Carteggio interessante fra padre Giovanni Cavalcoli O. P. e padre Serafino Lanzetta F.I. sui problemi del Concilio

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Caterina63
00lunedì 16 maggio 2011 23:35

Concilio Vaticano II
sviluppo delle analisi sotto il profilo storico - filosofico - teologico
<><><>
Corrispondenza-confronto
tra P. Giovanni Cavalcoli e P. Serafino Lanzetta

Il dibattito si è aperto il 13 gennaio 2011 con una Lettera aperta - da parte di Padre Giovanni Cavalcoli, OP a Padre Serafino M. Lanzetta, FI - che esprime riserve di ordine teologico sulle questioni sviluppate nel corso del convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Padre Lanzetta risponde il 16 gennaio, con una Lettera aperta ricordando che le difficoltà sono riconducibili al modo di intendere il concetto di infallibilità del magistero e quindi all'esercizio magisteriale del Vaticano II, inteso come unicum e declinato nei suoi 16 documenti. Il dibattito prosegue con altri scritti pure pubblicati di seguito. Raccolgo i testi in un unico documento per comodità di consultazione, trattandosi di un'occasione importante per l'allargamento della discussione, che non mancherà di portare i suoi frutti. È bene che si continui a parlarne, ma soprattutto che se ne traggano piste di riflessione e di approfondimento, che non mancherò di registrare, cercando di alimentare il dibattito sul blog Chiesa e postconcilio


***************



1. Lettera P. G. Cavalcoli a P. S. Lanzetta

2. Risposta di P. Serafino Lanzetta

3. Replica di P. Giovanni Cavalcoli

4. Nuova risposta di P. Lanzetta






***************

Lettera aperta di P. Giovanni Cavalcoli a P. Serafino Lanzetta

Carissimo P.Serafino,
 

quanto è stato detto al vostro convegno, e che tu riferisci nella recensione recentemente pubblicata su questo sito, mi trova in gran parte d’accordo:

la necessità di non fare del Concilio Vaticano II una specie di assoluto, salvo poi ad interpretarlo di proprio arbitrio alla maniera modernista, come se esso avesse inaugurato un modello di Chiesa assolutamente nuovo in rottura con la concezione magisteriale precedente; la situazione di grave disagio che stiamo vivendo da molti anni noi cattolici, intralciati ed ostacolati da questa forte presenza modernistica all’interno della Chiesa stessa; il dubbio che non tutto quello che ha detto il Concilio sia veramente saggio e in linea con la Tradizione; la necessità di fare una buona volta chiarezza circa i suoi insegnamenti, onde conoscere veramente il loro valore vincolante e porre termine alle strumentalizzazioni e al doppio gioco dei modernisti.

Detto questo, vorrei però esprimere anche un certo dissenso da quanto è stato detto, continuando un fraterno dibattito che da tempo stiamo conducendo fra noi privatamente e pubblicamente.

Innanzitutto la questione della novità del Concilio. Non c’è dubbio che il Concilio contiene delle novità sia dottrinali che pastorali. Lo riconosci tranquillamente anche tu riprendendo quanto ha detto Mons.Gherardini: “caratteristica del Vaticano II fu quella di trasmettere un insegnamento rinnovato (o forse innovato per certi accenti), in ambito dogmatico e soprattutto in ambito pastorale”.

Il problema è quello di come concepire queste “novità”: rompono col passato o sono in continuità col passato? “I teologi, - tu dici - soprattutto i periti al Concilio, ci dicono che il problema della rottura s’impernia nello stesso Concilio: è lì che hanno fondato la “nuova dogmatica”, la “nuova morale”, che ha avuto successo nel post-concilio, come è lì che hanno radicato, nel solco della Tradizione, il progresso teologico delle dottrine nuove del Vaticano II”.

Tu qui riferisci due tesi opposte. Una che dice che la “rottura” l’avrebbe fatta lo stesso Concilio; l’altra, che dice che il Concilio, nel solco della Tradizione, ha elaborato nuove dottrine stimolando il progresso teologico. La verità è certamente nella seconda tesi, non certo nella prima.

In secondo luogo mi sembra che il convegno non sia stato capace di dimostrare l’asserto del Papa. “continuità nella riforma”. In particolare non avete dimostrato come la novità non è stata una novità di rottura, come sostiene Alberigo, ma una novità nella continuità e nel rispetto della Tradizione.

In terzo luogo il convegno avrebbe dato un contributo più efficace alla questione dell’interpretazione del Concilio e del postconcilio, se si fosse distinto chiaramente l’aspetto pastorale da quello dottrinale. La teoria diffusa secondo la quale il Concilio sarebbe stato solo pastorale non corrisponde a verità. Come hanno detto invece i Papi del postconcilio, esso è stato anche dottrinale e come tale infallibile. La tesi di Don Kolfhaus, secondo cui il Concilio non conterrebbe dottrine infallibili, è molto pericolosa, perché può ingenerare il sospetto che contenga degli errori, cosa per un cattolico assolutamente inammissibile.

E non basta dire con Mons.Gherardini che “il Vaticano II è infallibile nella misura in cui si appella ai precedenti concili dogmatici e a definizioni dogmatiche o quando reitera una dottrina di fede definitiva“, ma bisogna riconoscere con franchezza che anche le dottrine nuove del Concilio sono infallibili, in quanto esplicitazione o sviluppo di dottrine dogmatiche già definite, anche se è vero, come disse Paolo VI, che il Concilio non contiene nuovi dogmi solennemente definiti, come avvenne per esempio con la proclamazione del dogma dell’Assunta o dell’Immacolata.

