l'uomo, quell'uomo di cui condivideva il destino, aveva solo bisogno di essere amato. La cifra dell'esistenza sacerdotale è la cifra eucaristica.             

Caterina63
00domenica 14 marzo 2010 10:54
Sempre da questo passo del Blog CRISI DELLE VOCAZIONI  qui postato fra il 4 e 5° messaggio a partire dal questo....c'è stato un intervento interessante fra gli altri:

Franco
Se alla fine degli anni '50 si è ritenuto di dover indire un concilio ecumenico per attuare un "aggiornamento" vuol dire che gli indicatori del costume e della produzione culturale (letteratura, cinema, filosofia, musica...) permettevano di cogliere i segnali di una crisi di consenso, sia pure incipiente. In Francia ( la "figlia primogenita della Chiesa" ) le cose andavano già piuttosto male, se nel 1943 venne pubblicato il libro, che allora fece scalpore "La France, pays de mission?", autore non so se il cardinale Feltin o Ancel o altro. Già negli anni '30 Bernanos aveva pubblicato il "Diario di un parroco di campagna" sul dramma del curato di una "parrocchia morta", che non risponde minimamente ai suoi sforzi. Già, è questo il problema: il prete, come il professore, ha davanti a sè un pubblico con cui deve interagire. Se la cosa non riesce,si sviluppano avvilimento e frustrazione. Leggendo le testimonianze sull'esperimento dei "preti operai" si vede facilmente che la soluzione intravista da molti sacerdoti era di introdursi alla pari nel mondo laico della produzione; da qui anche la tendenza a procurarsi l'"adrenalina" con l'impegno sociale, o peggio con l'estremismo politico ( tendenza ancor oggi riconoscibile, mi sembra, in parecchi "preti di sinistra" . Io credo che il prete anche nelle situazioni più ostiche possa fare breccia nel muro dell'indifferenza se crede fermamente nella specificità della sua missione ( per dirla in "sociologese": nella imbattibilità commerciale del suo prodotto ). Per questo occcorrono una grandissima solidità dottrinale, la capacità d ivedere come le norme etiche derivanti dalla dottrina della Chiesa corrispondano alle esigenze pratiche e teoriche dell'uomo d'oggi; il tutto originato da un indomabile amore per la Chiesa e da una intensa vita di pietà.

***************************************************

La mia risposta Sorriso

Mi rivolgo al primo messaggio qui di Franco: 
lei ha ragione, la crisi del sacerdozio non è del dopo Concilio o dal Concilio, ma comincia prima solo che lei dimentica di dire che già fra i vari Pontefici Pio IX e Pio XI anche con san Pio X il santo Magistero Pontificio non solo aveva evidenziato il problema, ma aveva tracciato le linee guida per risolverlo o comunque per tenerlo a freno....non fu per capriccio che san Pio X fece fare il GIURAMENTO ANTIMODERNISTA nei seminari....perchè Paolo VI senza alcun atto ufficiale e senza alcuna spiegazione lo abolì? 
Non dimentichiamo che sotto Pio XII abbiamo la fioritura di sacerdoti "dall'animo SOCIALE" ai quali il Pontefice non dice nulla...segno evidente che se da una parte era necessaria UNA APERTURA del Sacerdote verso i problemi del mondo sociale che naturalmente stavano mutando e non erano quelli del '700 e dell'800, dall'altra parte si tentava ancora di rimanere comunque all'interno della legalità dottrinale.... 
 
Fra gli anni '60 e '70 abbiamo L'APICE della crisi delle vocazioni... non certo l'inizio... tuttavia è fuori discussione che l'aver eliminato il giuramento antimodernista e l'aver proprio in quegli anni modificato la Messa con la speranza di RIEMPIRE LE CHIESE, ha invece dato la manata più grossa alla crisi...è qui, in questo frangente che SI SVUOTANO I SEMINARI E LE CASE RELIGIOSI con la dannata frenesia del riempire le chiese a tutti i costi, anche al costo di giungere di PROFANARE L'EUCARESTIA, DARLA ALLA MANO, ELIMINARE ALTARI E TABERNACOLI, FARE STRAGI DI STATUE, PERMETTERE AD UN LAICO COME KIKO DI COSTRUIRE CHIESE NUOVE SENZA PRESBITERI, SENZA CONFESSIONALI, SENZA IL TABERNACOLO SFRATTATO DA QUESTE CHIESE E RINCHIUSO IN STANZETTE A DIACENTI SENZA INGINOCCHIATOI....perdonate le lettere maiuscole, ma necessarie... 

Oggi i nodi stanno venendo al pettine, ecco da dove provengono i cambiamenti di Benedetto XVI che più che cambiamenti sono semplicemente un RITORNARE alla serietà della nostra Fede riconoscendo IL FALLIMENTO del tentativo di modernizzare la Chiesa seguendo le mode del tempo... 
Se riusciremo a capire questo con le conseguenze di un vero pentimento, ritorneranno anche le Vocazioni...

P.S. 
attenzione poi a cosa intendiamo per CRISI DELLE VOCAZIONI E DEL SACERDOZIO....non è il ruolo del Sacerdote ad essere in crisi giacchè Cristo è IERI, OGGI E SEMPRE, ma in crisi è L'UOMO con la sua vocazione, in crisi E' LA SUA IDENTITA', in crisi sono le PROMESSE che non manteniamo più.... i coniugi rompono le promesse, i sacerdoti rompono le promesse...i fedeli rompono le promesse....è in atto una rottura con le PROMESSE BATTESIMALI, da qui deriva ogni tipo di crisi... 
in crisi NON è la Chiesa in quanto tale che è UNA , SANTA E CATTOLICA... ma in crisi sono le MEMBRA che la compongono...le membra che tentano di cambiare la Chiesa perchè sono loro in crisi, sono quel fermento di zizzania, non hanno pace e seminano la divisione... 
il Sacerdote che ha perduto la sua identità come molti uomini nel mondo che credono di essere diventate donne e come le donne che credono di potersi equiparare agli uomini (sic!) SONO PERSONE IN CRISI... 
 
Nel momento in cui si comincerà a dire la verità su ciò che è male senza cambiarlo come un finto bene, allora si che inizieremo una vera riforma ed una autentica restaurazione
...




Caterina63
00lunedì 15 marzo 2010 16:50

La strategia di un Vescovo per far fiorire il seminario della sua Diocesi


Per la prima volta in 9 anni, cresce il numero dei seminaristi in Spagna


MADRID, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- "Quando nel 2005 sono arrivato nella Diocesi di Tarazona, ho trovato il Seminario quasi vuoto", ha spiegato il Vescovo Demetrio Fernández in una lettera pastorale scritta in occasione della prossima Giornata del Seminario, che si celebra nella maggior parte delle Diocesi spagnole il 19 marzo.

La prima cosa che ha fatto il presule è stata ribellarsi ed elevare molte preghiere.

"Non potevo rassegnarmi a questa realtà così schiacciante, così scoraggiante per una Diocesi, e ho iniziato a pregare il Signore insistentemente perché inviasse operai alla sua messe, perché aprisse una via per questa situazione senza uscita", ha confessato.

"Ho chiesto di pregare a molti conventi di clausura della Diocesi e di tutta la Spagna - ha continuato -. Ho constatato che molta gente ha pregato per il seminario di Tarazona".

Dopo aver gettato queste basi spirituali, ha preso una prima decisione materiale: organizzare un corso di spiritualità "per intensificare la vita spirituale di due seminaristi che dovevano ordinarsi a breve".

Questa decisione ha portato al seminario di Tarazona nove allievi, che nel settembre 2005 hanno iniziato il corso di spiritualità.

La vita del seminario si è quindi organizzata nel triplice aspetto di disciplina, spiritualità e studi. "Faceva piacere vedere questi giovani camminare verso il sacerdozio", ha ricordato.

Attualmente, quattordici seminaristi si preparano al sacerdozio e studiano nel Centro universitario di studi teologici dell'Immacolata, dipendente dalla Facoltà di San Damaso di Madrid.

"Non ho cercato nessuno, sono stati circa 40 giovani a bussare alla nostra porta", sottolinea.

Il Vescovo ha anche ringraziato la Diocesi di Tarazona per "le preghiere, le elemosine e gli incoraggiamenti di ogni tipo", così come tante persone che hanno "assecondato questa intenzione del Vescovo".

"Tra le tribolazioni della vita pastorale, che non sono mancate, questo è stato il più bel dono di Dio in questi cinque anni per me, per la Diocesi, per la Chiesa", ha affermato monsignor Fernández, nominato di recente Vescovo di Córdoba, Diocesi che ha circa 50 seminaristi.

Cinque dei giovani entrati nel seminario di Tarazona negli ultimi cinque anni sono già stati ordiinati sacerdoti, e altri cinque saranno ordinati al termine del corso.

Altri cinque o sei diventeranno presbiteri tra un anno o poco più.

Fanno parte dei 1.265 seminaristi che si stanno formando nei seminari spagnoli in questo anno 2009-2010, 42 in più rispetto al corso precedente.

E' un numero incoraggiante in questo Anno Sacerdotale, visto che spezza la tendenza alla diminuzione del numero dei seminaristi che vigeva in Spagna da nove anni.

Dal canto suo, l'Arcivescovo di Valencia, monsignor Carlos Osoro, ha affermato nella sua lettera pastorale di domenica scorsa che il futuro delle vocazioni "dipende dalla qualità della testimonianza personale di tutti i cristiani".

"E' vero che la fecondità della proposta vocazionale dipende in primo luogo dall'azione gratuita di Dio", ha indicato, ma aiutano anche "la qualità e la ricchezza della testimonianza personale e comunitaria di tutti i cristiani".

Quest'anno, il tema della Giornata del Seminario scelto dalla Conferenza Episcopale Spagnola è "Il sacerdote, testimone della misericordia di Dio", con lo sfondo dell'Anno Sacerdotale e, soprattutto, della figura del Santo Curato d'Ars, San Giovanni Maria Vianney.

Caterina63
00sabato 20 marzo 2010 17:17
Torniamo alla tradizione, sarà un progresso

Intervista al teologo e liturgista, don Nicola Bux






di Antonio Gaspari

ROMA, venerdì, 19 marzo 2010 (ZENIT.org).- Nel luglio del 2007 con il Motu Proprio "Summorum Pontificum" il Pontefice Benedetto XVI ha ripristinato la celebrazione della Messa in latino.

L’evento ha suscitato scalpore. Si sono levate vibranti voci di protesta, ma anche coraggiose acclamazioni.

Per spiegare il senso e la pratica delle riforma liturgica di Benedetto XVI, don Nicola Bux, sacerdote, esperto di liturgia orientale e consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni  Liturgiche del Sommo Pontefice, ha pubblicato il libro “La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione” (Piemme, Casale Monferrato 2008), con prefazione di Vittorio Messori.


Nel libro don Nicola spiega come la ripresa del rito latino non sia un passo indietro, un ritorno ai tempi precedenti il Concilio Vaticano II, bensì un guardare avanti, riprendendo dalla tradizione passata quanto di più bello e significativo essa può offrire alla vita presente della Chiesa.

Secondo don Bux quello che il Pontefice vuol fare nella sua paziente opera di riforma è rinnovare la vita del cristiano, i gesti, le parole, il tempo del quotidiano restaurando nella liturgia un sapiente equilibrio tra innovazione e tradizione. Facendo con ciò emergere l’immagine di una Chiesa sempre in cammino, capace di riflettere su se stessa e di valorizzare i tesori di cui è ricco il suo scrigno millenario.

Per cercare di approfondire il significato ed il senso della Liturgia, i suoi cambiamenti, il rapporto con la tradizione e il mistero del linguaggio con Dio, ZENIT ha intervistato don Nicola Bux.

Che cos’è la liturgia e perché è così importante per la Chiesa e per il popolo cristiano?

Bux: La sacra liturgia è il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo. Pertanto il metodo per entrare in rapporto con lui è proprio quello di rendergli culto: egli ci parla e noi gli rispondiamo; gli rendiamo grazie ed egli si comunica a noi. Il culto, dal latino colere, coltivare un rapporto importante, appartiene al senso religioso dell’uomo, in ogni religione sin dai primordi.

Per il popolo cristiano, la sacra liturgia e il culto divino attuano dunque il rapporto con quanto ha di più caro, Gesù Cristo Dio – l’attributo sacra significa che in essa tocchiamo la sua presenza divina.

Per questo la liturgia è la realtà e “attività” più importante per la Chiesa

In che cosa consiste la riforma di Benedetto XVI e perché ha suscitato tanto scalpore?

Bux: La riforma della liturgia, termine da intendere secondo la Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, come instauratio ossia ristabilimento al posto giusto nella vita ecclesiale, non comincia con Benedetto XVI ma con la storia stessa della Chiesa, dagli apostoli all’epoca dei martiri con papa Damaso fino a Gregorio Magno, da Pio V e Pio X a Pio XII e Paolo VI. La instauratio è continua, perché il rischio che la liturgia decada dal suo posto, che è quello di essere sorgente della vita cristiana c’è sempre; la decadenza avviene quando si sottomette il culto divino al sentimentalismo e all’attivismo personali di chierici e laici, che penetrando in esso lo trasformano in opera umana e intrattenimento spettacolare: un sintomo oggi è dato dall’applauso in chiesa che sottolinea indistintamente il battesimo di un neonato e l’uscita di una bara dal funerale. Una liturgia diventata intrattenimento, non necessita di riforma? Ecco quanto Benedetto XVI sta facendo: l’emblema della sua opera riformatrice rimarrà il ristabilimento della Croce al centro dell’altare al fine di far comprendere che la liturgia è rivolta al Signore e non all’uomo, ancorché ministro sacro.

Lo scalpore c’è sempre ad ogni giro di boa della storia della Chiesa, ma non bisogna impressionarsi.

Quali sono le differenze tra i cosiddetti innovatori e i tradizionalisti?

Bux: Questi due termini vanno chiariti in premessa. Se innovare significa favorire l’instauratio di cui parlavo, è proprio quella di cui c’è bisogno; come pure, se traditio significa custodire il deposito rivelato sedimentato anche nella liturgia. Se invece innovare volesse dire trasformare la liturgia da opera di Dio ad azione umana, oscillando tra un gusto arcaico che ne vuole conservare solo gli aspetti che aggradano e un conformismo alla moda del momento, andiamo fuori strada; o al contrario, essere conservatori di tradizioni meramente umane che si sono sovrapposte a mo’ di incrostazione sul dipinto non facendo più cogliere l’armonia dell’insieme. In realtà i due opposti finiscono per coincidere e rivelare la contraddizione. Un esempio: gli innovatori sostengono che la Messa in antico era celebrata rivolta al popolo. Gli studi dimostrano il contrario: l’orientamento ad Deum, ad Orientem, è quello proprio del culto dell’uomo a Dio. Si pensi all’ebraismo. Ancora oggi tutte le liturgie orientali lo conservano. Come mai gli innovatori, amanti del ripristino degli elementi antichi nella liturgia postconciliare non l’hanno conservato?

Che significato ha la tradizione nella storia e nella fede cristiana?

Bux: La tradizione è una delle due fonti della Rivelazione: la liturgia, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica (1124), ne è elemento costitutivo. Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazaret, ricorda che la Rivelazione si è fatta liturgia. Poi ci sono le tradizioni di fede, di cultura, di pietà che sono entrate e hanno rivestito la liturgia, sì che oggi conosciamo varie forme di riti in Oriente e in Occidente. Tutti comprendono quindi perché la Costituzione liturgica, dopo aver ricordato che solo la Santa Sede è l’autorità competente a regolare la sacra liturgia, al n 22, § 3 affermi perentoriamente: “nessun’altro, assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”.

Sarebbe possibile secondo lei tornare oggi alla messa in latino?

Bux: Il Messale Romano rinnovato da Paolo VI è in latino e costituisce l’edizione cosiddetta tipica, perché ad essa devono far riferimento le edizioni in lingua corrente curate dalle Conferenze Episcopali nazionali e territoriali, approvate dalla Santa Sede. Pertanto, la Messa in latino s’è continuata a celebrare anche col nuovo Ordo, sebbene raramente. Ciò ha finito per contribuire all’impossibilità per un’assemblea composita di lingue e nazioni, di partecipare ad una Messa celebrata nella lingua sacra universale della Chiesa Cattolica di rito latino. Così, al suo posto sono nate le cosiddette Messe internazionali, celebrate in modo che le parti di cui si compone la Santa Messa, si recitino o cantino in più lingue; così ciascun gruppo capisce solo la sua!

Si era sostenuto che il latino non lo capiva nessuno; ora, se la Messa in un santuario è celebrata in quattro lingue, ciascun gruppo finisce per comprenderne solo un quarto. A parte altre considerazioni, come ha auspicato il Sinodo del 2005 sull’Eucaristia, si deve tornare alla Messa in latino: almeno una domenicale nelle cattedrali e nelle parrocchie. Ciò aiuterà, nella conclamata società multiculturale odierna, a recuperare la partecipazione cattolica sia quanto al sentirsi Chiesa universale, sia quanto al radunarsi insieme ad altri popoli e nazioni che compongono l’unica Chiesa. I cristiani orientali, pur dando spazio alle lingue nazionali, hanno conservato il greco e lo slavo ecclesiastico nelle parti più importanti della liturgia come l’anafora e le processioni con le antifone per il Vangelo e l’Offertorio.

A instaurare tutto ciò contribuisce sommamente l’antico Ordo del Messale Romano anteriore, ripristinato da Benedetto XVI col Motu proprio Summorum Pontificum, che, semplificando, viene chiamata Messa in latino: in realtà è la Messa di S. Gregorio Magno, in quanto la sua struttura portante risale all’epoca di quel Pontefice ed è rimasta intatta attraverso le aggiunte e semplificazioni di Pio V e degli altri pontefici fino a Giovanni XXIII. I padri del Vaticano II l’hanno celebrata quotidianamente senza avvertire alcun contrasto con l’aggiornamento che stavano compiendo.

Il Pontefice Benedetto XVI ha  sollevato il problema degli abusi liturgici. Di che cosa si tratta?

Bux: Per la verità, il primo a lamentare le manomissioni nella liturgia fu Paolo VI, a pochi anni dalla pubblicazione del Messale Romano nell’udienza generale del 22 agosto 1973. Paolo VI poi, era convinto che la riforma liturgica attuata dopo il Cconcilio, veramente avesse introdotto e sostenuto fermamente le indicazioni della Costituzione liturgica (discorso al sacro collegio del 22 giugno 1973). Ma la sperimentazione arbitraria continuava e acuiva all’opposto la nostalgia dell’antico rito. Il Papa nel concistoro del 27 giugno 1977 ammoniva “i contestatori” per le improvvisazioni, banalità, leggerezze e profanazioni, chiedendo loro severamente di attenersi alla norma stabilita per non compromettere la regula fidei, il domma, la disciplina ecclesiastica, lex credendi e orandi; nonché i tradizionalisti, perché riconoscessero l’“accidentalità” delle modifiche introdotte nei sacri riti.

Nel 1975, la bolla Apostolorum Limina di Paolo VI per l’indizione dell’anno santo, a proposito del rinnovamento liturgico aveva annotato: “Noi stimiamo estremamente opportuno che questa opera sia riesaminata e riceva nuovi sviluppi, di modo che, basandosi su ciò che è stato fermamente confermato dall’autorità della Chiesa, si possa vedere ovunque quelle che sono veramente valide e legittime e continuarne l’applicazione con zelo ancora maggiore, secondo le norme e i metodi consigliati dalla prudenza pastorale e da una vera pietà”.

Tralascio le denunce di abusi e ombre nella liturgia da parte di Giovanni Paolo II in più occasioni, in particolare nella Lettera Vicesimus quintus annus dall’entrata in vigore della Costituzione liturgica. Benedetto XVI, quindi, ha inteso riesaminare e dare nuovo impulso proprio aprendo una finestra col Motu proprio, affinché pian piano cambi l’aria e riporti sul giusto binario quanto è andato oltre l’intenzione e la lettera del Concilio Vaticano II in continuità con l’intera tradizione della Chiesa. 

Lei ha più volte affermato che in una corretta liturgia bisogna rispettare i diritti di Dio. Ci spiega cosa intende sostenere? 

Bux: La liturgia, termine che in greco indica l’azione rituale di un popolo che celebra, per esempio, i suoi fasti, come avveniva ad Atene o come avviene ancora oggi per l’inaugurazione delle Olimpiadi o altre manifestazioni civili, evidentemente è prodotta dall’uomo. La sacra liturgia, reca questo attributo, perché non è a nostra immagine – in tal caso il culto sarebbe idolatrico, cioè creato dalle nostre mani – ma è fatta dal Signore onnipotente: nell’Antico Testamento, con la sua presenza indicava a Mosè come doveva predisporre nei minimi particolari il culto al Dio unico e vero insieme al fratello Aronne. Nel Nuovo Testamento, Gesù ha fatto altrettanto nel difendere il vero culto cacciando i mercanti dal Tempio e dando agli Apostoli le disposizioni per la Cena pasquale. La tradizione apostolica ha recepito e rilanciato il mandato di Gesù Cristo. Dunque, la liturgia è sacra, come dice l’Occidente, e divina, come dice l’Oriente, perché istituita da Dio. San Benedetto la definisce Opus Dei, opera di Dio, a cui nulla va anteposto. Proprio la funzione mediatrice tra Dio e l’uomo propria del sommo sacerdozio di Cristo, ed esercitata nella e con la liturgia dal sacerdote ministro della Chiesa, sta ad attestare che la liturgia discende dal cielo, come dice la liturgia bizantina in base all’immagine dell’Apocalisse. E’ Dio che la stabilisce e quindi indica come lo si deve “adorare in spirito e verità”, cioè in Gesù Figlio suo e nello Spirito Santo. Egli ha il diritto di essere adorato come Lui vuole.

Su tutto questo è necessaria una profonda riflessione, in quanto la sua dimenticanza è all’origine degli abusi e delle profanazioni, già descritte egregiamente nel 2004 dall’Istruzione Redemptionis Sacramentum della Congregazione per il Culto Divino. Il recupero dello Ius divinum nella liturgia, contribuisce molto a rispettarla come cosa sacra, come prescrivevano le rubriche; ma anche le nuove devono tornare ad essere seguite con spirito di devozione e obbedienza da parte dei ministri sacri ad edificazione di tutti i fedeli e per aiutare tanti che cercano Dio a incontrarlo vivo e vero nel culto divino della Chiesa. I vescovi, i sacerdoti e i seminaristi tornino ad imparare e ad eseguire i sacri riti con tale spirito e contribuiranno alla vera riforma voluta dal Vaticano II e soprattutto a ravvivare la fede che, come ha scritto il Santo Padre nella Lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009, rischia di spegnersi in tante parti del mondo.





Caterina63
00lunedì 12 aprile 2010 12:51

UNA LUCIDA ANALISI DELLA SITUAZIONE DEL CLERO NELLA CHIESA CATTOLICA DI OGGI

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

 

Grazie a Dio, ci sono ancora parroci che, quando li si cerca, si trovano in chiesa, magari in ginocchio davanti al Santissimo oppure a confessare. Sono quei parroci che celebrano la Messa con devozione, consci di offrire sull’altare, a soddisfazione del Padre e per il bene dei fedeli, il sacrificio del Figlio. Sono quei parroci consapevoli del fatto che anche il più indegno dei sacerdoti può compiere ciò che nemmeno centomila battezzati integerrimi possono fare: perdonare un peccato mortale e trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Sono quei parroci che, durante l’Anno sacerdotale voluto da Papa Benedetto XVI, non li si è visti per qualche giorno tra canonica, sacrestia e chiesa perché sono andati in pellegrinaggio ad Ars, dipartimento dell’Ain, Francia, 45° e 58’ di latitudine nord, 4° e 49’ di longitudine est e hanno fatto delle coordinate del villaggio a suo tempo affidato al Santo Curato la croce che segna il cuore del loro sacerdozio. 

Ma quanti sono? Il parroco moderno, di solito, si presenta sotto altre spoglie. E’ iperattivo e impegnato altrove. In tipografia per il bollettino parrocchiale, sul cantiere del nuovo oratorio, a controllare le attività della Caritas, a discutere con l’assessore ai Servizi sociali, a passare le carte dell’ennesimo piano pastorale partorito dall’ennesimo ufficio diocesano, a barcamenarsi nelle discussioni del consiglio pastorale. Altrove. Non di rado una vittima del sistema, spesso è anche un onest’uomo. Ma noi fedeli non possiamo accontentarci di parroci che siano solo onest’uomini.

L’abate Giovanni Battista Chautard in un aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”.

Anche i più inguaribili ottimisti devono riconoscere che la crisi pluridecennale in cui si dibatte il cattolicesimo è essenzialmente una crisi del sacerdozio e dei sacerdoti.

Un dramma in tre atti.

- Il primo, andato in scena negli anni successivi al Concilio, è stato accompagnato da clamorosi fenomeni di contestazione e da una imponente emorragia di preti che hanno abbandonato la tonaca.
 
- Nel secondo, gli abbandoni sono diminuiti e i fenomeni di dissenso sono andati scemando, lasciando il posto a una diffusa visione burocratica del ruolo del sacerdote, fedele esecutore della linea dettata dal vescovo e insensibile, quando non addirittura refrattario, alla volontà del Papa. Si è così affermata una figura di parroco conservatore nella sua fedeltà incrollabile alla teologia moderna e allo “spirito del Concilio”, ma, proprio per questo, progressista nella sua aperta dissonanza dal magistero e dalla tradizione.

- Il terzo atto è appena cominciato ed è caratterizzato dall’inesorabile declino numerico dei sacerdoti nella vecchia Europa, cui corrisponde un tremendo “che fare?”.

Molti sostengono che la mancanza di vocazioni sia un fatto che deve essere accettato senza tentare alcuna contromisura. Anzi, dicono, siccome è Dio che manda operai nella vigna, è Lui stesso che decide di rallentare o addirittura estinguere il flusso delle vocazioni. Ragion per cui saremmo di fronte a uno di quei famosi “segni dei tempi” che esigono di “pensare” una chiesa diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto. Tradotto in parole più semplici, bisogna prepararsi a una chiesa senza sacerdoti. Ma chi nella storia aveva pensato a costruire una chiesa senza preti? Martin Lutero.

L’ombra della protestantizzazione si allunga su non poche diocesi sotto le mentite spoglie dell’emergenza vocazionale. Ecco così fiorire l’idea di parrocchie in cui i laici impegnati, quasi sempre donne, rimpiazzino il prete nelle sue funzioni. Ed ecco attuarsi, come ad esempio nella diocesi di Milano, un complesso piano di accorpamento delle parrocchie sotto il cappello delle comunità pastorali, con la regia di sacerdoti-funzionari di mezza età. Una riforma che in questi mesi sta mettendo tutti d’accordo, nel senso che laici e sacerdoti non ne possono più.

Quello milanese è un laboratorio tanto pericoloso quanto interessante. Chiunque vi si applichi può osservare da vicino il rischio di sgomberare il campo dalla vecchia figura del parroco, che nel diritto canonico ha una sua potestas molto robusta, per sostituirlo con dei preti che appaiono più simili a dei burocrati diocesani. I danni pastorali di una simile impostazione sono evidenti. Il prete che non risiede stabilmente in una comunità non riesce a essere un punto di riferimento per i fedeli. E, soprattutto, non diventa un modello, anche sul piano antropologico, per i ragazzi e i giovani che sempre meno avranno voglia di diventare come lui e verificare se hanno la vocazione al sacerdozio.

