Che cosa è la Comunione dei Santi?

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Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2008 18:12
Nella Comunione dei Santi

1474. Il cristiano che si sforza di purificarsi del suo peccato e di santificarsi con l'aiuto della grazia di Dio, non si trova solo. "La vita dei singoli figli di Dio in Cristo e per mezzo di Cristo viene congiunta con legame meraviglioso alla vita di tutti gli altri fratelli cristiani nella soprannaturale unità del corpo mistico di Cristo, fin quasi a formare una sola mistica persona".
( Paolo VI, Cost. Ap. Indulgentiarum doctrina)

1475. Nella comunione dei santi " tra i fedeli, che già hanno raggiunto la patria celeste o che stanno espiando le loro colpe nel purgatorio, o che ancora sono pellegrini sulla terra, esiste certamente un vincolo perenne di carità ed un abbondante scambio di tutti i beni". (Paolo VI, Cost Ap. Indulgentiarum doctrina)
In questo ammirabile scambio,la santità dell'uno giova agli altri, ben al di là del danno che il peccato dell'uno ha potuto causare agli altri. In tal modo, il ricorso alla comunione dei santi permette al peccatore contrito di essere in più breve tempo e più efficacemente purificato dalle pene del peccato.

1476. Questi beni spirituali sono anche chiamati il 'tesoro della Chiesa', che non "si deve considerare come la somma di beni materiali, accumulati nel corso dei secoli, ma come l'infinito ed inesauribile valore che le espiazioni e i meriti di Cristo hanno presso il Padre, offerti perché tutta l'umanità sia liberata dal peccato e pervenga alla comunione con il Padre;è lo stesso Cristo Redentore, in cui sono e vivono le soddisfazioni e i meriti della sua redenzione" (Paolo VI ibid.)

1477. Appartiene inoltre a questo tesoro il valore veramante immenso, incommensurabile e sempre nuovo che presso Dio hanno le preghiere e le buone opere della beata Vergine Maria e di tutti i santi, i quali, seguendo le orme di Cristo Signore per grazia sua, hanno santificato la loro vita e condotto a compimento la missione affidata loro dal Padre; in tal modo, realizzando la loro salvezza, hanno anche cooperato alla salvezza dei propri fratelli nell'unità del corpo mistico". (Paolo VI, ibid)

Dal "Catechismo della Chiesa cattolica" ed. 1999 pagg.419-20.

[SM=g27986]

Angelus di Benedetto XVI 31.8.2008

Cari fratelli e sorelle, per portare a pieno compimento l’opera della salvezza, il Redentore continua ad associare a sé e alla sua missione uomini e donne disposti a prendere la croce e a seguirlo. Come per Cristo, così pure per i cristiani portare la croce non è dunque facoltativo, ma è una missione da abbracciare per amore. Nel nostro mondo attuale, dove sembrano dominare le forze che dividono e distruggono, il Cristo non cessa di proporre a tutti il suo chiaro invito: chi vuol essere mio discepolo, rinneghi il proprio egoismo e porti con me la croce. Invochiamo l’aiuto della Vergine Santa, che per prima e sino alla fine ha seguito Gesù sulla via della croce. Ci aiuti Lei ad andare con decisione dietro al Signore, per sperimentare fin d’ora, pur nella prova, la gloria della risurrezione.

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SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Sabato, 1° novembre 2008




Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi con grande gioia la festa di Tutti i Santi. Visitando un vivaio botanico, si rimane stupefatti dinanzi alla varietà di piante e di fiori, e viene spontaneo pensare alla fantasia del Creatore che ha reso la terra un meraviglioso giardino. Analogo sentimento ci coglie quando consideriamo lo spettacolo della santità: il mondo ci appare come un "giardino", dove lo Spirito di Dio ha suscitato con mirabile fantasia una moltitudine di santi e sante, di ogni età e condizione sociale, di ogni lingua, popolo e cultura. Ognuno è diverso dall’altro, con la singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Tutti però recano impresso il "sigillo" di Gesù (cfr Ap 7,3), cioè l’impronta del suo amore, testimoniato attraverso la Croce. Sono tutti nella gioia, in una festa senza fine, ma, come Gesù, questo traguardo l’hanno conquistato passando attraverso la fatica e la prova (cfr Ap 7,14), affrontando ciascuno la propria parte di sacrificio per partecipare alla gloria della risurrezione.

La solennità di Tutti i Santi si è venuta affermando nel corso del primo millennio cristiano come celebrazione collettiva dei martiri. Già nel 609, a Roma, il Papa Bonifacio IV aveva consacrato il Pantheon dedicandolo alla Vergine Maria e a tutti i Martiri. Questo martirio, peraltro, possiamo intenderlo in senso lato, cioè come amore per Cristo senza riserve, amore che si esprime nel dono totale di sé a Dio e ai fratelli. Questa meta spirituale, a cui tutti i battezzati sono protesi, si raggiunge seguendo la via delle "beatitudini" evangeliche, che la liturgia ci indica nell’odierna solennità (cfr Mt 5,1-12a). E’ la stessa via tracciata da Gesù e che i santi e le sante si sono sforzati di percorrere, pur consapevoli dei loro limiti umani. Nella loro esistenza terrena, infatti, sono stati poveri in spirito, addolorati per i peccati, miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia. E Dio ha partecipato loro la sua stessa felicità: l’hanno pregustata in questo mondo e, nell’aldilà, la godono in pienezza. Sono ora consolati, eredi della terra, saziati, perdonati, vedono Dio di cui sono figli. In una parola: "di essi è il Regno dei cieli" (cfr Mt 5,3.10).

In questo giorno sentiamo ravvivarsi in noi l’attrazione verso il Cielo, che ci spinge ad affrettare il passo del nostro pellegrinaggio terreno. Sentiamo accendersi nei nostri cuori il desiderio di unirci per sempre alla famiglia dei santi, di cui già ora abbiamo la grazia di far parte. Come dice un celebre canto spiritual: "Quando verrà la schiera dei tuoi santi, oh come vorrei, Signore, essere tra loro!". Possa questa bella aspirazione ardere in tutti i cristiani, ed aiutarli a superare ogni difficoltà, ogni paura, ogni tribolazione! Mettiamo, cari amici, la nostra mano in quella materna di Maria, Regina di tutti i Santi, e lasciamoci condurre da Lei verso la patria celeste, in compagnia degli spiriti beati "di ogni nazione, popolo e lingua" (Ap 7,9). Ed uniamo nella preghiera già il ricordo dei nostri cari defunti che domani commemoreremo.


Caterina63
00venerdì 19 dicembre 2008 00:01

CATECHESI DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI,
ARCIVESCOVO DI MILANO,
NELLA BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO

Venerdì 18 agosto 2000



"Santi del nuovo Millennio"


 

Giovani di ogni continente, non abbiate paura di essere i santi del Nuovo Millennio! Essere santi vuol dire essere divini, entrare nella sfera del divino.

La santità è una dimensione anzitutto ontologica prima di essere una dimensione morale. Essere in Dio, essere figli, essere in Gesù, ecco ciò che siamo chiamati ad essere, come pure, ad essere immacolati, cioè senza macchia.


San Paolo nel capitolo quinto della Lettera agli Efesini parla della Chiesa e dice che Cristo ha amato la Chiesa, ha dato se stesso per Lei, per renderla santa purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua, accompagnata dalla Parola, al fine di farci comparire davanti alla sua Chiesa tutta gloriosa senza macchia, né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.


E noi siamo chiamati a essere santi ed immacolati in Gesù; la Chiesa è chiamata ad essere in Gesù santa e immacolata. Ecco, dunque, l'intenzione di Dio nella storia, che traspare da questa pagina di San Paolo.

L'intenzione di Gesù è di fare di ciascuno di voi qui presenti, di me che vi parlo, una sola cosa in Cristo e di fare di noi una sola cosa santa, cioè la Chiesa, di renderci divini, di purificarci da ogni macchia di egoismo, di odio, di amor proprio, di renderci figli nel figlio Gesù, come dice il versetto quinto di questo capitolo primo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della Sua volontà.

Ecco l'intenzione di Dio, che appare da questo brano:  essere santi, essere divini, cioè essere in Cristo, essere amati come figli, essere come Gesù, portare nel mondo la presenza e l'irradiazione stessa di Gesù.


Ecco fin qui ho cercato di leggere con voi questi versetti di San Paolo molto ricchi, molto superiori a quanto lui riesca a spiegare, ma ho cercato con voi di rendermi conto della immensità di questa chiamata ad essere santi.

Che cosa dice questa pagina a ciascuno di noi, oggi, che siamo qui in ascolto? e che cosa vuol dire, dunque, secondo la parola di San Paolo essere santi?

Quando noi ascoltiamo questa parola subito proviamo come un brivido di timore che essere santi significa essere molto bravi, fare chissà quali sforzi, ma questa pagina ci dice che tutto è molto più semplice:  essere santi vuol dire lasciarsi amare da Dio, lasciarsi guardare da Dio come Lui stesso guarda Gesù Cristo, significa essere figli in Gesù e con Gesù, vuol dire essere amati, lavati e perdonati da Gesù.


Essere santi, quindi, è un problema di Dio, prima che nostro, è un problema che tocca a Lui risolvere, per noi è importante lasciarci amare, non irrigidirci, non spaventarci, ma meravigliarci, quanto più ci ami o mio Dio e vuoi essere tutto in me, che vuoi fare una cosa sola con me, per insegnarmi a vivere ad amare, a soffrire e a morire come Te.

Ecco cosa vuol dire essere santi:  lasciare che Gesù viva in noi, lasciare che lo Spirito Santo formi l'immagine e la vita di Gesù in noi, così che giorno dopo giorno Gesù ci insegni a vivere, ad amare, a perdonare, a soffrire, a morire come Lui.

Ecco cosa vuol dire essere santi:  lasciare che Dio operi in noi e lasciare che da questa opera di Dio emergano anche poco a poco i passi, le caratteristiche i momenti, che ritmano la nostra santità.

Qui ritorno al messaggio del Santo Padre, di cui ho letto le prime parole:  "Giovani di ogni continente, non abbiate paura di essere i santi del Nuovo Millennio!". Il Santo Padre descrive concretamente le caratteristiche di questa santità, che sono cinque.

"Siate - Lui dice - contemplativi e amanti della preghiera, coerenti con la vostra fede, generosi nel sevizio dei fratelli, membra attive della Chiesa, artefici di pace".

Ecco che Egli ci traduce come mettere Gesù al centro del nostro cuore e della nostra vita.
Essere contemplativi si esplica in un qualcosa di molto semplice, per me sarebbe già molto, se ognuno iniziasse col prendersi dieci minuti al giorno di silenzio con il Vangelo, per pregustare la gioia del momento e allargare il tempo secondo le proprie possibilità.

Essere coerenti, cioè dare quello spettacolo che voi tutti date in questi giorni alla città di Roma, dimostrando che siete gente che ha speranza, gente che sorride, gente che affronta i sacrifici con serenità.


Essere generosi nel servizio dei fratelli consiste nei tanti atti di solidarietà. Ecco voi state dando al mondo questa immagine semplice di santità, che viene registrata con sorpresa dai mass-media, ma che eppure è qui ed è possibile. Nell'essere membra attiva della Chiesa volete esprimere la vivacità, la disponibilità, l'amore, la capacità di perdono della Chiesa. (soppesiamo attentamente questo pensiero....è stupendo!!!) Ciascuno di voi, poi, vuole ed è chiamato ad essere artefice di pace, cominciando dalla famiglia, dalla parrocchia, dal proprio gruppo, a portare parole di benevolenza, di comprensione e di accoglienza.


Dopo avere descritto queste caratteristiche della santità, il Santo Padre dice anche come fare concretamente perché esse non siano proprie soltanto di questo giorno, ma diventino vita vissuta nella quotidianità. Dice il Santo Padre:  "Per realizzare questo impegnativo progetto, di vita rimanete nell'ascolto della Sua parola, attingete vigore dai sacramenti, specialmente dalla Eucaristia e dalla Penitenza". Sono due atteggiamenti fondamentali, che nutrono la nostra santità, anzitutto l'ascolto della Parola. Queste ancora le parole del Santo Padre, che esprimono più concretamente che cosa aspetta da ciascuno di noi:  "Diventi il Vangelo il vostro tesoro più prezioso nello studio attento e nell'accoglienza generosa, nella Parola del Signore troverete alimento e forza per la vita di ogni giorno, troverete le ragioni di un impegno senza soste nell'edificazione della civiltà dell'amore".