Ma “infallibilità” non vuol dire altro che assoluta verità in materia di fede; per cui negare questa nelle dottrine di un Concilio ecumenico non è affatto conforme al dovere e al sentire del cattolico. Perché ci sia infallibilità non è necessaria la definizione solenne, ma basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico.

E’ vero che tutto il Concilio è pervaso da un linguaggio pastorale, ed è vero quello che dice Don Kolfhaus che si tratta di una specie di predicazione omiletica somigliante – io direi – a quello che è il linguaggio dei Padri della Chiesa, un linguaggio adatto alla gente comune del proprio tempo. Ora, anche le dottrine dogmatiche sono espresse con questo linguaggio e non con un linguaggio scolastico che fu proprio, per esempio del Concilio di Trento o del Vaticano I.

Tuttavia questa modestia o popolarità del linguaggio del Concilio non deve portarci a sottovalutare il valore dogmatico delle sue dottrine, così come noi accettiamo ogni parola di Nostro Signore Gesù Cristo, anche se Gesù non si è espresso nel linguaggio di Aristotele o di Cicerone.

Per questo un insegnamento come quello, per esempio, circa la libertà religiosa, presente nel Vaticano II, oggi invocato con tanta insistenza e vigore dal Santo Padre, non può non considerarsi un insegnamento infallibile, ossia un insegnamento di fede. Ed altrettanto dicasi per altri insegnamenti nuovi del Concilio. Trovare qui una rottura o una contraddizione con la Tradizione non ha senso, dato che la dottrina di ogni Concilio è sempre una conferma, magari più avanzata e più progredita, ma sempre fedele e coerente, della Tradizione. Ogni Concilio fa fare un passo avanti alla Tradizione. Possiamo dire con il grande teologo domenicano Francisco Marin Sola, oppositore del modernismo, che nel Vaticano II si dà una “evoluzione omogenea del dogma”.

Quindi, giudicare il Concilio “alla luce della Tradizione”, come era nello scopo del convegno, è giusto, ma a patto che si intenda per “Tradizione” non la fase precedente il Concilio, ma quella stessa più avanzata e più progredita, stabilita dalle dottrine dello stesso Concilio.

Questo è il sano progressismo che il Concilio ha favorito e dal quale è stato ispirato, che non ha nulla a che vedere col modernismo, che è una falso e ingannevole accostamento alla modernità ed è un’eresia.

Altro discorso è quello delle disposizioni o degli ordinamenti pastorali. Su questo piano certamente neppure il Magistero di un Concilio è infallibile. Per questo qui al cattolico è concesso esprimere, sempre con prudenza, riserve o critiche. Qui anche un Concilio può prendere provvedimenti meno opportuni o anche errati, che potranno essere corretti successivamente anche da un nuovo Concilio, come la stessa storia dei Concili dimostra.

Per questo, quando si parla di “modernità” bisogna intendersi: è chiaro che se per modernità si intendono gli errori moderni, la modernità non può che essere respinta in blocco. Ma se per modernità, con maggior senso storico e più ampia e concreta veduta, si intende l’insieme delle dottrine dei tempi moderni, dovrebbe essere evidente che nella modernità ci sono anche dei valori, che come tali vanno assunti e integrati nella visione cattolica. E questo è stato uno dei grandi meriti del Concilio, al quale dobbiamo essere estremamente grati. Ciò che invece è da respingere è l’interpretazione modernistica, per esempio l’interpretazione rahneriana della modernità

A proposito di Rahner, mi compiaccio della tua posizione critica nei suoi confronti, che, come sai, è anche la mia. Ma appunto per liberarci dal rahnerismo dobbiamo tener conto dei princìpi e dei criteri che ho enunciato in questa mia lettera, per non prestare il fianco alle critiche e non fare la figura di restare indietro rispetto agli insegnamenti del Concilio, cosa che sarebbe del tutto controproducente e al limite – vedi lefevriani – neppure conforme a un pieno cattolicesimo.

Mi auguro che tu rifletta su queste cose insieme con coloro che condividono il tuo punto di vista. Dobbiamo ringraziare Riscossa Cristiana che ospita questo dibattito tra fratelli di fede, nella comune certezza che il rispettoso leale confronto delle opinioni conduce alla verità.

Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Bologna, 13 gennaio 2011
[Fonte:Riscossa Cristiana]
                                                                       


Lettera aperta di p. Serafino Lanzetta a P. Giovanni Cavalcoli

Carissimo P. Giovanni,
 
la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose:
  1. che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie) per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio;
  2. questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente.
Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul suo blog (cf. cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalment... perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza, consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella storia insieme a tutta l'umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo di Dio». «L'ecumenismo non è ricondurre all'obbedienza pontificia i disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede – è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.
 
Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale e a modo di status quaestionis) di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale:Lumen gentium e Dei Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.
 
Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio? Lei vede il Vaticano II come ununicum, giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio (stabiliti egregiamente da Gherardini).
 
Mi spiego riassumendo schematicamente lo status quaestionis sull’esercizio magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche:
  1. esercizio del magistero straordinario solenne;
  2. esercizio del magistero ordinario universale;
  3. esercizio del magistero autentico;
  4. esercizio di un magistero omiletico;
  5. esercizio di un magistero differenziato.
Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o di tradizionalismo (cf.F. Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate” [tesi dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).
 
Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio). Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen gentium, posta come Nota previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano: «Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).
 
L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito (della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic et simpliciter la definizione di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, del 24 maggio 1990, nn. 22-24).
 
Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici, ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore magisteriale dei suoi documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando a vedere che il nostro concilio è sui generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo che ci dobbiamo interrogare.
 
E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.
 
Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo, in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.

È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo. Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo anche dire che, ad esempio, Presbiterorum ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo “continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica, avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius divinum della liturgia, e andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum concilium non è infallibile ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili adattamenti.
 
Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al dialogo con gli uomini.

Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa. Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da questa dichiarazione e soprattutto da Nostra aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale: qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis humanae fosse infallibile, non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale, il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.

In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le dottrine che si possono dire tali.

Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale, in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II. Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente per un discorso più accurato.

Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e Domenico

p. Serafino M. Lanzetta, FI
 
Firenze, 16 gennaio 2011



Caterina63
00lunedì 16 maggio 2011 23:38

La Tradizione contro il Papa - di P.Giovanni Cavalcoli, OP

Per noi cattolici, come si sa, il contenuto del messaggio evangelico, insegnatoci un tempo oralmente da Nostro Signore Gesù Cristo e consegnato agli apostoli e loro successori perché fosse predicato in tutto il mondo, fu già dai primissimi tempi del cristianesimo nel suo insieme messo per iscritto - ed abbiamo gli scritti del Nuovo Testamento come completamento all’Antico -, mentre altre verità non senza rapporto con la Scrittura furono conservate mediante l’insegnamento orale, e ciò costituisce la sacra Tradizione apostolica, detta più brevemente “Tradizione”, parte della quale poi successivamente nel corso dei secoli fu messa per iscritto, senza per questo esser confusa con i testi della Sacra Scrittura. 

Per noi cattolici la conoscenza infallibile del dato rivelato, mediato dalla Scrittura e dalla Tradizione, ci è ulteriormente mediato dal Magistero della Chiesa, continuatore dell’insegnamento degli Apostoli, sotto la guida del Successore di Pietro, il Papa. Vale a dire che il Magistero vivente ed orale della Chiesa ha la funzione, attribuitale da Cristo stesso con l’assistenza infallibile dello Spirito Santo, di trasmettere, conservare, insegnare, interpretare, spiegare, chiarire, esplicitare e sviluppare i dati della Tradizione e della Scrittura. 

Le verità rivelate consegnate da Cristo una volta per sempre agli Apostoli in se stesse sono immutabili perché divine (“cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”) e per questo vanno conservate intatte nei secoli con assoluta fedeltà. Ma nel contempo questo patrimonio di infinita sapienza viene conosciuto sempre meglio dalla Chiesa nel corso dei secoli sino alla fine del mondo, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, il quale “rinnova tutte le cose” e per espressa dichiarazione di Cristo, ha il compito di condurre la Chiesa “alla pienezza della verità”. 

Una tentazione che si è verificata nella storia del cristianesimo ed alla quale purtroppo molti hanno ceduto, è stata quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c’è bisogno di stare agli insegnamenti o all’interpretazione del Magistero vivente ed attuale – per esempio quello di un Concilio -, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l’errore di Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è l’errore dei lefevriani. 

Il famoso, perspicace ed informatissimo sociologo cattolico Massimo Introvigne, in un suo recente articolo, ha giustamente osservato che modernisti, protestanti e lefevriani, per quanto per altri versi in opposizione tra di loro, vengono ad avere nei confronti del Magistero del Sommo Pontefice, soprattutto i Pontefici del postconcilio, il medesimo atteggiamento contrario al vero cattolicesimo, con la differenza che mentre i protestanti da sempre hanno apertamente dichiarato la loro opposizione al cattolicesimo, i modernisti fingono di essere cattolici, ma in realtà sono protestanti, e i lefevriani stranamente vogliono considerarsi cattolici ed addirittura paladini dell’ortodossia cattolica ancor meglio dei Papi del postconcilio e delle dottrine del Concilio Vaticano II, che essi accusano di aver falsato o abbandonato la “Tradizione”. 

I lefevriani non si rendono conto che ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. I lefevriani fanno come chi – mi si scusi il paragone materiale ma rende l’idea - volesse giudicare il valore di un’auto dell’ultimo salone di Torino alla luce di un’auto del 1930.

Avviene così  che come i protestanti pretendono di giudicare l’insegnamento dei Papi alla luce di un contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un’infinità di errori, similmente i lefevriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postconcilio una falsificazione di certi dati della Tradizione. [a proposito della questione con i Lefebvriani, vedi notazioni su uno scritto di P. Cavalcoli a Don Kolfhaus - ndR]

Ora i protestanti, i modernisti ed i lefevriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa di avocare a sé quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi, successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa. 

Da qui la tesi diffusa sia tra i lefevriani che tra i modernisti, secondo la quale gli insegnamenti del Concilio costituirebbero una rottura con quelli del Magistero precedente, gli uni per dispiacersene, gli altri per rallegrarsene, gli uni per svalutare a più non posso l’autorità dogmatica del Concilio, gli altri per fare del Concilio una specie di compendio totale del cristianesimo ad esclusione di tutti gli insegnamenti precedenti, gli uni irrigidendo la Tradizione al preconcilio, gli altri negando valore alla Tradizione. 