Non a caso, nella terra di Ambrogio, si stanno affidando alcuni oratori a degli “animatori” stipendiati.
Non a caso, nella diocesi che fu di San Carlo, un parroco può spiegare ai fedeli attoniti che “la domenica, invece di prendere la macchina e andare a Messa in una chiesa vicina, potete riunirvi e leggere insieme il Vangelo”.
 Il progetto sembra evidente. Siccome ci sono meno preti, si fanno fare più cose ai laici, con la conseguenza che ci saranno sempre meno preti e sempre più laici, finché il sistema progettato per funzionare perfettamente senza preti arriverà a pieno regime. Come sarebbe piaciuto a Lutero.

Ma questo ragionamento, viziato da una conclusione precofenzionata, risulta di conseguenza viziato anche in origine. E’ proprio vero che non esistono vocazioni? Oppure le si va a cercare dove non ci sono? A riprova di questa idea, sta il fatto che, mentre i seminari diocesani si svuotano, molte famiglie religiose di recente fondazione e fortemente incentrate sul sacerdozio cattolico hanno i loro seminari, anche minori, stracolmi.

Forse, a voler leggere i “segni dei tempi”, si impara qualcosa dallo svuotarsi dei seminari diocesani. Innanzi tutto che sono un problema. Nessuno sa dire con certezza quale siano gli standard dottrinali comuni ai luoghi in cui si devono vagliare e far crescere le vocazioni. C’è però un’aneddotica inquietante che racconta di seminaristi costretti a recitare il rosario di nascosto, a non rimanere inginocchiati durante la Messa, a farsi mandare a casa propria riviste di apologetica come Il Timone, ad ascoltare clandestinamente Radio Maria.
Per le misteriose vie della Provvidenza, nonostante un simile apparato deformante, ci sono ancora buoni preti cattolici che oggi si affacciano, giovani e freschi di ordinazione, alla loro missione apostolica. Ma sono fiori nel deserto, perché la crisi è ben più drammatica di quanto si voglia dire.

E' sufficiente una ricognizione della prassi liturgica invalsa in questi anni per rendersene conto. Le Messe domenicali offrono esempi a non finire. Dal prete che, al momento della comunione, si fa da parte e va a dirigere i canti mentre i ministri straordinari dell’eucaristia svolgono ordinariamente ciò che non toccherebbe loro, a quello che alla Messa per la Prima Comunione invita i bambini a recitare la formula di consacrazione assieme a lui, a quello che fa tenere l’omelia alla catechista.

E’ il sacerdozio universale, bellezza. Una deriva ormai lontana mille miglia da quanto la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. San Tommaso d’Aquino spiega benissimo che il sacerdozio dei fedeli consiste nel “ricevere” da Dio, mentre il sacerdozio ordinato consiste nell’“offrire” a Dio. Ma, una volta oscurato nella teologia l’aspetto sacrificale della Messa, il sacerdote ordinato finisce per essere come un comune fedele.


E’ doloroso portarne le prove, ma non si può raccontare la progressiva scomparsa dei parroci nascondendone i segni. E’ capitato per esempio che, venute a scarseggiare le ostie consacrate per la comunione in una chiesa di un’importante città lombarda, si sia corsi in fretta e furia a prendere delle particole in sacrestia e le si sia mischiate alle altre, quasi che la consacrazione possa avvenire per semplice contatto.

Qui è in gioco il cuore della fede cattolica. Qui ci si balocca con il dogma della presenza reale di corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo nell’ostia consacrata a opera del sacerdote. Sarà brutale, ma senza presenza reale non c’è sacerdozio. Senza la certezza che nell’ostia c’è tutto Gesù Cristo, senza riverenza per quel pane bianco e immacolato, senza sacro timore al cospetto di tanta grandezza, senza dolcezza al cospetto del manifestarsi della Grazia pallida e pura, il sacerdote può solo farsi da parte.

Quando si arriva a questo, si comprende che il vecchio parroco, quello che anche tanti atei ricordano con un certo rispetto o persino un certo affetto, quello che magari metteva soggezione ma era capace di dire la parola giusta al momento giusto, quello che induceva a guardare in Cielo quando si rischiava di affezionarsi troppo alla terra, quel parroco non c’è più.

Non poteva andare diversamente viste le premesse.

Quando il 24 ottobre 1967, davanti al Sinodo dei vescovi, si tenne nella Cappella Sistina una celebrazione sperimentale della Messa prodotta dalla riforma postconciliare, l’impressione più diffusa venne riassunta benissimo dai molti che definirono il rito “freddo come una cena luterana”.

Col risultato che più della metà dei padri sinodali votò contro o, quanto meno, chiese modifiche sostanziali. Monsignor Annibale Bugnini, artefice della riforma, accusò il colpo, ma non arretrò, anzi. Nel suo libro “La riforma liturgica” spiega quanto inadeguati fossero quei vescovi che non avevano gradito il suo lavoro. In particolare, riserva parole poco benevole per quelli “assillati dal dogma della presenza reale” che, poveri ruderi medievali, “avevano visto con preoccupazione qualche riduzione nei gesti e nelle genuflessioni, l’allungarsi della liturgia della Parola”.

Proprio così, tra i vescovi di santa romana chiesa ce n’erano ancora molti con la fissa della presenza reale di Nostro Signore nell’eucaristia. Levata quella fissa, oggi, in gran parte dei seminari, è considerato chiaro segno di non-vocazione rimanere inginocchiati per il ringraziamento dopo la comunione. Ma se un sacerdote non insegna ai suoi parrocchiani la reverenza per Dio che cos’altro può fare? Se non vuol rimanere con le mani in mano, ecco che insegnerà la reverenza per qualcos’altro: per l’ambiente, per la pace, per i poveri, per le balene in via d’estinzione.

Persino per il dio delle altre religioni: ma non per il proprio. Non è un caso se, nell’udienza generale del 1° luglio 2009, a proposito dell’anno sacerdotale, Papa Benedetto XVI ha detto: “Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società”. Ma non è in un progetto umanitario che trova compimento la vocazione al sacerdozio.

Il sacerdote radica la sua identità nel primato della Grazia divina. “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della Grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”.

Nell’udienza precedente aveva inoltre spiegato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale la funzionalità diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale”.

Perso di vista tutto questo, il destino del parroco è quello di essere uno fra i tanti. A far marciare le cose per bene in parrocchia ci pensa il popolo che, liberato da secoli di oppressione liturgica, può dare finalmente sfogo alla sua democratica creatività. Ma il popolo, quand’anche sia il “popolo di Dio”, una volta abbandonato a se stesso, al massimo riesce a mettere su la Festa dell’Unità, fosse pure la Festa dell’Unità dei cristiani.

E il prete, nella gran parte dei casi cresciuto nella stessa temperie, partecipa con entusiasmo.

Poiché l’entusiasmo è l’unico criterio che oggi misura la riuscita di qualsiasi iniziativa ecclesiale, dalla celebrazione della Messa alla raccolta di carta per il Mato Grosso. Se una Messa non è partecipata entusiasticamente, se non è animata entusiasticamente pare quasi non sia valida. Così, ognuno ci mette del suo. C’è chi si affanna nella corsa al microfono per leggere chilometriche preghiere dei fedeli, chi compie gesti simbolici che danno un senso ulteriore alla Messa, chi sale alla ribalta per spiegare che cosa significhino quei gesti simbolici, chi dai gesti simbolici si sente edificato e chi, ma raramente, volta i tacchi dicendo: “Se me lo devi spiegare che razza di simbolo è?”.

Quanto sono lontane le Messe del Curato d’Ars. Quanto lontana la sua concezione del sacerdozio. Quanto lontano il suo essere parroco, responsabile davanti a Dio del destino eterno di ogni anima affidatagli. “Tolto il sacramento dell’Ordine” diceva ai suoi parrocchiani il santo “noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote.

E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote”. E poi ancora sopraffatto dalla responsabilità di dare a Dio ciò che gli spetta anche per conto altrui: “E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti, è lui che apre la porta, è lui l’economo del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni. Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie”.

 

Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Fonte: il Foglio, 13 marzo 2010



Caterina63
00sabato 12 giugno 2010 15:09
Gesù si è fatto deejay per avvicinare i giovani a Dio nella prima "discoteca cristiana" della diocesi di Genova, inaugurata la notte scorsa sulla spiaggia di Arenzano per far ballare d'estate i turisti e i parrocchiani in allegria, pregando e divertendosi.


L'idea è di don Roberto Fiscer, genovese, 33 anni, vice parroco di Arenzano ordinato dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Ex deejay sulla navi da crociera, diventato sacerdote nel Giubileo del 2000, si è inventato la "discoteca cristiana" per diffondere tra i giovani la parola di Gesù. Ieri, alla 'prima', hanno ballato disco hit religiose come 'Shake the devil off' (Scaccia via il diavoletto) un centinaio di giovani, mamme, papà, nonni, tra i quali si sono mischiati giornalisti, fotografi, cameraman, curiosi, persino una donna musulmana con il velo sul capo, sorridente al ritmo della musica "Gesù ti ama".

Cuffie, mixer, indosso la maglietta della Madonna di Lourdes e tanta energia, don Roberto Fiscer dalla consolle improvvisata dei Bagni San Pietro di Arenzano, una struttura privata di una sua amica, ha suonato musica dance cristiana fino a notte fonda. Ingresso libero, pacifici buttafuori i frati del Santuario Gesù Bambino di Praga, cocktail alcolici disponibili solo per gli adulti, la prima discoteca cristiana di Genova diventerà un appuntamento fisso ad Arenzano per tutta l'estate 2010 (ogni mercoledì dalle ore 21 alle 23.30 circa).

"Don Roberto - ha commentato la giovane parrocchiana Anna, tra le più scatenate sulla pista da ballo - è innamorato della Madonna, ci sa fare con i bambini, gli piace essere un animatore, punta molto alla preghiera, ci fa conoscere Gesù divertendoci, è ovvio che chi ha Gesù nel cuore si diverte". "Mi piace andare anche nelle normali discoteche - ha continuato Anna - non bisogna essere troppo rigidi, ogni cristiano ha due casse da suonare, la prima della preghiera, la seconda del divertimento. Non si deve essere cristiani e musoni, é importante divertirsi ed essere felici con Gesù".

"La Madonna ha detto che ci vuole felici sulla Terra - ha spiegato don Roberto - quando balliamo, cantiamo e ci divertiamo in modo sano come qui, lei è felice, l'importante è divertirsi nel modo giusto avvicinando i ragazzi al messaggio di Gesù". "Non ci siamo ancora sentiti - ha risposto don Roberto a una domanda sull'eventuale commento del presidente della Cei e arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco -: guardate che il nostro cardinale è una persona apertissima. Mi tratta come un padre, i suoi sacerdoti li tratta come padre".

Tra le hit più ballate nella prima 'discoteca cristiana' ci sono state le musiche 'Ama Gesu' con tutto il Cuoré, 'Osanna', 'Lodiamo il Signore Gesu' perché viventé, 'Gesu' ti amà, 'Fiesta Fiesta Alleluja', 'Siamo la gente che loda il Signor' o 'I cinque sassi della Madonna per buttare giu' il diavolo". D'estate, oltre alla discoteca, Don Roberto ogni mercoledì sulle spiagge degli stabilimenti balneari di Arenzano organizza la messa sulla spiaggia, infradito e costumi da bagno consentiti, dove vengono donati ai fedeli Vangeli, preghiere e perfino i similari dei ticket restaurant, i "buoni per la confessione".



La mia riflessione  Occhi al cielo

L'idea è di don Roberto Fiscer, genovese, 33 anni, vice parroco di Arenzano ordinato dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Ex deejay sulla navi da crociera, diventato sacerdote nel Giubileo del 2000, si è inventato la "discoteca cristiana" per diffondere tra i giovani la parola di Gesù. 
 
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Non è una novità...I PENTECOSTALI lo fanno già da molti anni....musica ed evangelizzazione... 
mi preoccupa invece che Gesù, nel chiamare alla vocazione dice: LASCIA TUTTO, POI VIENI E SEGUIMI.... 
qui appare evidente che la PASSIONE del giovane sacerdote non sia stata affatto abbandonata...faceva il DJ sulle navi da crociera, e continua a farlo come prete... 
come la suora cubista che ha concesso di ballare davnti al Tabernacolo, PER LE JENE...."la passione del ballo non l'ho mai abbandonata"... 
 
Senza nulla togliere all'iniziativa in se che, attenzione, non sarebbe male divulgarla per aiutare i giovani ad un sano divertimento, ciò che stona è quell'associare PREGHIERA E DIVERTIMENTO.... 
se balli NON preghi e se preghi NON balli (ballare in questo senso da discoteca)... e poi: è davvero indispensabile ASSOCIARE IL DIVERTIMENTO ALLA DISCOTECA?   
se non balli muori? 
se non vai in discoteca ti ammali? 
E perchè usare la discoteca come espediente per seminare la Parola di Gesù? 
Cristo ha bisogno di MIMETIZZARSI? 
 
Ergo, ben vengano queste iniziative, ma senza MASCHERARLE COME UNA NECESSITA' PER INCONTRARE I GIOVANI,  dica piuttosto la verità il prete, che senza continuare a fare il DJ non si sentiva veramente prete...E' LUI CHE HA BISOGNO DI QUEL DIVERTIMENTO, NON IL GIOVANE...



Caterina63
00lunedì 12 luglio 2010 17:02

Anno 2010. Per la prima volta i preti ordinati dagli istituti missionari italiani sono tutti stranieri

Non abbiamo santi né eroi

Anno 2010. Per la prima volta i preti ordinati dagli istituti missionari italiani sono tutti stranieri. Per padre Gheddo la colpa non è solo della crisi della fede e della natalità

Ogni anno a giugno gli istituti missionari celebrano l’ordinazione sacerdotale dei loro diaconi e le destinazioni alle missioni. Quest’anno i quattro nati in Italia (Pime, Comboniani, Saveriani e Consolata) non hanno nessun sacerdote italiano – questo almeno mi risulta. Il Pontificio istituto missioni estere (Pime) ordina 11 sacerdoti, ma tutti stranieri: quattro brasiliani, tre indiani, tre birmani e uno della Guinea Bissau.
 
Un amico comboniano mi ha detto che quest’anno hanno chiuso il loro noviziato europeo, che riceve giovani dai sette paesi del continente in cui l’istituto è presente. Il Pime, istituto non religioso (cioè senza i voti), è internazionale solo dal 1989, mentre altri istituti, da sempre internazionali, hanno un maggior numero di sacerdoti dalle missioni. Ma la situazione delle vocazioni missionarie italiane è più o meno uguale per tutti: sì e no un solo sacerdote all’anno, quando va bene.

Secondo i dati delle Pontificie opere missionarie, nel 1934 l’Italia aveva 4.013 missionari nei territori di missione, 7.713 nel 1943, 10.523 nel 1954.

Nel 1965 la rivista Fede e Civiltà dei missionari saveriani (che attualmente esce come Missione Oggi) realizzò un’inchiesta da cui risultava che i missionari italiani in missione erano 10.708. Dopo il Concilio Vaticano II sono aumentati fino ai 16 mila del 1985. Un fatto straordinario, dovuto ai sacerdoti “fidei donum” (diocesani in missione), al volontariato laico nelle missioni e al fatto che molti istituti, congregazioni e ordini religiosi, soprattutto femminili, sono diventati missionari mentre non lo erano mezzo secolo prima.

Altre Chiese d’Europa, tradizionalmente missionarie, hanno avuto una forte diminuzione. La Francia è passata da 22 mila missionari sul campo negli anni Sessanta a 11 mila, l’Olanda da 6 mila a 2 mila, la Germania da 14 mila a 6 mila, gli Stati Uniti da 15 mila a 7 mila, secondo statistiche del 1989. Oggi la situazione non è certo migliorata. Si calcola che gli italiani in missione siano circa 12 mila, ma «con i capelli sempre più grigi», come scrive Mondo e Missione in un “servizio speciale” dell’ottobre 2008 intitolato “Missionari in via di estinzione?”.

Titolo provocatorio quello scelto dal mensile del Pime, ma questa è la realtà. Dopo quasi sessant’anni nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, esprimo una mia convinzione.
Le cause sono certo molte: crisi di fede e delle famiglie, ragion per cui mancano i giovani; crisi delle diocesi e delle parrocchie, dove si incontrano sempre più preti stranieri.

Ma il crollo delle vocazioni missionarie dipende in gran parte dal fatto che la figura del missionario non attira più.
Era affascinante fino a quarant’anni fa (Indro Montanelli mi diceva: «Voi missionari siete tutti eroi»), ma è molto decaduta nella cultura del nostro tempo e quasi scomparsa nei mass media d’oggi. Noi missionari e i nostri istituti abbiamo perso la nostra identità e il nostro fascino. Eravamo gli inviati della Chiesa per portare Cristo e il Vangelo ai popoli e fondare la Chiesa come negli Atti degli Apostoli. Questa era la nostra identità, l’immagine che avevamo noi giovani sognando di diventare missionari. Poi la missione è cambiata e il missionario ha perso l’aureola di eroe e di pioniere, oggi va a servire Chiese quasi ovunque già fondate.
Tutto vero, ma è anche vero che i missionari sono sempre più richiesti dalle giovani Chiese e oggi acquistano in più l’immagine nuova di “ponte fra i popoli, le religioni e le culture”, che nel mondo globalizzato è capace di suscitare interesse e adesioni. Insomma, il missionario potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo noi missionari mantenessimo, in Italia (e più in genere in Occidente), la nostra identità, il nostro carisma, la nostra carica di entusiasmo evangelizzatore.

Invece l’immagine del missionario si è a poco a poco politicizzata e siamo finiti in una marmellata di buonismo che è diventato la cultura di base del popolo italiano. Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e fedeltà al carisma, in Italia l’immagine del missionario cambia e secondo me non rappresenta più la realtà. Nelle riviste missionarie di quarant’anni fa gli articoli sull’evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le novità delle giovani Chiese, l’annunzio di Cristo nelle diverse culture, la presentazione di figure di missionari erano alla base di ogni edizione. Si parlava spesso di vocazione missionaria a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani.

Oggi, ci sono riviste “missionarie” che di missionario hanno poco o nulla; “centri culturali” di istituti missionari che organizzano molte conferenze, ma sui temi della missione alle genti quasi niente e sui missionari in carne e ossa nulla; librerie di istituti missionari, che si suppone vendano libri missionari, che in vetrina mettono tutt’altro; animatori missionari che parlano di “mondialità” e poco o nulla di “missione”; comunità di missionari che hanno perso l’entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della loro vocazione, spiazzati dall’indifferenza del mondo moderno. E potrei continuare. È una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che ci ha fatto perdere la nostra identità.

Se la chiamata si perde nel caos


Sono convinto che non esista nella mentalità comune del popolo italiano una figura più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e dell’ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati “integralisti” e per malinteso senso del “dialogo”, non osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi e affamati; siamo “a servizio della Chiesa locale”, dimenticando però che questo servizio dovrebbe essere soprattutto volto ad animare missionariamente il gregge di Cristo; pensiamo di fare “animazione missionaria” facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e su altri temi (battaglie positive, certo, ma non “animazione missionaria”). In passato, durante le solenni “veglie missionarie” alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, si ascoltavano le testimonianze dei missionari sul campo, oggi invece in alcune “veglie missionarie”, organizzate da missionari e da “gruppi missionari”, si contesta la produzione delle armi e sono invitati a parlare gli esperti di questo tema. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la voce dello Spirito che li chiama a donare la loro vita alla missione se sono impegnati in marce di protesta come queste?

Piero Gheddo

La domanda è stata posta intelligentemente, le risposte rimangono un po' vaghe anche perchè non si ha il coraggio di affrontare la radice del problema che inevitabilmente condurrebbe ad un tabù del mondo ecclesiale odierno: il Concilio; anche perchè la crisi della fede, di cui si parla, è un fenomeno difficilmente imputabile alla sola malzia dei tempi. Dunque continuano le lamentazioni mentre le conversioni possono attendere.
 
Caterina63
00mercoledì 14 luglio 2010 14:44
da Avvenire intervista a giovani sacerdoti del 2006

Per quanto può valere, vorremmo riportare qualcosa di quanto abbiamo ascoltato in una serie di interviste ai più diretti interessati all'argomento, dei giovani sacerdoti che abbiamo avuto occasione di incontrare. Sulla questione delle donne e del matrimonio, i ragazzi ordinati negli ultimi dieci anni ci hanno sorpreso. Per la franchezza con cui questi trentenni affrontano l'argomento, senza tabù o reticenze.

Quando già erano decisi a entrare in seminario, raccontano alcuni, si sono accorti di essere innamorati. E dunque? domandi un po' sconcertata, perché l'uomo che hai davanti adesso porta la tonaca nera. Rispondono tranquilli, con la serenità di chi ha fatto bene i conti con se stesso.

"Innamorarsi - ti dicono - per un uomo è normale. La bellezza delle donne, la vedi anche se vuoi diventare prete. Ma Dio, se la tua vocazione è autentica, ti fa percepire un'attrazione per lui, che è più forte di una donna".

Qualcosa di ancora più bello dell'innamorarsi, a vent'anni, di una ragazza. La seduzione di un dono totale di sé, oltre l'ansia di possesso dell'altro, che quasi sempre rimane anche nel fondo degli amori più grandi. Un darsi senza limite, che potrebbe sembrare utopica generosità adolescenziale se lo stesso prete che ti parla non vivesse, ora, nella durezza di Paesi dell'Est scristianizzati, o nelle periferie brutali delle nostre metropoli.

Ascolti, e capisci, almeno, di non capire: che c'è qualcosa, in quel "sì" totale, che non è comprensibile a tutti. Avverti anche che non è, il rinunciare a una donna accanto, indolore, ma drammaticamente soppesato.

"Ho capito tante cose - ci ha detto uno - quando da ragazzo mi sono innamorato. Ho ca pito di più cos'è amare Cristo, nell'essermi innamorato di una donna. Perché ho saputo in quel momento che la mia vocazione avrebbe comportato un sacrificio, che non avevo del tutto compreso prima".

E il momento di entrare in seminario, per qualcuno ha il sapore del coraggio di chi conta davvero su quella promessa del Vangelo, sul "centuplo quaggiù". Per altri, alla vigilia della scelta il volto di una ragazza a cui si è voluto bene si rivela alla fine "uno schermo, dietro al quale ho riconosciuto il volto di Cristo".

Quel viso di donna come un'immagine esteriore, dietro cui si riconosce una bellezza più grande.
E, la paternità, l'ansia umana di lasciare dietro di sé un figlio, non manca? abbiamo chiesto. "Ti accade il miracolo di persone che si riconoscono tuoi figli: e questo non ha niente di meno della paternità carnale", ha risposto uno dei più maturi negli anni.

E dunque la scelta del celibato è ben consapevole in quelli - pochi, è vero - che oggi diventano preti. Non ha, però, quel sapore di mesta sofferenza testimoniato da Milingo.
E' sacrificio, ma per qualcosa di più grande. Per una bellezza che certo a chi non la vede può apparire illusoria - e assurda la rinuncia agli affetti familiari.

Questi ragazzi col colletto bianco, però, sembrano fortemente radicati nelle amicizie che li hanno accompagnati; forse più coscienti di un tempo del bisogno di umana compagnia che anche i sacerdoti hanno. In questo senso, forti. Convinti di ciò che hanno voluto, e contenti - in un tempo che non capisce più la loro scelta - di quel darsi totale. Pochi, è vero, ma lieti del loro destino. E lieti noi, che questa misteriosa elezione continui ad accadere nella storia.

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"Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (Santa Caterina da Siena)
Caterina63
00venerdì 10 settembre 2010 23:46

I giovani riscoprono la bellezza della fede e del sacro


La mentalità generale che prevale in Occidente prende sempre più le distanze dalla fede della Chiesa. E' un fatto.
C’è da notare che quando si attacca la “Dominus Iesus” come fosse una espressione di intolleranza, la verità è proprio il contrario: non si tollera più che la Chiesa cattolica possa esprimersi sulla propria identità e sulla propria fede, che essa non impone a nessuno, ma che esprime e difende. [...]
Non si sentirebbe il bisogno di attaccare la Chiesa, né la fede, se fossero considerate come delle realtà trapassate o sul punto di esserlo.

Si può dire, dunque, che questi attacchi sono anche un segno della vitalità della fede e della forza che essa conserva nel mondo spirituale. Aggiungerei che questa emarginazione della Chiesa non è così forte in tutte le regioni d'Europa, né in tutte le parti del mondo.
Così possiamo vedere che in Germania è in atto una paganizzazione, soprattutto nelle zone che prima erano comuniste, e comunque nel nord del paese, in cui il protestantesimo si decompone e lascia il posto ad un paganesimo che non ha più bisogno di attaccare la Chiesa, perché la fede è diventata talmente assente che non si sente più il bisogno di aggredirla.
Ma vi sono anche delle situazioni del tutto diverse.
Ai giorni nostri si possono constatare delle nuove manifestazioni di fede: vi sono tra i giovani dei movimenti molto forti che dimostrano la realtà sempre presente di bisogno di assoluto, con una riscoperta della bellezza della fede e del sacro. Questo desiderio del sacro, di recupero di tutte le bellezze perdute, è molto presente presso la nuova generazione. [...] La Chiesa è destinata certamente a vivere in una situazione di minoranza nel nostro continente, ma rafforzandosi spiritualmente e interiormente, tanto da diventare una speranza per molti uomini.

[Riflessioni del Cardinale Joseph Ratzinger tratte dall'intervista rilasciata alla rivista “Spectacle du monde” n° 464, gennaio 2001].


 un grazie al sito Vocazione, raggiungibile dal link del titolo della notizia, di Cordalitier

Caterina63
00lunedì 27 settembre 2010 23:27

Il prete progressista è un istrione narcisista

Pubblichiamo (da Messainlatino) ampi stralci di un articolo di Paul e Daniel C. Vitz, originariamente intitolato Messing with the Mass: The problem of priestly narcissism today” (letteralmente “Aggeggiando con la Messa: il problema del narcisismo dei preti oggi”) e pubblicato nel 2007 su “Homiletic and Pastoral Review”, nel quale viene affrontato, da un punto di vista psicologico, il grave problema del fai-da-te liturgico, ovvero la tendenza, comune a molti preti (ma anche, bisogna dire, ad una certa parte di laici, specie quelli impegnati nella c.d. “animazione liturgica”, musicale e non) a concepire la liturgia come cosa propria, e a sentirsi quindi autorizzati ad introdurvi tutta una serie di varianti, aggiustamenti, trovate più o meno grandi, tanto nelle parole quanto nei gesti, col risultato di commettere dei veri e propri abusi, in barba a quanto prescritto dalle norme.

Gli autori descrivono in particolare lo scenario statunitense, ma ognuno sa da sé come il problema sia molto più diffuso, anche dalle nostre parti: credo che ciascuno di noi abbia avuto a che fare almeno una volta con uno di questi preti “improvvisatori” o “primattori” e con le loro stravaganze. Gli esempi si sprecano: da classici come “Il Signore è con voi” o “Pregate sorelle e fratelli perché il nostro sacrificio...” al prete che modifica perfino il testo del Vangelo, fino al caso limite di quei sacerdoti che apparentemente non possono leggere una riga di messale senza sentire il bisogno di infiorettarla o variarla sottilmente, sì da dare l'impressione d'inventarsi la messa lì per lì (chi scrive ha avuto esperienza diretta di tutto ciò).

Non possiamo che essere d'accordo con la conclusione dell'articolo: la partita della buona liturgia si gioca nei seminari, al livello della formazione dei futuri sacerdoti (che deve includere la conoscenza e il rispetto della Tradizione); ma è anche affidata, più in generale, alla consapevolezza ed alla buona volontà dei laici, che hanno il dovere di attenersi alle leggi stabilite da Santa Madre Chiesa, come il diritto di avere una liturgia ad esse conforme.