Se essere santi vuol dire essere come Gesù, in Gesù, è il Vangelo meditato e letto ogni giorno, che mette dentro di noi la vita, i sentimenti, i giudizi, i pensieri, le reazioni di Gesù. Rimanere, dunque, nell'ascolto della Parola e attingere vigore dai sacramenti soprattutto della Eucaristia e della Penitenza. Vorrei sottolineare come sia stato notato in questi giorni anche dai mass-media, con sorpresa, il rivivere della Confessione. Queste migliaia di confessioni fatte con fiducia nel Circo Massimo e altrove e qui; vorrei dirvi di non dimenticare questa straordinaria esperienza del sacramento della Penitenza. Portatela con voi, perché è attraverso questo sacramento che noi ritroviamo pur nella nostra debolezza, la forza ogni giorno di essere come Gesù, cioè essere santi.


A noi sembra molto duro e difficile tendere alla santità ogni giorno, è qualcosa che ci spaventa, eppure noi sperimentiamo continuamente che essere in Gesù e come Gesù, è molto bello ed è molto più bello del contrario, come diceva un autore recente:  "Non c'è che una tristezza, quella di non essere santi, la negligenza, la pigrizia, la svogliatezza, il cercare sempre e soltanto i propri comodi è la cosa più triste che ci sia. La santità, l'essere in Gesù, il cercare di avvicinarci a Lui, è la cosa più bella". Vale la pena, dunque, provare ed è possibile realizzare questo ideale.


Mi vengono, così, in mente, tanti santi, che ho conosciuto, ammirato, e frequentato personalmente, persone, che hanno operato in più settori, dalla politica all'università, dall'imprenditoria a donne, madre di famiglia che hanno dato la propria vita per quella dei figli.


Tutti loro ci fanno vedere che i santi sono tanti oggi e che quindi la santità è in mezzo a noi. Ci sono nel nostro tempo non solo moltissimi santi, ma anche molti martiri del nostro tempo. Martiri della missione, martiri dell'aiuto agli ebrei, martiri delle stragi di popoli, martiri della dignità della persona umana, martiri della carità e martiri della giustizia. Non c'è stato mai nella storia della Chiesa un secolo così ricco di martiri come il secolo ventesimo, quindi la santità eroica soprattutto in mezzo a noi, da persone deboli, fragili come noi, ma capaci di lasciarsi possedere da Cristo Gesù.


Il 7 maggio scorso il Santo Padre ha voluto ha voluto fare memoria dei martiri ecumenici, cioè di tutte le chiese e confessioni cristiane, che hanno testimoniato la fede sotto un totalitarismo sovietico, ortodossi vittime comunismo, in tante nazioni europee.

Penso, così, all'Albania, alle persone che per decenni hanno vissuto ai lavori forzati o nei carceri, ai confessori della fede, vittime del nazismo e del fascismo, ai confessori che hanno dato la vita per la fede del Vangelo in Asia, in Oceania, fedeli della Spagna e del Messico, del Magadascar e dell'Africa, perseguitati, fedeli in America Latina. Ecco la presenza dei santi, oggi! La forza di Gesù che nessuno di noi ha, che nessuno di noi può pretendere di avere, ma che il Signore ha concesso in abbondanza a questo nostro secolo, che appare così pagano ma che è ricco più di tutti gli altri tempi di martiri e di santi.



Vorrei concludere con una testimonianza, che è forse una delle più sconvolgenti. Scritta qualche anno fa, nel 1994 il 1° dicembre, dal Priore di un monastero algerino, rapito e ucciso con altri sei monaci trappisti il 7 maggio del 1996. Ebbene scriveva, prevedendo cosa stava succedendo attorno a lui:  "Se un giorno mi capitasse, e potrebbe essere oggi, di essere vittima del terrorismo, che sembra voler coinvolgere attualmente tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era stata donata a Dio e a questo popolo. Vorrei che essi accettassero che l'unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa brutalità. Vorrei che essi pregassero per me. Come essere degno di una tale offerta! Vorrei che essi sapessero associare questa morte a tante altre, ugualmente, violente, lasciate nell'indifferenza e nell'anonimato. La mia vita non ha più valore di un'altra, non ne ha neanche meno, in ogni caso non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male, che sembra in me prevalere nel mondo e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento vorrei avere quell'attimo di lucidità, che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio a quello dei miei fratelli, perdonando con tutto cuore, nello stesso momento, a chi mi avesse colpito ed anche tu, amico dell'ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì anche per te voglio dire questo grazie a Dio, nel cui volto ti contemplo, e ci sia dato di incontrarci di nuovo ladroni colmati di gioia in paradiso, se piace a Dio Padre nostro, Padre di tutti e due".



È andato così con i compagni incontro ad una morte violenta, tenendo nel cuore la parola del perdono. Ecco la santità di oggi, quella che Gesù compie, quella che lo Spirito Santo della nostra debolezza esprime e nessuno di noi può presumere di avere questa forza, ma possiamo fidarci di Dio e di Gesù che opera in noi.


Vorrei concludere, proponendovi alcune domande per la vostra riflessione:  mi interrogo, ho voglia di essere santo, oppure ho paura di esserlo? Quale il più grande ostacolo per la santità? Quale, invece, il più grande stimolo, oggi, per la santità?



[SM=g1740744]

Caterina63
00sabato 20 dicembre 2008 13:53
" Senza il Lume soprannaturale  che è Dio stesso, l'uomo non conosce il vero nè la gravezza del male, nè la grandezza del bene; il gusto dell'anima sua è falsato e pensando di operare nel bene, finisce col soddisfare soltanto ciò che crede essere il bene. Chi ama la virtù per amore della virtù, senza pensare di avere un contraccambio, e questo fa solo per amore di Dio, allora ama il prossimo d'affetto schietto e liberale; così ordina a un fine tutte le proprie potenzie, così potrà dire come il grande Apostolo - Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me -. E' il Dolce Cristo, Signore nostro Gesù, che compie il bene e che opera il bene, non non siamo che il nulla! "
(Lettera CCXLIV, di s. Caterina da Siena a Francesco, maestro Bartolomeo, medico di Siena )


Dopo aver letto questo appunto della nostra Patrona d'Italia..... allora possiamo comprendere quanto segue....[SM=g1740717]

Cammina. Sorridi a tutti.
Costruisci un album di
famiglia. Con-
ta le stelle.      Imita quelli che ami.
Chia-
ma i tuoi amici al telefono. Dì a qualcuno: "ti
voglio bene". Parla con Dio.
Ritorna bambino un'al-
tra volta.         Salta alla corda. Abolisci la parola "ran-
core". Di' di sì. Mantieni le promesse. Ridi. Leggi un buon
libro. Chiedi aiuto. Cambia pettinatura. Corri. Canta una can-
zone. Ricorda i compleanni. Pensa. Termina un progetto.
Aiuta
un ammalato. Salta per divertirti. Regala un bagnoschiuma. Offri-
ti volontario. Sogna a occhi aperti. Compi un favore. Elimina un ve-
stito.    Spegni il televisore e parla. Permettiti di sbagliare. Perdonati
.
Comportati amabilmente.    Ascolta il canto dei grilli. Ringrazia Dio per
il sole.   Dimostra la tua felicità.  Fatti un regalo.    Lascia che qualcuno
abbia cura di te.    Toccati la punta dei piedi.    Accetta un complimento.
Concediti quello che hai sempre desiderato.           Guarda un fiore con
attenzione. Impedisciti di dire 'non posso' per un giorno. Canta mentre
fai la doccia. Vivi ogni minuto nella mano di Dio. Incomincia una tradi-
zione familiare. Fai un pic-nic nell'anima. Per oggi non preoccuparti.
Pratica il coraggio delle piccole cose.         Aiuta un vicino anziano.
Accarezza un binbo. Guarda vecchie foto. Ascolta un amico. Im-
magina le onde del mare. Gioca con la tua mascotte. Permet-
titi di essere simpatico. Dai una pa-
ca sulla spalla. Fai il tifo
per la tua squadra.
Dipingi un quadro.
Delega un lavoro.
Saluta il nuovo vicino di casa.
Fai un piccolo scambio.
Fai sentire 'benvenuto' qualcuno.
Permetti a qualcuno di aiutarti. Convinciti che non sei solo
Impegnati a vivere con passione: nulla di grande si fa senza di essa.

FACCIAMO FIORIRE l'ALBERO DELLE RELAZIONI NUOVE!!

 

[SM=g1740721]
Caterina63
00lunedì 2 febbraio 2009 08:20
LA CANONIZZAZIONE DEI SANTI NEL CORSO DEI SECOLI



Nella teologia cattolica i concetti di "santo" e di"santità" hanno un significato e una storia del tutto speciali. Nei primi secoli del cristianesimo "santo'' designava qualsiasi battezzato in quanto "puro'' e "separato" da ciò che è " impuro " e " profano"; come già il popolo ebraico si diceva "santo'' rispetto a tutti gli altri popoli perché "eletto'' da Dio, secondo i suoi sapientissimi disegni, a portare la salvezza a tutto il mondo. In seguito però l'appellativo venne limitato a quei cristiani i quali, dopo aver trascorso una vita di virtù, godono della felicità eterna, e finalmente divenne il titolo particolare di quelli ai quali la Chiesa rende pubblici onori in terra. In questo libro con il termine ''santi" sono indicati tutti coloro che furono canonizzati, cioè elevati agli onori degli altari prima dai vescovi, e in seguito dai papi.

Già presso il popolo ebraico c'era l'abitudine di onorare i personaggi più insigni. Il Siracide, infatti, dichiara santi e canonizzati in qualche modo Enoch, Noè, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e tanti altri giusti d'Israele dei quali mette in risalto le virtù che riscontriamo anche nei giusti del Nuovo Testamento, che sono degli antichi gli eredi e i continuatori.

"Facciamo l'elogio di quegli uomini pii - egli dice - che furono i nostri antenati, secondo l'ordine delle generazioni. L'Altissimo ha profuso in loro la sua gloria, facendo risplendere la sua grandezza fin dai giorni più antichi. Rifulsero fra di essi illustri regnanti, famosi per la loro potenza; altri furono consiglieri per la loro prudenza, e messaggeri divini per il dono profetico. Altri guidarono la nazione coi loro consigli, o per la loro saggezza di governo e i sapienti discorsi dei loro insegnamenti. Altri furono maestri di musica, e composero canti poetici. Altri ancora erano uomini ricchi e dotati di forza, vissuti in pace nella loro dimora. Tutti vennero onorati dai loro contemporanei, e glorificati durante la vita. Alcuni di essi hanno lasciato un nome, di cui si parla tuttora con onore. Di altri invece non è rimasta memoria. La loro discendenza durerà in eterno, e la loro fama non verrà mai offuscata. Il loro corpo fu sepolto con onore e in pace, ma il loro nome vive nei secoli. La gente racconta la loro sapienza, e l'adunanza celebra i loro elogi (cap. 44).


Il culto dei martiri

La Chiesa cattolica, fin dalle origini, considerò il martirio come massima espressione della fede e suprema prova dell'amore. Venerò quindi coloro che furono uccisi a causa del Vangelo come i più intimi amici di Dio e i più potenti intercessori presso di Lui. Soffrire e morire in testimonianza della divinità di Gesù Cristo costituisce dunque per un cristiano il più grande titolo di gloria. Il Signore Gesù, infatti, nel celebre discorso del Monte, disse ai suoi discepoli e alle turbe di Palestina che lo seguivano: "Beati siete voi quando vi oltraggeranno e perseguiteranno e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Gioite ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli" (Mt. 5,11).

Persecuzione e martirio, lotta tra il bene e il male, tra Dio e Satana, costituiscono la storia perenne della Chiesa. Il fatto riveste carattere di miracolo morale, ossia è una prova apologetica che il cristianesimo è l'unica religione vera. Non per nulla Tertulliano ammoniva i pagani: "Più voi ci mietete con la persecuzione, più noi cresciamo, perché il sangue dei martiri è seme fecondo di novelli cristiani". E Biagio Pascal (+ 1662) scriveva a distanza di tanti secoli:"Io credo volentieri ad una fede i cui testimoni si lasciano ammazzare".