Infatti la Tradizione nel senso cattolico, se può essere paragonata, per la sua solidità e certezza, alla “roccia” come Pietro è la “roccia”, tuttavia  non ha l’inerzia della roccia o la rigidezza di un corpo morto, perché essa, come comprese bene il Beato Henry Newman, in quanto prodotto dello spirito, è un essere vivente, che conserva certo la sua identità, ma nel contempo si accresce, si approfondisce e si sviluppa, anche se è vero che il paragone col vivente non è del tutto calzante, perché una proposizione nuova e più avanzata della Tradizione non sostituisce quella precedente come l’età adulta nel vivente sostituisce la giovinezza, ma si aggiunge alla precedente la quale resta valida e vincolante, così come per esempio la cristologia del Vaticano II certo è più avanzata di quella calcedonese, ma questa anche oggi resta valida nel suo insegnamento immutabile. 

L’impressione della rottura possono averla più gli storici del Concilio che non i teologi e se dovessero averla anche questi, sarebbe un fatto grave, perché vorrebbe dire che non sanno vedere la continuità al di sotto del progresso. 

Infatti, mentre è normale per il teologo fare maggior attenzione alle formule definitive o definitorie e quindi fisse cui giungono le discussioni conciliari, lo storico, per sua natura legato al succedersi degli eventi, è portato a guardare con maggior attenzione all’evoluzione dei dibattiti che poi conduce alle conclusioni dottrinali finali ed ufficiali, le sole che valgono dal punto di vista della fede. 

Per questo lo storico che esamina le fasi o le vicende della elaborazione dei documenti conciliari non può non constatare gli effettivi contrasti, anche in campo dottrinale, che sono emersi durante i lavori del Concilio fra conservatori e progressisti, soprattutto fra quei conservatori che si scandalizzavano irragionevolmente delle novità e quei progressisti che tendevano al modernismo. 

Senonchè lo storico, soprattutto se cattolico, non può non prender atto anche delle conclusioni alle quali sono giunti i dibattiti conciliari, conclusioni dove i contrasti sono scomparsi e che appaiono nei testi dottrinali ufficiali, testi che la Chiesa considera definitivi ed irreformabili, come a dire: “infallibili”. 

E qui, ad un attento esame, contraddizioni col passato non esistono. Infatti in campo dottrinale ossia dogmatico un Concilio, secondo la stessa fede cattolica, trattando di materia di fede, non può rompere col passato, non può mutare sentenza, non può esprimere sentenze errate o rivedibili. Un Concilio chiarisce un dato precedente, non lo muta, perché mutare vorrebbe dire oscurare e falsificare. Il che per un cattolico sincero è impensabile e per lo storico onesto non è constatabile. 

Quanto al teologo, se può essergli utile sapere dallo storico come si è giunti alle conclusioni canonizzate nei testi ufficiali per una migliore interpretazione dei testi stessi, deve però guardarsi bene, soprattutto se è cattolico, dal voler ritrovare nei testi ufficiali dottrinali tracce di quelle incoerenze o imperfezioni che lo storico constata con facilità nel materiale che gli viene fornito dalla storia dei dibattiti conciliari precedenti. Così come lo storico non può dare maggior importanza dottrinale ai precedenti contradditori dibattiti rispetto alle conclusioni alle quali è giunto il Concilio con regolari votazioni. 

Quanto ai lefebvriani, per sottrarsi a questo dovere di accettare le dottrine del Concilio, si appigliano a pretesti speciosi quanto inconsistenti. Sono soprattutto due: 1) si dice che il Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2) si afferma che nel Concilio non sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono infallibili. Quindi, conclusione, - essi dicono - possiamo correggere il Papa e il Concilio in base alla “Tradizione”.

A ciò si risponde dicendo che non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno, come hanno affermato più volte i Papi del postconcilio, anche insegnamenti dottrinali, come tali infallibili, giacchè perché si dia dottrina infallibile - ossia assolutamente e perennemente vera - non è necessario, come la Chiesa stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire infallibile. 

Nel Concilio si danno indubbiamente anche insegnamenti di tipo pastorale, che sono anzi la larga maggioranza. In questo campo la Chiesa non è infallibile e, come dalla stessa storia del dogma si dimostra nei fatti, l’infallibilità del Magistero, in quanto esso non si è mai smentito (checché ne dica Küng), parimenti lo storico della Chiesa può agevolmente dimostrare come nel campo pastorale la Chiesa ha commesso errori, che poi hanno dovuto essere corretti. E in tal senso un Concilio successivo corregge gli errori pastorali commessi dal precedente. 

Così non è proibito rilevare errori pastorali nel Vaticano II, che potranno eventualmente essere corretti dal prossimo Concilio. Ma pretendere, magari sotto pretesto di progresso dogmatico, che il Magistero non abbia una dottrina fissa ed immutabile o che nel corso della storia muti parere in fatto di fede o di dogma o che possa sbagliare o correggere errori commessi, è una tesi assolutamente falsa che può essere smentita dagli storici onesti e perspicaci, soprattutto se cattolici, giacchè il cattolico sa per fede che la Chiesa in fatto di dottrina, nonostante certe apparenze contrarie, non può sbagliare, anche se questa certezza può e dev’essere supportata e confermata dalla storia.