***

A partire dal Concilio Vaticano II la messa è caduta vittima d'irregolarità di vario tipo. Questo argomento è stato molto discusso da vari punti di vista, ma in questo articolo prenderemo in esame un aspetto fino ad ora trascurato della questione - i motivi psicologici che possono aver spinto i sacerdoti ad introdurre questi cambiamenti.

[...]

Noi proponiamo che la motivazione primaria alla base di molti di questi cambiamenti derivi da sotterranei impulsi narcisistici - ovvero, un amore di sé spinto all'estremo - comuni a molti uomini e donne nella cultura odierna.

[...]

Lasciando da parte gl'importanti aspetti teologici soggiacenti alla questione, possiamo vedere motivazioni psicologiche profondamente radicate alla base del comportamento di quei preti che "individualizzano" le loro messe, dando la loro "impronta personale" alla liturgia. Questi preti trattano con grande disinvoltura le rubriche della messa, trasformano la "brevissima" introduzione dopo il saluto al popolo, autorizzata dall'Ordinamento Generale del Messale Romano, in un'altra omelia. Alcuni perfino individualizzano la preghiera di consacrazione, ed in molti altri modi cercano di rendere conforme la Divina Liturgia ai loro propri gusti ed opinioni.

Buona parte di questo cambiamento è stata a lungo attribuita allo "Spirito del Concilio", ma in realtà è nostra opinione che vi sia lo sprito secolare e narcisistico dei nostri tempi alla base di queste irregolarità liturgiche. [...] L'atteggiamento di chi “personalizza” la liturgia è chiaramente quello di chi rigetta la storia e la tradizione della Chiesa – proprio come la società in generale ha rigettato il suo passato. Ciò si osserva facilmente nel frequente disinteresse, e talora perfino esplicito disprezzo, per le tradizioni liturgiche da parte di coloro che più strettamente dovrebbero essere legati alla Chiesa – i sacerdoti.

Questi abusi riflettono altresì un'effettivo scollamento dal futuro cristianamente inteso. […] Al suo fondo, la Divina Liturgia è un'espressione di speranza per il futuro, ed è una manifestazione terrena della nostra destinazione suprema – il Paradiso. La messa dovrebbe trarci fuori dal tempo presente – dovrebbe muoversi in una dimensione atemporale e trascendente – e dovrebbe anche farci avvertire tutto il passato della Chiesa che ci precede, con le sue tradizioni. Purtroppo, i fedeli se ne vanno da molte delle nostre messe con poca consapevolezza del significato che la liturgia riveste per il passato della Chiesa e per il loro proprio futuro nell'eternità: la messa è stata un'esperienza puramente emotiva e passeggera, presto dimenticata.

[...]

Il narcisismo miete oggi le sue vittime anche fra i laici. La messa viene presentata come una celebrazione dell'assemblea dei fedeli anziché della Presenza Reale di Cristo nell'Eucaristia.

[...]

In fin dei conti, anche il laicato ha il proprio bisogno di narcisismo, che può facilmente manifestarsi durante la messa, creando disordine in vari modi. Un po' di questo narcisismo dei laici si mostra ad esempio nella frequente pretesa di esercitare un controllo sulla messa e sulle relative preghiere a matrimoni e funerali. Sempre più queste funzioni sono “tagliate su misura” per accontentare l'insistenza dei laici.

[...]

Data la tendenza allo "spontaneismo", all'autostima ed all'autoesaltazione, sacerdoti e seminaristi dovrebbero essere messi in guardia dal pericolo d'infilare la propria personalità nella liturgia. Questa tendenza al narcisismo dev'essere fatta oggetto d'attenzione specialmente nel contesto della messa celebrata versus populum. A prescindere dalle personali opinioni circa i rispettivi pregi della messa celebrata ad orientem o versus populum, non v'è dubbio che la tentazione di atteggiarsi a “primadonna" sia molto maggiore quando il celebrante è rivolto verso l'assemblea.

[...]

Dato che le voglie futili e narcisistiche di molti preti stanno dietro alle loro peculiari ed idiosincratiche modifiche della liturgia, è l'ora che questi aspetti sgradevoli e non teologici siano più diffusamente identificati nei seminari cattolici e nella comunità cattolica in generale. Lasciamo al Cardinale Arinze l'ultima parola sull'argomento: la liturgia, egli dice, “non è proprietà privata di nessuno, e quindi nessuno ci deve giocare”.


Quante volte abbiamo sentito il liturgista di turno lamentare il soffocante “rubricismo esasperato” della liturgia tradizionale. Ma alla luce di quanto abbiamo letto, non dobbiamo pittosto vedere in esso quasi un argine eretto dalla Chiesa, nella sua materna prudenza, contro il dilagare della tentazione a mettere noi stessi al centro, a ritenerci più importanti di tutto il resto, tentazione sempre operante in ogni uomo a causa della corruzione della sua natura, ma soprattutto in chi riveste un ruolo di guida, di autorità, come un ministro ordinato? Non dobbiamo piuttosto apprezzare quelle minute prescrizioni che non lasciano al sacerdote spazio di manovra, portandolo quasi ad annullarsi nel rito, sì da lasciare campo libero all'azione dell'unico vero Sacerdote e Mediatore fra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (avverando in questo modo le parole del Battista in Gv 3,30)?

E non dobbiamo rimpiangere, tra le altre cose, anche l'abbandono di un simile atteggiamento di umiltà verso il rito, tanto più in quest'epoca di divismo, gossip, social network, che moltiplica la smania e le occasioni di farsi notare, di porsi al centro dell'attenzione?

Certo, abusi erano possibili, e sono sicuramente avvenuti, anche prima dell'ultima riforma liturgica. Ma (è un discorso già fatto altre volte) il Novus Ordo, con la sua minore attenzione alle rubriche, le possibili varianti ad libitum, la scomparsa della sezione "De Defectibus", le traduzioni in volgare continuamente riviste al ribasso, non rischia d'incoraggiare una malintesa idea di "creatività"? Non costituisce perlomeno un "calo della guardia" dinanzi a quella cultura dell'"apparire", un abbattimento del summenzionato "argine" contro ogni tendenza narcisistica?

In fondo, cos'è lo “Spirito del Concilio” se non un cedimento alla mentalità del secolo? Presunto “spirito” che vince sulla “lettera”? Mal concepito “amore” che vince sulla “legge”? Impulso interiore, soggettivo, che vince sulla norma esteriore, oggettiva? “Caritas” senza “Veritas”?

Non è questo un ulteriore esempio di rifiuto da parte del dipendente della sua dipendenza, di uomo che mira a farsi Dio per prenderNe il posto?

Francesco


Contro le tentazioni narcisiste, la ricetta è sempre quella:
Apri il Messale, dì precisamente le cose scritte in nero, fai esattamente quelle scritte in rosso (=le rubriche, da ruber, rosso)

Caterina63
00mercoledì 3 novembre 2010 15:47
Apprendo ora questa notizia via Blog di Raffaella... credo faccia comprendere bene le motivazioni della vera resistenza della FSSPX e della prudenza del Papa a tentare di non perderla e di agire anche in modi a noi incomprensibili ma facendo emergere, appunto, chi sono i veri cospiratori...che remano contro entrambi!
  
C'è di fatto uno scisma  NON con la FSSPX ma con il mondo progressista cattolico e il Papa sta cercando di risolvere il problema diversamente da come avvenne per Lutero anche perchè a quei tempi il "garante" dello scisma era Lutero, ma oggi chi è il garante? sono molti!!  
 
Papa/ Vescovo Ratisbona: Dopo il Concilio sacerdozio in crisi  
 
Mueller su nuovo volume di opera omnia: Come Riforma protestante  
 
Città del Vaticano, 3 nov. (Apcom)  
 
Dopo il Concilio vaticano II si è verificata "una crisi d'identità del sacerdozio cattolico storicamente paragonabile solo con le conseguenze della riforma protestante del XVI secolo", secondo mons. Gerhard Ludwig Mueller, vescovo tedesco di Ratisbona (Regensburg),
che ha presentato oggi in Vaticano il XII volume, in lingua tedesca, dell'opera omnia di Joseph Ratzinger dedicata al sacramento dell'ordine sacerdotale.
  
Il vescovo, molto stimato dal Papa, ha affermato: "Dove crolla il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico, non si estingue soltanto la fonte da cui si alimenta un'esistenza al seguito di Gesù, ma vien meno anche la motivazione a rinunciare al matrimonio per amore del Regno dei Cieli, e con la forza dello Spirito Santo accettare con gioia e convinzione il celibato come un rimando escatologico al futuro mondo di Dio".  
Ratzinger, secondo mons. Mueller, "con gli scritti raccolti nel presente volume, ha indicato una via d'uscita dalla crisi in cui il sacerdozio cattolico era caduto a causa di impostazioni teologiche e sociologiche carenti e di dichiarazioni atte a suscitare, in molti sacerdoti che avevano intrapreso con amore e zelo il loro cammino, una personale insicurezza e sconcerto a proposito del proprio ruolo in seno alla Chiesa".



Caterina63
00sabato 27 novembre 2010 00:06
A colloquio con l'arcivescovo Tobin, segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica

Religiosi anticonformisti al passo con i tempi


di Nicola Gori

Con il loro stile di vita e la varietà delle loro comunità i religiosi e le religiose sono una risposta concreta a certi pseudovalori imperanti nella società. A cominciare dall'individualismo e dal consumismo, per finire a quel malinteso bisogno di sicurezza che genera paura e sfiducia verso gli altri. Ma per realizzare una risposta all'altezza occorrono consacrati che vivano la sfida della testimonianza evangelica e non persone che cerchino soltanto di mantenere in vita strutture arcaiche.

È quanto afferma in questa intervista al nostro giornale l'arcivescovo redentorista statunitense Joseph William Tobin,Joseph William Tobin
dallo scorso 2 agosto segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

Il suo incarico le apre nuove possibilità per promuovere la vita consacrata nel mondo. Quali sono le sue priorità?

Sono consapevole che il lavoro del dicastero non è cominciato con il mio arrivo. Ci sono già delle priorità. D'altra parte, dopo diciotto anni di servizio a livello internazionale nella congregazione dei redentoristi, ho qualche idea sulla situazione e sulle aspettative della vita consacrata nel mondo. Certamente, ogni continente ha realtà e problemi specifici.

Ce ne indica i più importanti?

In Africa c'è una popolazione molto giovane, ma spesso priva delle strutture formative o economiche per sostenere una congregazione; da qui il bisogno di maggiore attenzione e accompagnamento alla vita consacrata. In Asia, invece, c'è la grande sfida del dialogo. A questo proposito, i vescovi hanno indicato tre grandi priorità:  dialogare con le culture, con le religioni e con i poveri del continente. Mi sembra, invece, che in America Latina ci sia un grande vantaggio grazie agli orientamenti suggeriti dall'episcopato continentale, soprattutto durante la conferenza del 2007 ad Aparecida. In America del nord occorre riscoprire il ruolo della vita consacrata all'interno di una Chiesa in crescita - penso agli Stati Uniti - ma con un numero sempre minore di religiosi. Per l'Europa, infine, credo che l'attenzione riservatale costantemente dal Papa vada letta in questo senso:  un buon maestro ha nel mirino sempre gli studenti più difficili. Le visite compiute in Francia, in Germania e, più di recente, nel Regno Unito e in Spagna, mi sembra mostrino la sua considerazione verso un continente che ha un patrimonio cristiano, ma registra al tempo stesso una disaffezione di molti fedeli nei confronti della Chiesa.

Come procede la riflessione sulla pastorale vocazionale all'interno degli istituti religiosi, in particolare in quelli femminili?

Credo che noi consacrati dobbiamo riconoscere alcune cose, a cominciare dal fatto che la cultura giovanile non proviene da un altro pianeta. Se riusciamo a entrare nel mondo dei giovani con una proposta di vita piena e di gioia, credo che il Signore farà fruttificare i nostri sforzi. Non altrettanto, invece, avverrà se andiamo solo alla ricerca di impiegati per sostenere le nostre istituzioni. Durante un incontro con i ragazzi di una delle nostre comunità in Europa, mi ha colpito profondamente quello che ha detto uno di loro:  "Io sono pronto a offrirmi come missionario, non come badante dei palazzi". Evidentemente l'immagine che noi redentoristi offrivamo in quel Paese era quella di una comunità alla ricerca di personale per custodire le istituzioni piuttosto che di persone in grado di offrire una testimonianza missionaria.

In Occidente diminuiscono le vocazioni alla vita consacrata. Si tratta di una tendenza temporanea o irreversibile?

Basta leggere la lezione della storia. Nella Francia del periodo post rivoluzionario quasi tutte le congregazioni religiose erano state soppresse e disperse; passata la tempesta, però, grazie a un nuovo impulso dello Spirito Santo, i consacrati hanno trovato modo di rinascere. Parlando sempre della Francia, ricordo che una volta padre Timothy Radcliffe, allora maestro generale dei domenicani, mi confidò che i frati predicatori avevano un numero sorprendente di giovani. Di fronte alla mia incredulità, mi disse:  "La vocazione è un mistero, la chiamata di Dio è sempre un mistero, ma noi domenicani abbiamo fatto delle scelte per dare più chiarezza alla nostra identità. E quindi l'invito dei domenicani si è reso più comprensibile presso i giovani". Ecco il punto centrale:  far comprendere qual è il nostro carisma. Purtroppo, mi sembra che spesso cadiamo nel conformismo e non ci occupiamo più del nucleo della nostra identità da presentare ai giovani. Tuttavia, non credo che questa tendenza sia irreversibile.

Qual è il modo per far capire ai giovani l'aspetto specifico di un carisma?

La prima cosa da spiegare è che la missione di una congregazione resta sempre e comunque una "missione", sia essa contemplativa o attiva. Siamo prima dei chiamati e poi degli inviati. Questo implica che non possiamo ridurre la missione a una forma di apostolato:  occorre mettere in rilievo tutta la nostra vita come una missione continua, sia quando siamo in comunità, sia nella preghiera, sia nel servizio pastorale e apostolico. Non dobbiamo fare a pezzi la nostra identità, ma riconoscere che il carisma è un dono di Dio e a noi tocca fare del nostro meglio.

L'attuale formazione dei novizi e degli aspiranti al sacerdozio risponde alle attese della società contemporanea?

Mi sembra che queste attese facciano già parte della formazione. Quando parliamo della formazione integrale, bisogna considerarla inserita nel contesto in cui si vive, perché la vita consacrata non è un'esistenza su un altro pianeta, ma è essenzialmente una vita. Quando la gente mi chiede cosa sia la consacrazione, dico sempre che è vita nel vero senso della parola. Noi religiosi abbiamo una serie di valori nei quali crediamo. Questo ci spinge a dare testimonianza e a mettere in discussione quelli che sono gli pseudovalori di una società in un particolare momento storico. Penso per esempio al consumismo e all'individualismo, oggi dominanti. Penso alle divisioni in classi, in razze o in gruppi etnici. Credo che le nostre comunità, spesso composte da persone di varie nazioni e culture, siano una testimonianza concreta che mette in discussione la xenofobia, la paura, la sfiducia degli altri e, più in generale, le sicurezze di certe società.

Il problema della formazione viene affrontato solo quando ci sono problemi che coinvolgono i consacrati?

Se si tiene conto della piccola percentuale di consacrati implicati negli scandali, almeno per quanto riguarda gli abusi sessuali, si può concludere che la formazione riesce veramente a plasmare donne e uomini dotati di una  sessualità  matura  e non patologica.

I vescovi segnalano una certa autonomia del clero regolare nella partecipazione alla vita delle diocesi. È un fenomeno diffuso  o ci sono progressi rispetto al passato?

Credo che il problema sia reale. Non parliamo di colpe specifiche, piuttosto di una mancanza di conoscenza reciproca. Spesso i religiosi non conoscono gli obiettivi del piano pastorale di una diocesi o di una conferenza episcopale, e neppure se ne interessano. D'altra parte, ci sono pastori che ignorano le esigenze della vita consacrata. Dei religiosi si preoccupano solamente allorché sfuggono al loro controllo. Non è certo un'ottica utile per promuovere la comunione. Orazio diceva che io non posso amare ciò che non conosco. Sia da parte dei religiosi, sia da parte dei vescovi, c'è sempre la sfida di una conoscenza vicendevole. Nel 1978 il nostro dicastero, insieme con la Congregazione per i Vescovi, ha pubblicato il decreto Mutuae relationes per favorire una migliore conoscenza tra clero diocesano e religiosi. Purtroppo, molte delle norme e delle pratiche suggerite da quel documento non sono mai state messe in pratica. C'è da pensare che forse è venuto il momento di rivedere questa mutua relazione.

Gli istituti religiosi, specialmente quelli femminili, operano una sorta di reclutamento di giovani nei Paesi del terzo mondo per supplire alla scarsità di vocazioni. È una questione ancora attuale?

Ci sono state delle accuse in passato ma sinceramente non sono in grado di giudicarle. Negli istituti che conosco personalmente, mi sembra che esista una sensibilità diffusa nel rifiutare l'idea di un reclutamento volto a sostenere le istituzioni. Anche perché significherebbe, di fatto, approfittare di certe situazioni sociali ed economiche solo per mantenere in piedi le nostre strutture. Difficilmente si può vedere in questo un valore evangelico.

In alcuni casi le comunità contemplative sono composte da pochi membri anziani. La soppressione di qualche monastero per concentrare le forze può essere una soluzione al problema?

Si tratta di una questione attuale, perché nella vita contemplativa, soprattutto in quella femminile, l'autonomia dei monasteri rappresenta un valore e una tradizione molto forte e bella. D'altra parte, può costituire anche un ostacolo alle esigenze di riordino e, eventualmente, di ridimensionamento di una realtà religiosa. In ogni caso, è sempre un'esperienza dolorosa per una comunità scegliere di estinguersi piuttosto che unirsi a un altro monastero. Un serio dialogo tra monasteri è da incoraggiare e da sviluppare per un discernimento più profondo sul carisma della vita contemplativa. A volte siamo chiamati a un processo di kenòsis, di svolta, di rinuncia ad alcuni valori, come quello dell'autonomia, in favore della continuità del dono carismatico della vita contemplativa nella Chiesa. Come ogni professione religiosa è un atto di svuotamento personale, così il problema della mancanza di vocazioni nelle grandi strutture è forse un invito dello Spirito Santo a uno svuotamento, a un processo di kenòsis a livello istituzionale per assicurare che il dono continui.

Ritiene opportuno che la Congregazione imponga per decreto la chiusura di alcuni monasteri?

È sempre meglio che queste decisioni siano prese a livello locale e credo che il principio della sussidiarietà indichi questa preferenza. Peraltro, tale principio diventa anche una spada a doppio taglio, nel momento in cui gli interessati non riescono a prendere la decisione e la responsabilità di scegliere. Tuttavia, ogni intervento esterno non deve essere fatto per motivi di potere o di dominio dell'autorità superiore. Piuttosto va improntato alla carità, che ci spinge ad aiutare i fratelli e le sorelle che, per qualche ragione, non riescono ad arrivare a una soluzione.

Di fronte alla crisi di alcuni ordini tradizionali si riscontrano nuove forme di vita consacrata. Quale rapporto esiste tra antico e nuovo?

Non so se questa è un'immagine esatta, ma vedo la ricchezza della vita consacrata come un ecosistema. Nella nostra epoca siamo molto sensibili all'ecologia e credo che esista anche una sorta di ecologia ecclesiale. Gli scienziati confermano che la varietà delle specie di flora e di fauna garantisce il futuro di un ecosistema. Da qui la preoccupazione allorquando sparisce o viene minacciata una di esse. Allo stesso modo, la Chiesa deve preoccuparsi quando alcune forme di vita consacrata si trovano a rischio di estinzione, perché questa ecologia ecclesiale è formata da un'ampia varietà. Nella prima lettera ai Corinzi san Paolo scrive che ci sono molti doni, ma unico è lo Spirito che suscita e guida questi doni. Per questo la Chiesa deve ringraziare Dio per il dono delle nuove forme di vita consacrata e non lasciarle sparire senza preoccuparsene, perché ognuna di esse ha un contributo specifico da offrire alla comunità ecclesiale.

Qual è attualmente il rapporto tra vita consacrata e i movimenti sorti negli ultimi decenni?

Il dialogo tra i nuovi movimenti ecclesiali e gli istituti tradizionali può essere molto utile. Ricordo di aver visitato poco tempo fa un monastero contemplativo dove le monache erano tutte giovani. È bello certamente vedere una comunità del genere. Anche se non bisogna trascurare il rovescio della medaglia. Laddove non ci sono monache anziane, può mancare l'esperienza e la guida nei momenti di crisi. Allo stesso modo, credo che nella Chiesa il dialogo tra i nuovi movimenti ecclesiali e gli ordini tradizionali possa essere di aiuto reciproco:  ai primi serve per superare le crisi, ai secondi per scoprire nuove energie ed essere più coerenti con l'ispirazione del fondatore.



(©L'Osservatore Romano 26 novembre 2010)


ATTENZIONE segnaliamo anche questa sezione dedicata alla Vocazione religiosa e a diversi Ordini Religiosi:

Comunità, Monasteri ed Ordini Religiosi


Unione superiori generali: L'Europa interpella la vita consacrata


Caterina63
00martedì 4 gennaio 2011 12:58

Poche vocazioni. Ma di qualità. È questa la parola d'ordine dei seminari di Roma. Merito delle nome più restrittive imposte dal Papa (Gagliarducci)

Meno sacerdoti ma di qualità

Crisi di vocazioni
Nel Seminario Maggiore studiano 73 giovani di cui solo 25 romani. Le norme più restrittive per vestire l’abito talare fanno calare ancora il numero delle ordinazioni: 14 nel 2010.


Andrea Gagliarducci

Poche vocazioni. Ma di qualità. È questa la parola d'ordine dei seminari di Roma. Sono circa un centinaio quelli che stanno facendo un cammino per diventare sacerdoti nella città di Roma. Di loro, una piccola percentuale lascerà la capitale, per tornare nelle diocesi di appartenenza. Mentre gli altri saranno smistati nelle parrocchie di Roma, dove cominceranno il loro servizio pastorale.

È la capitale d'Italia e la sede del governo centrale della Chiesa. Ma Roma, come del resto tutta Italia, risente della crisi delle vocazioni.

Dal 1998 al 2008 i seminaristi in Italia, religiosi e diocesani, sono diminuiti del 10,6%, passando da 6.315 a 5.646, e sempre più sono gli stranieri. Roma non fa eccezione. Una istituzione come il Seminario Romano Maggiore, che ospita ogni anno Benedetto XVI durante la festa della Madonna della Fiducia, oggi conta 73 seminaristi.
 Di questi, solo 25 sono romani.
Un altro terzo sono sacerdoti di fuori Roma che sono qui e tornano nelle proprie diocesi. E una ventina di loro sono sacerdoti stranieri che studiano nel Seminario Maggiore e poi tornano nei loro Paesi d'origine.

I numeri segnano una crisi: poco più di vent'anni fa, il Seminario Maggiore di Roma contava circa duecento seminaristi. Non se la passano meglio gli altri seminari della capitale. Specialmente quando si parla di seminaristi per Roma, ovvero di seminaristi che vengono dalla città di Roma e studiano a Roma per poi proseguire il loro servizio pastorale nella capitale.

È vera crisi? Se si guarda ai numeri, indubbiamente sì. Ma don Dario Gervasi, vicerettore del Seminario Maggiore di Roma, guarda tutto da un'altra prospettiva.

«Noto - racconta - un bel clima in seminario. Un clima di speranza, voglia di fare, di migliorare. Io sono convinto che il Signore sa come aggiustare le cose. La diminuzione del numero dei seminaristi può essere colta come un'occasione per ripartire meglio».

Un compito reso ancora più difficile dal fatto che le ordinazioni sacerdotali a Roma sono andate diminuendo. Erano in 14 lo scorso anno a ricevere l'ordinazione sacerdotale, 5 in meno del 2009. Merito anche delle norme più restrittive per l'accesso al sacerdozio, voluto dal Papa. Meno numeri, più qualità.
 
Secondo i dati dell'Ufficio Vocazioni della Conferenza Episcopale Italiana, in quest'ultimo anno nella città di Roma ci sono 118 aspiranti sacerdoti, divisi tra il biennio di filosofia e il triennio successivo in teologia. Sono ventitré, invece, le persone che hanno lasciato la preparazione al sacerdozio durante lo scorso anno.

Il numero di religiosi è più ingente, e basterebbe guardare alle 61 ordinazioni di Natale dei Legionari di Cristo, celebrati a San Paolo Fuori Le Mura. Sono oltre un migliaio quelli che seguono tra i religiosi la formazione per diventare sacerdoti. Numeri alti, che però non devono ingannare. «Le congregazioni - spiega padre Giovanni Sanavio, responsabile del sito vocazioni.net - un percorso di studi più prolungato (dai 7 agli 8 anni) ed è ovvio che risultano più candidati al sacerdozio di quelli diocesani che hanno in tutto sei anni di formazione al seminario maggiore».

 Il Tempo, 4 gennaio 2011

Caterina63
00mercoledì 12 gennaio 2011 11:33

Parla Don Sbicego, il sacerdote vicentino passato alla FSSPX

da messainlatino:

Don Massimo Sbicego, il parroco vicentino entrato pochi giorni orsono nella Fraternità San Pio X, ci ha cortesemente inviato copia della lettera che ha indirizzato ai suoi ex parrocchiani, unitamente a quella delle missive con cui ha spiegato la sua scelta alla Curia vicentina. Quale sia la personale opinione circa la decisione, sofferta e meditata, del sacerdote, penso sia molto apprezzabile il suo tono garbato e rispettoso verso le autorità diocesane e gli stessi parrocchiani, pur accompagnato da giusta fermezza e chiarezza sulle questioni dottrinali e liturgiche che hanno motivato il grande passo.

Enrico







11 gennaio 2011
Carissimi fedeli,

mi sembra opportuno, a distanza di qualche giorno, uscire dal riserbo che ha caratterizzato la mia partenza: sappiate anzitutto che anche a me è dispiaciuto non averVi salutato personalmente testimoniando la stima che ho per Voi.

La decisione di entrare nella Fraternità Sacerdotale San Pio X, unitamente alle motivazioni che la determinano, non è di oggi: già due anni fa ne parlai con mons. Nosiglia, allora Arcivescovo Vescovo di Vicenza, per ottenere il permesso di trascorrere un anno "sabbatico" presso una casa di tale istituto.

A metà dicembre u.s. mi sono aperto nuovamente e con franchezza circa la mia decisione con mons. Furian; l’Amministratore Diocesano mi ha accolto e ascoltato con la massima benevolenza manifestandomi il desiderio che io lasciassi gestire all’autorità diocesana il compito di dare spiegazioni. Tale intenzione mi è stata successivamente manifestata anche dal Vicario foraneo. La richiesta mi è sembrata ragionevole e l’accoglierla mi è sembrato un segno di buona volontà verso i miei superiori che ho inteso lasciare liberi nel gestire al meglio la situazione che si sarebbe creata: me ne sono così andato senza clamore onde peraltro evitare di coinvolgerVi direttamente in questa delicata questione di coscienza. Tutto qui.

Quella che troverete di seguito è la stessa lettera e lo stesso biglietto d’accompagnamento, che inviai a mons. Furian, dopo il nostro colloquio personale di metà dicembre; sono testi che esprimono non solo la consapevolezza di una situazione ecclesiale, ma anche l’interiorità della mia persona.