Un po' ovunque, già dal secolo III, si formarono raccolte di Acta o relazioni stenografate del processo a condanna dei cristiani, redatte da notai, che diedero origine ai più antichi Martirologi. Essi attestano, assieme alla liturgia, all'epigrafia, all'arte cimiteriale, con quale rispetto i cristiani ricordassero i loro fratelli, defunti ''in pace", ovvero "in Cristo", e con quale trasporto tributassero ai martiri un culto speciale di dulìa. Il giorno in cui ricorreva l'anniversario del loro martirio - detto dies natalis o genetliaco, e cioè nascita al cielo - i fedeli si radunavano attorno alla tomba del martire "per la gioiosa celebrazione liturgica della sua memoria e di quella di altri martiri, per attingere forza e coraggio a seguirne l'esempio". Così leggiamo nella lettera che i cristiani di Smirne scrissero riguardo al martirio del loro vescovo S. Policarpo (+ 156). Sul sepolcro del martire, costruito sovente a forma di arcosolio (arco di trionfo), veniva celebrata la Messa, alla quale faceva seguito l'agape fraterna a beneficio dei poveri. Su di esso sorgeva sovente una cappella o una sontuosa basilica, come si verificò a Roma per gli apostoli Pietro e Paolo, S. Lorenzo, S. Sebastiano, S. Agnese, S. Cecilia, S. Susanna, ecc.

Con la pace concessa alla Chiesa (313) dall'imperatore Costantino il Grande (+ 337), la venerazione per i martiri si diffuse ovunque grandemente. L'uso orientale della traslazione o divisione delle reliquie fu imitato anche in occidente moltiplicandosi così i centri del loro culto. Dal secolo V al secolo XI ebbero luogo molte traslazioni di corpi di martiri, sia per arricchirne le chiese e sia per metterli al sicuro dalle invasioni barbariche e dai saccheggi dei saraceni.

Il culto dei martiri e la fede nella loro intercessione sono confermati dalle invocazioni scritte sulle loro tombe, dal canone della Messa, dai graffiti, dai panegirici recitati in loro onore, dal desiderio di molti fedeli di venire sepolti presso la tomba di un martire. Il culto solenne e liturgico dei martiri era il frutto di una spontanea e logica evoluzione che si fondava sulla notorietà del martirio e sulla evidente somiglianza del defunto con Cristo.

La liturgia attuale continua l'antichissima tradizione, venerando e festeggiando i martiri di ogni tempo e di ogni luogo. Lo storico dell'antichità romana, Teodoro Mommsen (+ 1903), fa notare molto giustamente che "in tutta la lunga storia della conversione dei pagani, noi cerchiamo invano qualche solenne figura di martire delle credenze pagane, e se taluno rimase, isolatamente, fedele alle antiche divinità anche nella morte, egli fu più un martire della libertà che delle sue convinzioni religiose". Dare testimonianza mediante il martirio della propria fede è un tipico frutto del cristianesimo.



www.paginecattoliche.it/LA_CANONIZZAZIONE.htm


Le canonizzazioni vescovili

Le persecuzioni contro la Chiesa non erano ancora terminate quando i fedeli cominciarono a venerare "i confessori'', cioè quei cristiani deferiti all'autorità civile per la loro fede, ma che, per varie circostanze, o non avevano subito il martirio, o vi erano sopravvissuti. Cosi capitò per S. Dionigi di Milano (+ 359), S. Eusebio di Vercelli (+ 371), S. Atanasio di Alessandria (+ 373), S. Melezio d'Antiochia (+ 38 1), S. Giovanni Crisostomo (+ 407), ecc. In seguito, diffusasi l'idea che può supplire al martirio il desiderio del medesimo, accompagnato ad una vita di sacrificio per Cristo, o anche la pratica eccellente della virtù, accompagnata ad una strenua difesa della fede nel campo politico, ecclesiastico e sociale, si creò attorno a certi personaggi una fama e un culto non dissimili da quelli goduti dai martiri. Tra i tanti basterà ricordare: S. Gregorio Taumaturgo (+270), S. Efrem siro (+ 373), S. Silvestro papa (+ 335), S. Ambrogio di Milano (+ 397), S. Martino di Tours (+397), S. Girolamo (+420) e S. Agostino (+430).

Dopo la pace costantiniana, nella Chiesa di Dio prese grande sviluppo la pratica dell'ascetismo e del monachesimo. S. Atanasio, durante i suoi esili, fece conoscere ovunque S. Antonio abate (+ 356), di cui aveva scritto la vita. Egli lo aveva equiparato ai martiri antichi non per l'effusione del sangue, ma per il costante sforzo che si era imposto nella lotta contro i demoni e nell'acquisto della perfezione (Vita, c. 47). Allora fu introdotto l'uso, diventato poi universale, di chiamare "confessori" tutte quelle persone che non avevano avuto da soffrire per la fede o comunque per l'idea cristiana, ma di queste avevano reso testimonianza con la vita di penitenza e di preghiera. Godettero di simile venerazione grandi asceti e famosi monaci come S. Ilarione (+ 372), S. Paolo di Tebe (+ 381), S. Simeone lo stilita (+ 459) e zelanti vescovi come i tre cappadoci: S. Basilio il Grande (+ 379), S. Gregorio Nazianzeno (+ 390) e S. Gregorio Nisseno (+ 400). Presso le loro tombe sorsero sovente santuari che attiravano turbe di pellegrini; le loro reliquie furono venerate e ricercate; l'anniversario della loro morte veniva celebrato liturgicamente con grande solennità.

Dal secolo V al secolo IX parecchi santi "non-martiri" furono accolti nei calendari romani ed ebbero nella Città eterna i loro oratori e le loro chiese con annessi i monasteri. Questo culto in gran parte fu favorito dai papi di origine non romana, dai monaci emigrati per controversie politico -religiose dall'oriente all'occidente, dallo scambio di reliquie e dalla diffusione delle Passiones o racconti completi delle sofferenze subite dai martiri o dai confessori, narrate molto sovente con l'ingenuo gusto del meraviglioso. Nella diffusione del culto dei santi esercitarono ed esercitano ancora un grande influsso le opere dei Padri e degli scrittori ecclesiastici, in quanto sviluppano sistematicamente la teoria del "martirio incruento", rappresentato dalla vita cristiana, ascetica e monastica vissuta alla perfezione. Al presente i santi confessori sono distinti in quattro categorie: i confessori pontefici (vescovi), i confessori dottori, che si segnalarono nella difesa della fede con gli scritti, i confessori abati; i confessori non pontefici.

P. Giuseppe Löw (+ 1962), redentorista, vice relatore della Sezione storica della S. Congregazione per le cause dei Santi, ha scritto sotto la voce Canonizzazione nell'Enciclopedia Cattolica, vol. III, col. 574 s.: “Fra i secoli VI e X, mentre l'Oriente si distaccava sempre più dall'Occidente, la dissoluzione dell'impero romano e l'immigrazione dei popoli barbarici, con la relativa necessità di convertirli alla fede cattolica, posero la Chiesa di fronte a compiti nuovi e ardui. È l'epoca dei grandi vescovi, dei monaci missionari, dei re convertiti che finiscono persino nel chiostro, delle regine e principesse fondatrici di monasteri e chiese e poi esse stesse badesse o monache, degli eremiti e dei pellegrini; un mondo in fermento e in movimento, con profondi contrasti fra violenza e santità, in mezzo a popoli giovani, di forte immaginativa, entusiasti della nuova fede, ammiratori degli eroi della carità e della illibatezza evangelica. In questo periodo, oltre una rifioritura del culto dei santi martiri, nascono un po' da per tutto nuovi culti di santi: bastava al popolo spesso la fama di vita penitente, la fondazione di un monastero con le sue benefiche conseguenze, una grande beneficenza verso i poveri, talvolta una morte violenta, anche se non sempre per stretto motivo di fede, e soprattutto la fama di miracoli, per far nascere un nuovo culto: voce popolare di santa vita, e credito di miracoli sono i 2 punti di partenza per questi culti dell'alto medio evo. Le grandi chiese considerarono ordinariamente i loro fondatori e primi vescovi come altrettanti santi; lo stesso vale per le figure di grandi abati. In tutti i casi se ne raccolgono le memorie, se ne scrivono le leggende senza troppe preoccupazioni di critica; i calendari e i martirologi di quei secoli si arricchiscono con sempre nuovi nomi, nelle chiese si moltiplicano gli altari e il numero delle feste aumenta rapidamente. Di tanto in tanto occorreva reprimere anche facili abusi…

“Dalle varie e molteplici notizie su questa materia, risulta che si stava formando in questi secoli una certa prassi più o meno uniforme, attraverso la quale veniva autorizzato un nuovo culto. Il punto di partenza rimane sempre la fama pubblica, la vox populi, che subito dopo la morte del servo di Dio correva alla tomba, ne invocava l'intercessione e ne proclamava l'effetto taumaturgico. Allora era avvisato il vescovo competente; in sua presenza, anzi, spesso in occasione di un sinodo diocesano o provinciale, si leggeva una vita del defunto e soprattutto la storia dei miracoli (primissimo nucleo dei futuri processi) e in seguito all'avvenuta approvazione, si procedeva all'esumazione del corpo per dargli una sepoltura più onorevole: la elevatio. Ma spesso seguiva subito o più tardi un altro passo: la translatio, cioè la nuova deposizione del corpo santo davanti o accanto ad un altare o addirittura sotto o sopra l'altare, il quale prendeva il nome dal santo ivi venerato; anzi, alle volte la stessa chiesa era ampliata o ricostruita e dedicata precisamente al santo elevato o traslato. Dall'elevazione o traslazione in poi veniva celebrata regolarmente la festa liturgica, spesso con grande solennità, non solo nella località dove sorgeva l'altare o la chiesa, ma in tutta la diocesi, la regione, la provincia, o in tutta la famiglia religiosa...

“Per più di cinque o sei secoli (secc. VI-XII), la canonizzazione vescovile era la canonizzazione normale e unica in uso nella Chiesa latina. Accanto ad essa, la canonizzazione papale crebbe molto lentamente e ci volle molto tempo e molto lavoro dottrinale e canonistico prima che essa riuscisse a soppiantare la canonizzazione medioevale ordinaria, compiuta dai vescovi...

“II trapasso dalla prassi della canonizzazione vescovile alla canonizzazione papale è quasi impercettibile agli inizi. Questa, in un primo tempo, appare piuttosto casuale, e certamente non era intesa come un atto supremo e valevole per la Chiesa universale. Ma è chiaro che una canonizzazione fatta dal papa aveva una maggiore autorità; e perciò in un secondo tempo le richieste di autorizzazione papali di culto crebbero sempre più. Ma la procedura è la stessa come nella canonizzazione vescovile, e nella maggioranza dei casi il papa si limita a dare il suo consenso, mentre fuori, sul luogo, si procede in seguito alla solita solenne elevazione e inaugurazione del culto. I viaggi dei pontefici nei secoli XI e XII diedero ad essi occasione di procedere a tali elevazioni in persona. Insensibilmente la canonizzazione papale prese maggiore consistenza e valore canonico; si forma una procedura più rigida, e finalmente essa divenne la canonizzazione esclusiva e unicamente legittima”.


Le canonizzazioni papali

I papi hanno provveduto all'allestimento delle cause di beatificazione e canonizzazione mediante la S. Congregazione dei Riti, istituita da Sisto V nel 1588 con la costituzione Immensa Aeterni Dei. Nel 1969 detta Congregazione è stata divisa in due da Paolo VI: in Congregazione per le cause dei Santi e in Congregazione per il culto divino. La procedura nelle cause di beatificazione e canonizzazione fu ristrutturata il 19-3-1969 con il motu proprio di Paolo VI Sanctitas clarior, e la costituzione apostolica Divinus perfectionis magister del 25-1-1983, di Giovanni Paolo II. I due processi, finora in uso, quello diocesano e quello apostolico per provare l'esistenza della fama di martirio o di santità, vengono unificati in una sola inchiesta istruttoria, condotta dal vescovo, la cui autorità ordinaria demandata viene ora confermata ed elevata da quella apostolica delegata.

La canonizzazione papale è un atto o sentenza definitiva con cui il Sommo Pontefice decreta che un servo di Dio, precedentemente beatificato, venga iscritto nel catalogo dei Santi e si veneri nella Chiesa universale con un culto di dulia. Una delle note proprie della Chiesa cattolica è quella della santità. Santo è infatti il fondatore di essa, santa ne è la dottrina, santo il fine che persegue, santi i membri che la compongono in virtù del battesimo dì acqua, dì sangue o dì desiderio. Giudice dì questa santità è soltanto il papa. Il diritto di dichiarare chi debba essere ritenuto e onorato come santo spetta soltanto a lui. Secondo la quasi unanimità dei teologi la canonizzazione dei santi impegna l'infallibilità pontificia. Non è concepibile, teologicamente parlando, che il papa possa fare onorare come "santo", qualcuno che non avesse realmente già raggiunto la gloria del paradiso.