 Bologna, 28 febbraio 2011
[Fonte: Riscossa cristiana]
                                                                             
 
Distinguere frequenter. Il Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli



P. Giovanni Cavalcoli, OP in un recente articolo pubblicato su Riscossa Cristiana, dal titolo La Tradizione contro il Papa, continuava a riflettere sul Concilio Vaticano II, con una volontà precisa di riscattarlo dai modernisti e dai tradizionalisti. Il Padre domenicano, portava a difesa dell'infallibilità delle dottrine del Concilio, il Motu proprio Ad tuendam fidem del 1998. Di seguito gli risponde il P. Serafino M. Lanzetta, argomentando su due cose: 1) non è necessario per accettare il Vaticano II rendere tutte le sue dottrine infallibili; 2) perché una dottrina sia infallibile è necessaria la sua definitività dichiarata dal Magistero, secondo il citato Motu proprio.

Carissimo P. Giovanni,

ho letto i suoi ultimi interventi sul Vaticano II, pubblicati da Riscossa Cristiana. Ammiro la sua infaticabile passione per un argomento così spinoso ma centrale nell’attuale situazione ecclesiale. Mi permetta di rivolgerle qualche domanda e di riflettere insieme con lei, come abbiamo avuto già modo di fare in precedenza. Muoverei da un primo approccio: la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. È indubitabile che dopo ogni concilio la Chiesa abbia vissuto momenti di forti turbolenze, in ragione di un riassestamento lento e progressivo della compagine ecclesiale, scossa, normalmente, da errori che la minacciavano, smascherati però dalle definizioni delle verità di fede. Non sono mancate fratture, riacutizzatesi proprio in ragione della chiara ed infallibile posizione dei concili. Mi sovviene quanto si verificò per il Concilio di Nicea. È vero che l’errore subordinazionista, che ammaliava anche vescovi dal calibro di Eusebio, fu sconfitto definitivamente solo con il Concilio successivo di Costantinopoli, definendo la divinità della Spirito Santo, mentre, nel frattempo, gli ariani si muovevano con sinodi ben precisi volti a conquistare dalla loro parte le Chiese. I confini dell’esagitazione ecclesiale però erano ben delineati: da un lato la fede della Chiesa, difesa da S. Atanasio e definita al Concilio, dall’altra l’eresia della non-consustanzialità del Figlio col Padre e di conseguenza un principio di svuotamento del mistero stesso della Redenzione. La cattolicità si stringeva intorno alla stessa fede, mettendo sempre più al bando l’errore dottrinale, che qui si avvaleva dell’accondiscendenza dell’Imperatore. Anche dopo il Concilio di Trento i confini della fede cattolica furono ben presto visibili, e con un’opera di intelligenza pastorale, la Chiesa tornò a risplendere della sua bellezza, graffiata dai suoi figli rivoltosi. Si insegnò che la S. Scrittura e le Tradizioni non scritte sono le due fonti dell’unico deposito rivelato da Dio e consegnato alla sua Chiesa. La Chiesa attinge la sua regola di fede da entrambe, unite nell’unico atto rivelativo, custodite e trasmesse indefettibilmente dal Magistero autentico.

Dopo il Vaticano II, però, si assiste a qualcosa di nuovo: è la stessa Chiesa ad essere colpita da una profonda crisi. Una crisi d’identità. È nel suo interno che si mettono in discussione i dogmi: o li si vuole superare in nome di un meta-dogmatismo o – ciò che mi sembra abbia prevalso – li si vuole arrestare ad ogni costo al Vaticano I, per dare una svolta nuova all’Assise ultima: quella della conciliarità. Che presto diventa neo-conciliarismo.

Lo stesso approccio pastorale del Concilio – che lei dice esser il cavallo di battaglia dei lefebvriani per affossare il Vaticano II – si prestò a svariate letture. Ci fu chi come Y. Congar voleva un concilio pastorale, che non fosse da meno di uno dottrinale e che non si limitasse a definire o ad atomizzare la fede, ma raggiungesse gli uomini del tempo. A questi gli farà presto eco G. Alberigo, il quale dirà che il Concilio pastorale aveva messo in discussione l’ecumenismo dottrinale, fino a far abbandonare la via antiqua per una svolta epocale; chi, poi, come il card. G. Siri, che vedeva proprio nell’elevata enfasi data al lemma pastorale un «equivoco-ombra» per risistemare la dottrina passando al lato della condanna degli errori, ma provocando necessariamente una certa mescolanza. Una misericordia verso gli erranti poteva trasformarsi in una misericordia verso l’errore. Questo in larga parte si è verificato, seppur involontariamente. Riporto una lucida e coraggiosa analisi di questa situazione, fatta dal card. G. Biffi, che dice: «Un magistero che non condanna niente e nessuno – naturalmente con tutta la prudente attenzione alle concrete circostanze e alle esigenze della carità pastorale – è fatale che diventi complice involontario dell’errore e quindi di colui che il Signore Gesù ha chiamato “menzognero e padre della menzogna” (cfr. Gv 8,44)» (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2010, p. 53).

Per questa ragione, caro Padre, trovo il suo argomentare un po’ troppo affrettato. Non risponde al vero dire, a mio modo di vedere, che i lefebvriani: solo loro o anche altri?, correggono il Papa e il Concilio in nome della Tradizione – mi sentirei anch’io chiamato in causa, per quanto ciò possa aver peso –, in ragione della pastoralità del Concilio e del fatto che il Vaticano II non ha emanato nuovi dogmi. Questo lo dice anche Paolo VI e con lui in modo particolare Giovanni Paolo II, che ne attuò le istanze più proprie. Si pensi solo alla missionarietà interreligiosa ed ecumenica di questo amato Pontefice.