Ringrazio tutti coloro che in questi giorni mi hanno espresso la loro vicinanza; Vi saluto con affetto e chiedo al Signore di benedirVi.

don Massimo


***



Pedemonte, 21 dicembre 2010

Carissimo don Ludovico,

ti ringrazio di cuore per il paterno colloquio del 14 dicembre e per la tua ulteriore lettera; in essa ho sentito viva la stima, la comprensione e l’umanità che del resto è reciproca.

La scelta della Fraternità San Pio X, oltre che scelta di coscienza, si basa su profonde convinzioni dottrinali, su una ricerca di Verità, che è Nostro Signore, che mi hanno interrogato, a volte inquietato, per anni fino a mettere in discussione il ministero ricevuto. Nella Fraternità ho trovato il senso profondo del Sacerdozio Cattolico tanto che potrei osar dire: "ai più sembrerà che io lasci la Diocesi, in realtà, come Cattolico, sto tornando a casa".




Don Massimo



A mons. Ludovico Furian
Amministratore diocesano

mi accingo a scrivere queste poche righe per rendere ragione di una scelta che è scelta di coscienza, di fede, e soprattutto di coerenza con la chiamata di Nostro Signore al Sacerdozio e con l’ideale sacerdotale.

Spesso a noi Sacerdoti viene chiesto se abbiamo incontrato Gesù; io oggi posso dire: "Sì! Io l’ho incontrato". L’ho incontrato ai piedi di una croce che sovrastava un vecchio altare, mentre offrivo la Vittima Santa ed Immacolata, per i miei peccati, per coloro che assistevano a quella S. Messa, per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti. L’ho incontrato attraverso un rito liturgico, quello di sempre, quello che il Santo Padre vuole rivalorizzare malgrado mille ostacoli, che significa molto di più di una cerimonia esteriore: esso rende presente realmente il Calvario e il Sacrificio della Croce tra le mie mani, in modo misterioso ma chiaro mi fa essere e sentire unito a Cristo, soprattutto attraverso il desiderio di imitarlo come sacerdote, pastore e in qualche modo anche come vittima, offrendo le mie croci quotidiane in unione con Lui.

Celebrando il Santo Sacrificio il Signore stesso ha risvegliato in me un seme sopito, quasi soffocato da inconcludenti pastorali e da pindariche "svolte antropologiche", il seme della chiamata Sua al Sacerdozio: "ti voglio per Me per la salvezza delle anime" è l’idea che scaturisce dal Santo Sacrificio della Messa, l’unico, la S. Messa di sempre. Per me oggi è incredibile ed insopportabile che la S. Messa, il cuore vivo e pulsante della Grazia nella Chiesa, venga sottoposta al vaglio di chi la giudica "noiosa", che si senta l’esigenza di "riflettere su come valorizzarne i segni" in modo creativo, con chi della vita e del Sacrificio di Nostro Signore ha capito poco o nulla. D’altra parte mi rendo conto che questo problema è legato alla natura conviviale del Novus Ordo: la cena se non è coinvolgente, viva, emozionante, è invito sgradito; penso che il rischio concreto sia di costruire una celebrazione ed una Chiesa adolescenziali, mirate a "coinvolgere" più che a "santificare".

Una voce autorevole ha parlato di "apostasia silenziosa": la stessa che ho sperimentato diffondersi tra i nostri ragazzi e giovani insegnando alle medie e alle superiori, incontrandoli in parrocchia piuttosto che per strada; penso che essa derivi dall’assumere inconsapevolmente la mentalità del mondo contemporaneo con il suo egoismo, l’assenza dello spirito di sacrificio, della mortificazione, la negazione o l’ignoranza del soprannaturale, il relativismo religioso ed etico etc. Il punto dolens tuttavia è che i nostri percorsi di catechismo, i gruppi, l’IRC, favoriscono tutto ciò, laddove la dottrina cattolica è dimenticata, non insegnata, a volte persino ridicolizzata a favore di "dimensioni umane" che non giungono mai al dunque: maturare una scelta consapevole e incondizionata di fede e di vita Cattolica.

In questo la Santa Messa Tridentina impone, con la forza della Grazia e della Tradizione, una messa in discussione della nostra tiepidezza, una riforma personale di vita, unitamente ad un’ecclesiologia sensata dove i fedeli portano avanti la loro battaglia nel mondo, nel lavoro, in famiglia, nello sport, scoprendo che il mondo non li ama perché sono di Cristo e della Chiesa Cattolica; i Sacerdoti si dedicano a Dio, nell’orazione e nell’apostolato, per sostenere, esortare, far maturare, donare la Grazia sacramentale che è Cristo stesso.

Una battaglia pacifica, non irenica, certamente non di "basso profilo"; sento improrogabile una Chiesa che abbia il coraggio della Verità, di ridirla oggi, perché la Dottrina non è sua proprietà ma rappresenta il Buon Deposito che Cristo le ha dato: l’Unicità della Salvezza di Nostro Signore; il senso della vita orientata ai Novissimi; il senso del Sacrificio di Cristo dal quale ciascuno può ricevere la Grazia che salva; il senso di un impegno serio, fatto di ascesi e di caritas che il Signore retribuirà al momento opportuno; il senso della Presenza Vera, Reale di Cristo nell’Ostia; il senso della Speranza per tutti i crocifissi della storia perché Cristo è stato il primo di loro e continua ad esserlo quotidianamente sull’altare; il senso di una Chiesa capace ancora di insegnare ai giovani ad inginocchiarsi per recitare il Santo Rosario; il senso di una Parola al servizio del Santo Sacrificio; una Parola illuminata dalla Tradizione costante piuttosto che abbandonata ad interpretazioni estemporanee, effimere, al "magistero" soggettivo della Cesira, piuttosto che dell’improbabile esegeta di turno, in contrasto con il Magistero della Chiesa.

Quanto mi fa riflettere quel passo di San Paolo: "Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole" … e quanta confusione sento, quante banalità, quante sparate, quante "teologie" à la page.

Oggi sono pronto per scegliere Nostro Signore forse più di quando fui ordinato, dieci anni fa, perché vedo la storia che Egli ha fatto con me; pur rattristato per tanti confratelli che, anche recentemente, hanno abbandonato il ministero, con un po’ di nostalgia per la Diocesi che continuo ad amare ed alla quale rimango profondamente legato, oggi scelgo di continuare la mia vita di consacrazione lì dove Egli è presente con Verità, Fede, Dottrina, Speranza, per un futuro di ricostruzione della Chiesa: la Fraternità Sacerdotale San Pio X.

Umilmente chiedo ad un uomo semplice, dal sorriso sincero, ad un Vescovo dalla statura enorme, mons. Bernard Fellay, di accogliermi nella lotta contro l’autodemolizione della Chiesa, affinché Cristo risorga nei cuori e nelle società.

Con la presente dò quindi le dimissioni da parroco dell’Unità Pastorale Alta Valdastico dal mezzogiorno del 30 dicembre, pregando per Lei, mons. Vicario, e chiedendole di provvedere alla cura pastorale di quegli amati parrocchiani.

Finché sono rimasto vi ho dato il mio cuore e ho cercato di trasmettere un po’ della Fede Cattolica tuttavia, senza la Santa Messa di sempre, quella Tridentina, il cielo resta chiuso e la deriva è inevitabile (M. Devies, "La riforma liturgica anglicana").

Certo del reciproco rispetto per una scelta di coscienza tanto travagliata e della vicendevole preghiera che ci unisce all’Unica Chiesa Cattolica, supplico il Signore affinché: "Corpus Domini nostri Iesu Christi custodiat animam nostram in vitam æternam".

Pedemonte, 14 dicembre 2010

con fiducia
don Massimo Sbicego



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 la mia breve riflessione:


Embarassed Le parole di Don Massimo mi ritrovano in un riscontro tristemente reale, per esperienza diretta, in questi quadri:  
 
- PASTORALI INCONCLUDENTI.... frase durissima ma verissima che ci richiama a quell'attivismo infruttuoso dal quale non scaturiscono vocazioni ma tutt'alpiù forgiano nuovi ASSISTENTI SOCIALI.... un parroco una volta disse apertamente in una omelia che NON comprendeva come mai in dieci anni di ATTIVITA' PARROCCHIALI non fosse scaturita NESSUNA VOCAZIONE.... "non comprendeva o ignorava la verità che aveva davanti?" non spetta a me discutere questo, ma ESPORRE IL PROBLEMA SI... questo spetta a noi....  
 
l'altro quadro è il seguente:  
 
- " Il punto dolens tuttavia è che i nostri percorsi di catechismo, i gruppi, l’IRC, favoriscono tutto ciò, laddove la dottrina cattolica è dimenticata, non insegnata, a volte persino ridicolizzata a favore di "dimensioni umane" che non giungono mai al dunque: maturare una scelta consapevole e incondizionata di fede e di vita Cattolica."  
 
il paradosso è che abbiamo una sfilza di CATTOLICI ADULTI.... mentre manca all'interno una autentica MATURAZIONE della fede e della vita veramente Cattolica.... è un paradosso ammantato di superbia e di orgoglio che fa prevalere l'ASSOCIATISMO PENALIZZANDO L'ECCLESIALITA'.... l'associatismo infatti non necessita di dogmi e dottrine, basta UNA QUALSIASI FEDE per renderlo MOVIMENTO....al contrario l'ecclesiologia la quale si fonda sulla dottrina e di conseguenza  SUI SACRAMENTI - Confessione e Messa soprattutto - necessita non di una fede qualsiasi, ma di quella DEL DEPOSITO DELLA FEDE GESTITA NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA....  
 
Don Massimo ha fatto una scelta che mi riporta allo scenario del Vangelo DI MARTA E MARIA....in Lc.10,38-42 Wink  
Marta " Lo ospitò a casa sua....era molto affacendata" ( ATTIVISMO )....  
Maria invece si mise ai suoi piedi "per ascoltare ciò che diceva" (VITA ECCLESIALE )....  
 
Maria NON DICE NULLA.... :  
"Allora Marta si fece avanti e disse: "Signore, non vedi che mia sorella mi ha lasciata da sola a servire? Dille di aiutarmi! Ma il signore rispose: Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose. Una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore e nessuno gliela porterà via."  
Gesù non intendeva certo penalizzare LA SANTA ATTIVITA'.... non a caso le maggiori Opere di bene nascono proprio nella Chiesa VERSO LA SOCIETA' E L'UOMO DA SERVIRE.... ma qui Gesù sottolinea proprio quell'ATTIVISMO che non favorisce l'attività ecclesiale... ma resta fine a se stesso, per una necessità SECONDARIA....ed è fondamentale sottolineare che Gesù NON condanna Marta, ma molto più divinamente ELEVA la scelta di Maria AD UNA NECESSITA' PRIMARIA.... Wink  
 
Non dobbiamo giudicare o condannare Don Massimo per la sua "scelta migliore", quanto piuttosto INTERROGARCI ed evitare di comportarci come Marta che a differenza di Maria CHE TACE, DENUNCIA IL SANTO COMPORTAMENTO di Maria, ma senza ottenere ragione... Wink  

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Bartimeo ha detto:

" Noi ci esaltiamo nella disobbedienza, ci sembra di dare prova di energia e di vigore personale; ma San Benedetto dichiara che è semplicemente PIGRIZIA". Paul Delatte, Commentario, pg 19.  
Giusto per usare uno strumento di comparazione tra il vero e Santo Sacerdote che nonostante tutte le prove cui è sottoposto persevera a stare lì dove Dio lo aveva posto e chi non lo fa.  
Poi liberissimo di andare dove vuole. Ma la Chiesa, come dire, non è una azienda da cui ci si dimette per cambiare un'altra azienda.  
"Il dolore è buono, è l'avvicinarsi a Dio" (pg 37) quando uno non sopporta più il dolore cosa fa? Appunto: fugge!  
Liberissimo di andarsene ma non fatelo passare per per martire.  
MD


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la mia risposta:

Embarassed  perdonami Bartimeo, ma Don Massimo NON  si è dimesso.... non ha trattato la Chiesa come "una azienda", se è per questo, in alcune diocesi e parrocchie lo ha fatto da sè stessa.... Wink  
Pur liberissimo di andare dove vuole, egli NON è uscito dalla Chiesa... se la FSSPX fosse FUORI della Chiesa, non avrebbe alcun senso la revoca della scomunica ai 4 vescovi! Segno evidente che il Papa HA ANCORA GIURISDIZIONE SUI 4 VESCOVI e sulla FSSPX che attualmente vive una situazione di EMERGENZA E STRAORDINARIETA'.... così come è altrettanto AMBIGUO sostenere che la Messa antica NON POTENEDO MAI ESSERE ABROGATA E' DUNQUE LIBERALIZZATA - Summorum Pontificum - difatto però è paradossalmente  celebrata in forma "straordinaria".... Embarassed  
se una Messa E' "LIBERA DI ESSERE DETTA"  - parole usate da Benedetto XVI -, perchè RINCHIUDERLA in una forma detta "straordinaria"?  
così si è messa la FSSPX in una sorta di FORMA STRAORDINARIA.... il chè è del tutto legittimo e per altro sostenuto dal Concilio Vaticano II in quel suo concetto di APERTURE a sostegno di ogni attività emergente nella Chiesa.... Wink  
 
In secondo luogo io penserei di più alla vocazione di questa Persona.... se per salvare tale vocazione egli nella FSSPX ha trovato la VIA, LA VERITA' E LA VITA.... buon per lui e per noi perchè come dice san Paolo:  
1Cor  
Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo! oppure: Io invece sono di Apollo! E altri: E io sono di Cefa! O ancora: Io sono di Cristo! Ma Cristo è stato forse diviso?» (1,1 1-13).  
 
Caro Bartimeo, chi ha portato queste divisioni a queste estreme conseguenze? Wink  
 
Don Massimo NON E' FUGGITO.... ma è entrato a far parte di quella schiera di cui il Papa dice nella Lettera ai Vescovi:  
 
Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme?  
Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se... non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi? "


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Areki ha detto:
 
Non c'è che da ringraziare il Signore per queste lettere così semplici e profonde. Sono contento perchè don Massimo ha trovato nei superiori diocesani ascolto e comprensione, al di la della situazione che egli denuncia e che effettivamente esiste.  
C'è un disagio in molti sacerdoti e c'è una crisi di identità. Quello che don Massimo ha detto è tutto vero.  
Lo seguo con la preghiera e l'affetto, mentre continuiamo tutti a fare la buona battaglia per la Tradizione.  
don Bernardo



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Il mio grazie:

BRAVO Don Bernardo!!! Smile  
l'assurdità di chi critica la scelta di Don Massimo sta nel fatto che non comprendono questa CRISI D'IDENTITA' della vocazione, ragion per cui, chi si scandalizza di un prete che va nella FSSPX non sa fare e dire nulla per i LAICI che a causa di questa crisi, lasciano la Chiesa invece per recarsi tra i buddisti, animisti, pentecostali, e quant'altro di più esotico esista sul mercato....
  
Al contrario dovremmo RINGRAZIARE Dio per aver conservato questa Vocazione e fare noi lo sforzo, con tutta umiltà, di riconoscere che la crisi d'identità è scaturita all'interno della Chiesa e non nella singola vocazione della fondazione di mons. Lefebvre il quale fondò la FSSPX proprio per salvaguardare l'identità del Sacerdozio CATTOLICO....  

SIAMO NELLA STESSA BARCA..... lo comprendano quanti criticano la scelta di Don Massimo!




Caterina63
00venerdì 11 febbraio 2011 12:38

La crisi del Clero (I parte)

Alcuni ricorderanno la vicenda di don Yannick Escher, canonico regolare agostiniano, che l'estate scorsa ha abbandonato l'Abbazia di San Maurizio di Agauno, in Svizzera, per unirsi alla Fraternità di S. Pio X. In un video divulgato di recente dall'agenzia DICI (http://gloria.tv/?media=122866), il religioso ha esposto i motivi che l'hanno spinto a tale scelta. Ne risulta un quadro allarmante, ma profondamente realistico, della situazione attuale del clero.
Le riflessioni del can. Escher rivestono, a mio avviso, una grande importanza, non solo perché mettono in luce tutti i principali aspetti della crisi, ma anche perché si fondano sulla sua esperienza di sacerdote, tenendosi a debita distanza da qualunque pregiudizio ideologico o intento polemico. Proprio questo è il loro valore aggiunto: lo spassionato realismo.
E proprio questo è ciò che manca al cattolicesimo di oggi, ivi compresi certi ambienti che si dicono legati alla Tradizione.
L'immersione nella realtà, nella realtà vera, è ciò che serve per dissipare decenni di teorie, equivoci, dubbi, che ancora oggi inducono molti a negare l'esistenza della crisi o ad ignorare le sue cause profonde. Perciò ho creduto opportuno realizzare una traduzione italiana del discorso di don Escher.
A tale scopo, mi sono servito della trascrizione pubblicata sulla
lettera di aggiornamenti (n. 268) di La paix liturgique. Buona lettura.
Daniele di Sorco
da
FaceBook

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La Crisi del Clero secondo don Y. Escher
da La Paix Liturgique (n. 268)

I - Il prete di oggi è una vittima

Immaginate un prete qualunque che arriva in una parrocchia. Nella maggior parte dei casi, egli si trova da solo in mezzo alle rovine. Si potrà dire che un'affermazione del genere è eccessiva, caricaturale, ma bisogna guardare in faccia la realtà. Che cosa avviene? Poche persone al catechismo, capelli bianchi, chiese in cattive condizioni - dipende dai luoghi e dai paesi - e un sovraccarico di lavoro, di Messe, di doveri. Il prete fa una vita da funzionario, sempre impegnato a preparare qualcosa, a correre da una parte all'altra; e non vede grandi risultati. E poi, una grande solitudine. Egli è vittima di quanto è accaduto negli anni del post-Concilio, quando tutto il tessuto parrocchiale è stato distrutto.

Troppo spesso si cade nell'errore di dire che è il mondo ad essere cambiato. Non è colpa nostra, è colpa del mondo. Troppo facile. Si scaricano sempre sugli altri le proprie responsabilità, si individua il capro espiatorio e si dice: è il mondo, è la mentalità della gente, la gente non è più cristiana... Ebbene, non è il mondo che ha fatto chiudere le scuole cattoliche, gli ospedali cattolici, i patronati. Non è il mondo, sono i preti che hanno deciso di chiudere, di cambiare.
Vorrei citare una frase pronunciata da don Ducarroz, prevosto della cattedrale di S. Nicola a Friburgo, in un momento di grande lucidità e onestà. Egli è stato ordinato proprio alla fine del Concilio. Parlando alla radio, qualche anno fa, ha detto: "Quando sono stato ordinato, ci hanno detto: toglietevi l'abito talare, chiudete le opere cattoliche [scuole, ospedali, ecc.] - tanto ci sono quelli delle collettività civili - andate dalla gente, apritevi. L'abbiamo fatto, le nostre chiese si sono svuotate, i nostri seminari si sono svuotati: forse ci siamo sbagliati". Un momento di lucidità straordinaria.
Il fatto è che il giovane prete arriva con un certo ideale, pieno di buona volontà, e si trova di fronte alle rovine. Ed è solo, di fronte a queste rovine. È la vittima di questo stato di cose senza esserne responsabile.
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2 - Il prete è mal formato

Sulla carta, bisogna attenersi alle disposizioni di Roma, che controlla i corsi accademici. Ma poi occorre valutare la qualità del corso accademico. La filosofia, molto spesso, non è altro che storia della filosofia. Quando Roma parla della filosofia, è sottinteso ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, cioè la filosofia di S. Tommaso, che prepara a comprendere la teologia. Invece no, si studia la storia della filosofia o la filosofia del pensiero moderno. Dunque non si dispone più di strumenti concettuali.
Inoltre, la questione del dogma, per esempio, è ridotta a storia del dogma con un po' di speculazione. Poi - almeno, a quanto ho potuto vedere io all'università di Friburgo - si porrà l'accento sulla pastorale, l'omiletica, la pedagogia religiosa, che non costituiscono certo il fondamento della formazione sacerdotale. Queste cose si imparano sul terreno, fuori dell'ateneo, alla fine del corso. Invece, le materie importanti sono insegnate in modo poco approfondito, non costituiscono più l'ossatura della teologia e della formazione. Ecco il problema.
Certo, c'è ancora qualche nozione, qualche vaga nozione, ma dai seminari e dalle università, da quanto ho potuto vedere a Friburgo, non escono più dei teologi in quanto tali. E poiché il livello non è elevato, si abbassano, a poco a poco, anche i requisiti. Per esempio, il corso di storia della Chiesa, che avrebbe dovuto essere di livello universitario, in realtà era adatto, tutt'al più, a un'ultima classe di liceo. E confrontandosi con gli studenti della stessa età che frequentavano corsi di storia tenuti da professori laici - storia contemporanea, storia moderna - emergeva che essi frequentavano dei veri corsi di storia, con un intento accademico, scientifico. Per la storia della Chiesa, era completamente diverso: si trattava di una specie di riassunto abbozzato a grandi linee.Si aveva l'impressione di trovarsi di fronte ad una specie di fai-da-te accademico. Ma senza alcuno strumento concettuale.

Ovviamente, la storia, la Tradizione, tutto comincia col pre-Concilio o col Concilio. È uno dei principi guida. Ma se questa generazione di preti non conosce ciò che c'era prima, è perché i preti che hanno avuto [come maestri] hanno criticato ciò che c'era prima. Si è detto loro: "Ora non è più come prima".
Posso fare un tipico esempio: corso di pastorale, università di Friburgo. Ero studente. Il prete [professore] si presenta con un pannello e ce lo illustra: "Prima la Chiesa era questo", mostrandoci, disegnata sul pannello, una piramide. Poi gira il pannello: "Ora la Chiesa è questo": c'era disegnato un cerchio. Ero al secondo o terzo anno di università. Lo scopo era quello di farci capire che cos'era la Chiesa in teologia pastorale.
È tutto un confronto, un'opposizione... Prima [del Concilio] non c'è niente o, se c'è qualcosa, viene confinata nell'ambito della storia o dell'aneddotica.
La liturgia, per esempio. Ci dovrebbe essere una certa continuità, per usare le parole del Santo Padre, un'ermeneutica della continuità. Invece, secondo le lezioni di un professore di Friburgo, la liturgia si è pervertita al tempo di Costantino e ha recuperato le sue fonti primitive e meravigliose solo col rinnovamento liturgico, soprattutto con la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e la sua realizzazione nella Messa di Paolo VI. Tutto ciò è molto chiaro. Poi vi è una parentesi nella parentesi, cioè la riforma tridentina. Tutto chiaro.
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3 - Il prete è prigioniero

Un prete che ha sperimentato la Tradizione della Chiesa, ciò che la Chiesa ha sempre fatto, si sente come prigioniero, perché si trova preso in ostaggio tra i suoi confratelli, i fedeli, i collaboratori pastorali e il suo Vescovo.
Mi ricordo di un giovane prete che diceva di essere stato obbligato ad imparire un'assoluzione collettiva per la confessione, pratica interdetta ancora oggi dalla Chiesa, ma largamente diffusa in diverse diocesi, con la tacita approvazione del Vesovo.
Ma era stato obbligato a farlo, e subito dopo si era confessato con un altro prete. Ne era ancora sconvolto. Tutto ciò è tragico. Egli è come un prigioniero, perché deve farlo ma sa che non è giusto. È tragico in questo senso. E se si appella ai documenti del Sommo Pontefiche sulla confessione, o al motu proprio di Giovanni Paolo II sugli abusi liturgici, o ai decreti sul ruolo dei laici in chiesa, sui rapporti tra i laici e i preti; se si appella, dicevo, a questi documenti, peraltro abbastanza chiari, gli viene risposto: "Per foruna tra noi e Roma ci sono le montagne". Oppure: "Questo documento dice cose in sé giuste, ma non è adatto alla nostra situazione ecclesiale".

Egli è prigioniero, eppure vorrebbe fare qualcosa, perché molto spesso si accorge che c'è un problema...
Altro esempio, recente. In una parrocchia, un prete della mia età mi ha detto: "Il direttore del coro è divorziato, tutti sanno che convive, ma io sono costretto a dargli la Comunione, perché, se mi rifiuto, io non avrò più un coro e lui si lamenterà pubblicamente. Ho provato a parlargli, ma non vuole sentire ragioni. Che devo fare?".
Un altro prete mi ha detto: "Sono stato nominato ad una parrocchia nella quale non potevo fare nulla: i catechismi erano già stati distribuiti dai laici prima che io arrivassi; non ho alcun ruolo nella preparazione ai sacramenti, né alla prima Comunione né alla Cresima, perché sono i laici ad occuparsene; non ho neppure il diritto di occuparmi dei chierichetti della Messa, è un laico che se ne fa carico. Quindi non posso fare nulla. Servo solo per dire la Messa e per confessare le poche persone che ancora si confessano. E basta".
In questo senso il prete è prigioniero. Anche se è armato della migliore buona volontà. E so bene che non si tratta di casi isolati.


La crisi del Clero (II parte)

(segue dalla I parte, la traduzione di D. Di Sorco dell'intervista a don Y. Escher )
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4 - Il prete DEVE obbedire

Ecco il grande paradosso. Tutto è stato svenduto, ma esiste ancora un'arma, quella dell'obbedienza. I Vescovi sono Papi nelle loro diocesi. Lo dissi ad uno che faceva appello al mio dovere di obbedienza: "Se vuole l'obbedinza del suo clero, Eccellenza, sia lei per primo a dare l'esempio, obbedendo al Santo Padre, altrimenti non può pretendere obbedienza dal suo clero". La discussione è finita lì.
È assai significativo che si insista continuamente sull'obbedienza. I preti finiscono per farsene un complesso, pensando: "Sono disobbediente, sono un cattivo prete, non va bene". Quindi, in coscienza, meglio sbagliare obbedendo che fare le cose giuste disobbedendo.

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5 - Il prete snaturato

Credo che vi sia una reale volontà di non avere più la pastorale sacramentale che la Chiesa ha sempre praticato, vale a dire la confessione e la santa Messa. Oggi bisogna andare agli incontri con la gente - cosa in sé positiva, nella Chiesa tutti i missionari l'hanno fatto - ma per risvegliare in essi il desiderio di Cristo, suscitare un'esperienza trascendente del sacro perché essi stessi scoprano Cristo.
Non bisogna più essere dogmatici o imporre delle formule. La chiamano la pastorale della formazione. Ma queste pastorali cambiano ogni anno, anzi ogni cinque anni ci si trova di fronte ad un nuovo metodo pastorale, si scrive, si organizzano simposi, poi ci si accorge che non funziona, si cambia, si adatta... Chi dobbiamo biasimare?
Oggi la gente, i giovani - io ho lavorato molto coi giovani - hanno sete della verità. La verità ha un nome, un volto, non è una semplice teoria, è una persona, è Gesù Cristo, e bisogna essere capaci di portare loro nostro Signore Gesù Cristo. Certo, con molto tatto, delicatezza, bisogna presentare la verità in modo amabile, non vogliamo uccidere nessuno a colpi di catechismo, su questo siamo tutti d'accordo; ma non possiamo limitarci ad essere animatori di un "villaggio turistico" spirituale: non avrebbe alcun senso. Siamo, come dice san Paolo, gli ambasciatori di Cristo. Vorrei sapere quanti, oggi, considerano il prete come ambasciatore di Cristo.

.6 - Uno stato di liquefazione

Sono fatti che io stesso ho sperimentato quando ero studente. Molti altri, in seminario, hanno sperimentato la stessa cosa. Il mio scopo è quello di illustrare una tendenza. Non bisogna generalizzare, ma al tempo stesso occorre mostrare lo stato di liquefazione che caratterizza la formazione clericale e che si cerca di imporre ai seminaristi: musiche da liscio per l'adorazione del Santissimo, una lunetta per l'adorazione eucaristica posta ai piedi dell'altare sopra un ceppo d'albero per simboleggiare l'umiltà di nostro Signore, e altre cose di questo genere. Lo scopo non è generalizzare. Vi sono episodi ben precisi, che sono il segno di una più generale perdita di senso.