A parte la considerazione che il Sommo Pontefice nell'esercizio del supremo magistero è illuminato e assistito dallo Spirito Santo, dobbiamo riconoscere che sono talmente minuziose le investigazioni, gli studi, gli accertamenti compiuti dai competenti sulla vita, le opere, gli scritti e le virtù dei servi di Dio, che è praticamente impossibile l'errore nelle canonizzazioni. Del resto, prima che il beato venga solennemente dichiarato "santo", si richiede che ottenga da Dio il compimento di miracoli, i quali saranno esaminati oltre che da medici e chirurghi nominati d'ufficio, da tre o più riunioni dei cardinali e dei consultori facenti parte della Sacra Congregazione per le cause dei Santi, l'ultima delle quali è presieduta dal papa.

Una volta che sono stati approvati i miracoli ed è stato promulgato il decreto nel quale è stabilito che si può procedere con sicurezza (tuto) alla canonizzazione, la questione viene esaminata in 3 concistori consecutivi: 1) Il Concistoro segreto, in cui i cardinali residenti in Roma, muniti di documenti riguardanti la vita del beato e gli atti della causa, rispondono al Sommo Pontefice: Placet o Non ptacet. 2) Il Concistoro pubblico, solennissimo, cui prendono parte anche i vescovi che si trovano a Roma e gli ambasciatori delle nazioni cattoliche, accreditati presso la Santa Sede. Uno degli avvocati concistoriali espone la vita e i miracoli del beato e ne chiede la canonizzazione. Il segretario delle Lettere latine gli risponde in nome del papa; egli esorta i presenti a implorare i lumi divini con i digiuni e le preghiere, prima che i Cardinali e i Vescovi abbiano manifestato il loro proposito. 3) A tale scopo è indetto il Concistoro semipubblico al quale, oltre ai Cardinali e ai Vescovi residenti in Roma, sono invitati anche gli Abati nullius, perché, dopo aver preso in considerazione il compendio della vita del beato e i relativi atti, diano il loro suffragio. Quest'ultimo concistoro si apre e poi si chiude con una breve allocuzione del papa che annunzia il giorno in cui, nella basilica di San Pietro, compirà, secondo il solenne cerimoniale prescritto, l'atto della canonizzazione. Da quel momento il Santo novello potrà essere venerato in tutta la Chiesa con la celebrazione di Messe, con la costruzione di chiese e di altari in suo onore, e potrà essere raffigurato con attorno al capo l'aureola.

La prima canonizzazione papale storicamente sicura è quella che eseguì Giovanni XV il 31-1-993, durante il sinodo celebrato al Laterano, riguardo a S. Ulderico, vescovo di Augusta. Molti sono persuasi che i santi canonizzati siano migliaia e migliaia. La realtà è molto diversa poiché la santità vera, consumata, eroica è molto rara. Fino al 1990 i santi canonizzati in modo formale ed equipollente dai Sommi Pontefici sono circa 544, di cui 123 italiani, 96 vietnamiti, 93 sud coreani, 91 francesi, 61 spagnoli, 54 inglesi e gallesi, 22 ugandesi, 20 olandesi, 17 giapponesi, 15 tedeschi, 8 irlandesi, 7 polacchi, 4 portoghesi, 2 belgi, 2 svizzeri, ecc. I santi canonizzati, provenienti da famiglie nobili, sono un centinaio. Un bel numero se si considera quanto sia difficile rinunciare alle ricchezze per amore del regno dei cieli. Le donne canonizzate sono appena una ottantina. Dalle statistiche risulta che, dal 1860 al 1890, Pio IX ha elevato alla gloria degli altari 52 persone; Leone XIII 18; Pio X 5; Benedetto XV 2; Pio XI 33; Pio XII 33; Giovanni XXIII 11; Paolo VI 83; Giovanni Paolo Il 237.




Che cosa fecero i santi

Tutti coloro che sono giunti agli onori degli altari hanno vissuto alla perfezione i consigli evangelici, e hanno praticato in grado eroico tutte le virtù, in modo speciale la fede, la speranza e la carità. Ciascuno di essi si distinse in qualche virtù particolare; tutti però si rassomigliano in tre aspetti fondamentali della vita ascetico-mistica:

1) Anzitutto i santi (siano essi canonizzati o no) furono tutti uomini di continua orazione. Essi hanno capito alla perfezione e praticato l'esortazione di S. Paolo: "Perseverate assiduamente nella preghiera, e vigilate in essa con azioni di grazia" (Col 4,2). Per attendervi, molti rinunciavano al sollievo corporale. Vivevano abitualmente immersi in Dio come il pesce nell'acqua.

2) Tutti i santi si sono conformati alla volontà di Dio e hanno sopportato con pazienza non solo le croci della vita, ma per vivere più realisticamente il mistero pasquale, hanno ricercato la sofferenza in mille diverse maniere, che hanno dell'incredibile. Noi, che viviamo in tempi di benessere e di comodità senza precedenti nella storia, stentiamo a credere ai flagelli, ai cilici, ai digiuni, alle macerazioni di ogni genere cui fecero ricorso i santi per scontare i propri peccati, e per ottenere pietà e misericordia da Dio per i misfatti che gli uomini quotidianamente commettono. Come S. Paolo, anch'essi hanno sentito l'incoercibile necessità di "dare compimento nella propria carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo corpo, che è la Chiesa" (Col 1,24), mossi a ciò dallo Spirito Santo e sostenuti dalla sua grazia senza la quale non è possibile persistere in tante penitenze.

3) Finalmente i santi hanno nutrito tutti un grande amore per i poveri, i malati, gli orfani, gli emarginati della società, i peccatori e hanno cercato di soccorrerli in tutte le maniere possibili. Nessuno più dei santi ha preso sul serio l'insegnamento di Gesù che dice: ''Ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente. 2 questo il primo e massimo comandamento. Il secondo gli rassomiglia: ama il prossimo tuo come te stesso. A questi due comandamenti si riduce tutta la Legge e i Profeti(Mt 22,37s). Al dire di S. Paolo la carità è "il vincolo della perfezione" (Col 3,14) perché è il principio ispiratore di tutte le virtù e tiene strettamente uniti i cristiani tra loro.

Aveva ragione quindi S. Francesco di Sales di esortare monsignor Andrea Frémyot, arcivescovo di Bourges, di servirsi nella predicazione degli esempi tratti dalla vita dei santi, scrivendogli il 5-10-1604: "Che cosa sono le vite dei santi, se non il Vangelo messo in pratica? Fra il Vangelo e le vite dei santi non passa maggiore differenza di quella che passa tra una musica scritta e una musica cantata". Eppure, in questi tempi di contestazione e di critica, tanti dicono di non credere a quello che di meraviglioso viene narrato nelle vite dei santi benché essi siano considerati come gli autentici "profeti" del Nuovo Testamento. A questi ipercritici ha già risposto 900 anni or sono S. Bartolomeo il Giovane (+ 1065) il quale, nel prologo della vita di S. Nilo di Rossano, suo padre spirituale e maestro, così scrive: "A dire il vero in questi ultimi tempi... non si trova chi ami questo genere di narrazioni, e tanto meno che ne faccia diligente e amoroso studio; anzi, al contrario, vi sono molti che le mettono in derisione, che ne provano fastidio; giacché costoro alle antiche storie dei santi non credono assolutamente, e alle recenti negano fede. Chiudendosi per tal modo, a così dire, la via ad ogni loro vantaggio, essi si sono prefissi un solo scopo, quello cioè di misurare le cose narrate con il metro della loro intelligenza; rifiutando come falso, o quanto meno, come sospetto di falsità, tutto quanto supera la portata del loro intelletto".

C'è un serio motivo per dubitare dei fatti straordinari che si sono verificati nella vita di tanti santi? Assolutamente no, sia perché tali fatti sono più che sufficientemente documentati dai contemporanei, e sia perché i medesimi fenomeni soprannaturali si sono verificati in uomini e donne vissuti in secoli e luoghi diversi. Ad esempio, se le persecuzioni da parte del diavolo sono state,possibili nella vita di S. Giovanni M. Vianney, di S. Giovanni Bosco, di S. Gemma Galgani, perché attribuire a una pura invenzione di S. Atanasio quelle subite da S. Antonio abate nel deserto? Altrettanto si dica dei miracoli operati in vita dai santi. Il Vecchio Testamento non è pieno di prodigi operati da Dio per dimostrare al popolo eletto che Lui soltanto era il vero Signore da adorare e amare? E il Vangelo non riferisce i prodigi operati da Gesù per dimostrare che soltanto Lui era veramente il Messia, il Figlio di Dio incaricato di redimere il mondo dal peccato e dalla morte? Perché considerare come leggende i portenti che Egli continua ad operare nel corso della storia per mezzo dei suoi servi più fedeli, ai quali ha affidato compiti straordinari a beneficio della Chiesa e dell'umanità? È pacifico che molte volte gli scrittori delle vite dei santi si sono lasciati prendere la mano nell'esaltazione del loro eroe dipingendolo con colori irreali, eccessivamente distaccato dal suo ambiente e dai suoi difetti. Tuttavia chi sa leggere, per esempio, tra le righe dei Fioretti di S. Francesco, non troverà difficoltà a discernere quanto in essi è leggendario o frutto di fantasia, da quello che è invece storico e frutto della grazia di Dio.

Tutti i secoli, per quanto burrascosi, ebbero i loro santi, provenienti da tutte le categorie sociali. Il Concilio Vaticano II afferma nella costituzione dogmatica Lumen Gentium che "tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità" (n. 39), "alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità" (n. 40, b). In realtà, la storia delle canonizzazioni pontificie ci dice che le anime veramente generose sono poche. Di fronte al sacrificio molti si scoraggiano e rinunciano alla lotta. Anziché inerpicarsi con cuore magnanimo su per la montagna della perfezione, preferiscono adagiarsi al piano, paghi della loro "aurea mediocrità".

Insegna ancora il Concilio che "nei vari generi di vita e nei vari uffici un'unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adoranti in spirito e verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità" (n. 41). Queste verità sono state messe in pratica alla lettera da quanti sono stati elevati all'onore degli altari. Aveva ragione, quindi, S. Brigida di dire ai suoi figli spirituali: "Dopo la Bibbia nulla vi stia più a cuore delle vite dei santi".


Dobbiamo conoscerli e imitarli

Alle ore 12 di domenica 31-5-1970, Paolo VI, dopo il rito della canonizzazione di S. Giovanni d'Avila, rivolse ai fedeli convenuti sulla piazza di S. Pietro, prima della recita dell'Angelus, la seguente esortazione:

“Questa canonizzazione ci fa pensare al patrimonio di uomini eletti, posseduto dalla Chiesa e via via accresciuto nel corso dei secoli; non è soltanto un patrimonio di memorie degne di essere ricordate dagli storici e dai compaesani; ed è già cosa singolare e mirabile; non è soltanto una tradizione del passato, altra cosa preziosa che il tempo non riesce a consumare; ma è un patrimonio vivo, di personalità di prim'ordine, che sono ancora con noi, anzi più che mai dopo che è loro riconosciuta la santità, che li iscrive in quella comunione dei Santi, ch'è la Chiesa; la Chiesa celeste specialmente la quale, in Cristo e mediante lo Spirito, comunica anche con noi, ancora membri della Chiesa terrestre e pellegrina in questo tempo e in questo mondo.

“Se esiste questa comunione dei Santi - ed esiste! - non faremmo bene a profittarne un po' di più di quanto oggi non si faccia? Conoscerli questi Santi, onorarli ed invocarli, e soprattutto imitarli, dobbiamo.

“Ne avremmo conforto a ben pensare dell'umanità e a ben vivere la vita cristiana. Senza forse che lo riconosciamo, sta il fatto che noi ci lasciamo impressionare dalle figure degli uomini singolari, dalle figure degli artisti, ad esempio, degli sportivi, degli eroi, dei potenti; e sta bene, questo è fenomeno della convivenza umana; è un mimetismo al quale, più o meno, non si sfugge. Se conoscessimo meglio i Santi, potrebbe darsi che diventassimo anche noi più buoni, più fedeli, più cristiani, e non sarebbe forse una bella cosa?

“Vediamo di capire la Chiesa che onora Cristo onorando i suoi migliori seguaci, e facciamo anche noi qualche passo per metterci in linea.