Mi rendo conto della sua accorata preoccupazione per il Concilio e per le sue dottrine. Il riconoscimento del Concilio: a priori irrinunciabile per ogni figlio della «Cattolica», la spinge però a rendere infallibili tutte le sue dottrine. Giustamente, dall’accettazione delle dottrine dipende l’accettazione del Concilio, ma non necessariamente l’accettazione delle dottrine deve prevederne l’infallibilità perché si accetti il Concilio. Leggo nei suoi scritti, e questo è sicuramente invidiabile, una grande volontà di riscattare il Concilio dai modernisti e dai tradizionalisti. Ma così facendo, ho l’impressione che il “nuovo” del Concilio, che comunque lei riconosce come sviluppo e aggiunta e mai abrogante quello di prima, perché sempre infallibile, debba richiedere necessariamente un atto di fede teologale. Questo vale sempre? In questo modo, però, come si potrà distinguere ciò che è dottrinale da ciò che è pastorale?, cosa che invece lei giustamente vuole fare.

Allora, le mie domande: quali sono a suo modo di vedere le dottrine infallibili del Concilio e gli insegnamenti pastorali fallibili e rivedibili? Riuscirebbe a farne un quadro ben delineato o troverebbe sempre la difficoltà di dover disgiungere il fine e la natura pastorali del Concilio anche dai suoi insegnamenti dottrinali? E se gli insegnamenti dottrinali non sono definiti quindi dichiarati infallibili, in ragione di cosa li si può vedere come tali? Solo in ragione del dato dottrinale nuovo portato dal Concilio o non piuttosto in ragione della Tradizione della Chiesa, metro dello sviluppo dogmatico? Il criterio dell’infallibilità non sta nel dopo, ma nel prima. La Tradizione non dovrebbe essere mai contro il Papa. Se lo è, è perché si è smarrito il suo vero concetto. Pertanto, distinguerei tra accettazione delle dottrine/insegnamenti del Concilio e loro (generale) infallibilità. Accettarle non dipende dalla loro infallibilità, ma dal fatto che sono insegnamenti del Magistero della Chiesa. È la Chiesa la garanzia della loro autenticità. Questo potrebbe aiutarci a liberarci da una soffusa ondata di neo-conciliarismo, quando, ad ogni piè sospinto, si invoca l’autorità dottrinale del Concilio, con un generalissimo “il Concilio dice”, “il Concilio insegna”, ignorando magari lo stesso Magistero post-conciliare. Potrebbe essere anche il modo con cui ci si accosta alle dottrine del Vaticano II, senza prevenzioni dogmatiste, con una libertà, sempre nei confini del vero tracciati dall’Autorità, per verificarne, ad un tempo, il loro ancoraggio al Deposito della fede e lo sforzo della novità in ragione della nuova pastoralità voluta dai Padri.

È vero che il Magistero post-conciliare ha dichiarato a più riprese la continuità delle dottrine conciliari con la Tradizione della Chiesa. Si pensi ultimamente alla Verbum Domini quanto al rapporto Scrittura e Tradizione in Dei Verbum. Ma questo non ci redime ancora, purtroppo, da un angosciante e sordo appello al Concilio e sempre al Concilio. Non sarebbe inopportuno un nuovo Sillabo per mettere in guardia dagli errori declamati in nome del Concilio, con il quale non si chiederebbe alla Chiesa di correggersi ma di correggere gli errori.

Dopo il Vaticano I, ad esempio, non c’era molto da dibattere sul contenuto della Pastor aeternus. Ci furono quelli che lo rifiutarono, ma la Chiesa non dovette ritornare sul suo significato per una sapiente ermeneutica. Invece, si nota una singolarità del Vaticano II, che nasconde un problema ermeneutico di approccio e di lettura degli insegnamenti. Mi convinco sempre più, che più che nelle dottrine del Vaticano II, il vero problema si nasconde nel principio ermeneutico con cui le si legge, tema classico della modernità, postasi proprio come problema gnoseologico. Quel mondo moderno con cui si voleva dialogare ha presentato alla Chiesa il conto della sua principale difficoltà: mettersi in questione per arrivare, solo dopo, alla sua comprensione?

Vengo così all’Ad tuendam fidem (Motu proprio di Giovanni Paolo II, del 1998), che lei cita nel suo ultimo scritto (28 febbraio 2011). Con questo documento, il venerabile Pontefice, si premurava di munire di due paragrafi il canone 750 del CIC (e rispettivamente il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) per preservare la fede della Chiesa dagli errori che insorgono. Il primo paragrafo di detto canone richiama le cose da credere con fede divina e cattolica, in quanto insegnate infallibilmente dal Magistero solenne o dal Magistero ordinario e universale e contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata (allusione alla due fonti della Rivelazione). Il secondo paragrafo, invece, riguarda l’accoglienza ferma di quelle cose che il Magistero insegna come definitive circa la fede e i costumi. Non si fa però menzione, per appurare l’infallibilità di una dottrina, alla sola “materia” di fede come lei invece dice. Il metro è ancora una volta il Magistero. È interessante notare che questa definitività della dottrina, sebbene di cose non rivelate ma connesse con la Rivelazione e dichiarate tali dal Magistero, fu riconosciuta anche dalla Scuola di Bologna, che all’uscita del Motu proprio, subito s’allarmò con un intero numero monografico di Cristianesimo nella Storia (n. 1, 2000). Si sarebbe così compromessa la voluta scelta del Vaticano II di mettere un certo silenziatore alla Tradizione costitutiva, che ora Giovanni Paolo II, pretendeva rispolverare quanto all’infallibilità di dottrine definitive, insegnate infallibilmente dal Magistero. Si andava così a riprendere un certo modo controversistico e antiprotestante, accantonato dal Concilio. Si ripiombava in una visione dottrinale contro quella propriamente pastorale (vedi ad esempio G. Ruggieri, in Ibid., pp. 4. 103-131: l’unico italiano ad aver firmato il controverso memorandum “Chiesa 2011” dei teologi tedeschi).