7 - Vaticano II, il vitello d'oro

È il vitello d'oro, è un idolo. Non lo si legge mai. Sarei curioso di sapere chi l'ha letto da capo a fondo, commentato, annotato. Se si avesse per lo meno l'audacia, il coraggio di leggere integralmente il Concilio, se ne potrebbe discutere. Ma chi l'ha letto integralmente? Si parla per slogan. È lo spirito del Concilio, è un evento. La scuola di Bologna, marcatamente liberale, che ha studiato il Concilio e pubblicato una storia del Concilio in cinque o sei volumi, tradotti in parecchie lingue tra cui il francese, mostra assai bene che il Concilio non sono i testi, il Concilio è un evento, che prosegue nella durata e nel tempo. È uno spirito. Così ci viene risposto. Se si prova ad invocare il Concilio, per esempio la costituzione sulla liturgia: "il Concilio afferma che il latino resta la lingua della Chiesa, che il canto gregoriano resta il canto proprio della Chiesa latina", ci si sente dire: "Ora siamo andati oltre, il Concilio è spirito, apertura, rinnovamento".

Si tratta davvero di un idolo, continuamente invocato, che distrugge l'interiorità. Perché, al di fuori di tutto questo, non c'è nulla. Dall'idolo deriva l'ideologia e l'ideologia è sempre, sempre totalizzante. Esclude tutto il resto, distrugge tutto il resto. E la caratteristica dell'ideologia è quella di distruggere anche coloro che la professano, di acciecarli completamente. Questo è il problema: siamo di fronte ad un acciecamento. Non penso che ci sia stata veramente della mala fede, ma piuttosto una forma di acciecamento.
Come è possibile che, con la pratica religiosa al 5%, si cerchi la soluzione in rimedi puramente umani, come l'accorpamento delle parrocchie? Ma dove si vive? A un certo punto, bisogna sedersi, affrontare la situazione e dire: "Così non va bene". Invece no, si continua. Si arriva perfino a giustificare i fallimenti pastorali dicendo: "Nostro Signore si è umiliato: la Chiesa vive la stessa condizione, è umile e povera", e si cade in una sorta di vittimismo che è completamente falso. Ma non si cessa di giustificare tutto questo col Concilio.

8 - Il "peccato" di Tradizione

Credo sia il peccato più grave.
Nella Chiesa vi perdonano molte cose. Vi perdonano se avete una relazione amorosa, se non dite Messa tutti i giorni, se trascurate il Breviario, se deridete preghiere approvate, se sostenete opinioni eterodosse, e molto altro ancora. Tutto ciò vi sarà perdonano. Perché bisogna essere molto caritatevoli. Una sola cosa non vi sarà perdonata.
Il peccato supremo è quello di guardare con simpatia alla Tradizione e, peggio ancora, di guardare con simpatia alla Fraternità di S. Pio X. Vi sarà permesso di partecipare al culto protestante, di fare la "comunione" in una funzione protestante (è già accaduto), di organizzare un dialogo interreligioso coi buddisti, di andare a ritiri zen. Anzi, si dirà che siete i preti più aperti del mondo, che siete meravigliosi, che siete da prendere ad esempio.

Invece, celebrare la santa Messa in latino, non necessariamente la Messa di S. Pio V, ma anche quella di Paolo VI, oppure portare l'abito talare, è sospetto. Recitare il rosario e confessare nel confessionale significa essere sospettati di integralismo.
Figuratevi, allora, mettersi a parlare positivamente, con amore ed amicizia, di mons. Lefebvre, per esempio, o della sua opera: imperdonabile. Vi sarà perdonato tutto, tranne questo.

traduzione di Daniele di Sorco





Caterina63
00lunedì 16 maggio 2011 00:45

domenica 15 maggio 2011

Mauro Piacenza. Le “armi affilate” dell’uomo di Papa Ratzinger alla guida del clero (Rodari)

Le “armi affilate” dell’uomo di Ratzinger alla guida del clero

di Paolo Rodari

La lezione che Mauro Piacenza, prefetto del Clero, attualmente il cardinale più giovane italiano (66 anni), ha tenuto alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, sezione parallela di Torino, è una spada conficcata nello spirito del mondo. Ovvero nel cuore del pensare e del sentire della società odierna la quale ritiene che ciò che il prete cattolico è per vocazione – casto e celibe per amore a Dio e servizio agli uomini – sia un ideale irraggiungibile e, dunque, da rifiutare se non da osteggiare. Papa Benedetto XVI anche per questo ha chiamato Piacenza alla guida di uno dei più importanti “ministeri” della curia romana: perché aiuti i sacerdoti a non cedere, ad “affilare le armi essenziali alla lotta” scrive lo stesso cardinale, così da sbattere di fronte a un mondo votato alla pansessualità e all’ipereroticizzazione la propria scelta dirompente: “Non siamo monaci separati dal mondo, ai quali guardare con occhio sentimentalista, siamo uomini pienamente inseriti nel tempo, ‘nel’ mondo ma non ‘del’ mondo, e testimoniamo, con la nostra scelta celibataria, che Dio c’è, che chiama a sé gli uomini, che può dare significato all’intera esistenza e che vale la pena spendere per lui la nostra vita”.

Joseph Ratzinger conosce Piacenza da tempo. Da lui, un anno fa, ha avuto una reazione significativa alle notizie che rimbalzavano sui media di tutto il mondo e che dicevano che a questo aveva portato il celibato ecclesiastico, a preti repressi che davano sfogo alla propria sessualità castrata abusando di bambini. Piacenza ha organizzato l’anno sacerdotale che si è concluso proprio mentre le accuse contro la chiesa erano più furenti. Il segnale lanciato al mondo fu forte: piazza San Pietro era piena di sacerdoti che pregavano durante una veglia col Pontefice orgogliosi del proprio abito e della propria scelta.
Per molti, anche dentro la chiesa, fu un nuovo inizio verso una sempre necessaria riforma del clero, ovvero un ritorno alle sue origini dopo i venti innovatori del post Concilio.


Il mondo pressa la chiesa. I preti vivono nel mondo e ne subiscono i richiami. Scrive Piacenza che spesso “si crea una situazione di osmosi con la cultura dominante” e che “se non si è vigili si finisce con l’essere anestetizzati attraverso una sorta di flebo che ‘goccia-goccia’ mondanizza”. La rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta ha eliminato dal cuore dell’uomo l’idea della “definitività”. Non esiste più una vocazione “definitiva”. Parole come castità e verginità non appartengono più all’orizzonte degli uomini. Per questo la chiesa, riproponendo queste stesse parole, appare distaccata dal sentire comune, a tratti antica. E anche nella chiesa c’è chi pensa così. Ovvio, dunque, leggere le parole di Piacenza come un invito rivolto anche all’interno perché tutti ricordino che “Dio cava figli di Abramo anche dalle pietre e può plasmare uomini equilibrati, riconciliati con la memoria del proprio passato e casti in questo tempo così disorientato e disorientante dal punto di vista psico-affettivo”.

Piacenza, dopo un lungo servizio nella pastorale, studentesca universitaria e culturale a Genova, diocesi di origine, è chiamato a lavorare nella curia romana nel 1990. Dal 1997 capo ufficio del Clero, nel 2000 ne diviene sottosegretario. Nel 2003 Giovanni Paolo II lo chiama a presiedere la Pontificia commissione per i beni culturali della chiesa. Riceve l’ordinazione episcopale dal cardinale Tarcisio Bertone il 15 novembre dello stesso anno. Il 28 agosto 2004 viene nominato presidente anche della Pontificia commissione di archeologia sacra. Nel 2007 il Papa gli chiede di tornare al Clero mentre è prefetto il cardinale brasiliano Claudio Hummes. Uomo di lavoro e di preghiera, è sempre sorridente e accogliente.
Allergico alla demagogia, si esprime con franchezza, evitando l’ecclesiastichese. Come il Papa ha il gusto della musica. Ama la lirica: è infatti autore di un’opera ispirata alle beatitudini applaudita recentemente a Roma al teatro Argentina.

© - FOGLIO QUOTIDIANO



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breve riflessione ^__^

Si, tutto giusto, ma non va dimenticato che questa sorta di eroticizzazione di alcuni del Clero deriva, anche, DALL'IPERATTIVISMO che li ha portati a disertare GLI ALTARI, I TABERNACOLI, I CONFESSIONALI....
un Sacerdote che NON prega in ginocchio, con il suo gregge... è più a rischio....
UN SACERDOTE CHE NON DICE IL ROSARIO OGNI GIORNO  e che anzi lo osteggia, lo critica e non segue MARIA, è un sacerdote a rischio...
un Sacerdote che celebra la Messa come se fosse l'attore e il protagonista, spaccandosi la testa  A CREARE sempre nuove forme di Liturgia, è più a rischio....
un Sacerdote che in Parrocchia non lascia spazio AL MAGISTERO ECCLESIALE e continuamente si inventa....è a rischio....
un Sacerdote che chiude un occhio su COPPIE CONVIVENTI, OMOSESSUALI-PRATICANTI, DIVORZIATE ABORTISTE...le perdona senza che questi cambino abitudini e gli da la Comunione... è un sacerdote a rischio...

Se mons. Piacenza e gli stessi VATICANISTI DI TURNO non cominciano a parlare chiaro eliminando LA POLITICA CORRETTA, sarà sempre più difficile aiutare certo Clero difettoso....
perchè i primi difetti NASCONO DENTRO LA PARROCCHIA, NELLA LITURGIA....

DIMMI CHI E COME CELEBRI  e ti dirò chi sei.... ^__^



Caterina63
00mercoledì 18 maggio 2011 10:31
Salvato dalla Chiesa

di Angelo Busetto
18-05-2011


La vicenda di don Riccardo Seppia, il prete della diocesi di Genova arrestato per abusi sessuali su minori e uso di droga, ha profondamente colpito l'opinione pubblica sia per la gravità dei reati commessi sia per la solitudine e la realtà di disgregazione - comunitaria e sacerdotale - in cui tale doppia vita è maturata. Proprio su quest'ultimo aspetto si era concentrato
l'editoriale di ieri, firmato da Andrea Tornielli, che aveva lasciata aperta una domanda su come è stato possibile che una vita sacerdotale si sviluppasse così, quasi nell'indifferenza generale. Una provocazione a cui risponde oggi un sacerdote - che è anche collaboratore de La Bussola Quotidiana -, presentando la propria esperienza positiva di amicizia nella Chiesa, l'unica possibilità per non perdersi.


Mi sono sentito sempre un poco a disagio di fronte a sacerdoti che raccontavano di essere stati salvati dopo uno sbandamento. Non mi ci ritrovavo in quelle ‘esperienze di salvezza’ eccezionali. La mia vita è trascorsa in modo normale, senza la ferita di vicende così drammatiche. Ma in questi giorni, mentre la cronaca invade la piazza con la notizia di un sacerdote che ‘ha sbagliato’, mi ritrovo a dire a me stesso e ad altri: “Mi ha salvato la Chiesa”.

Volgendo indietro lo sguardo negli anni, posso dire di essere stato ‘salvato in anticipo’, e di aver goduto della grazia di essere stato ‘preservato’. Siamo tutti presi dentro il peccato di Adamo, e subiamo il contraccolpo della tentazione fino a venirne catturati e corrotti. Ma ci è stata data la grazia di nascere dentro una storia di salvezza e di partecipare alla comunità dei discepoli del Signore. La grazia che ha accompagnato la mia vita sacerdotale ha preso il volto e il corpo e l’anima della Chiesa: sono le persone che in questi anni mi sono state appresso, i giovani e le famiglie che ho incontrato, le parrocchie che mi hanno avuto come cappellano e come parroco, i familiari che hanno vissuto con me, le persone che hanno condiviso l’esperienza di fede nel movimento di Comunione e Liberazione, gli impegni pastorali che mi hanno fatto lottare contro il tempo, il fiato delle persone che mi pressavano.

Mi accompagna il richiamo preciso e appassionato di un maestro di vita, don Luigi Giussani: l’incontro con lui ha chiarito e sostenuto la mia decisione di continuare ad essere di Cristo e di servirlo. Sono state e sono per me stimolo e richiamo le persone che domandano Cristo, ponendomi davanti la loro angoscia, il desiderio, l’attesa, la domanda della vita; quale risposta, quale pane si può dare a chi chiede da mangiare? Basta donare se stessi, le proprie parole e prestazioni?

L’urgenza e la domanda sono così imponenti che solo una risposta adeguatamente proporzionata vi può corrispondere: il Signore Gesù, la sua persona incontrata e amata. Sono stato accompagnato a conoscerlo e a seguirlo. Mi è stata donata la ricchezza di poter parlare di Lui, indicarlo, donarlo. Al di fuori di questo, mi trovo a sperimentare desolazione, deserto e vuoto.

Mi accompagna un’esperienza reale di Chiesa, che mi circonda, mi abbraccia, mi condiziona, senza concedermi la possibilità di ‘evasioni’ nelle settimane, nelle giornate, nelle ore, persino nel tempo della vacanza. La familiarità con alcuni amici preti continua ad essere una splendida compagnia nel vivere la bellezza e la fatica del sacerdozio.

Ho potuto constatare che Cristo non è semplicemente un ideale, una presenza interiore, un pensiero o una immaginazione; non è il risultato dello studio, che pure si è intensificato negli anni dell’insegnamento intenso e impegnativo della teologia. Il rapporto con Cristo si svolge incontrando e accogliendo la sua presenza visibile e concreta nel volto, nel corpo, nel cuore della Chiesa. Amare Cristo significa amarlo nell’Eucaristia attorno alla quale Egli ci raduna; donarlo nella misericordia del sacramento della confessione; parlare di Lui, appassionandosi per l’edificazione del suo corpo.

Egli non è soltanto il Signore del cielo e il Cristo della teologia, ma il Gesù della Chiesa. Il bisogno affettivo non patisce un vuoto, ma si realizza in un amore vissuto, in un attaccamento e una vibrazione per Lui presente e vivo. Il cuore non viene indotto a disseccarsi, alienarsi, ripiegarsi su di sé, spegnendosi nell’aridità e mortificandosi nella solitudine; si può amare ed essere amati, coinvolgendosi in affetti e legami veri, vissuti con passione.

Chi insiste a dire che il prete deve essere staccato da tutti, ha già cominciato a tracciare la strada della sua perdizione. E’ una grazia l’attaccamento alle persone come segno di Cristo, l’amore a una sposa concreta e non ideale, la sposa che è la Chiesa, non generica o astratta, ma reale nel volto di uomini e donne e bambini per la cui felicità preghi e speri e soffri e lotti, amando con affetto di fratello, di padre, di sposo. Il prete non è chiamato a vivere staccato dagli altri, ma ad affezionarsi a Cristo che opera in un avvenimento presente.

La disciplina dei sentimenti non conduce a non amare, ma ad amare e accettare di essere amato senza possedere ed essere posseduto perché già si appartiene; amare ed essere amato nella fedeltà alla propria vocazione e nel rispetto della vocazione degli altri. Quest’esperienza non introduce a un di meno, ma un di più. Avete presente la passione di san Paolo, la intensità della sua dedizione, l’irruenza del suo affetto, lui che considerava ‘fidanzata’ la comunità di Corinto, lui che è diventato padre e generatore di persone e comunità?

Se la verginità conducesse a un cuore vuoto, diventerebbe un’alienazione che va poi a cercare da qualche altra parte la sua compensazione. La verginità è un modo diverso e intenso di amare e di essere amati. Gesù è riconosciuto, amato e servito nei fratelli e nelle sorelle, in una dinamica affettiva che entra in gioco non solo nel contatto con persone sconosciute, povere e derelitte, ma assai di più nel rapporto quotidiano con le persone per le quali e con le quali si vive e si lavora. A questa Chiesa, alla quale domando di accompagnarmi nella storia di ogni giorno, continuo ad affidarmi per il presente e per il futuro.



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Mons. Crociata al convegno «Cattolici a confronto» presso la Camera dei Deputati. Il nostro padrone è uno solo (O.R.)

Il segretario generale della Conferenza episcopale italiana al convegno «Cattolici a confronto» presso la Camera dei Deputati

Il nostro padrone è uno solo

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento pronunciato questa mattina, lunedì 30 maggio, dal vescovo segretario generale della Conferenza episcopale italiana, in occasione del convegno «Cattolici a confronto. Incontro con parlamentari cattolici di diversi schieramenti politici», che si è tenuto presso la Camera dei deputati italiana, nella Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto a Roma.

di Mariano Crociata

Il credente vive sotto la chiamata di Dio e assume le sue scelte e decisioni in risposta a tale chiamata. Non ci sono aspetti dell'esistenza e della storia esterni alla relazione con Dio, e se ve ne fossero o qualcuno ne restasse fuori, vorrebbe dire la fragilità o l'inconsistenza, e quindi la non verità, della fede di chi dice di credere. Il compito decisivo e assolutamente prioritario di ogni credente è allora coltivare la propria fede e curare la sua espressione e coerenza in tutti gli ambiti dell'esistenza, primi fra tutti quelli in cui si esplica la dimensione vocazionale della sua identità personale. Tale impegno trova espressione nell'ascolto della Parola, nella preghiera, nella vita sacramentale, e poi nello sforzo di tradurre negli ambiti della vita sociale le esigenze della vocazione cristiana con coerenza di giudizio, di atteggiamenti, di scelte e di comportamenti. Perciò è un errore interpretare la tensione vitale tra fede e scelte con le categorie di privato e pubblico, come se la fede non incidesse su tutti i tipi di scelta o lo facesse solo su alcuni di essi.

La dottrina sociale della Chiesa oggi costituisce un punto di riferimento imprescindibile nel giudizio sulla realtà sociale e nella prassi che vi si riferisce, sia sul piano personale che su quello pubblico e istituzionale
.

Per chi è impegnato in tali ambiti, la dottrina sociale costituisce una preziosa piattaforma di orientamenti e di criteri condivisi sulla base dell'unica fede e del giudizio credente via via maturato sulla realtà sociale sotto la guida del magistero. Anche la dottrina sociale si è avvalsa di un magistero puntuale che ha accompagnato gli sviluppi storico-sociali fino alla più recente enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate. La peculiarità della dottrina sociale della Chiesa corrisponde al carattere contingente di molteplici aspetti della realtà sociale, nella quale pure sono implicati aspetti intangibili della persona umana e della sua vita, la cui integrità rischia di essere irreversibilmente compromessa quando si tenda a manipolare la vita nel suo sorgere e nel suo declinare, a disconoscere e alterare la figura naturale di famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, a comprimere la libertà religiosa e la libertà di educazione; e rischia di essere gravemente ostacolata quando vengano garantite le esigenze fondamentali per una vita dignitosa mediante il lavoro, la casa, la tutela della salute.

Questo plesso di valori e di beni, che si ordinano secondo una interna gerarchia e si condensano nel concetto di bene comune, rappresenta una piattaforma suscettibile di essere condivisa da tutti sulla base della ragione e del retto giudizio; ancor di più essa deve costituire la base di un comune sentire e agire da parte dei credenti, in particolare dei cattolici impegnati in politica e nelle pubbliche istituzioni.
Ciò non toglie lo spazio per una differenziazione delle sensibilità e per una ponderata considerazione del carattere contingente delle situazioni e delle conoscenze nello spazio della vita sociale e politica. Ma dovrebbe trattarsi di differenziazioni che fanno spazio ad un pluralismo legittimo all'interno di un quadro che ci è consegnato da una comunità ecclesiale di cui siamo parte. Di un diverso ordine e su un altro piano si colloca la scelta che porta un cattolico a impegnarsi in politica nell'uno o nell'altro schieramento. Su questo vanno tenuti fermi alcuni punti chiave.

Il primo riguarda il carattere contingente della scelta politica di schieramento. Contingente vuol dire che nessuna scelta politica può tradurre compiutamente la visione cristiana e farlo in una forma sociale definita perfettamente corrispondente ad essa. Nella scelta politica entra in gioco il discernimento personale e di gruppo nell'esercizio concreto della responsabilità vocazionale in ambito socio-politico alle determinate condizioni di tempo e di luogo. Ma la comunità ecclesiale non ha il compito di assumere un impegno politico diretto o di dare indicazioni circa il progetto politico di volta in volta e di luogo in luogo da realizzare.
A questo riguardo, la stessa scelta di esprimere l'impegno dei cattolici in una qualche forma di unità politica o in una pluralità di formazioni partitiche o simili, ha un carattere discrezionale dettato da un prudente giudizio sulle circostanze storiche; come del resto risulta avvenuto, anche gettando solo uno sguardo sommario alla situazione di tanti Paesi negli ultimi decenni fino ad oggi. È certo che ci si aspetta che ogni scelta sia dettata da un discernimento che abbia una continuità e una coerenza con quella visione d'insieme che l'insegnamento sociale della Chiesa prepara e rende possibile.

Su queste premesse può prendere avvio una riflessione sul confronto da politici cattolici militanti in diversi schieramenti. Qui la sfida più grande è non farsi fagocitare dalle logiche conflittuali interpartitiche, ma far agire la logica del confronto costruttivo. La cosa più triste sarebbe vedere cattolici per i quali è maggiore la forza conflittuale dell'appartenenza partitica piuttosto che la capacità di dialogo che scaturisce dalla fondante comunione ecclesiale.

C'è bisogno di trovare forme e percorsi di trasformazione della politica.
Alla fine vorrei tornare a far mie le parole di Benedetto XVI, che vorrei lasciarvi come segno di stima e come augurio d'incoraggiamento fraterno. Il Papa, affidando «tutto il popolo italiano» alla protezione di Maria, Mater unitatis, chiedeva che il Signore «aiuti le forze politiche a vivere anche l'anniversario dell'Unità come occasione per rinsaldare il vincolo nazionale e superare ogni pregiudiziale contrapposizione: le diverse e legittime sensibilità, esperienze e prospettive possano ricomporsi in un quadro più ampio per cercare insieme ciò che veramente giova al bene del Paese».

Ma forse, in ultimo, bisognerebbe non dimenticare mai che la politica non è un assoluto, che la politica non è tutto e non tutto dipende da essa , già soltanto in un'ottica sociale e antropologica, ma soprattutto in una prospettiva escatologica, che ci fa confessare fin d'ora che il nostro padrone è uno solo, il Figlio di Dio e Signore Cristo Gesù.

(©L'Osservatore Romano 30-31 maggio 2011)


Caterina63
00domenica 17 luglio 2011 21:31
[SM=g1740722]Magisteriale riflessione di Padre Giovanni Scalese dal suo blog senzapelisullalingua......

Vescovi e Vescovi

Se c’è una questione chiara, definitivamente risolta, questa è l’esclusione delle donne dal sacramento dell’Ordine. Tutti gli elementi per risolverla erano già contenuti nella dichiarazione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede Inter insigniores del 15 ottobre 1976. L’unico limite di quella dichiarazione era la sua “nota dottrinale”: essa veniva presentata come un documento “disciplinare, autorevole e ufficiale”, ma non “infallibile né irreformabile” (cf Enchiridion Vaticanum, vol. 5, pp. 1392-3, in nota). Forse proprio per tale motivo quella dichiarazione non pose fine alle discussioni in materia. Fu cosí che Giovanni Paolo II si sentí costretto a intervenire di nuovo, in maniera piú autorevole, con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994. Non venivano portate nuove motivazioni a sostegno della non-ammissione delle donne al sacerdozio. Si trattava semplicemente di porre fine alle interminabili discussioni in materia:

«Benché la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti piú recenti, tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare.

«Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4).

Le espressioni usate mi sembra che non lascino dubbi. Eppure anche in questo caso ci fu bisogno di un ulteriore intervento della Santa Sede per precisare il valore del pronunciamento pontificio. Ciò avvenne con la risposta a un dubbio da parte della Congregazione per la dottrina della fede in data 28 ottobre 1995:

«Dubbio: Se la dottrina, secondo la quale la Chiesa non ha la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne, proposta nella Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis, come da tenersi in modo definitivo, sia da considerarsi appartenente al deposito della fede. Risposta: Affermativa.

«Questa dottrina esige un assenso definitivo poiché, fondata nella Parola di Dio scritta e costantemente conservata e applicata nella Tradizione della Chiesa fin dall’inizio, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale (cf Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 25, 2). Pertanto, nelle presenti circostanze, il Sommo Pontefice, nell’esercizio del suo proprio ministero di confermare i fratelli (cf Lc 22:32) ha proposto la medesima dottrina con una dichiarazione formale, affermando esplicitamente ciò che si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede».

Tale intervento della CDF precisa che la dottrina contenuta nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis è definitiva e infallibile (praticamente si tratta del secondo caso in cui è stata esercitata l’infallibilità pontificia dopo la sua definizione nel Concilio Vaticano I; la prima volta era stata con il dogma dell’Assunzione). A questi interventi specifici vanno aggiunti il can. 1024 («Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile») e, se questo non dovesse apparire sufficiente per il suo carattere giuridico, il n. 1577 del Catechismo della Chiesa cattolica:

«“Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile [“vir”]”. Il Signore Gesù ha scelto uomini [“viri”] per formare il collegio dei dodici Apostoli, e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il collegio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione delle donne non è possibile».

Che altro ci si dovrebbe aspettare dalla suprema autorità della Chiesa per porre fine alle discussioni su una determinata questione?

Eppure recentemente il Patriarca di Lisbona, il Card. José da Cruz Policarpo (quindi non Hans Küng o un qualsiasi altro teologo progressista), in un’intervista ha avuto la dabbenaggine di affermare che non esiste nessun ostacolo fondamentale dal punto di vista teologico all’ordinazione delle donne; si tratterebbe solo di una tradizione risalente ai tempi di Gesú. «Giovanni Paolo II in un certo momento è sembrato dirimere la questione. Penso che la questione non si possa risolvere cosí. Teologicamente non c’è alcun ostacolo fondamentale; c’è questa tradizione, diciamo cosí: non si è mai fatto in altro modo». Mi piacerebbe capire quale nozione abbia il Card. Policarpo di “teologia” e di “tradizione”. Ma, a parte questo, ciò che lascia piú allibiti è che un Vescovo-Patriarca-Cardinale non riesca a cogliere il valore degli interventi pontifici: un Papa dirime in maniera definitiva e infallibile una questione, e il Vescovo-Patriarca-Cardinale che fa? Si sente in diritto di affermare: «Penso che la questione non si possa risolvere cosí». Di grazia, ci dica Sua Eminenza: come si dovrebbe risolvere?

Accortosi della gaffe, il Card. Policarpo ha cercato di correre ai ripari. Lo ha fatto scrivendo una lettera, nella quale riconosce di non aver mai trattato sistematicamente la questione (ma allora, perché ne ha parlato?). «Le reazioni a questa intervista mi hanno costretto a considerare il tema con piú attenzione, e ho verificato che, soprattutto per non aver tenuto in debito conto le ultime dichiarazioni del Magistero sul tema, ho dato luogo a queste reazioni» (c’era bisogno che qualcuno si indignasse per accorgersi di non “aver tenuto in debito conto le ultime dichiarazioni del Magistero sul tema”?). Passa quindi a riaffermare la sua assoluta comunione col Santo Padre (se è comunione l’ignorare o il prendere sottogamba il suo magistero infallibile…) e la dignità della donna nella Chiesa (che nessuno si era mai sognato di mettere in discussione). Termina ribadendo che solo inizialmente poteva sembrare che si trattasse si una questione aperta; gli interventi piú recenti del Magistero interpretano la tradizione di ordinare esclusivamente uomini «non solo come un modo pratico di procedere, che può cambiare al ritmo dell’azione dello Spirito Santo, ma come espressione del mistero stesso della Chiesa, che dobbiamo accogliere nella fede». Mi chiedo: queste cose perché non le ha dette nell’intervista? Doveva aspettare le polemiche, per approfondire la questione e giungere a tali conclusioni? In poche parole, una toppa peggiore dello strappo.