Maria è in testa, e ci invita”.

Paolo VI nel corso della canonizzazione di S. Teresa di Gesù Jornet e Ibars, che si svolse in S. Pietro il 27-1-1974, ebbe ancora a dire:

“Non possiamo tacere l'elogio dello studio dei Santi, cioè della agiografia. Se ogni studio della vita umana, considerata nella sua esistenziale fenomenologia, è sempre interessantissimo (quanta scienza, quante arti vi trovano il loro inesauribile nutrimento!), quale interesse, quale passione dovrebbe avere per noi lo studio dell'agiografia, cioè delle vite dei Santi, nei quali questo soggetto di studio, ch'è il volto umano, svela segreti di ricchezza, di avventura, dì sofferenze, di sapienza, dì drammaticità, in una parola, di virtù, che non possiamo riscontrare in pari vigore di esperienza e di espressione, e finalmente di ottimista affermazione, in altri viventi, siano pur essi dotati di straordinarie qualità. La parola "edificazione" è qui appropriata; la conoscenza della vita dei Santi è per eccellenza una edificazione. Così ricordassero i nostri maestri di spirito e di umanesimo e i nostri educatori del popolo la prodigiosa, staremmo per dire la misteriosa efficacia pedagogica e formativa d'attingere alla scuola dei Santi la vocazione e l'arte di vivere bene, da veri uomini e da veri cristiani! ”.

Gli stessi concetti sono ribaditi ogni tanto da Giovanni Paolo II nei discorsi che fa al popolo di Dio in occasione della glorificazione di beati e di santi. Nel mese di maggio 1980, disse a Lisieux durante la sua visita alla tomba di S. Teresa di Gesù Bambino:

“I santi non invecchiano mai, essi non cadono in prescrizione. Essi restano continuamente i testimoni della giovinezza della Chiesa. Essi non diventano mai personaggi del passato, uomini e donne di "ieri". Al contrario: essi sono sempre gli uomini e le donne di "domani", gli uomini dell'avvenire evangelico dell'uomo e della Chiesa,i testimoni del "mondo futuro".

A un gruppo di pellegrini polacchi in visita alle memorie degli apostoli, l'11-10-1982 proclamò:

“I santi sono nella storia per costituire i permanenti punti di riferimento, sullo sfondo del divenire dell'uomo e del mondo. Ciò che si manifesta in essi è duraturo e intramontabile. Testimonia dell'eternità. Da questa testimonianza l'uomo attinge, sempre di nuovo, la coscienza della sua vocazione e la sicurezza dei destini. In tale direzione i santi guidano la Chiesa e l'umanità”.

Nel discorso che Giovanni Paolo II tenne a Lucca il 23-9-1989 ai giovani nel corso della sua visita pastorale, tra l'altro disse:

“I Santi, che in ogni epoca della storia hanno fatto risplendere nel mondo un riflesso della luce di Dio, sono i testimoni visibili della santità misteriosa della Chiesa. Questa vostra terra, carissimi giovani, è stata percorsa, anche in tempi recenti, da Santi a voi familiari. Per conoscere in profondità la Chiesa è a loro che dovete guardare! E non soltanto ai Santi canonizzati, ma anche a tutti i Santi nascosti, anonimi, che hanno cercato di calare il Vangelo nella ferialità dei loro doveri quotidiani. Essi esprimono la Chiesa nella sua verità più intima; e, al tempo stesso, essi salvano la Chiesa dalla mediocrità, la riformano dal di dentro, la sollecitano ad essere sempre più ciò che deve essere, la Sposa di Cristo senza macchia né ruga" (cf. Ef 5,27).





Testo tratto da:

Sac. Guido Pettinati SSP, I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 11-21.



Nell'uso si prega di non estrapolare vari singoli aspetti e si invita per correttezza di citare la fonte.....
Caterina63
00lunedì 10 agosto 2009 11:48

Angelus con Benedetto XVI del 9.8.2009

Cari fratelli e sorelle!

Come domenica scorsa, anche quest’oggi – nel contesto dell’Anno Sacerdotale che stiamo celebrando – ci soffermiamo a meditare su alcuni Santi e Sante che la liturgia ricorda in questi giorni. Eccetto la vergine Chiara d’Assisi, ardente di amore divino nella quotidiana oblazione della preghiera e della vita comune, gli altri sono martiri, due dei quali uccisi nel lager di Auschwitz: santa Teresa Benedetta della Croce - Edith Stein, che, nata nella fede ebraica e conquistata da Cristo in età adulta, divenne monaca carmelitana e sigillò la sua esistenza con il martirio; e san Massimiliano Kolbe, figlio della Polonia e di san Francesco d’Assisi, grande apostolo di Maria Immacolata. Incontreremo poi altre figure splendide di martiri della Chiesa di Roma, come san Ponziano Papa, sant’Ippolito sacerdote e san Lorenzo diacono.

Quali meravigliosi modelli di santità la Chiesa ci propone! Questi santi sono testimoni di quella carità che ama "sino alla fine", e non tiene conto del male ricevuto, ma lo combatte con il bene (cfr 1 Cor 13,4-8). Da essi possiamo apprendere, specialmente noi sacerdoti, l’eroismo evangelico che ci spinge, senza nulla temere, a dare la vita per la salvezza delle anime. L’amore vince la morte!

Tutti i santi, ma specialmente i martiri, sono testimoni di Dio, che è Amore: Deus caritas est. I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte. Purtroppo però questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti.

I santi, che abbiamo brevemente ricordato, ci fanno riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l’umanesimo ateo e l’umanesimo cristiano; un’antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta ad un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato.

Da una parte, ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell’uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l’uomo in un dio, che fa dell’arbitrarietà il proprio sistema di comportamento. Dall’altra, abbiamo appunto i santi, che, praticando il Vangelo della carità, rendono ragione della loro speranza; essi mostrano il vero volto di Dio, che è Amore, e, al tempo stesso, il volto autentico dell’uomo, creato a immagine e somiglianza divina.

Cari fratelli e sorelle, preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti tutti – in primo luogo noi sacerdoti - ad essere santi come questi eroici testimoni della fede e della dedizione di sé sino al martirio. È questo l’unico modo per offrire alle istanze umane e spirituali, che suscita la crisi profonda del mondo contemporaneo, una risposta credibile ed esaustiva : quella della carità nella verità.




Caterina63
00sabato 19 settembre 2009 21:24
Da Perpetua a Cecilia

Il canto delle martiri cristiane


Il 21 settembre alle 17.30 presso l'Oratorio Santa Cecilia di Perugia, nell'ambito degli incontri di approfondimento collegati alla Sagra musicale umbra, si terrà una conferenza sulle donne martiri. Pubblichiamo un articolo della relatrice che ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" i punti principali del suo intervento.

di Lucetta Scaraffia

Collegare questa importante sagra musicale alle sante martiri porta immediatamente l'attenzione sulla protettrice della musica e dei musicisti, Cecilia. Una santa di cui esistono importanti memorie archeologiche a Roma - una basilica paleocristiana a lei dedicata nel luogo dove, secondo la tradizione, ha abitato ed è stata giustiziata - e il testo che narra la sua passione, sicuramente composto da elementi leggendari, ma proprio per questo molto bello dal punto di vista letterario. E, dal momento che spesso le leggende trasmettono concetti veri in termini più semplici, assume anche particolare valore il fatto che a Cecilia sia stata attribuita la vocazione musicale per un fraintendimento del testo. Si legge infatti nella passio che al momento della festa per le sue nozze - da lei aborrite - al suono degli strumenti la giovane cantava al Signore nel suo cuore. Grazie alla caduta delle ultime parole della frase, Cecilia diventa una cantante.
martiriLa leggenda però trasmette l'idea che il vero canto, la vera musica, è la donazione di sé a Dio, donazione che la giovane donna conferma al momento del matrimonio, che secondo la passio non sarà mai consumato, ma soprattutto nel martirio. Tutte le martiri, quindi, hanno alzato il canto più puro verso Dio accettando di donargli la vita come testimonianza di fede.

Ma, oltre all'avvicinamento della musica al martirio, il racconto di Cecilia apre anche un'altra questione. È molto interessante, infatti, che a proteggere la musica intesa come canto verso Dio sia una donna. Questa, senza dubbio, è una delle tante prove dell'importanza che le donne ricoprono fin dalle origini nella tradizione cristiana. Certo, nel mondo antico la musa della musica era donna, ma a questa arte sovrintendeva il dio Apollo. Non una donna, quindi, e soprattutto non una donna che aveva offerto la sua vita a Dio. Con una scelta libera, proprio come quella di un uomo votato al martirio.

La folta presenza di martiri e di figure esemplari di sesso femminile nel primo cristianesimo rivela in primo luogo come la religione cristiana avesse conquistato fin dai primi tempi una grande quantità di donne. Anzi, come rivelano alcune tradizioni agiografiche - per esempio, l'imperatore Costantino e la madre Elena, Agostino e la madre Monica - avesse conquistato prima le donne. Anche la leggenda di Cecilia narra di una successiva conversione del marito e di suo fratello, per influenza della giovane.
Nella storia cristiana il martirio viene affrontato allo stesso modo dalle donne e dagli uomini, e questo coraggio di offrire la vita  per testimoniare  la  fede è alla base del culto dei santi e quindi della apertura di una carriera spirituale - quella della santità - anche alle donne. A una giovane donna martire, Perpetua, appartiene anche uno dei primi testi sicuramente di origine femminile della tradizione occidentale.

Una narrazione bellissima e commovente, probabilmente databile all'anno 203, in cui la giovane Perpetua racconta la sua cattura e i giorni di prigionia che precedono il martirio, e soprattutto l'amore per il piccolo figlio che continua ad allattare sino alla fine, dopo avere ottenuto che le venisse portato in prigione:  "Io fui liberata dalla pena e dall'inquietudine che mi aveva causata il bambino. La prigione divenne improvvisamente per me come un palazzo:  e mi ci trovavo meglio che in qualsiasi altro posto". Ecco, come la voce di Cecilia, anche quella di Perpetua si può leggere come un canto in onore di Dio.


(©L'Osservatore Romano - 20 settembre 2009)
Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 18:59
Un percorso nella Roma cristiana dal Cinquecento al Settecento

«Porte aperte» a casa dei santi


di Silvia Guidi


"Quanto al portare della croce, ha da essere virtù di Quello che la dà. Scacciate pur voi da voi il timore e la paura. E un poco più levate i vostri cuori in Dio e con Lui misurate le cose" scriveva san Giovanni Leonardi in una lettera datata 16 maggio 1592. A quattrocento anni dalla morte del sacerdote nato a Diecimo (l'attuale Borgo a Mozzano in Lucchesia), i chierici regolari della Madre di Dio ricordano il loro fondatore con una mostra fotografica nella chiesa di piazza Campitelli, a Roma, una delle tappe che compongono il percorso artistico, storico e spirituale che per due giorni (venerdì 6 e sabato 7 novembre) trasformerà alcune residenze di santi romani in un "micropellegrinaggio" a tema.
 

Si parte dalla chiesa dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari in cui soggiornò sant'Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei barnabiti. Si prosegue verso Santa Maria Maddalena dove morì san Camillo de Lellis, fondatore dei camilliani, e ancora verso San Francesco a Ripa che ospitò san Carlo da Sezze. Dalla chiesa di San Pantaleo, nella piazza omonima, si accede invece agli appartamenti di san Giuseppe Calasanzio, a cui si deve la nascita degli scolopi; le "camerette" di sant'Ignazio di Loyola nella chiesa del Gesù sono invece quelle in cui il padre dei gesuiti trascorse gli ultimi 12 anni di vita.

L'itinerario si conclude sul Palatino; nel convento di San Bonaventura si trovano le stanze di san Leonardo di Porto Maurizio, ideatore della Via Crucis. Visitare le case dei protagonisti delle vicende culturali e religiose di Roma tra il Cinquecento e il Settecento aiuta a capire la profondità delle parole di Giovanni Leonardi, apparentemente ardue ("con Lui misurare le cose") e percepire la concretezza e l'incisività nella storia di percorsi umani "potenziati" e resi più intensi e fecondi dal continuo dialogo con Dio (quando secondo la mentalità a-cristiana di tanta parte del mondo contemporaneo la santità è sinonimo di spiritualità disincarnata e fuori dalla storia); spicca il contrasto tra l'allegra baldanza dei santi - fondata sulla certezza che "quanto al portare della croce, ha da essere virtù di Quello che la dà" - e le drammatiche circostanze politiche, sociali e sanitarie (come testimonia lo specifico carisma dei camilliani) che dovevano fronteggiare.