Con accenti di rottura, certo, ma anche quest’ermeneutica riconosce che Ad tuendam fidem parla di definitività delle dottrine appurata dal Magistero e dà così piena cittadinanza alla Traditio constitutiva.

Con Benedetto XVI possiamo allora affermare, che «la Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura, quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della fede» (Verbum Domini 18).

Ogni dottrina, anche quella di un concilio, non dovrà mai prescindere da questa «regola suprema».

Con devoti sensi di fraterna amicizia. p. Serafino M. Lanzetta, FI  Firenze, 5 marzo 2011
[Fonte: Approfondimenti di "Fides Catholica"]



Caterina63
00martedì 26 luglio 2011 23:09
da una fides

il fuoco del dogma


LA VIA SOPRANNATURALE
PER RIPORTARE PACE TRA
PRIMA E DOPO IL VATICANO II

(con finale richiesta al Santo Padre di una iniziativa da prendere in vista del
50° anniversario della chiusura del Concilio)

di Enrico Maria Radaelli

Nota dell'Autore

Il presente testo, approntato appositamente per il sito internet di Sandro Magister (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348309), venendo a costituire la più chiara chiave ermeneutica per comprendere appieno l’inalienabilità e la profondità della relazione metafisica tra Bellezza e Verità, col presente “dodicesimo” è stato allegato al saggio La Bellezza che ci salva, di cui è quasi l’anima.

Il presente testo è stato rivisto e corretto dall'Autore



La discussione che sta avvenendo, grazie alla meritevole idea e alla conseguente ospitalità di Sandro Magister sul suo sito internet, (1) tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro La bellezza che ci salva.

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “Origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali che san Tommaso (vi si veda il primo capitolo) mostra essere i nomi dell’Unigenito di Dio, identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, che è a dire la verità con la bellezza, il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per mi parrebbero decisivi per chi vuole ricostruire quella Città della bellezza che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.
Completo il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con mons. Gherardini che nel 2015 cadrà il 50° anniversario del concilio, (2) la Chiesa tutta approfitti di questo straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel munus docendi sorprendentemente sospeso cinquant’anni fa.

Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta da Padre Cavalcoli: «Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo - Gherardini, de Mattei [e il sottoscritto] e noi [padre Cavalcoli, Padre Valuet, il professor Introvigne e il reverendo professor Rhonheimer] - che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio».

Il Domenicano si avvede infatti che la necessità è di «rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?». E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, le gira nelle

opposte domande, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica aletica insegnataci dalla filosofia.


PRIMA DOMANDA: «È AMMISSIBILE CHE LO SVILUPPO DI UNA DOTTRINA DI FEDE O PROSSIMA ALLA FEDE GIÁ DEFINITA SIA FALSO?»

Caro Padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: «Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso». Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una conclusione falsa, o a più, tant’è che in tutti i concilii del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio in odore a tale possibilità: per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità per grazia rivelate non basta essere teologi, vescovi, cardinali o Papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo di Cristo solo a quei concilii in cui essi si radunano che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la garantiscono formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come vero tanto quanto come vere sono già divinamente garantite le sue premesse.

Ciò non è avvenuto all’ultimo concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel 3° grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente «religioso ossequio») se non «addirittura errate», come riconosce lo stesso Padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, «e comunque non infallibili» (Idem), e che dunque «possono essere anche mutate» (Idem), sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma “solo” moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto obbligatoriamente vincolanti l’obbedienza del fedele.

D'altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la Realtà prima, con la Realtà divina rivelata cui si riferiscono, e è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (1° grado), tali come le dottrine a loro connesse se presentate con definizioni dogmatiche o con atti definitivi (2° grado); entrambe si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo ceppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Lérins recepito nel Vaticano I (quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio; tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del munus dogmatico.

La differenza tra le dottrine di 1° e 2° grado e quelle di 3° è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel 3° gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il munus dogmatico è: 1) un dono divino; dunque, 2), un dono da richiedere espressamente; e 3), un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità che unicamente quel munus sopradetto accompagna, e che dunque sgancia magistero e fedeli da ogni obbligo (l'uno di veridicità, gli altri di obbedienza), pur richiedendo loro religioso ossequio: nel 3° grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale, può compiersi unicamente mettendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al 2° gruppo: ma fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartevano al gruppo delle dottrine opinabili, al 3°, alle quali si doveva nient’altro che «religioso ossequio», pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali ab initio e per sese già esse nella loro più intima realtà erano: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il 2°) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste: felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare: riconoscimento degli astanti, Papa in primis, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, osservata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.

SECONDA DOMANDA: «PUÓ IL NUOVO CAMPO DOGMATICO ESSERE IN CONTRADDIZIONE CON L'ANTICO?»