Ma, a quanto pare, non si finisce mai di stupirsi. Sono di questi giorni le dichiarazioni di solidarietà dei Vescovi portoghesi col Card. Policarpo. Essi trovano “esagerate” le pressioni che hanno costretto il Patriarca a pubblicare la precisazione. Sembra che anche i confratelli del Patriarca non si rendano ben conto delle loro affermazioni. Essi infatti sostengono che le dichiarazioni di Dom Policarpo sono di indole teologica e non intendono in alcun modo mettere in causa le regole della Chiesa (e ci risiamo: continuano a considerare la questione come puramente disciplinare, mentre essa è stata risolta, in maniera definitiva, proprio sul piano dottrinale!): «Non si tratta di una questione dogmatica e, come tale, può essere discussa»; «La questione deve essere dibattuta e studiata dai teologi»; «Questo richiederà un dibattito molto lungo e allargato e la convocazione di un sinodo o anche di un concilio». E questi sarebbero i Vescovi portoghesi? Due sono le cose: o sono eretici, o sono ignoranti. Non volendo mettere in dubbio la loro buona fede, sono costretto a concludere che sono semplicemente ignoranti, che cioè non hanno mai letto né il Codice di diritto canonico né il Catechismo della Chiesa cattolica né, tanto meno, la dichiarazione Inter insigniores o la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis. E, oltre a ciò, non sanno come funziona la Chiesa. Ma è proprio questo che lascia di stucco: come fanno certe persone a diventare Vescovi?


Caterina63
00martedì 2 agosto 2011 10:07

DEDICATO AGLI ERMENEUTICI DELLA CONTINUITA’

Alcuni articoli impiego mesi per prepararli.
Non avevo nulla in questi giorni da postare, poi navigando sul web tra tutte le porcherie postconciliari in cui mi sono imbattutto, su un sito leggo che, tra preti gay, donne preti ed altro, mi spunta fuori il Punk Priest.
Diciamo così è un post di alleggerimento, sebbene non so se ridere o se piangere.
Ma non è il solo, c’è anche l’heavy metal priest.
Uno di questi è un prete, quale?
Il sito http://www.thepunkpriest.com/ , è di proprietà di un prete punkeggiante che nelle sue omelie “has sung” persino “highway to hell” (autostrada per l’inferno) degli ac/dc l’altro invece lo si può ammirare Qui, in questo video.
Casi sporadici si dirà?


No, questa è ormai la normalità, ecco perché nessuno dice nulla e non mancano, comunque, gli artisti anche in Italia come l’Elvis priest (http://www.antoniupetrescu.com/ con tanto di benedizione vescovile del Vescovo Lucio Angelo Renna-almeno nel 2004)

Nonostante queste aberrazioni, gli ermeneutici della continuità continuano a sostenere che non c’è rottura tra il concilio ed il magistero precedente, ma che ci sono solo delle storture postconciliari.
Ma se è così il concilio non si è espresso in modo molto appropriato.

E’ incredibile come il ruolo del sacerdote sia ormai degradato alla stregua di un lavoratore che in sostanza può condurre la stessa vita di un laico ed in più moralmente dubbia.

Concerto Metal nella cattedrale di Tarragona

Anche io suonavo musica metal, andavo a concerti di band hard rock e punk, il mio gruppo preferito era The Ramones, di certo oggi non posso più accettare questo genere di cose, non solo amorali, ma di stampo satanico.
Non è assolutamente accettabile tutto ciò, specialmente da un sacerdotem (da sacer e dot) , poi ci chiedono, anzi ci obbligano (art. 19 U.E) di considerare valida la messa di questi nuovi preti conciliari.

Elvis Priest ad Avezzano 2004

Quale può essere la radice di questi mali, se non l’aver abbandonato la sana dottrina bi millenaria della Chiesa preconciliare per la quale Nostro Signore garantì la sua divina assistenza, quali possono essere i frutti dell’apertura allo spirito del mondo?
Continuano nella loro cecità quelli che dicono che è solo questione d’interpretazione del concilio.
Ogni effetto è proporzionato alla sua causa, dunque se l’effetto è questo, la causa efficiente, ma anche quella esemplare non può essere che malvagia!

Infine dedico questo vergognoso scenario a quelli che sine intellectu continuano, come automi, a ripetere: Ubi Petrus, ibi Ecclesia.
Io chiedo: Ubi Petrus?

Stefano Gavazzi




[SM=g1740733]


IL VERO PERICOLO: L’ERMENEUTICA DELLA CONTINUITA’


Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde può reggersi. (Mt 12:25)
E’ quello che gli ermeneutici della continuità sono destinati a vivere, una caduta rovinosa li attende quando la Verità ed il cuore immacolato di Maria trionferanno.

Dietro i dibattiti contro i “tradizionalisti” (termine che a me non piace, io parlerei di cattolici) e sedevacantisti sul concilio Vaticano II, recentemente infatti c’è ne stato ancora un altro molto acceso tra “menti elette” (così si autodefinisce Padre Cavalcoli) sull’infallibilità, i gradi di insegnamento e la continuità del concilio stesso, viene messo in luce come essi siano discordi in se stessi, ostinandosi ad appoggiare la continuità dichiarata dal Santo Padre Benedetto XVI.

Tutto ciò dimostra quello che da sempre i Cattolici sostengono cioè che il concilio Vaticano II rompe con il precedente magistero.
In particolare, lo fanno, prendendosela con “due delusi” (ne dubito) Mons Gherardini e il Prof. De Mattei.
Ma come vedremo, questa discussione mette in evidenza come, con accentuazioni diverse, la gerarchia ecclesiastica stia andando alla deriva.
Per iniziare vorrei citare una frase di Mons Gherardini (Qui) : "Se si vuol continuare a incolpare il solo postconcilio, lo si faccia pure, perché effettivamente non è affatto privo di colpe. Ma bisognerebbe anche non dimenticare che esso è figlio naturale del Concilio, e dal Concilio ha attinto quei principi sui quali, esasperandoli, ha poi basato i suoi più devastanti contenuti".

Come dagli torto. Mah!

Nel dibattito (Leggi Qui) leggiamo la replica di MARTIN RHONHEIMER a BASIL VALUET : La mia affermazione che "Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico" non contraddice la mia affermazione che non era stata insegnata come definitiva. Nemmeno è in contrasto con la mia posizione il fatto che Pio IX si era rifatto alla "dottrina delle sacre Lettere, della chiesa e dei santi Padri". Affermarlo, come fa Basile Valuet, equivale a ignorare interamente il nucleo della mia argomentazione, secondo la quale per Pio IX la libertà di religione, specialmente il diritto alla libertà di culto, implicava indifferentismo e relativismo religioso, e quindi difendere la libertà religiosa equivaleva ad affermare che tutte le religioni avevano lo stesso valore di verità. Una volta collegata la libertà religiosa all’indifferentismo religioso, essa ovviamente diventa una posizione persino eretica.

Ciò che cambiò con il Vaticano II non fu che da lì in poi l’indifferentismo religioso non fosse più percepito come contrario al dogma cattolico, ma che esso non fosse più visto come un'implicazione necessaria del diritto alla libertà religiosa (questo cambio suppone anche il cambio di concezione della relazione fra potere temporale e spirituale, e della natura e dei compiti dello stato). Questa mia argomentazione è confermata dalla lettera apostolica "Post tam diuturnas" di Pio VII del 1814 che condanna la libertà di culto proprio come eresia, con l’argomento che essa implica l’affermazione che tutte "le sette eretiche" sono ugualmente vere come la Chiesa cattolica e che "tutti gli eretici sono sulla buona strada".

Qui appunto c’è la discontinuità: il Vaticano II non vede più nella libertà di religione tali implicazioni d’indifferentismo, perché opera con un concetto diverso di Stato e di potere temporale (cosa che, come ho citato, Benedetto XVI afferma esplicitamente).
Infine dice: Certamente, e a mio avviso fortunatamente, su questo punto tra la posizione "preconciliare" e quella del Vaticano II, come ha rilevato Benedetto XVI, c’è discontinuità.

Non è quindi vero che la libertà religiosa come diritto civile, affermata dal Vaticano II, che implica libertà dalla costrizione da parte dello Stato in materia religiosa, non sia stata condannata da Pio IX. Ma – e questo è il nucleo della mia argomentazione, totalmente ignorato da Valuet – essa era stata condannata, sulla base di una determinata visione tradizionale dei rapporti fra Chiesa e Stato e della natura stessa dello Stato e quindi dei suoi "obblighi verso la vera religione e l’unica Chiesa di Gesù Cristo", in quanto necessariamente implicante l’indifferentismo religioso e appunto per questo ritenuta contraria al dogma cattolico (ed è qui il suo nucleo perennemente valido, nel quale si mostra anche la continuità a livello dogmatico). Il tentativo, infine, di Basile Valuet, nella sua intenzione certamente lodevole, di costruire un principio di diritto naturale P3 capace di contenere in se tanto la verità delle condanne di Pio IX quanto quella dell’insegnamento del Vaticano II, mi pare assai complicato, poco convincente – in fondo contraddittorio – e soprattutto superfluo
Rhonheimer è definito “ratzingeriano” eppure è in disaccordo con altri difensori della continuità.

Ma gli ermeneutici della continuità si ostinano imperterriti a dichiarare, anche con fatti che dimostrano il contrario, che esiste continuità contro le tesi sia dei modernisti (addirittura) che dei cattolici (l’esempio di cui sopra è emblematico).

Che negli insegnamenti del Vaticano II ci siano insegnamenti infallibili (di primo e secondo grado) è chiaro anche a mio figlio, il problema sono le novità, in realtà anche gli insegnamenti di primo e secondo grado contengono delle ambiguità.

P. Cavalcoli, quindi, come sempre, si schiera per la continuità e proclama che tutti gli insegnamenti del concilio Vaticano II, anche le novità sono infallibili, citando continuamente la Ad Tuendam Fidem.
Ma Valuet, giustamente, sconfessa Cavalcoli: sono assolutamente d’accordo che ci sono insegnamenti infallibili nel concilio Vaticano II, su punti del primo e del secondo grado. La mia osservazione non lo negava.
Ma non ci sono definizioni del primo grado né atti definitivi del secondo  grado. Questo deve essere infatti scartato a causa dei testi della Commissione teologica del Concilio durante il Concilio (perché non si trova nessun testo che indica espressamente l’intenzione di definire)
(che dovrebbe essere per i teologi il punto di partenza mentre p. Cavalcoli neanche prende mai in considerazione), e di diversi testi di Paolo VI alla chiusura e dopo il Concilio.

Si tratta invece solo di punti formalmente rivelati (1° grado) o connessi (2° grado) che erano o già definiti con definizioni dogmatiche (1° grado) o con “atti definitivi” (2° grado) anteriori, o già insegnati come definitivi dal magistero ordinario universale (sia del 1° sia del 2° grado).
 
Come detto, se in un documento c’è scritto che Gesù è il Figlio di Dio, non si fa fatica a comprendere che questa dichiarazione gode dell’infallibilità anche senza l’intenzione di definire.

Valuet continua così: Pertanto, se degli insegnamenti del Concilio Vaticano II sono infallibili, questo non è dovuto all’infallibilità del concilio stesso, ma all’infallibilità di atti o consensi universali anteriori.
Ovviamente, si può ulteriormente costruire un argomento “a fortiori” a partire da là, “de facto”, perché ci sono cose infallibili nel Concilio. Però, non le cose “nuove”, che non venivano ancora definitivamente insegnate dal Magistero, visto che, per ipotesi, sono nuovamente insegnate dal Concilio. Ora, sono solo le dottrine nuove che fanno problemi per Mons. Gherardini e il Prof. De Mattei. (e vorrei vedere)
Si tratta in particolare, e forse soprattuto, dell’esistenza del diritto alla libertà religiosa, sulla quale appunto la congregazione per la dottrina della fede scriveva nel 1978 all’arcivescovo Marcel Lefebvre, facendo appello non al 2° grado, ma al 3°. (segue citazione lettera)

Ma ecco che interviene P. Cavalcoli che sentenzia: È mia convinzione (appunto sua!) che anche le dottrine nuove del Concilio, in quanto esplicitazione o sviluppo di precedenti dottrine dogmatiche o dogmi definiti, sono infallibili. Infatti mi pare che tutto il nodo del dibattito sia qui. Siamo infatti tutti d’accordo – Gherardini, de Mattei e noi – che le dottrine già definite presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio.

Io credo che bisogni rispondere affermativamente a questo quesito perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il Papa?

Ma Padre Cavalcoli, io che non sono una “mente eletta”, ma solo retta, vorrei fare alcune considerazioni:

1)      Il terzo grado (che poi sarebbe il secondo visto che ai primi due si deve lo stesso assenso) non esiste se ad esso si deve il medesimo assenso degli altri due. Mi chiedo, poi, ad esempio, perché una costituzione è definita dogmatica, altra pastorale, mentre altre ancora sono dichiarazioni, se sono tutte uguali perché definirle in maniera diversa?
2)      Con questo ragionamento ogni cosa detta dal magistero diventa dogmatica ed infallibile, ma in questo modo il soggetto Chiesa, il magistero vivente,  viene ad identificarsi con l’oggetto dottrina diventando cangiante nel senso di quella tradizione vivente modernista, trasformandosi in soggettivismo, cioè la Chiesa viene ad impossessarsi dell’oggetto che è immutabile (la Rivelazione  con le sue due fonti). Questa sovrapposizione tra soggetto ed oggetto, molto cara al teologo Ratzinger, è comprovata con un esempio:la tesi su San Bonaventura fu bocciata e definita storicistica, modernista, soggettivistica e tendente all’evoluzione eterogenea del dogma dal teologo Michael Schmaus proprio per questo primeggiare, inglobare e sorpassare l’oggetto da parte del soggetto (su questo punto vedasi Card. Ratzinger, O.R., 27.6.1990).

L’unica voluntas definendi del concilio è stato il non voler definire e questa voluntas non è seguita dagli ermeneutici della continuità; continuità, che esiste, nel soggetto Chiesa, diversità nel modo di insegnare, pastorale non dogmatico, ma soprattutto diversità oggettiva nella dottrina. Il magistero vivente (il soggetto) evolve, non certo l’oggetto (la dottrina) che è immutabile, la “tradizione vivente” è l’errore di inglobare l’oggetto nella natura cangiante del soggetto (magistero vivente). Infatti P. Cavalcoli dice:
Questo vuol dire non comprendere la saggezza delle parole del Papa. Egli infatti presenta il concetto di una continuità progressiva o evolutiva (non in senso modernistico ma cattolico), della quale ho detto sopra. Questo vale anche per la Tradizione, che egli chiama “viva”. Infatti il Concilio parla di uno sviluppo della Tradizione. Ma allora bisogna dimostrare che anche questo progresso è infallibile. Questo è il vero continuismo rispondente alla "mens" del Santo Padre. Mi sembra evidente quanto sopra dimostrato.

3)      Di cosa dovrebbe parlare il magistero se non di Fede, sebbene parli di morale, giurisprudenza od altro, tutto è collegato alla Fede. La sacra dottrina infatti è principalmente speculativa e secondariamente pratica occupandosi più di delle cose divine che degli atti degli uomini.(ST pI Q1 a4 r)

4)      Lo sviluppo è infallibilmente così definito: Cresca pure, quindi, e progredisca abbondantissimamente, per le età della storia, l’intelligenza, la scienza, la sapienza, sia dei singoli che di tutti, di ogni uomo e di tutta la chiesa, ma solo nel suo ordine, nello stesso dogma, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Concilio Vaticano I Sess. II Cap. 4). Non mi sembra, da quello che abbiamo sopra riportato, che lo sviluppo, quindi la novità, sia in linea con questa norma infallibile. Questa dichiarazione infallibile, infatti, si riferisce al soggetto fino a Chiesa, poi,  secondo la formula di San Vincenzo di Lerino, all’oggetto che è la dottrina. Di questo avviso sembra essere anche il Prof. Radaelli. Il domenicano invece insiste nel suo dogma ancora non dimostrato ed indimostrabile, se non assurgendosi una superiorità assoluta in qualità di “mente eletta”: nel Concilio esiste un progresso dottrinale, esiste del nuovo, in continuità con l’antico, il quale nuovo come tale è infallibile come l’antico. Niente più canone di Lerino. Lo dice lui, lo conferma il Papa questione finita. Mentre abbiamo visto che persino i suoi colleghi continuisti, documenti alla mano, dimostrano il contrario. Onestamente l’atteggiamento di P. Cavalcoli e di tutti gli altri mostra un velo di fideismo.

5)      Ecco l’errore: partire dal principio che ci sia continuità. Ogni scienza procede da principi evidenti per sé o procedenti da principi che siano superiori (ST pI Q1 art.2 ob 1 ad1), in questo caso la continuità non può essere principio su cui basare un qualsiasi ragionamento, semmai è la conclusione a cui arrivare partendo dai principi che dovrebbero identificarsi nelle affermazioni del magistero, per approdare finalmente all’effettivo sviluppo nello stesso senso e nel medesimo significato. Mi sembra così evidente! In questo modo A=B sempre! Se la conclusione è un principio siamo in presenza di un dogma, ogni novità, qualunque essa sia, diviene un dogma! Il famoso agio quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est1 è finalizzato a questo, fare in modo che le novità, o sviluppi, siano in continuità nello stesso senso e nello stesso significato confrontandoli appunto con quanto sempre insegnato dalla Chiesa e, onestamente, P. Cavalcoli non può dimostrare questa continuità se non con un suo dogma, altrimenti, cosa peggiore, se riuscisse a dimostrarlo le porte degli inferi avrebbero prevalso. Tutta, anzi tutte le tesi di P. Cavalcoli avanzano dal “dogma” che sono in continuità e quindi infallibili, partendo da questo principio lui potrà anche sostenere la sua personale tesi della continuità, ma getta, oggettivamente, la Chiesa nella fallibilità dottrinale. Sia i modernisti che i cattolici negano questa continuità, la quale è ben più grave proprio delle posizioni degli stessi apostati per i motivi addotti. Inoltre, se queste novità non sono infallibili, vuol dire che sono fallibili. Ma allora è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso? Si, lo ha dimostrato anche Rhonheimer anche lui continuista! Può il nuovo in campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico? No! Ma come anche sottolinea Radaelli, il domenicano parte nuovamente dal principio, tutto suo, che le novità siano dogmi. Pur contraddicendosi poco dopo, come fa notare Radaelli, egli parte dal principio che gli sviluppi  di una dottrina definita, qualsiasi sia il livello, sia vera, non curandosi proprio di quanto insegnato dal concilio vaticano I.

Ho già dimostrato come la Chiesa rigetti con almeno 25 passi tra Antico e Nuovo Testamento le false religioni e mi si viene a parlare di sviluppo di dottrine già definite. Suvvia. Comunque la ciliegina è Dimostrare la continuità delle dottrine conciliari con quelle precedenti non vuol dire dimostrare una pura e semplice continuità univoca: sarebbe un’impresa disperata, che darebbe ragioni valide a Gherardini e de Mattei. Dobbiamo dimostrare che si tratta di continuità evolutiva, per così dire analogica (“analogia fidei”), che non per questo diventa rottura, ma resta continuità. Lo so che sembra una contraddizione, ma invece così non è. Potrei dimostrarlo, ma qui sarebbe troppo lungo. Rimando solo al trattato classico del domenicano spagnolo Francisco Marín Sola, "La evolución homogenea del dogma católico", pubblicato negli anni ’50. Qui egli appunto mostra il concetto giusto del progresso dogmatico contro la falsa concezione del modernismo. Teorie simili si trovano nell’altro grande teologo domenicano francese, Yves Congar. Congar : noto teologo confratello di P. Cavalcoli negatore dell’inferno, inventore della “collegialità episcopale”, ammiratore di lutero, irenista, sospeso dall’insegnamento tra il 1953-54 e condannato quasi esplicitamente nella “Humani generis”, discepolo degli eretici Chenu (domenicano) e Blondel2 da cui mutuò, come dice lo stesso Cavalcoli, simili teorie “dell’evoluzione omogenea del dogma” come loro la intendono, infatti Congar parla di “tradizione vivente”. (Congar- La Tradizione e la vita della Chiesa, San Paolo, Catania, 1964, pp. 188-192).Mi sembra che tutto quadri, no?3

si è anche inserito il prof. Radaelli e sebbene mi trovi d’accordo su molti punti non lo sono certo quando afferma: non rottura ma anche non continuità….. non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura…….però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione.
Nella terza domanda infatti sembrerebbe voler salvare la tesi della continuità o almeno parla in maniera oscura di non continuità: terza domanda: «se noi neghiamo l'infallibità degli sviluppi dottrinali del concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?»

Certo che la indebolite, anzi la annientate. E date forza alla tesi opposta, che continuità non c’è. E questo in odore alla verità.

Ora tra rottura e non continuità (Mancanza di continuità, interruzione nel tempo o nello spazio: d. di movimento; d. della tradizione; d. di una superficie, ecc.; anche in senso fig., di cosa che non sia continua, coerente, unitaria nelle sue manifestazioni o qualità: d. di metodo; d. di tono, di stile; d. di un racconto, di un discorso, ecc – Dizionario Treccani) non si capisce bene come possa conciliarsi la continuità però, anche il prof. Radelli (tradizionalista) esclude dalle sue tesi il vero punto della questione che per loro si risolve nelle continuità a discapito di tradizionalisti, sedevacantisti e modernisti mentre col salvaguardare la continuità si rischia di far passare per fallibile la Chiesa, anzi lo si è fatto. Tentando di conciliare tesi opposte si finirebbe col dare ragione ai nemici della Chiesa che da sempre così la vogliono: non soprannaturale.

Mi sembra, anche in questo caso, l’oggetto sia fatto trascinare all’interno del soggetto.
In tal modo si porta la Chiesa alla fallibilità, mentre, se si tiene fermo che il soggetto è nella continuità, cioè la Chiesa e non l’oggetto, cioè la dottrina (del concilio naturalmente), la Chiesa rimane infallibile. Ego enim sum Deus et non mutor! (Mal. 3,6)
Di questa situazione ne godono gli eretici, gli scismatici e gli infedeli di ogni risma che, ora, infatti, “ben accettano” la Chiesa, tutto ciò perché è il soggetto che, avendo trascinato con se l’oggetto, ha avvicinato più essa a loro che, come dovrebbe essere, loro ad essa.

Da salvare qui non c’è la continuità o, soprattutto, le convinzioni di alcune “menti elette”, c’è da salvaguardare l’indefettibilità della sposa di Cristo e la Verità che essa conserva, protegge e tramanda, mentre gli ermeneutici della continuità con la loro ostinazione stanno facendo il gioco di satana, cercar di far prevalere le porte degli inferi, perché gli sviluppi e le novità del concilio (ma anche gli insegnamenti dogmatici ambigui) in rottura col magistero precedente sono evidenti sia ai cattolici che agli apostati: 2:1 la maggioranza vince!

                                                                                                          Stefano Gavazzi

NOTE:
1) Nell’articolo del Prof. Radaelli c’è un’imprecisione, in realtà la frase di San Vincenzo quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est  non è stata recepita dal concilio Vaticano I, quella recepita è eodem sensu eademque sententia (Commonitorium 28) che a mio modesto parere è il fine dell’indagine con cui dimostrare quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, cioè credo che il senso sia che tra due affermazioni dello stesso argomento una antica ed una nuova, per stabilirne la continuità, quindi lo sviluppo (il vero sviluppo omogeneo) nello stesso senso e significato bisogna confrontarlo con ciò che sempre, ovunque e da tutti sia stato creduto. Infatti come riportato sopra il Santo Concilio dice cresca pure….. Mi sembra evidente che nulla c’è di vero e santo nelle altre religioni.

2) Blondel parlava di evoluzione eterogenea del dogma, quindi, pur spacciandola per “omogenea” i novelli teologi si rifanno, tutti, ai loro maestri, in fin dei conti coloro che sostengono la continuità conferiscono alle novità una evoluzione omogenea del dogma mai dimostrata e solo secondo il loro giudizio. E’ un’evoluzione eterogenea spacciata per omogenea mossa da quella tradizione vivente che è cangiante.

3) Come negli scambi epistolari avuti con P. Cavalcoli, il domenicano glissa sui fatti, soprattutto quando c’è di mezzo la massoneria, infatti dovrebbe sapere che l’evoluzione omogenea del dogma in NA, di conseguenza in DH è dovuta agli incontri tra il Cardinal Bea (iscritto alla massoneria) e jules Isaac componente della massoneria ebraica. Lazare Landau  confessa che Yves Congar fu incaricato da Bea e Roncalli di intrattenere incontri segreti con gli ebrei per sapere cosa si aspettassero dai Cattolici alla vigilia del concilio. (Tribune Juive” n° 903, gennaio 1986 e n° 1001, dicembre 1987).Tutte cose ormai risapute e comprovate.

Evoluzione omogenea del dogma!




Caterina63
00domenica 7 agosto 2011 18:47

Pensieri del Cardinale Schuster sulla crisi della vita consacrata


da Cordialiter:

Pensieri tratti dall'epistolario del Beato Cardinale Ildefonso Schuster:

Sento da più parti, che il Signore desidera una riforma nel Clero e negli Ordini Religiosi. La veste canonica c'è, ma sotto questa veste, talora c'è poco spirito! La vera crisi sta tutta qui. (25 giugno 1945)

Purtroppo, di fronte al Comunismo trovasi un Cristianesimo in gran parte svuotato del suo contenuto [...] Bisogna anzitutto riportare il Clero allo spirito evangelico, indi la Parrocchia, la Diocesi e la Chiesa, in quanto massa. Sono necessari i Santi. Solo essi comprendono tali problemi e li sentono. Gli altri no. (3 settembre 1950)

Il grande errore del secolo, che si infiltra anche nel santuario e nei chiostri, è il naturalismo, che prende il posto del soprannaturale. Quale seduzione! Ecco perché gran parte dell'attività ecclesiastica è scarsa di frutto [...]. E' soprattutto la formazione del giovane clero, che bisogna curare nei seminari e nei noviziati dei Regolari; specialmente in questi ultimi. Molti Ordini sono divenuti innanzi a Dio alberi sterili: rami e foglie, senza frutto per il Signore. (20 ottobre 1950)

L'atmosfera di Dio è quella della Fede, della grazia, dell'orazione, mentre ora, anche i Religiosi, preferiscono un'atmosfera di razionalità, di attivismo, di accomodamento allo spirito del secolo. (2 novembre 1953)

La Madonna piange anche sul Santuario, e sui Chiostri. Si ragiona troppo, e si vive poco di Fede. All'ubbidienza ecclesiastica e religiosa, sottentra il culto della personalità. Alla mortificazione sacerdotale e cristiana, succede uno spirito edonistico, che è affatto nemico alla Croce di Cristo. Anche il clero va secolarizzandosi nello spirito. Sono cose che mi fanno paura. (22 febbraio 1954)


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alle parole sagge del beato cardinale Schuster, seguiamo un esempio tristemente pratico....

Messa salesiana in Argentina. Proprio di "infimo" livello!