Un santo lascia tracce, non solo nelle anime di chi incontra, influisce sulla cultura e sull'economia del suo tempo con le iniziative che avvia o che affida ai suoi figli spirituali, condiziona (anche quantitativamente) la committenza delle opere d'arte e perfino l'artigianato della sua epoca.

"Per celebrare i cinque nuovi santi del 1671 lavorarono quaranta artisti; era necessario realizzare in tempi brevi 115 quadri originali, 50 copie e una grandissima quantità di incisioni.

Per la quantità e a volte, la qualità delle opere d'arte prodotte si potrebbe parlare di una specifica "arte da canonizzazione" che meriterebbe studi più approfonditi" spiega Vittorio Casale, che insegna all'università di Roma e ha partecipato al convegno "Santi e ordini religiosi a Roma in età moderna, i luoghi e le immagini" che ha introdotto le due giornate di "pellegrinaggio di studio". Una visita guidata per immagini (accanto agli interventi di alcuni specialisti italiani a cui hanno fatto seguito le conclusioni di Robert Godding, presidente della Société des Bollandistes) che ha immerso per un'ora i partecipanti al convegno nell'arte effimera che fioriva a margine delle grandi feste religiose barocche:  le enormi tele che venivano dipinte per l'occasione spesso venivano regalate agli ordini di appartenenza dei neo santi, vendute immediatamente dopo le celebrazioni o addirittura riciclate per destinare a un altro scopo il prezioso materiale di supporto, mentre nulla ci resta (tranne le incisioni che li raffigurano) degli splendidi addobbi in legno e cartapesta progettati da artisti del calibro di Bernini.

Anche per questo le case generalizie di tanti ordini religiosi sono scrigni di tesori ancora tutti da esplorare, come "rami" (le matrici per le incisioni), ritratti, lacerti di affresco e capolavori di arti chiamate "minori" solo per le dimensioni, non per il pregio dei manufatti.


(©L'Osservatore Romano - 7 novembre 2009)

Caterina63
00mercoledì 28 aprile 2010 12:00
La catechesi del Papa su san Leonardo Murialdo e san Giuseppe Benedetto Cottolengo

In Cristo e nella Chiesa
il prete vive la carità


Solo in Cristo e nella Chiesa il prete può esercitare la carità verso i poveri e gli ultimi. Lo ha ricordato il Papa all'udienza generale di mercoledì 28 aprile, in piazza San Pietro, parlando di san Leonardo Murialdo e san Giuseppe Benedetto Cottolengo:  "Due santi sacerdoti - li ha definiti - esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli bisognosi".

Cari fratelli e sorelle,
ci stiamo avviando verso la conclusione dell'Anno Sacerdotale e, in questo ultimo mercoledì di aprile, vorrei parlare di due santi Sacerdoti esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli più bisognosi:  san Leonardo Murialdo e san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Del primo ricordiamo i 110 anni dalla morte e i 40 anni dalla canonizzazione; del secondo sono iniziate le celebrazioni per il 2 centenario di Ordinazione sacerdotale.

Il Murialdo nacque a Torino il 26 ottobre 1828:  è la Torino di san Giovanni Bosco, dello stesso san Giuseppe Cottolengo, terra fecondata da tanti esempi di santità di fedeli laici e di sacerdoti. Leonardo è l'ottavo figlio di una famiglia semplice. Da bambino, insieme con il fratello, entrò nel collegio dei Padri Scolopi di Savona per il corso elementare, le scuole medie e il corso superiore; vi trovò educatori preparati, in un clima di religiosità fondato su una seria catechesi, con pratiche di pietà regolari.

Durante l'adolescenza visse, però, una profonda crisi esistenziale e spirituale che lo portò ad anticipare il ritorno in famiglia e a concludere gli studi a Torino, iscrivendosi al biennio di filosofia. Il "ritorno alla luce" avvenne - come egli racconta - dopo qualche mese, con la grazia di una confessione generale, nella quale riscoprì l'immensa misericordia di Dio; maturò, allora, a 17 anni, la decisione di farsi sacerdote, come riposta d'amore a Dio che lo aveva afferrato con il suo amore. Venne ordinato il 20 settembre 1851. Proprio in quel periodo, come catechista dell'Oratorio dell'Angelo Custode, fu conosciuto ed apprezzato da Don Bosco, il quale lo convinse ad accettare la direzione del nuovo Oratorio di San Luigi a Porta Nuova che tenne fino al 1865. Lì venne in contatto anche con i gravi problemi dei ceti più poveri, ne visitò le case, maturando una profonda sensibilità sociale, educativa ed apostolica che lo portò poi a dedicarsi autonomamente a molteplici iniziative in favore della gioventù. Catechesi, scuola, attività ricreative furono i fondamenti del suo metodo educativo  in  Oratorio. Sempre Don Bosco lo volle con sé in occasione dell'Udienza concessagli dal beato Pio ix nel 1858.

Nel 1873 fondò la Congregazione di San Giuseppe, il cui fine apostolico fu, fin dall'inizio, la formazione della gioventù, specialmente quella più povera e abbandonata. L'ambiente torinese del tempo fu segnato dall'intenso fiorire di opere e di attività caritative promosse dal Murialdo fino alla sua morte, avvenuta il 30 marzo del 1900.

Mi piace sottolineare che il nucleo centrale della spiritualità del Murialdo è la convinzione dell'amore misericordioso di Dio:  un Padre sempre buono, paziente e generoso, che rivela la grandezza e l'immensità della sua misericordia con il perdono. Questa realtà san Leonardo la sperimentò a livello non intellettuale, ma esistenziale, mediante l'incontro vivo con il Signore. Egli si considerò sempre un uomo graziato da Dio misericordioso:  per questo visse il senso gioioso della gratitudine al Signore, la serena consapevolezza del proprio limite, il desiderio ardente di penitenza, l'impegno costante e generoso di conversione. Egli vedeva tutta la sua esistenza non solo illuminata, guidata, sorretta da questo amore, ma continuamente immersa nell'infinita misericordia di Dio. Scrisse nel suo Testamento spirituale:  "La tua misericordia mi circonda, o Signore... Come Dio è sempre ed ovunque, così è sempre ed ovunque amore, è sempre ed ovunque misericordia".
 
Ricordando il momento di crisi avuto in giovinezza, annotava:  "Ecco che il buon Dio voleva far risplendere ancora la sua bontà e generosità in modo del tutto singolare. Non soltanto egli mi ammise di nuovo alla sua amicizia, ma mi chiamò ad una scelta di predilezione:  mi chiamò al sacerdozio, e questo solo pochi mesi dopo il mio ritorno a lui". San Leonardo visse perciò la vocazione sacerdotale come dono gratuito della misericordia di Dio con senso di riconoscenza, gioia e amore. Scrisse ancora:  "Dio ha scelto me! Egli mi ha chiamato, mi ha perfino forzato all'onore, alla gloria, alla felicità ineffabile di essere suo ministro, di essere "un altro Cristo" ... E dove stavo io quando mi hai cercato, mio Dio? Nel fondo dell'abisso! Io ero là, e là Dio venne a cercarmi; là egli mi fece intendere la sua voce...".

Sottolineando la grandezza della missione del sacerdote che deve "continuare l'opera della redenzione, la grande opera di Gesù Cristo, l'opera del Salvatore del mondo", cioè quella di "salvare le anime", san Leonardo ricordava sempre a se stesso e ai confratelli la responsabilità di una vita coerente con il sacramento ricevuto. Amore di Dio e amore a Dio:  fu questa la forza del suo cammino di santità, la legge del suo sacerdozio, il significato più profondo del suo apostolato tra i giovani poveri e la fonte della sua preghiera. San Leonardo Murialdo si è abbandonato con fiducia alla Provvidenza, compiendo generosamente la volontà divina, nel contatto con Dio e dedicandosi ai giovani poveri. In questo modo egli ha unito il silenzio contemplativo con l'ardore instancabile dell'azione, la fedeltà ai doveri di ogni giorno con la genialità delle iniziative, la forza nelle difficoltà con la serenità dello spirito. Questa è la sua strada di santità per vivere il comandamento dell'amore, verso Dio e verso il prossimo.

Con lo stesso spirito di carità è vissuto, quarant'anni prima del Murialdo, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell'opera da lui stesso denominata "Piccola Casa della Divina Provvidenza" e chiamata oggi anche "Cottolengo". Domenica prossima, nella mia Visita pastorale a Torino, avrò modo di venerare le spoglie di questo Santo e di incontrare gli ospiti della "Piccola Casa".

Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra, cittadina della provincia di Cuneo, il 3 maggio 1786. Primogenito di 12 figli, di cui 6 morirono in tenera età, mostrò fin da fanciullo grande sensibilità verso i poveri. Abbracciò la via del sacerdozio, imitato anche da due fratelli. Gli anni della sua giovinezza furono quelli dell'avventura napoleonica e dei conseguenti disagi in campo religioso e sociale. Il Cottolengo divenne un buon sacerdote, ricercato da molti penitenti e, nella Torino di quel tempo, predicatore di esercizi spirituali e conferenze presso gli studenti universitari, dove riscuoteva sempre un notevole successo. All'età di 32 anni, venne nominato canonico della Santissima Trinità, una congregazione di sacerdoti che aveva il compito di officiare nella Chiesa del Corpus Domini e di dare decoro alle cerimonie religiose della città, ma in quella sistemazione egli si sentiva inquieto. Dio lo stava preparando ad una missione particolare, e, proprio con un incontro inaspettato e decisivo, gli fece capire quale sarebbe stato il suo futuro destino nell'esercizio del ministero.

Il Signore pone sempre dei segni sul nostro cammino per guidarci secondo la sua volontà al nostro vero bene. Per il Cottolengo questo avvenne, in modo drammatico, la domenica mattina del 2 settembre 1827. Proveniente da Milano giunse a Torino la diligenza, affollata come non mai, dove si trovava stipata un'intera famiglia francese in cui la moglie, con cinque bambini, era in stato di gravidanza avanzata e con la febbre alta. Dopo aver vagato per vari ospedali, quella famiglia trovò alloggio in un dormitorio pubblico, ma la situazione per la donna andò aggravandosi e alcuni si misero alla ricerca di un prete.

Per un misterioso disegno incrociarono il Cottolengo, e fu proprio lui, con il cuore pesante e oppresso, ad accompagnare alla morte questa giovane madre, fra lo strazio dell'intera famiglia. Dopo aver assolto questo doloroso compito, con la sofferenza nel cuore, si recò davanti al Santissimo Sacramento e pregò:  "Mio Dio, perché? Perché mi hai voluto testimone? Cosa vuoi da me? Bisogna fare qualcosa!". Rialzatosi, fece suonare tutte le campane, accendere le candele, e accogliendo i curiosi in chiesa disse:  "La grazia è fatta! La grazia è fatta!". Da quel momento il Cottolengo fu trasformato:  tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate per dare vita ad iniziative a sostegno dei più bisognosi.
 
Egli seppe coinvolgere nella sua impresa decine e decine di collaboratori e volontari. Spostandosi verso la periferia di Torino per espandere la sua opera, creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio che riuscì a costruire assegnò un nome significativo:  "casa della fede", "casa della speranza", "casa della carità". Mise in atto lo stile delle "famiglie", costituendo delle vere e proprie comunità di persone, volontari e volontarie, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentavano.

Ognuno in quella Piccola Casa della Divina Provvidenza aveva un compito preciso:  chi lavorava, chi pregava, chi serviva, chi istruiva, chi amministrava. Sani e ammalati condividevano tutti lo stesso peso del quotidiano. Anche la vita religiosa si specificò nel tempo, secondo i bisogni e le esigenze particolari. Pensò anche ad un proprio seminario, per una formazione specifica dei sacerdoti dell'Opera. Fu sempre pronto a seguire e a servire la Divina Provvidenza, mai ad interrogarla. Diceva:  "Io sono un buono a nulla e non so neppure cosa mi faccio. La Divina Provvidenza però sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino". Per i suoi poveri e i più bisognosi, si definirà sempre "il manovale della Divina Provvidenza".