Ovviamente no, non può in alcun modo, infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun «nuovo campo dogmatico», come si esprime il Domenicano, anche se molti vogliono far passare le novità conciliari e postconciliari per tale pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne (della solennità dovuta a un concilio ecumenico, come rivela anche mons. Gherardini) e straordinario «campo pastorale»: nessuno dei documenti richiamati da Padre Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale (= ecumenica), adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente (o anatemizzare) alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti (o sempliciter novatori che dir si voglia) che - come sottolinea il professor de Mattei nel suo Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta - furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII: teologi, vescovi e cardinali della Nouvelle Théologie come Alfrink col suo perito Schillebeeckx, Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito Ratzinger; König col suo Küng; Garrone col suo Daniélou; Lercaro, Liénart, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: ieri Dossetti e Alberigo, oggi Melloni, hanno nello svolgimento del Vaticano II e dopo di esso cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sulla solennità della straordinaria adunanza (ripeto: indubbia); per cui si ha che tutti costoro compirono de facto rottura e discontinuità proclamando de voce saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più largo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne due o tre a dare il minimo spazio al Rito Tridentino o Gregoriano, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive della Summorum Pontificum, e si potrebbe continuare; lex orandi, lex credendi: se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cosa allora?

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è «tutti i giorni» sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Mt 16, 18 (Portæ inferi non prævalebunt) e di Mt 28, 20 (Ego vobiscum sum omnibus diebus) e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto; ma chi sostiene un’avvenuta rottura (alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti) cade nel naturalismo.

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il concilio: ecclesiologia, collegialità, panecumenismo, rapporto con le altre religioni, filogiudaismo, irenismo, medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “Dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”, unicità delle fonti della Rivelazione, libertà religiosa, teodicea, antropocentrismo, aniconologia, o quella da cui è nato il Novus Ordo Missæ in luogo del Gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente!), sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle, fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo di Cristo, vedasi il corpus theologicum posto a loro tempo a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione; esse sono realizzate unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento, però poi si impone una fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso de fide necessario all’unità e alla continuità (si vedano per esempio, ivi, le pp. 70 sgg., 205 e 284 (3)), restando così tutte in pericoloso e «fragile borderline tra continuità e discontinuità» (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine, e non invece, come qualcuno paventa, la del tutto impossibile «uscita della Chiesa da se stessa» (p. 43). Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.

TERZA DOMANDA: «SE NOI NEGHIAMO L'INFALLIBITÀ DEGLI SVILUPPI DOTTRINALI DEL CONCILIO CHE PARTONO DA PRECEDENTI DOTTRINE DI FEDE O PROSSIME ALLA FEDE, NON INDEBOLIAMO LA FORZA DELLA TESI CONTINUISTA?»

Certo che la indebolite, anzi la annientate. E date forza alla tesi opposta, che continuità non c’è. E questo in odore alla verità.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio con quella che l’autore di Iota unum (p. 28 dell'edizione Lindau) definisce «la legge della conservazione storica della Chiesa», raccolta a p. 41 del mio saggio, per la quale «la Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità». E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, oppure la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima, vedasi la mia Postfazione a Iota Unum, Lindau, pp. 702-707) dal Concilio a oggi; e quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la anatemizzasse, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il Papa e solo il Papa, se (= “nella metafisicamente impossibile ipotesi che”) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore.
Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo.

Qui si avanzano delle ipotesi, ma, come dico nel mio libro (p. 55), «lasciando alla competenza dei Pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra» negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in particolare come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte (almeno nella sacra) non si riesce se non lavorando nel vero di insegnamento e atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da mons. Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso, a partire dal Discorso d’apertura del concilio Gaudet Mater Ecclesia, in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma detta con grande imprecisione teologica, “pastorale”: si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee “ecumeniche” di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne punto la veste metafisica, natura sua dogmatica (p. 62), natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel «campo» del suo magistero che inferisce solo sulla sua «conservazione storica». In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i Papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di 2° livello le nuove dottrine di 3° che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i Papi, persino in occasione di un concilio, si sono formalmente rifiutati e di dogmatizzare le nuove dottrine e di anatemizzare le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse.

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Mt 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò «deviare dalla rettitudine che l’atto (di '‘insegnamento educativo alla retta dottrina”) deve avere (S. Th. I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di «omissione della dogmaticità propria alla Chiesa» (pp. 60 sgg.), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (infatti si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento «favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto “pastorale”, che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli» (pp. 67-8).

Per restituire ancora una volta alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, non c'è altra via che tornare alla pienezza del suo munus docendi, facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come habitus del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: “trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo”) l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli. Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.


PER CONCLUDERE, UNA PROPOSTA

Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, 50° anniversario del concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte «tradizionalista» (p. 289), e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Preghiere e intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.
Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini “fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è”, l’altra negli uomini il cui spirito è più aggettato, diciamo così, al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e Audacia: per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’Audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i «tradizionalisti» della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con la più vasta, consigliata e ben delineata istanza affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino munus docendi su tutta la Chiesa nella sua pienezza.

Enrico Maria Radaelli

NOTE
1 - A partire da http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347420; le citazioni successive di Padre Giovanni Cavalcoli sono prese da: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348041
2 - Cfr. «Divinitas», anno 2011, 2, p. 188.
3 - Enrico Maria Radaelli, La bellezza che ci salva.



Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 01:30.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com