Un lettore ci segnala le foto di questa celebrazione eucaristica che dovrebbe essere... una Messa Cattolica. Mai, potremmo dire con amaro sarcasmo, la liturgia ha raggiunto un così "basso" livello! Che sofferenza sapere le Sacre Specie poste sul pavimento, allo stesso piano dei piedi!


Roberto




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Le foto sono di una veglia di Pentecoste di quest'anno 2011. Si è svolta presso la sede degli scout Battaglione 50, in località Isidro Casanova, città di La Matanza, Miró 5233, - CP 1765, Arcidiocesi di San Justo (suffraganea di Buenos Aires, Argentina), Il sacerdote è Alessandro Leon.
fonte: RadioCristianad



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e dai commenti al blog raggiungibile dal titoletto, riporto alcune riflessioni che ritengo utili anche per noi qui:

da che mi risulta gli scout non sono prettamente POVERI a tal punto da non potersi permettere UN TAVOLO da utilizzare come ALTARE SACRO....è evidente LA VOGLIA E IL DESIDERIO PERVERSO DI PIEGARE DIO ALLE PROPRIE VOGLIE.....usare Dio secondo la propria immagine precostituita.... salvo poi SEDERSI loro a tavola per consumare un buon pranzo.....mica mangiano per terra.... ma il Sacrificio di Cristo si, può essere fatto per terra....è un miracolo che ancora qualcuno non abbia pensato ad usare la tazza del gabinetto.... in discarica è già stato fatto....  
 
TANTO MI DAI, TANTO TI DO.... se fai la Messa per terra e con i piedi.... l'operato di queste persone non potrà che essere terra,terra, strisciante e fatto coi piedi....  
TI SARA' DATO CIO' CHE HAI SCELTO!  
 
Si invita il cardinale Bertone a richiamare i SUOI.....  
tal pecore sembrano davvero senza "padrone"....


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Ospite

Una persona mi ha detto:  

Osservando tutto ciò che avviene nel "mondo cattolico ufficiale", mi chiedo sinceramente se sono i seguaci di Lefevre fuori dalla Chiesa di Roma  o chi è dentro ....  

Da anni mi pongo questo quesito, non ho mai trovato il coraggio di  abbandonare la Chiesa del Papa ma, la mia fede sta morendo, la liturgia non mi dice più nulla, non mi basta più il contentino che di danno alcuni preti che dicono di capirti ma di fatto accettano l'inaccettabile, senza fare nulla di concreto.  Questa chiesa è ancora credibile? O devo cercare la salvezza della mia anima altrove?  

Assisi poi mi porta ad una riflessione: se devo rispettare ed accogliere chi ha una fede tanto differente dalla mia e talvolta forse contraria, neanche La chiesa crede più in quella fede che dice di professare.  

I mussulmani  danno l'impressione di credere alla loro fede , loro difendono la loro identità (anche se talvolta, in modo eccessivo ed errato), noi non lo facciamo più.  Ora non so più cosa rispondere a quella persona…..



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LDCaterina63
Embarassed  Ospite delle ore 9:33:59  
solitamente rispondo a questi quesiti ricordando soprattutto a me stessa che quando saremmo faccia a faccia con Dio Egli non ci chiederà cosa avranno fatto gli altri, o cosa faceva la Chiesa quando io dovevo essere testimone del Battesimo ricevuto, ma mi verrà chiesto: TU COSA HAI FATTO?  
se ognuno di noi, di fronte a certe domande, si preoccupasse di più di essere autentico testimone con una vita coerente, credo che anche gli altri, anche chi si pone queste domande, alla fine potrà comprendere dove alberga la Verità e cosa Essa è realmente....


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Stella
Caterina, concordo con quello che lei ha detto, ma mi sa' dire come mai Cristo, il Pastore supremo, ha posto nella Sua Chiesa proprio dei pastori, affinchè pascessero il gregge che Egli ha riscattato col Suo Sangue? Tali pastori, Gesù li ha messi proprio per pascere il gregge e per confermarlo nella fede e noi abbiamo diritto anche ad avere dei VERI PASTORI e non "cinghiali" che distruggono la vigna del Signore! Certi pastori, non si stanno comportando secondo l'insegnamento e il comando che Cristo gli ha dato. Mi dica come si fa' ad essere autentici testimoni se si viene privati della Messa (parlo di quella vera, non quella contraffatta), che è il centro di tutto, soprattutto della nostra vita cristiana. Se veniamo privati di questa LINFA VITALE, come facciamo a perfezionarci, crescendo spiritualmente? Provi a venire nella mia diocesi e poi me lo saprà ridire...


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LDCaterina63
Laughing  carissima Stella, per la stessa ragione per cui Cristo, pur sapendo che l'avrebbe tradito, scelse Giuda fra i Dodici ..... Laughing Laughing  
Non verremo MAI privati totalmente della Linfa vitale, MA SOLO MESSI A DURA PROVA.... Wink  
 
"negli ultimi tempi" ci narrano molte profezie PATRISTICHE e di Santi della Chiesa, verrà meno perfino l'Eucaristia....  
 
così profetava san Gregorio Magno:  
"....la maggior parte dell'umanità sarà in una condizione tale da corrompere la parola, e le pecore diverranno atee o cadranno nell'eresia. Le chiese saranno vuote e in rovina, i sacerdoti avranno poco zelo per le anime e le persone pie saranno poche. La maggior parte delle persone si darà a ogni vizio immaginabile..."  
 
Non abbiamo una ricetta per evitare tutto ciò.... ma sappiamo come dobbiamo agire noi: PERSEVERARE NELLA VERA FEDE.... Wink  
non si tratta di egoismo, ma in tempi di crisi è indispensabile che ognuno PENSI ALLA PROPRIA ANIMA cercando di mantenerla nella santità.... e questo stato sarà una testimonianza efficace per chi ci è vicino.... è la preghiera del Pubblicano che non sta li davanti a Dio a giudicare il fariseo.... ma è li a chiedere la salvezza per la sua anima.... mentre il fariseo è convinto di essere già a posto tanto da giudicare la presenza del pubblicano.....  
Gesù stesso ci avverte che GLI SCANDALI SONO NECESSARI, ma Egli stesso fulmina lo scandalizzatore.... ergo dobbiamo preoccuparci di non essere mai noi a dare di scandalo.... fulminare gli scandalizzatori  E' COMPITO SUO.... Wink  
 
Perfino la Didachè riporta:  
"....si moltiplicheranno i falsi profeti, e le pecore si muteranno in lupi, e la carità si muterà in odio; finchè, crescendo l'iniquità, si odieranno l'un l'altro, si perseguiteranno, e si tradiranno...."  
 
e spiega Lattanzio: "con l'approssimarsi degli "ultimi tempi", la condizione delle faccende umane DOVRA' SUBIRE UN CAMBIAMENTO e, con il prevalere dell'iniquità e della malvagità, peggiorare (...). La giustizia verrà meno a tal punto che ogni empietà, l'avarizia, il desiderio, la lussuria subiranno una tal crescita che se per caso ci sarà qualche uomo buono pronto a far sentire la sua voce, esso sarà preda del malvagio e sarà attaccato da ogni parte dalle persone corrotte, perchè venga messo a tacere; mentre solo il malvagio vivrà nell'abbondanza, e il giusto sarà afflitto da calunnie e indigenza. Ogni giustizia sarà stravolta e le leggi giuste verranno meno...."  
 
Concludo con sant'Ippolito che sembra fare da eco a quanto abbiamo letto:  
"E cosa devo dire in merito agli uomini, quando gli elementi stessi perderanno il loro ordine? (...) PERSEVERATE NELLA FEDE...."  
 
Dobbiamo GRIDARE DAI TETTI LA VERITA', altrimenti se taceremo noi "urleranno le pietre".... una volta fatto questo, perseveriamo nella fede, evitando di fare la fine di Giuda.... Wink



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Caterina63
00domenica 4 settembre 2011 19:16

"Tutto in chiesa ti parlava della liturgia antica, solo lei mancava, e si aspettava"

Intervista a Don Alberto Secci
del clero di Novara

Il disagio, le traversie spirituali, le battaglie ed il coraggio di un sacerdote autenticamente cattolico costretto purtroppo a convivere con una realtà ecclesiale spesso incomprensibile


 

Don Alberto Secci e i suoi due confratelli Don Stefano Coggiola e Don Marco Pizzocchi, sempre del clero di Novara, balzarono agli onori della cronaca, loro malgrado, quando si impegnarono ad aderire fedelmente al Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, nel 2007.
L'opposizione alla celebrazione della S. Messa secondo il Rito tradizionale fu decisa e violenta da parte della Curia di Novara, tanto da mettere in seria difficoltà i tre sacerdoti soprattutto nei confronti dei loro stessi parrocchiani. La logica era semplice: la celebrazione della S. Messa trdizionale doveva essere una eccezione, quindi interdetta a dei parroci.
Della cosa parlò a lungo la stampa, locale e nazionale (vedi- vedi- vedi), e i tre sacerdoti vennero presentati come dei testardi e dei provocatori.
Anche certi strani ambienti sedicenti “tradizionali” pensarono bene di richiamarli alla moderazione, ricordando che la causa tradizionale richiederebbe l'esercizio della virtù dell'ubbidienza anche di fronte al disconoscimento delle leggi della Chiesa, al dileggio della S. Messa cattolica e alla noncuranza per il bene delle anime. Ovviamente questo lo si chiede sempre ai più deboli: ai sacerdoti e ai fedeli, soprattutto nei confronti di vescovi che fanno di testa loro come se fossero i padroni delle loro Chiese particolari, mentre le Autorità romane non riescono a tenere a freno i vescovi autoreferenti e non riescono a fare rispettare i diritti dei sacerdoti e dei fedeli anche quando discendono direttamente dalle leggi attuali e universali della Chiesa.
Una vecchia storia, che ricordiamo solo perché, come accade modernamente, il richiamo all'ubbidienza sfocia facilmente dell'ubbidientismo, al pari del richiamo all'infallibilità che oggi si è ridotto al mero infallibilismo. È con queste deviazioni che negli ultimi 50 anni sono state stravolte la liturgia e la dottrina cattoliche.

Ma il Signore vede e provvede e i nostri tre sacerdoti continuano a proseguire sulla loro strada, della fedeltà alla Santa Tradizione di Santa Romana Chiesa.
Oltre che nelle loro chiese di Vocogno e Domodossola, oggi è possibile seguire l'apostolato di Don Alberto Secci e di Don Stefano Coggiola attraverso il loro sito internet
RADICATI NELLA FEDE

di Marco Bongi

Don Alberto,
la Sua figura di sacerdote, tornato alla S. Messa di sempre in occasione del Motu Proprio, fece molto parlare i media negli anni 2007 - 2008. Oggi, dopo parecchio tempo da quei convulsi avvenimenti, Le chiediamo di risponderci ad alcune domande che possano consentire ai fedeli italiani di conoscere meglio la Sua storia e l'apostolato che sta svolgendo.

D. - Ci può raccontare brevemente come e quando nacque la Sua vocazione sacerdotale e come fu la Sua formazione in seminario?

R. Sono nato a Domodossola, ma la mia famiglia si trasferì nel biellese, mio papà era carabiniere, e lì passai gli anni dell'infanzia in una buona parrocchia, guidata da un vecchio parroco, classe 1890!, un patriarca, con una fortissima devozione alla Madonna, lì sicuramente ci fu il primo germe della vocazione. Il servizio all'altare, il mese di maggio, il santuario di Oropa...accanto alla fedeltà della mamma al suo compito quotidiano e alla Messa , al senso del dovere e dell'ordine del papà e tante altre cose che segnarono positivamente la mia infanzia cattolica.
Poi tornai a Domodossola con la mia famiglia, mi iscrissi al liceo scientifico statale... bei ricordi, anche se nel 1977 il clima era, anche in provincia, molto laicista. In quel liceo vissi poi un'intensa militanza cattolica in Comunione e Liberazione. Eravamo pochi, ma agguerritissimi. Ricordo quegli anni: preghiera (dicevamo lodi, ora media, vespri e compieta, rosario, Messa quotidiana – a 15, 16 anni! - e studiavamo su libri diversi da quelli adottati dai professori, per difendere la Chiesa e la sua Storia). L'amore alla Chiesa, con la sua conoscenza, crebbe sempre di più. Leggevamo i grandi autori spirituali, penso a san Benedetto, a Teresa D'Avila...per me fu naturale e prepotente l'evidenza della vocazione Sacerdotale. Cristo è tutto, la Chiesa è il suo Corpo: come non dare la vita per questo?
In Seminario entrai dopo la maturità a 19 anni. Grande aiuto dal Padre Spirituale, cattolicissimo, molto meno dalla teologia, che ho pur fatto con passione. La colpa? In quegli anni era tutto un cantiere di opinioni personali, ideologicamente ancorate alle teoria rahneriane. Ma attraversai serenamente quegli anni, abituato dal liceo a “battagliare” positivamente per la fede. Non ce l'ho con nessuno, ricordo con simpatia tutti i docenti, ma ero già preparato dalla militanza cattolica precedente a vigilare su qualsiasi insegnamento. Ogni giorno in seminario si guardava all'orizzonte attendendo la restaurazione cattolica...che non arrivava mai!

D. - Quali sono stati i ministeri da Lei svolti nei primi anni dopo l'ordinazione?
R. Ordinato sacerdote mi mandarono, venticinquenne, in una grande parrocchia molto cattolica, con un grande oratorio, ne ero l'assistente. Non fu facile: insegnavo religione alle medie, e tutto il resto della giornata era vissuto tra oratorio e chiesa parrocchiale, un gran lavorare dovendosi confrontare con linee ecclesiali molto differenti dalla mia, già marcatamente tradizionale. Spero di aver fatto un po' di bene e poco male.
Andai poi in Francia per circa un anno, attirato dall'esperienza canonicale, perché sentivo il bisogno di un sostegno sacerdotale maggiore: i canonici regolari, come i monaci, avevano fatto l'Europa Cristiana, mi sembrò di trovarvi una soluzione per un migliore servizio a Dio e alle anime. Tornai, perché in abbazia riscontrai le lotte teologiche e le stanchezze del seminario: il clima di confusione non è rimasto fuori dai conventi, come non è rimasto fuori dai nostri cuori.
Approdai poi nella Valle Vigezzo, dove ancora mi trovo, prima come aiuto a un Santuario e poi come parroco. In tutti questi anni continuai a insegnare religione nelle scuole.

D. - Come avvenne l'incontro con la S. Messa Tradizionale e cosa La portò, nonostante le difficoltà, ad abbracciare in esclusiva tale rito?

R. Difficile rispondere. È come se ci fosse sempre stata. Ricordo di non aver mai sopportato un certo modo di celebrare, di aver avvertito il ridicolo di molte liturgie, questo da sempre. Era come sapere che si era in un momento confuso, di guado drammatico, ma che si sarebbe tornati a casa. Tutto in chiesa ti parlava della liturgia antica, solo lei mancava, e si aspettava.

Da vicario parrocchiale e più ancora da parroco feci tutto quello che al momento mi sembrava possibile: altare ad orientem, canto gregoriano con i fedeli, comunione in bocca, uso costante dell'abito talare, incontri di dottrina per gli adulti, catechismo tradizionale per i bambini. Ma non bastava, c'era il cuore della Messa in questione, ma come fare, ero già “inquisito”da anni per quel poco che avevo fatto!
Nel 2005 introdussi nella messa di Paolo VI prima l'offertorio poi il canone della Messa di sempre.
Aspettai con pazienza il più volte annunciato Motu Proprio, che sembrava non arrivare mai, e l'11 luglio 2007 iniziai, era un martedì, a celebrare solo la Messa di sempre. Devo dire che il colpo finale lo diede mio fratello: in una gita in montagna il giorno prima mi disse “non so cosa stai aspettando”... era il segno che dovevo iniziare.

D. - Perchè, contrariamente ad altri sacerdoti che hanno accolto il “Summorum Pontificum”, Lei rifiuta il cosiddetto "biritualismo"?
R. Sarò brevissimo: trovo assurdo l'obbligo al biritualismo. Se si è trovato il vero, il meglio, ciò che esprime più compiutamente la fede cattolica, senza ambiguità pericolose, perchè mai bisognerebbe continuare a celebrare qualcosa di meno. Nel biritualismo, di fatto, un rito muore e l'altro resta. Nel biritualismo il prete si stanca nella tristezza di una specie di schizofrenia, e il popolo non è edificato, educato, consolato nella bellezza di Dio. Evito un discorso teologico-liturgico, non è il caso in una intervista, dico solo che chi resta nel biritualismo, prima o poi abbandonerà la Messa di sempre e si confezionerà delle ragioni per restare nel mondo della riforma, magari vissuta in modo conservatore, con una tristezza dentro, come chi ha tradito l'amore per Dio della giovinezza.
Devo aggiungere che fu molto di aiuto per me la lettura de “La riforma liturgica anglicana” di Michael Davies. Testo fondamentale, chiarissimo: l'ambiguità del rito porta all'eresia di fatto. Non è quello che ci è successo?

D. - Come reagirono i Suoi fedeli quando appresero della decisione di tornare alla Messa antica?
R. Nessuno si stupì. I sostenitori dissero:finalmente! I contrari dissero: l'avevamo detto! Ma direi che la quasi totalità della gente si mise di impegno: prendevano il foglietto, volevano capire...un bel clima di fervore.
Fui sempre poi aiutato da un gruppo di fedeli, semplici e forti, che furono sempre pronti a lavorare con me; penso specialmente a quelli che dal 1995 continuano a fare prove di canto.
Poi si iniziò a dire che disobbedivamo al Vescovo, poi al Papa e allora tutto fu più complicato, ma all'inizio non fu così.

D. - Tutti sappiamo delle incoprensioni con il Vescovo e della successiva soluzione di affidarLe una sorta di cappellanìa a Vocogno. Come furono, in quei momenti, al di là dei dissapori con la Curia novarese, i rapporti con i Suoi confratelli Parroci?
R. Sparirono tutti. Alcuni disapprovarono, la maggioranza taceva, qualcuno raro nottetempo ti diceva che non era contro, ma pubblicamente non poteva fare niente. Era il terrore della disobbedienza ufficiale. Da parte nostra, io e don Stefano - il sacerdote che ha intrapreso lo stesso percorso e con il quale lavoro, pur avendo campi di apostolato differenti, non siamo mai mancati alle riunioni sacerdotali di vicariato, partecipandovi con passione, come sempre.

D. - Oggi che le tensioni si sono fortunatamente stemperate, come sono i rapporti col Vescovo e con i confratelli?
R. Sembra tutto tranquillo, anche se si avverte che c'è molto di non risolto, perchè si è sempre evitato un discorso profondo sulle ragioni della nostra scelta. È come se si volesse restare in superficie, a un livello puramente giuridico. Speriamo che qualcosa in questo senso migliori col tempo.

D. - Come giudica, dal Suo osservatorio, la situazione della Chiesa e quale crede possa essere in futuro il ruolo della FSSPX?

R. La Chiesa è di Dio, allora devo sperare. Anche se avverto che questa crisi, profonda e tristissima, sarà lunghissima. C'è dentro il cristianesimo un pensiero non cristiano, lo diceva Paolo VI!, e oggi è vulgata popolare. Moltissimi pensano di essere cattolici, ma non lo sono più. È terribile. È l'abbandono di Gesù Cristo stando dentro la Chiesa, più ambiguità di così!

La Fraternità deve continuare l'opera di Mons. Lefebvre, custodire il sacerdozio, la fede, la Messa di sempre...un giorno sarà evidente a tutti la sua funzione provvidenziale. Amare la Chiesa vuol dire custodire il tesoro di fede e di grazia che le ha consegnato N.S. Gesù Cristo e che la costituisce, questo lo fa da sempre la Fraternità, per questo benedico Dio.

D. - La terra ossolana ha grandi tradizioni religiose. Pensa che la S. Messa tradizionale possa ulteriormente diffondersi in questa zona e nelle regioni vicine?
R. Non so. So solo che la vita delle nostre montagne prendeva forma dalla Messa cattolica, quella di sempre. La vita della gente di quassù era educata dalla liturgia tridentina a stare difronte a Dio drammaticamente, cioè con una positività che educa la vita. Ma il mondo “americanizzato” è arrivato quassù, anche grazie alla Chiesa purtroppo, e ha fatto disastri nell'umano.

D. - Come si svolge attualmente i Suo apostolato, quanti fedeli frequentano abitualmente la chiesa di Vocogno?

R. Messa quotidiana, 2 Messe la Domenica, confessioni tutti i giorni mezz'ora prima della Messa, scuola a Domodossola, quest'anno 13 classi, incontri di dottrina cattolica al venerdì, catechismo ai bambini, prove di canto settimanali...e poi un po' di vita ritirata, un po' monastica se mi riesce, perchè il sacerdote se vuole fare un po' di bene non deve stare troppo in mezzo.

Vivo una grande fraternità sacerdotale con don Stefano, che è tornato anche lui alla Messa tradizionale, che celebra per i suoi fedeli nella chiesa dell'ospedale di Domodossola: è una fraternità operativa anche, visto che i nostri fedeli hanno molti momenti comuni. Tutto questo ha fatto nascere un bollettino e un sito che documentano la nostra vita.
Quanti fedeli frequentano? Non so. Varia il numero. Possono arrivare ai 120 nelle domeniche estive, d'inverno calano, data la distanza del luogo. Ma ho imparato a non contare: i re d'Israele erano puniti quando facevano censimento.

D. - Come giudica la recente istruzione "Universae Ecclesiae" sull'uso del Messale antico?
R. Ha ribadito che la Messa di sempre non fu mai vietata e che non può essere proibita. Ma chi non la vuole ammettere continuerà a confondere le carte.
Caterina63
00lunedì 3 ottobre 2011 23:42

CERTI PRETI

SONO CAPACI DI GUASTARE PERSINO…

GLI ATEI

 

[Non è un articolo Papalepapale ufficiale, è un prestito dalla mia rubrica La Cuccia del Mastino]

Don Franco Lanzolla: l'arciprete della cattedrale di Bari, fissato con le danze pagane

Danze macabre e fiat 500 sull’altare, a Bari. Toninobellismo nella Chiesa di Puglia. L’isola… di don F. In diocesi induista di Bari. Il seminario catto-induista barese è all’agonia. Ma andate a divertirvi piuttosto, e fate figli. La liceità dell’anticlericalismo.

 

 

 

Dunque riflettevo su un punto, un paradosso se vogliamo. Talora mi capita di dire in giro che sono “papista e anticlericale”. E in fondo è vero: do retta solo a quel che dice e scrive il papa. E obbedisco a prescindere. Mi chiedevo perciò sino a che punto fosse lecito essere “anticlericali” pur restando cattolici fedeli.

Mi sono anche dato una risposta.

 

 

 

di Antonio Margheriti Mastino

 

 

 

DANZE MACABRE E FIAT 500 SULL’ALTARE

Settembre. Danza induista nella cattedrale di Bari. "Regista", l'arciprete; "produttore" l'arcivescovo

Stavo pochi minuti fa parlando su facebook con amici. Avevo postato un video, girato da Francesco Colafemmina nella cattedrale di Bari.

L’autore così lo presenta:

Quando vai a messa, dopo aver sentito il sacerdote versare fiumi di parole sulla vite e i tralci, sullo Spirito Santo che dovrebbe respirare in noi, su noi che dovremmo lasciarci potare da Cristo come la vite, etc. etc. etc., dopo aver sentito tutto ciò con grande spirito di sopportazione per la propagazione costante di insulse verbosità, non ti aspetti di dover vedere in pochi minuti la cattedrale trasformata nel teatro di danze indiane, eseguite in occasione dell’anniversario della nascita del Mahatma Gandhi, il “Gandhi Jayanthi”! Questo mi è accaduto questa sera in Cattedrale, a Bari, e ho deciso pertanto di filmare lo “spettacolo” per voi… […] Su quello stesso presbiterio dal quale il sacerdote tuonava in merito alla necessità per il cristiano di assumersi le proprie responsabilità comunitarie, ecco che una coreografa italiana esperta di danze indiane, balla e si agita al ritmo del sitar. C’è chi ha il coraggio di affermare che queste danze sono intimamente legate alla preghiera e la stessa danzatrice lo spiega mostrando il significato dei gesti che compie con le mani. Sì, lo spiega molto bene, e infatti sul libretto distribuito dalla Diocesi troviamo anche le seguenti indicazioni: “per rappresentare la Madre del Redentore si usa lo stesso gesto che gli indù usano per indicare una divinità femminile.” Perbacco! Povera Santa Vergine, parificata alle divinità indù proprio nel tempio che custodisce una sua venerata icona!

I sacerdoti che hanno organizzato questa pagliacciata davanti all’altare, il Vescovo di Bari che l’ha autorizzata, dovrebbero piuttosto rileggere con maggiore attenzione il Vangelo di oggi: “Ideo dico vobis, quia auferetur a vobis regnum Dei et dabitur genti facienti fructus eius”. Come si può pensare di far fruttificare il regno di Dio introducendo simili iniziative nella casa di Dio?

E per concludere in bellezza, vuoi che manchi una maikbongiornata?…un quiz? Eccovi accontentati:

E così le chiacchiere di certi preti se le porta il vento, mentre in Cattedrale va in scena un’ulteriore intrusione mondana… Seguita, peraltro, da una lotteria per l’estrazione di una Fiat Panda! Il tutto per chiudere in bellezza la manifestazione “Notti Sacre”…. Che manica di patetici pagliacci!”.

Manco a dire che era la prima volta: lo stesso arcivescovo nella stessa cattedrale, prima di questa ennesima idiozia, la danza indiana e induista, aveva in giugno approvato già la danza pagana del “solstizio d’estate”. Promotore sempre lui, una specie di prete, arciprete della cattedrale per la precisione. Un certo don Franco Lanzolla, che si è fissato con le cose orientali e le ballerine esotiche, e la domanda è cosa gli impedisce mai di andare a fare il beduino o il bramino con gli aghi puntati sul deretano in quel di Nuova Delhi. Può essere che gli animisti o cosa diavolo sono, non passino assegni mensili sicuri, specie se fai come ti pare. Invece, se fai il prete cattolico (o fai finta), non solo hai trovato un lavoro sicuro, non solo senza lavorare ti passano un assegno mensile, non solo puoi dire tutto quello che ti pare, ma puoi anche fare tutto quel che ti pare e piace, anche usare la tua parrocchia per esercitare i tuoi hobby esotici. Tanto è tutto pagato: dalla CEI.

 

 

TONINOBELLISMO NELLA CHIESA DI PUGLIA

Giugno. Danza pagana nella cattedrale di Bari. Scenografo l'arciprete; regista l'arcivescovo

Niente di nuovo sotto il sole. Né mi meraviglio. Del resto, so per esperienza diretta che ovunque le messe in Puglia sono ridotte a intrattenimento, qualche volta in puro varietà. Il chiasso e i battimano si sprecano: risparmiando, per compensare, sul momento della consacrazione dove è quasi del tutto caduto in disuso il vizio di inginocchiarsi. Non mi meraviglio, dicevo: visto lo scarsissimo livello anzitutto culturale, e poi anche di fede, del clero; clero che sembra ignorare ogni basilare concetto di ecclesiologia: in pratica non sanno più cosa è la Chiesa, a cosa serve, quali sono i suoi significati escatologici. Va da sé che non sappiano più neppure cosa sia davvero e nel profondo lo stato sacerdotale; ma bisogna pure ammettere che in questi ultimi anni di sbandieramenti del pessimo Tonino Bello (ecco che un cattivo esempio di pastore, elevato a modello e imitato, centuplica i cattivi esempi), nei seminari nessuno glielo ha più insegnato.