Accanto alle piccole cittadelle volle fondare anche cinque monasteri di suore contemplative e uno di eremiti, e li considerò tra le realizzazioni più importanti:  una sorta di "cuore" che doveva battere per tutta l'Opera. Morì il 30 aprile 1842, pronunciando queste parole:  "Misericordia, Domine; Misericordia, Domine. Buona e Santa Provvidenza... Vergine Santa, ora tocca a Voi". La sua vita, come scrisse un giornale del tempo, era stata tutta "un'intensa giornata d'amore".

Cari amici, questi due santi Sacerdoti, dei quali ho presentato qualche tratto, hanno vissuto il loro ministero nel dono totale della vita ai più poveri, ai più bisognosi, agli ultimi, trovando sempre la radice profonda, la fonte inesauribile della loro azione nel rapporto con Dio, attingendo dal suo amore, nella profonda convinzione che non è possibile esercitare la carità senza vivere in Cristo e nella Chiesa. La loro intercessione e il loro esempio continuino ad illuminare il ministero di tanti sacerdoti che si spendono con generosità per Dio e per il gregge loro affidato, e aiutino ciascuno a donarsi con gioia e generosità a Dio e al prossimo.



(©L'Osservatore Romano - 29 aprile 2010)
Caterina63
00martedì 11 maggio 2010 22:45

Massimo Barbiero, 1973-2010

Massimo se l'è preso la montagna, il martedì 6 aprile, e con lui c'era anche Simone, 24 anni, di Bolzano.

Ho conosciuto
Massimo a Soweto, una piccola baraccopoli nell'estrema periferia di Nairobi, tra Kahawa e Githurai, per chi conosce quei posti. Io ero partito in servizio civile e volevo scoprire la povertà e don Oreste mi disse: "Stai con Massimo e imparerai". Perchè Massimo non era un missionario qualunque, non era un uomo del fare, un imprenditore della solidarietà, un Wolf che risolve i problemi del mondo.

Lui condivideva la vita degli abitanti della baraccopoli, dormiva con loro, spalla contro spalla, sotto le stesse tettoie di lamiera e sopra gli stessi letti pulciosi. Andava con loro a raccogliere rifiuti. Indossava gli stessi sandali di copertone, quelli che ai
wazungu tagliano la pelle, ma agli africani e a Massimo no. Uccideva conigli e raccoglieva rucola, li metteva in una borsa di pelle e poi andava in centro città a venderli ai ristoranti italiani, come un vucumprà all'incontrario. Se c'era una persona che si era fatta povera trai poveri, ecco, era lui.

Qualcuno, forse, non era d'accordo. Dov'era il progetto? E le pance riempite, le latrine scavate, le case costruite, i quaderni e le divise per i bambini? Massimo non si era fatto carico del fardello dell'uomo bianco. Cercava - disperatamente - di fuggire dalla vocazione a essere bancomat - destinato segnato per ogni missionario. per quanto possibile, lui stava semplicemente lì, vicino a chi soffriva, condividendo il suo dolore, le sue speranze, le sue fatiche. Insomma, era un segno profetico di solidarietà, rispetto e speranza. Qualcuno, forse, penserà che tutto questo non serva nulla e che sia solo un gran spreco di risorse. Ma intanto, Massimo si era conquistato la stima e l'amicizia di tutta la baraccopoli. Massimo non era più un mzungu con la testa piena di pregiudizi e il portafoglio pieno di soldi, ma era uno di loro.

Parlava il kiswahili, ma anche il
kikuyu (quanti bianchi a Nairobi parlano kikuyu?). Non pretendeva di dare lezioni a nessuno. Ascoltava tutti, anche l'ultimo dei turisti da slum. Infatti, Massimo era povero ed umile. Un - mio - maestro.

A marzo è arrivata
la sua ultima mail circolare dal Venezuela. Eccola:

hola a tutti!
scusate per il tempo passato, però cercavo e cerco di capire meglio la situazione qui, un po di più ogni giorno. Non è certo come il Kenya, la gente ''povera'' del barrio, dove per ora andiamo a portar la comunione a malati e anziani, è messa meglio della classe media del Kenya, non ci sono baracche e per strada ci son solo alcuni adulti alcool dipendenti. A livello sociale lo stato, per quanto pur criticato, socialista fa molto pensando all' Africa: scuole gratuite, anche l'università statale, una linea di bus pure gratuita, mense dei poveri, strade, acqua e elettricità a tutti o quasi a prezzi davvero bassi. il problema è che il governo è anche opprimente delle libertà individuali: ultimamente ha chiuso delle tv private e banche e catene di negozi e ogni giorno ci son manifestazioni di protesta in qualche parte in Venezuela (qualche settimana fa anche a Merida, per i tagli a acqua e luce che han portato a un intervento dell'esercito e anche 2 morti). Comunque anche la Chiesa è parecchio loquace e non sta zitta e infatti il vescovo di qui è una delle persone un po scomode del presidente Chavez. L' altro problema è poi la delinquenza: c' è una media di un omicidio al giorno a Merida, città di 250000 abitanti, legato anche al traffico di droga. Al barrio, dove dovrei forse andar a vivere, la scorsa settimana avevan ucciso 2 persone e più di qualcuno spaccia droga. C'erano i poliziotti con giubbotto antiproiettile e fucili in mano, ma questo c'era anche a Nairobi. Ora io son in una casa della comunità dove ci son 2 bambine orfane, sto cercando di cimentarmi sempre più con lo spagnolo, che però quando parlano veloce, non capisco molto e dovremmo iniziare delle attività, giochi, con i bambini del barrio, in modo da tenerli impegnati. Come comunità abbiamo pure un' altra casa famiglia, con bambini abbandonati o in affido: Rey, di 5 mesi, in affido perchè la madre fa uso di eroina; Rosa e Cristian che han vissuto per un po' sulla strada, Wiston che era in istituto statale ed era tenuto in gabbia e altri 2 bimbi.Tutti questi seguiti da Ines, Maurizio e Angela, fratelli e sorelle di comunità. Poi c'è una coppia: Giorgio e Monica, che però dovrebbero tornar in Italia dopo tanti anni qui, perchè han adottato una bimba disabile mentale, Carla e qui le cure , comprese eventuali operazioni chirurgiche, non son dello stesso livello che in Italia. Una volta alla settimana mi faccio un giro nelle magnifiche Ande che son qui vicine( c'è il pico Bolivar che è alto 5000 m e si vede la cima con la neve la mattina).Ecco un po tutto quello che sto vivendo qui: con sempre nel cuore il mal d' Africa, per Soweto e la gente e la comunità che ho lasciato lì,per le situazioni di povertà e miseria che si vivono lì, però intanto cerco di capirci sempre di più qui e spero di poter riuscir a vivere un po di più, magari in futuro, quello che in Africa vivevo, trovando i miei piccoli spazi e quella condivisione con i poveri che vivevo a Soweto. Il Signore mi farà capire
Que Dios ve bendiga!
I funerali si svolgeranno a Fossò (PD), martedì 11 maggio, alle 17.

Ciao Massimo, tuko pamoja!



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Caro Massimo,
so che leggerai questa mia non più in una baraccopoli, ma fra le vie del Cielo, in una Luce immensa di immenso Amore...
Leggendo la tua esperienza, non so perchè mi è venuto in mente l'episodio raccontato da Santa Caterina da Siena, sono sicura che Lei stessa te lo potrà ora confermare...

Gesù le fa scegliere cosa portare sulla terra se la corona di spine oppure quella di diamanti...naturalmente Lei sceglierà quella di spine...
Non so perchè ho subito associato a te la medesima scelta...
E di questo ti ringrazio perchè mi confermi, se ce ne fosse mai bisogno, che l'esperienza dei Santi non è affatto a senso unico, ma che ognuno di noi può fare propria nel proprio tempo e con le forze che gli sono più opportune...

Hai scelto la "corona di spine" e, come tutti i santi, ti ci sei trovato alla fine bene...non senza problemi, ma di certo ti sei sentito già a "casa"...

Dalla data postata sopra deduco che sei morto molto giovane...pare che molti grandi santi, quelli un pò speciali (senza togliere nulla ad altri), non sono mai sopravissuti a lungo, penso a santa Teresina del Bambin Gesù, nientemeno che tua Patrona, Patrona delle Missioni...come non pensare a Lei venirti incontro per offrirti una ghirlanda di rose profumate per dirti tutto il suo grazie?
E a santa Caterina da Siena, venirti incontro e condividerti quella Corona di Diamanti che premurosamente ti lasciasti guadagnare dal Ristorto per l'eternità?

Prega ora per noi e con noi, perchè possiamo essere anche noi capaci di scelte radicali e coraggiose e di comprendere quale sia davvero la gioia di una vita pienamente vissuta "accumulando tesori per l'eternità"....la tua cambiavaluta sono stati i poveri fra i poveri, ma soprattutto, ANIME FRA LE ANIME...Cristo in mezzo a tanti "Cristi"!

Non riposare in Pace, ossia, INTERCEDI PER NOI, sollecita le nostre anime, metti una parola buona per il risveglio delle nostre coscienze, e poi si, goditi la Beatitudine che Cristo riservò per i Suoi!
Un abbraccio e un Grazie di tutto cuore!







 
Caterina63
00giovedì 20 maggio 2010 19:04
A Cannes il film sui monaci di Tibhirine che non abbandonarono la propria missione di fronte al rischio della morte

I fiori non si spostano
per cercare la luce


di Jean-Claude Raspiengeas
"La Croix"

Favorito per la Palma d'oro del sessantatreesimo Festival di Cannes, Des hommes et des dieux, il film del regista francese Xavier Beauvois sulla vita dei monaci cistercensi di Tibhirine, presentato martedì, resterà innegabilmente il film evento di questa edizione. Che figuri o no nel palmarès domenica sera - un premio per l'interpretazione  assegnato  al  cast  degli  attori è probabile - avrà segnato le menti, scosso una Croisette poco incline a farsi sedurre da un simile argomento.

La reazione dei critici e della stampa internazionale all'indomani della proiezione è stata unanime:  quest'opera fa soffiare lo spirito dei monaci di Tibhirine. "Avevo l'impressione che mi parlassero mentre giravo. Mi sentivo abitato da loro e ne provavo piacere", ha detto il regista in un'intervista rilasciata al quotidiano francese "La Croix".

Il titolo, Des hommes et des dieux, s'ispira al versetto del salmo 82 ("Io ho detto "Voi siete dei, siete tutti figli dell'Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti"") che Xavier Beauvois ha tenuto a porre come epigrafe della pellicola. Il regista avrebbe potuto ricordare i cinquantasei giorni di detenzione dei monaci, prima della loro esecuzione nell'inverno del 1996. Ha preferito invece filmare la loro vita quotidiana e mistica, gli uffici, le preghiere, i momenti di raccoglimento e i canti rivolti a Dio. Ha mostrato anche il loro impegno fra la popolazione musulmana, soprattutto l'operato di frate Luc che, ultraottantenne, garantiva più di un centinaio di consultazioni mediche al giorno, curava i malati e consolava gli afflitti proprio in questa regione dell'Algeria, abbandonata ai terroristi islamici.

La prima parte del film somiglia al libro delle ore e rispetta il ritmo lento delle giornate e dei rituali, avvicinandosi molto all'austerità monastica, con dignità e modestia dinanzi alla liturgia. Per preparare il film, il regista è anche andato in ritiro nel monastero di Tamié, in Savoia. Da questa esperienza ha ricavato alcuni principi morali che lo hanno guidato nel realizzare la pellicola, girata con criteri di rigore paragonabili a quelli della vita monastica e affidando un ruolo di rilievo a canti e salmi.
 
Nel corso delle stagioni, i trappisti, accettati e accolti dai loro vicini musulmani, coltivano il loro pezzetto di terra, vendono al mercato locale la loro produzione di miele, sono invitati a feste religiose. Fino al momento in cui il cerchio degli assassinii si stringe attorno a loro, vulnerabili e atterriti. I monaci sono minacciati apertamente. Le autorità li esortano ad accettare una protezione militare. Un interrogativo morale si pone loro:  accettare la presenza delle armi, essere separati dai loro vicini, sottoposti allo stesso regime di terrore senza però beneficiare della stessa misura protettiva? Partire o restare?

Il film di Xavier Beauvois mostra con gravità il dibattito fra i monaci, tra quanti vogliono andare via e quanti vogliono restare, poiché il dovere, come pure la missione, impone loro di rimanere in quell'angolo di terra, interrogandosi anche sul senso del martirio. "I fiori non si spostano per cercare la luce. Il sole li feconda laddove sono", dice un monaco per giustificare il suo desiderio di restare accanto agli abitanti del posto.