I preti in Puglia navigano a vista, si regolano in base al telegiornale: lo vedono, si fanno una idea dei fatti, in genere ricalcata su quella del tuttologo opinionista ingaggiato dai talk-show, politicamente corretto (che è quanto più di anticristiano vi sia, più del comunismo stesso); aggiungici qualche reminescenza di sociologia, una spolverata di trombonismo mondialista piagnone e buonista, ed ecco bella e pronta ‘na predica di 35 minuti buoni. Insulsa persino come sociologia: è telesociologia generalista. E stracciona. Con la stessa dignità dei pensierini baci-perugina dello psicologo da mauriziocostanzosciò Morelli.

 

 

L’ISOLA… FELICE DI DON F., IN DIOCESI INDUISTA (A BARI)

L'arcivescovo di Bari, Francesco Cacucci. Applaude. All'ennesima picconata autodemolitoria. Poche settimane prima si era preoccupato siamai "la celebrazione della messa in latino laceri la comunità cristiana". Un pastore equilibrato e imparziale, come vedete.

Dicevo del mio facebook. Dove, con la massima serenità, avevo definito il vescovo di Bari, esagerando (per mantenere viva l’attenzione dei miei amici online, amanti di cose forti): “Il satrapo della diocesi che proibisce le messe in rito antico nella sua cattedrale, dove poi autorizza i balli indiani”. E quanno che ce vo’ ce vo’! Inutile ricordare che è lo stesso episcopo che or sono due mesi, aprì una questione sui giornali nella quale col cuore pastorale lacerato (sì, ok, crediamoci) si domandava se per caso “la messa in latino non avrebbe creato fratture nella comunità cristiana”. La messa antica, crea fratture, le danze induiste pro-Gandhi sull’altare, quelle uniscono. Non fu per un caso che Cristo disse: “Chi crede che io sia venuto per unire, si sbaglia: io sono venuto per dividere”. E’ quella evangelica spada di giustizia che cade dal cielo sulla terra, e spacca in due “le pietre e gli uomini”. E’ lo scandalo tremendo della croce, la follia della croce. Che è sempre la storia di quel bambino nazareno, che, presentato al Tempio, il vecchio Simeone lo guarda attento e poi sgomento, e ammette: “Questo bambino qui, è segno di contraddizione!”. E aggiunge: “E ora Iddio può anche chiudere per sempre i miei occhi”. Aveva visto tutto!

Una mia amica, del barese, commenta:

Proprio oggi l’arcivescovo di Bari ha detto messa nella nostra parrocchia in quanto era in visita pastorale…la messa è stata cantata, e con canti corali in latino. Direi che ha apprezzato. Poi ci ha fatto la paternale perchè noi siamo troppo isola felice e che dovremmo partecipare di più agli incontri diocesani (!!!!!)… “perchè è solo così che ci possiamo definire Chiesa”…il nostro parroco gli ha risposto che secondo Ratzinger il problema odierno non è essere Chiesa ma è la mancanza ormai di fede nella Chiesa.

Questo prete mi piace, sembra quasi uno in esilio dentro la Puglia passata dall’ideologia toninobellista a quella del suo allievo prediletto, la vendoliana, che riscuote molto consenso nel clero indigeno. Chiedo, e mi informano che questo prete si chiama don F., (personaggio schivo, mi si raccomanda di non fare il nome). Un nome che suona giocondo. Un nome, un destino.

Naturalmente, spiega l’amica, qui pure confermando ciò che immaginavo: “E’ un prete atipico nella diocesi di Bari…che molti altri preti non riescono a digerire”. E’ chiaro. Non capiscono di cosa si occupi, che significano tutte quelle cose che dice e fa (cose da vero prete) e ciò che non si capisce appare sempre minaccioso. E poi c’è il solito discorso del conformismo clericale: conformi nell’obbedienza, o tutti conformi nella disobbedienza; o tutti conformi nell’ortodossia o tutti conformi nell’eterodossia. Un classico. So’ preti!

Per la verità, l’amica aggiunge un altro particolare, più inquietante questa volta. Veramente, dice, non è che è solo il prete, don F., ad essere “atipico”: “Infatti, pure noi siamo una parrocchia atipica: siamo tutti fuggittivi di altre parrocchie della diocesi!”. Ah ecco: uno pensa, ringraziando san Nicola, che c’è un fenomeno autoctono e spontaneo di comunità parrocchiale immune da autopersecuzione e autodemolizione, e poi scopri che quella altro non è che una rimpatriata di patrioti del cattolicesimo, che nelle loro parrocchie (tutte le altre) si sentivano stranieri. E hanno chiesto asilo religioso a quest’isola… di  “felice”, di don F..

 

 

IL SEMINARIO CATTO-INDUISTA DI BARI E’ ALL’AGONIA

Il "messalino" novus ordo della diocesi di Bari

Quindi, sempre l’amica, tentando di dire comunque una parola buona sull’arcivescovo Cacucci che ha approvato quella danza macabra dentro la sua cattedrale, involontariamente risponde a tutti i nostri dubbi: quante legioni ha il papa?, chiedeva Stalin; in questo caso, quanti seminaristi ha il vescovo delle danze indiane?

Il vescovo Cacucci non è una cattiva persona…anzi. Ma penso che sia veramente difficile governare quel guazzabuglio che è diventata la diocesi di Bari-Bitonto, dove il rettore del seminario sforna ormai pochissimi preti (quei pochi glieli ha forniti la nostra parrocchia), e che è amico di Vendola, così si dice”.

Tralasciamo l’amicizia canonica del rettore con Vendola: se un prete in Puglia è contro Vendola, è contro Tonino Bello, se è contro Bello è contro la “pace”, se è contro la “pace”, non solo è per la guerra ma è pure contro san Francesco, ed essendo contro san Francesco, visto che padre Pio era figlio di san Francesco, è contro padre Pio, ed essendo contro padre Pio è contro San Giovanni Rotondo, ed essendo contro San Giovanni Rotondo è pure contro l’Ospedale, ed essendo contro tutte queste cose assieme è contro l’economia locale, capace pure contro i turisti. Ergo: è un sabotatore, e un fascista! Bene, tralasciamo tutto questo. E guardiamo a un solo dato: il seminario della diocesi dove si balla la danza induista (pure taroccata, oltretutto) per celebrare il natale di Gandhi (fa parte del repertorio da circo equestre di Tonino Bello), quel seminario lì è ormai prossimo a svuotarsi. Dice: qual è la novità? Nessuna, ordinaria bancarotta.

 

 

MA ANDATE A DIVERTIRVI PIUTTOSTO, E FATE FIGLI

Il "mandante" di don Franco Lanzolla: don Tonino Bello. Questa è la biografia encomiastica e populistica che gli ha dedicato

Riflettiamo: uno che  forse ha una particolare sensibilità religiosa, entra quel giorno in cattedrale a Bari, e vede sull’altare una donna scosciata che balla cose indù e celebra come una divinità Gandhi. Ora, questo ragazzo dalla particolare sensibilità religiosa, il minuto dopo che fa? Entra in seminario? Perchè mai dovrebbe farlo, se non è mezzo spostato?

Ma che ci vai a fare, fesso, in seminario? Esci, prendi aria, vai a donne, cercate ‘na ragazza, vai in discoteca, vai al mare e divertiti… salamone che non sei altro! Se devi sacrificare tutta la tua vita a una cosa, che almeno sia una cosa seria, radicale, che il gioco ne valga la candela. Altrimenti è meglio, come direbbe san Paolo, che ti diverti, ti cerchi una donna e fai figli, un po’ per piacer tuo un po’ per dare figli a Dio. Non vale la pena rinunciare a tutto questo, non per entrare in seminario. Non è una cosa seria. Rischi di diventare un intrattenitore come tutti gli altri, senza avere il talento dei professionisti del genere, oltretutto. Ma che senso dell’onore hai se ti riduci vestito strano a fare il pagliaccio sul pulpito? Non ti vergogni? E’ meglio che ti cerchi un lavoro serio.

E giustamente, i ragazzi della diocesi di Bari-Bitonto, che non sono sciocchi, disertano sempre più il seminario. E’ questo il punto. Il seminario è semideserto. E con un po’ di pazienza chiuderà del tutto negli anni a venire.

Ma vi racconto tutto questo, perchè poi l’amica ha detto una cosa che è più emblematica delle altre. Certo, sì, quando amareggiata mi ha riferito che il seminario barese “si svuota”, io le ho chiesto perfido: “qual è la cattiva notizia?”.

Vi riporto direttamente il dialogo:

LEI: Con la carenza di preti che c’è in giro i seminari vuoti sono sicuramente una cattiva notizia!

IO: Bah, sarà una cattiva notizia… prendiamola per buona. Ma non ci credo.

LEI: Nella mia parrocchia abbiamo sfornato al momento tre sacerdoti (uno è cappellano militare e adesso è in Afghanistan) altri 4 sono in seminario…

IO: Ce ne sta uno cattolico fra questi?

LEI: Tutti cattolici doc!

IO: Ma che fate, li ipnotizzate?

LEI: E’ tutto merito di don F., parla di Verità e di Fede, non di ecclesiologia.

IO: Davvero un prete “atipico”. Allora vedi che ho ragione io? Se i preti tornano alla radicalità della fede le vocazioni arrivano. Se mettono una indiana raccattata per strada a ballare sull’altare e fare esibizione di sincretismo (confusione fra induismo e cattolicesimo), idolatria (culto di Gandhi) cretineria (confusione della divina liturgia con il circo equestre), il seminario chiude. Grazie a Dio!

LEI: Sicuramente sì …di questo penso sia convinto anche don F., che è un ratzingeriano di ferro. Ma anche dove non arrivano nuove vocazioni la radicalità della fede fa migliorare anche i parrocchiani…cioè noi scappati da altre parrocchie!!

Già, nulla di nuovo sotto il sole. Non servono dunque altre parole: le quasi uniche vocazioni di quel preagonico seminario sul quale regna Cacucci e il suo rettore, vengono dall’unica parrocchia che alle mode toninobelliste e vendoliane non ha ceduto. Dall’unica parrocchia che vive radicalmente la follia della croce, il cattolicesimo. Vendola, allievo di Bello, come vedete, preti non ne fa. E a conti fatti, è questo il primo miracolo di Tonino Bello: averci risparmiato ulteriori proseliti. Servono altre parole? Se non vi ho convinto vuol dire che siete allergici alla più trascurata delle virtù cristiane: il realismo.

 

 

LA LICEITÀ DELL’ANTICLERICALISMO

Manco a dirlo: l'ospite d'onore delle sagre liturgiche della diocesi di Bari: il falso monaco e vero eretico, Enzo Bianchi. DAI LORO FRUTTI LI RICONOSCERETE. MA ANCHE DAI LORO OSPITI

Salto di palo in frasca, ma mica tanto. Riflettevo pure su un’altra cosa. Nella stessa discussione, un amico del barese, sentendo di queste ultimissime, ha argomentato sinteticamente: “Certi preti sono capaci di guastare persino gli atei”. Ma come fai a no ride’?

In realtà si ride dell’eccezione, non della regola. E noi che siamo uomini di chiesa e di chiese ne conosciamo tante, con annessi preti, sappiamo bene essere regola e non eccezione tutto questo.

Dunque riflettevo su un punto, un paradosso se vogliamo. Talora mi capita di dire in giro che sono “papista e anticlericale”. E in fondo è vero: do retta solo a quel che dice e scrive il papa. E obbedisco a prescindere. Mi chiedevo perciò sino a che punto fosse lecito essere “anticlericali” pur restando cattolici fedeli.

Mi sono anche dato una risposta.

NON E’ LECITO: Quando l’anticlericalismo si basa sui peccati individuali del prete o del vescovo; peccati ai quali tutti siamo soggetti e solo a Dio spetta giudicare.

E’ LECITO: Quando il peccato viene ostentato e rivendicato come “diritto” dal peccatore consacrato, anzi come “non-peccato”; quando questi dirottano dalla retta dottrina o compiono abusi e sacrilegi, onde, a norma del diritto canonico, vanno denunciati alla gerarchia competente. Infine, quando preti e vescovi non solo disobbediscono alla legge canonica, ma si contrappongono al papa: in tal caso non vi è più magistero, da parte loro non del papa. Ma solo scandalo. E allora, in questo caso, è dovere e obbligo morale del fedele e dei preti rimasti fedeli, disobbedire e negare autorità a chi per primo l’ha negata al papa, sia parroco o vescovo. E dirglielo anche in faccia.

E’ correzione fraterna. E in ogni caso, il prete o il vescovo disobbediente, a sua volta disobbedito dal suo gregge, può sempre consolarsi con le interviste ai giornali laicisti, gli inviti ai talk-show a fare i tuttologi, i convegni pagati in cui può demolire minimo due dogmi per volta, i best-seller. Si campa, persino meglio, a consacrarsi alla nuova religione del “secondo me”. Tanto lo sappiamo, come scriveva Flaubert, “è Dio che ha creato il mondo, ma è il diavolo che lo porta avanti”. Il fatto è che poi si muore: e il cielo è solo di Dio.






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…. Don Franco Lanzolla crede di essere una star… la posa sulla montagna lo ritrae molto…. vabbè dai mi autocensuro :-)

ah! questa LUSSURIA oggi mascherata dalla falsa LIBERTA’ E DALLA FALSA CREATIVITA’….
Il rapporto tra lussuria e immaginazione diviene ancora più evidente qualora si prendano in considerazione i disturbi che spesso provengono da una eccessiva creatività delle personali capacità nell’attivismo mondano….

Un’articolo di Civiltà Cattolica spiega:

Nell’uomo, l’organo sessuale per eccellenza è il cervello, il suo universo culturale; in tale sede trovano la loro radice i comportamenti devastanti della lussuria che non sono racchiusi esclusivamente nel sesso, una cosa d’altronde ben nota alla tradizione filosofica: “L’appetito che gli uomini chiamano concupiscenza, e la frustrazione che ad esso è relativa, è un piacere sensuale, ma non solo quello (…), ma un piacere o gioia della mente consistente nell’immaginazione del potere del piacere, che essi posseggono in tanta misura”.

La lussuria è dunque il vizio della quantità, spesso smodata, non del piacere sessuale, della compulsione, non dell’amore, dell’atto, non del corpo, non del sesso, ma molto più di arrivare a fare ciò che piace; (…) Ci può essere certamente una passione sessuale irrefrenabile, ma questo sarà semmai proprio di una caduta occasionale, non del ripetersi continuo di un atto, fino a diventare vizio, come nella lussuria la quale esprime il proprio piacere usando ciò che può, anche del piacere a se stesso, soddisfazione delle proprie idee in modo smodato, appagamento delle proprie idee. Si potrà avvertire la passione per una persona, ma in tal caso essa avrà piuttosto i connotati dell’innamoramento e dell’interesse personale il che, di nuovo, è ben diverso dalla “collezione anonima” del lussurioso, che cerca il piacere, non necessariamente in una specifica persona, per altro subito dimenticata, ma soprattutto partendo attraverso un personale progetto idealistico, che lo possa far sentire appagato.

Il fatto che la lussuria non cessi con l’arrivo della “pace dei sensi”, senile o virtuale come nelle dipendenze da internet, mostra il carattere spirituale di questo vizio, vizio intellettuale, di fantasia e di immaginazione perché malato di assolutismo idealistico, malato di attivsmo, malato di “superuomo”, malato nel proprio “ego”, ma un malato dipendente dalla completa assenza di vita spirituale, è malato perchè crede solo in se stesso, fino a credersi un dio, credendosi potente scatena la lussuria, scatena il senso del piacere in ogni atto.
È una conseguenza della cultura detta del narcisismo, in cui l’essere umano vorrebbe mettersi al posto di Dio, credendosi il centro dell’universo: “I rapporti personali sono diventati sempre più rischiosi, perché non offrono più alcuna garanzia di stabilità. Uomini e donne avanzano reciprocamente richieste esagerate e se a tali richieste non corrisponde una risposta adeguata si abbandonano a sentimenti irrazionali che possono scadere nell’odio e nell’astio, oppure nel suo contrario attraverso un fare delle attività che possano uscire dall’ordinario, dalle regole, dalle responsabilità, purchè ci si senta appagati e soddisfatti di aver fatto ciò che piace”.

Forse è anche per questo che Gesù disse AI SUOI: prostitute e pubblicani VI PRECEDERANNO NEL REGNO DEI CIELI?
meditiamo cari Sacerdoti, meditiamo!!

 


Caterina63
00sabato 28 gennaio 2012 14:39
Preti pedofili? No, omosex

di Roberto Marchesini
28-01-2012


«I casi di abuso dei minori da parte di preti hanno poco a che vedere con la pedofilia, molto di più con l’omosessualità». E’ quanto afferma lo psicoterapeuta olandese Gerard van den Aardweg, rileggendo criticamente i dati delle ricerche compiute per conto della Conferenza Episcopale statunitense dal John Jay College of Criminal Justice. Van den Aardweg è autore di numerosi studi sull’omosessualità, in italiano è stato pubblicato dalla editrice Ares un suo volume, “Omosessualità e speranza”.

Professor van den Aardweg, lo studio del John Jay College offre spunti interessanti per comprendere il problema degli abusi sui minori da parte dei preti. In particolare mostra come la maggior parte degli abusi non hanno niente a che vedere con la pedofilia.
Ci sono due rapporti distinti del John Jay College (JJR), Il primo rapporto (JJR 1), del 2004, presenta statistiche sulle accuse di molestie a minori attribuite a sacerdoti e diaconi tra il 1950 e il 2002. Il secondo rapporto (JJR 2), del 2011 era mirato ad analizzare la personalità dei presunti molestatori e le circostanze esterne che potrebbero averne favorito la condotta, prendendo in esame il periodo dagli anni ’60 fino al 1985, quando le accuse di abusi sono già in diminuzione.
Spesso però si dimentica che tutti i dati contenuti nei JJR sono relativi perché non è mai stato verificato quante di queste accuse si sono poi rivelate vere o false. Se anche un 10% delle accuse fossero state smentite, i risultati della ricerca sarebbero tutti da rivedere.
Le statistiche sulla pedofilia erano già presenti nel primo rapporto, ma gli estensori non spesero troppe parole per dire che il principale problema non era la pedofilia. Nel secondo rapporto questa conclusione viene detta in modo molto più chiaro. Allo stesso tempo però sarebbe esagerato anche dire, al contrario, che la pedofilia non c’entra nulla con le accuse di molestie. Pedofilia significa contatti sessuali di adulti con bambini prima della pubertà, che in generale si assume arrivi attorno agli 11 anni.

Quali sono i dati principali contenuti nel JJR 1 riguardo al comportamento pedofilo dei preti?
Il 12% di tutti i casi tra il 1950 e il 2002 coinvolgeva bambini minori di 11 anni, cosa che viene quindi classificata come pedofilia omosessuale; il 6,6% dei casi riguardava invece le bambine sotto gli 11 anni, quindi pedofilia eterosessuale. Vale a dire che in meno del 20% dei casi totali si trattava di pedofilia. Certo, se consideriamo che ci sono una percentuale di ragazzi fra gli 11 e i 14 anni che non hanno ancora raggiunto la pubertà, possiamo ipotizzare che anche una parte di questi casi sia da classificare come pedofilia, in ogni caso non si supererebbe il 30% dei casi totali. Ma questo è un calcolo teorico, e comunque anche in questo caso il principale problema non è la pedofilia.
Inoltre parliamo di “casi” di pedofilia, non di percentuali di preti pedofili. Infatti nel JJR 1 troviamo che il 3% dei preti accusati erano responsabili del 26% di tutti i casi denunciati tra il 1950 e il 2002. Curiosamente il rapporto non dice l’età e il sesso dei minori molestati da questo 3%. Ma anche se una parte di questi preti fosse pedofila, la percentuale dei preti pedofili tra quelli accusati di molestie è certamente molto al di sotto del 26%.
Per questo il JJR 2 ha dovuto ribadire che è sbagliato definire pedofili tutti i preti accusati di abuso dei minori. Se poi siano il 5 o il 10% o cos’altro, nessuno può dirlo, i due rapporti non lo hanno chiarito.

Ma se il problema principale non è la pedofilia, qual è allora il problema nella sessualità della maggioranza dei preti coinvolti?
L’82% di tutte le presunte molestie consumate tra il 1950 e il 2002 aveva come vittime dei maschi: il 12% sotto gli 11 anni, come abbiamo visto, il restante 70% tra gli 11 e i 17 anni. Il che vuol dire che la grande maggioranza dei casi ha a che fare con l’«ordinaria» omosessualità. In generale i pedofili non si rivolgono a bambini dello stesso sesso, e certamente neanche gli eterosessuali. Inoltre, è innegabile che una rilevante parte di uomini con orientamento omosessuale sia attratta dagli adolescenti e preadolescenti. Secondo una ricerca, circa il 20% dei maschi omosessuali attivi preferisce adolescenti e preadolescenti, un altro 20% preferisce ragazzi nella tarda adolescenza e giovani adulti. Quindi circa il 40% di maschi omosessuali ha un’attrazione per gli adolescenti, che viene chiamata efebofilia.

Una buona notizia è che dagli anni ’80 il numero di casi denunciati di molestie ha iniziato a diminuire, il che sembra coincidere con le misure preventive prese nel 1981 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger.
Sì, questo documento vaticano può avere aiutato, soprattutto se lo vediamo come parte di sforzi congiunti durante il pontificato di Giovanni Paolo II per mettere mano alla confusione morale e dottrinale causata dal dissenso nella Chiesa del post-Concilio, che senza dubbio è stato uno dei fattori più importanti nell’abbassare la resistenza di molti preti ai propri impulsi sessuali, omo o eterosessuali che fossero. Ma sicuramente ci sono stati altri fattori a giocare un ruolo in questa diminuzione di casi. Ad esempio, in alcuni paesi a causa dell’abbandono di tanti preti e religiosi, molte scuole e istituzioni educative hanno dovuto chiudere. La frequenza in chiesa dei ragazzi è diminuita drasticamente: in altre parole sono venuti meno quei luoghi dove alcuni preti con problemi potevano avvicinare i ragazzi.
Non dobbiamo però credere che sia calato allo stesso modo il comportamento omosessuale dei preti. Una visione più liberal riguardo al comportamento omosessuale era già penetrata in profondità nella Chiesa. E contemporaneamente molti giovani con orientamento omosessuale erano entrati nei seminari e diventati sacerdoti. Inoltre l'età dei partner sessuali di seminaristi e preti omosessuali si sposta in avanti man mano che il comportamento omosessuale viene sempre più apertamente tollerato e normalizzato.

Eppure il JJR 2 non tira le conclusioni. Anzi, sposta l’attenzione su una rigida educazione moralistica ricevuta in famiglia come causa di comportamenti scorretti, e comunque non rileva alcuna differenza sostanziale tra i preti accusati di abusi e gli altri sacerdoti. Come mai queste conclusioni, peraltro non suffragate da nessun dato oggettivo?
Sicuramente questa è una parte molto debole del rapporto, io credo per due motivi essenzialmente: il primo è che i ricercatori del John Jay College sono incompetenti quanto a investigazioni “psicologiche”. Secondo motivo, sicuramente più importante, è il tentativo di coprire l’evidente “impronta” omosessuale in tutta la faccenda: questo è un tabù che deve essere protetto. Per questo si è evitato di cercare e presentare i dati come una seria ricerca, non viziata da pregiudizi, dovrebbe fare: dividendo tutti i casi in categorie molto ben individuate: quelli che hanno abusato di maschi minori di 11 anni, quelli che hanno abusato di femmine sotto gli 11 anni, quelli che hanno abusato di maschi tra gli 11 e i 13 anni, le femmine della stessa età, e così via. In questo modo la verità emergerebbe con chiarezza.

Quindi le conclusioni del JJR 2 sono fuorvianti…
Lo sono perché cercano di nascondere la realtà, accreditando una delle parole d’ordine del movimento gay: gli omosessuali non hanno una maggiore inclinazione alle molestie rispetto agli eterosessuali. Così si arriva a fare contorsioni linguistiche per non dire ciò che appare evidente. Ad esempio il JJR 2 rifiuta con sdegno “la diffusa speculazione… che l’identità omosessuale è legata agli abusi… soprattutto a causa dell’alto numero di vittime di sesso maschile”. Speculazione? Quasi l’85% delle vittime sono adolescenti maschi e loro pensano di poter liquidare tranquillamente il fattore omosessuale? Questa è cecità voluta. Nessuno che abbia familiarità con il problema delle molestie subite da parte di insegnanti, in istituti, nelle famiglie adottive e così via, può dubitare delle motivazioni omosessuali che sono all’origine della maggioranza dei casi. Piuttosto è la conclusione del JJR 2 secondo cui i preti che abusano di minori non sono distinguibili dagli altri preti a essere pura fantasia. Questo vorrebbe dire che ci sarebbe stato qualche migliaio di normali preti eterosessuali che hanno cercato gratificazione sessuale con ragazzi invece che con ragazze. E’ una cosa priva di senso, chi può darvi credito?


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ricordiamo un passo della Lettera del Papa qui integralmente postata in apertura thread :


4. Negli ultimi decenni, tuttavia, la Chiesa nel vostro Paese ha dovuto confrontarsi con nuove e gravi sfide alla fede scaturite dalla rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese. Si è verificato un velocissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all'insegnamento e ai valori cattolici. Molto sovente le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese. Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento proposto dal concilio Vaticano ii fu a volte frainteso e in verità, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si stavano verificando, era tutt'altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti. In particolare, vi fu una tendenza, dettata da una buona intenzione ma errata, a evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari. È in questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell'abuso sessuale dei ragazzi, che ha contribuito in misura tutt'altro che piccola all'indebolimento della fede e alla perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti.

Solo esaminando con attenzione i molti elementi che diedero origine alla presente crisi è possibile intraprendere una chiara diagnosi delle sue cause e trovare rimedi efficaci. Certamente, tra i fattori che vi contribuirono possiamo enumerare:  procedure inadeguate per determinare l'idoneità dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa; insufficiente formazione umana, morale, intellettuale e spirituale nei seminari e nei noviziati; una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità e una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali, che hanno portato come risultato alla mancata applicazione delle pene canoniche in vigore e alla mancata tutela della dignità di ogni persona. Bisogna agire con urgenza per affrontare questi fattori, che hanno avuto conseguenze tanto tragiche per le vite delle vittime e delle loro famiglie e hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione.




ATTENZIONE:

Cari Amici, visto che l'approfondimento a questo spinoso argomento ha avuto largo consenso e vasto interesse da parte di tutti voi (e ci hanno scritto anche alcuni sacerdoti ringraziandoci per questo impegno non facile), abbiamo deciso di aprire una pagina nuova: CRISI DEL SACERDOZIO? Cerchiamo di capire le ragioni (2) .... sempre in collegamento e pronta per la meditazione....

Invitiamo i lettori a premunirsi della Corona del Santo Rosario e di adottare uno o più sacerdoti nella Preghiera.... affinchè la lettura di questi spazi non scivoli solo in una semplice curiosità o per affermare le proprie opinioni, dobbiamo vedere il Sacerdote in quel Prossimo da amare, amare e amare con la Preghiera innanzi tutto e poi anche materialmente dove fosse necessario!
I Sacerdoti sono un dono prezioso per noi! Solo per mezzo di loro il Signore ci porta la Salvezza.... preghiamo per loro e aiutiamoli, amiamoli, adottiamoli....e lodiamo per loro il Signore Gesù e la Vergine Santa!

Vi ricordiamo di approfondire la pagina dedicata al Santo Curato d'Ars ;
il Magistero del Papa ai Sacerdoti e Seminaristi ;
in sostanza, sfogliate con calma tutta la Sezione dedicata al Sacerdote ....


 

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