Si è trattato di un periodo incerto in cui la comunità ha esitato fa le diverse possibilità, secondo la coscienza di ognuno e la sua fragilità personale. Il regista filma le notti di dubbio e le invocazioni al Signore in quel momento di prova.

Poco a poco, appare inevitabile che i terroristi se la prendano con i monaci di Tibhirine. Questi ultimi si preparano con angoscia e facendo appello alla fede. In una delle scene centrali Xavier Beauvois filma l'ultima cena di quegli uomini, ricordando quella di Gesù con gli apostoli. I monaci ascoltano musica, alcuni piangono in silenzio, altri meditano o confortano con un gesto i più vulnerabili. Una scena che è la quintessenza, con alcuni straordinari primi piani sui volti di quei futuri giustiziati, della grandezza e dell'umiltà della loro vocazione.

E quando la morte giungerà, il regista che ha immaginato le ultime ore dei monaci, ricorre a un paesaggio avvolto nella neve e nella nebbia per rendere meno netta l'immagine della loro esecuzione, della quale non si conoscono i responsabili.

"Il Festival di Cannes funge da cassa di risonanza per far udire la parola di questi monaci. Il mio mestiere è di captare la luce con una macchina, poi con un'altra di diffonderla in tutto il mondo", ha dichiarato Beauvois a "La Croix". Coincidenza delle date:  proprio nei giorni in cui si assegna la Palma d'oro a Cannes, quattordici anni fa venivano resi noti l'uccisione dei monaci e poi il testamento  di  frate  Christian,  il  superiore  della  comunità.



(©L'Osservatore Romano - 21 maggio 2010)

Caterina63
00giovedì 1 luglio 2010 22:25
Celebrazione in Vaticano promossa dalla Pontificia Accademia Cultorum Martyrum per la festa dei protomartiri romani

Testimoni di una fede costante e paziente


Rinnovando una tradizione secolare, la Pontificia Accademia Cultorum Martyrum ha commemorato anche quest'anno i santi protomartiri della Chiesa di Roma, con una celebrazione svoltasi in Vaticano, nel tardo pomeriggio di mercoledì 30 giugno.

Sullo stesso suolo dove sorgeva il Circo di Caligola e Nerone, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha presieduto la celebrazione eucaristica e la successiva processione. Ai sodali dell'antico Collegium fondato nel 1879, raccoltisi in preghiera nella chiesa di Santa Maria in Camposanto, il presule ha offerto una riflessione che pur non accennando esplicitamente alla situazione attuale, conteneva un messaggio forte sulla fedeltà e la coerenza della testimonianza cristiana nella società contemporanea, che non devono mai venir meno anche nei momenti di difficoltà.

Commentando il Vangelo di Matteo 24, 4-13, monsignor Ravasi ha fatto riferimento all'intiepidirsi dell'amore, allo svilimento di cui parlava l'evangelista citando esplicitamente persecuzioni, scandali e tradimenti, attraverso quella che sembra una pagina di cronaca odierna. Mancano la passione, il calore e il colore - ha spiegato il celebrante - ed è per questo che bisogna reagire alla situazione attuale. E l'esempio di come poterlo fare viene proprio dai martiri.


Il secondo spunto dell'omelia riguardava il tema della perseveranza, con il suo significato autentico che rimanda allo stare costantemente sotto un peso, una minaccia che opprime e incombe. In tale contesto - ha detto l'arcivescovo Ravasi - perseverare nella fede significa avere le spalle forti, la stessa pazienza che hanno i buoi nel portare il giogo. I cristiani sono dunque chiamati a una testimonianza costante e fedele, senza mai venire meno a questo impegno. Una costanza che va vissuta ogni giorno, attraverso il cosiddetto "martirio della quotidianità" negli ambienti di vita:  a casa, in famiglia, nei luoghi di lavoro, ovunque il cristiano si trovi a vivere.

All'inizio del rito il sacerdos dell'Accademia, monsignor Pasquale Iacobone, ha salutato il celebrante principale - accompagnato dal segretario del dicastero per la cultura, monsignor Barthélemy Adoukonou - e tutti i presenti, anche a nome del magister Fabrizio Bisconti, impossibilitato a partecipare.

Al termine della messa l'arcivescovo Ravasi ha guidato la processione eucaristica, che si è snodata lungo i viali della Città del Vaticano, per concludersi nella piazza intitolata ai protomartiri romani, davanti al Camposanto Teutonico, dove una lapide - affissa nel 1904 dal Collegium Cultorum Martyrum - ricorda il sacrificio dei primi cristiani dell'Urbe.

Ai sodali dell'Accademia si sono uniti religiose e religiosi che svolgono la loro missione in Vaticano, alcune confraternite romane, rappresentanti del Sovrano Militare Ordine di Malta e dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, membri dell'Associazione Santi Pietro e Paolo - con ex guardie palatine in uniforme dell'epoca - e della Guardia Svizzera, sacerdoti e fedeli delle parrocchie vicine. I canti sono stati animati dalla corale della parrocchia di Sant'Anna.

I protomartiri furono vittime con l'Apostolo Pietro della persecuzione - scatenata dall'imperatore Nerone nel 64 - di cui lo storico Cornelio Tacito parla nei suoi Annales:  "Siccome circolavano voci che l'incendio di Roma fosse stato doloso, Nerone presentò come colpevoli, punendoli con pene ricercatissime, coloro che, odiati per le loro abominazioni, erano chiamati dal volgo cristiani" (15, 44, 2-5). Su di essi l'imperatore scaricò, condannandoli a efferati supplizi, le accuse a lui rivolte per l'incendio della città.

In pratica Nerone fomentò l'ostilità del popolo romano - peraltro tollerante in materia religiosa - nei confronti dei cristiani, i quali furono colpiti con una ferocia inaudita. Resta la memoria di episodi orrendi come le fiaccole umane, cosparse di pece e fatte ardere nei giardini del colle Oppio, o come le donne e bambini vestiti con pelle di animali e lasciati in balia delle belve nel circo. La persecuzione ebbe il suo apice nelle violenze perpetrate sui cristiani proprio nei giardini neroniani, cioè nel Circo di Caligola e Nerone, alle pendici del colle Vaticano. L'attuale obelisco di piazza San Pietro era al centro della spina di tale Circo, e segnava il percorso sul quale si sfidavano le quadrighe nelle corse.

L'obelisco fu spostato al centro della piazza dal Papa Sisto v. Il sito originario in cui era collocato è attualmente indicato da una lapide in terra, posta alla sinistra della basilica di San Pietro, poco oltre l'attuale nartece, che ricorda l'ubicazione del Circo nel quale subirono il martirio Pietro e i suoi compagni.


(©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)

Caterina63
00lunedì 9 agosto 2010 20:12
San Lorenzo martire nella Roma di Valeriano

Arcidiacono con libro e graticola



di Fabrizio Bisconti

Gli anni centrali del terzo secolo furono attraversati da una crisi economica, sociale, militare, tanto da diffondere una condizione di angoscia e di tensione, che caratterizzò anche e soprattutto la popolazione dell'Urbe. La peste, le catastrofi naturali, la pressione dei barbari sul Danubio e in Oriente, diffusero una forma di paura, di millenarismo apocalittico, ma anche di odio nei confronti dei cristiani che, rinnegando gli dèi della tradizione, avrebbero attirato su tutti la maledizione. La fame, il terrore, l'ansia e la depressione generalizzata crearono il clima per una persecuzione, alimentando quel rimedio irrazionale del "sacrificio espiatorio" che avrebbe placato le ire degli dèi.

La paura e la superstizione alimentarono una "caccia alle streghe", che individuò i cristiani come i veri responsabili della crisi dell'Impero. Dopo alcuni provvedimenti presi da Decio (249-251), venne il tempo di Valeriano (253-260), la cui famiglia vantava origini etrusche e risultava, dunque, legata alla grande tradizione religiosa pagana, senza contare che si stava diffondendo, proprio in quegli anni, la paura della "cristianizzazione" delle classi dirigenti, avviata già negli anni della tolleranza inaugurata dalla dinastia severiana e alimentata dalla forte opposizione senatoria, che promuoveva una severa e assoluta "laicizzazione" dell'impero.
Secondo le fonti - da Dionigi di Alessandria (Eusebio, Historia Ecclesiastica, 7, 10, 3) a Commodiano (Carmen Apologeticum, 82) - gli esordi dell'impero di Valeriano furono segnati da un atteggiamento di assoluta tolleranza, tanto che la sua dimora era piena di cristiani e poteva essere addirittura considerata una "chiesa di Dio".

Ma di lì a poco, anche Valeriano, come Decio, ebbe un improvviso mutamento di rotta e cominciò a temere che i cristiani conquistassero i posti chiave dell'Impero. Fu così che, con due successivi editti, nel 257 e nel 258, Valeriano, mentre Gallieno era impegnato in Occidente contro i barbari, colpì al cuore il cristianesimo, ordinando la chiusura delle chiese, la confisca dei cimiteri e delle altre sedi di ritrovo, l'esilio in luoghi sorvegliati dei vescovi, dei sacerdoti, dei diaconi, con la minaccia di morte nei confronti di tutti coloro che contravvenissero a questa disposizione.

Nel 258 la persecuzione diviene più feroce e mirata. Si dispose di uccidere, dopo la semplice identificazione e senza alcun processo, tutti gli ecclesiastici, in quanto si riteneva che non fosse più il tempo della integrazione e che, anzi, se si voleva colpire il cristianesimo, occorreva annientarlo come Chiesa, in tutti i suoi gradi e specialmente nei vertici, così come era determinante confiscare le proprietà e i luoghi della liturgia e della sepoltura.

Protagonisti famosi di questi provvedimenti furono - come è noto - Cipriano di Cartagine, Dionigi di Alessandria e Sisto ii vescovo di Roma. Quest'ultimo fu trucidato insieme a quattro diaconi il 6 agosto del 258. Cipriano ricorda le circostanze drammatiche dell'eccidio, di cui aveva appreso la dinamica dai suoi chierici presenti a Roma in quel momento:  "Xystum autem in coemeterio animadversum sciatis viii idus Augustus die et cum eo diacones quattuor" (Epistula, 80). I fatti, testimoniati anche dalla Depositio martyrum, dalla Depositio episcoporum e dal Martirologio Geronimiano sono rievocati anche da Papa Damaso (366-384), che in un celebre epigramma (Epigrammata damasiana, 17), sistemato presso la tomba di Sisto ii, ricorda come il Pontefice fu sorpreso dai soldati proprio mentre celebrava nel cimitero di San Callisto. Con lui, come si arguisce da un secondo epigramma, recuperato da Giovanni Battista de Rossi nella cripta dei Papi, furono uccisi anche gli altri appartenenti alla gerarchia ecclesiastica romana (ibidem, 16):  "Hic comites Xysti portant qui ex hoste trophaea" e, probabilmente, i quattro diaconi, a cui, nel Liber Pontificalis sono aggiunti anche Felicissimo e Agapito, sepolti nel cimitero di Pretestato:  "Capite truncatus est, et cum eo alii sex diaconi, Felicissimus et Agapitus, Ianuarius, Magnus, Vincentius et Stephanus" (LP i, 155).

Qualche giorno dopo, nell'ambito degli stessi provvedimenti, il 10 agosto, secondo la Depositio martyrum e il martirologio geronimiano fu ucciso anche l'arcidiacono Lorenzo, deposto nel cimitero di Ciriaca sulla via Tiburtina, secondo anche quanto riferiscono i Padri della Chiesa, che recuperano un'affabulazione leggendaria che ne descrive il martirio sulla graticola, dopo aver distribuito i suoi averi ai poveri. Attorno alla sua figura - come si diceva - nacque presto una storia inserita nella passio Polichronii, secondo la quale Lorenzo era, appunto, arcidiacono di Sisto ii; mentre il Papa era condotto al martirio, egli si rammaricò di non poter seguire la sorte del Pontefice, tanto che costrinse i carnefici a promettergli che dopo tre giorni avrebbe ottenuto anche lui la palma della vittoria.

Al di là della affabulazione leggendaria, la storicità del martire Lorenzo è attestata dai monumenti, che si sono stratificati sulla via Tiburtina presso l'agro del Verano. Qui Costantino fece costruire una sontuosa basilica circiforme, le cui fondamenta sono state intercettate durante il secondo conflitto mondiale. La grande basilica - come testimonia il Liber Pontificalis nella biografia di Papa Silvestro (LP i, p. 181) - era leggermente spostata verso sud rispetto alla tomba del martire, alla quale, sistemata in una cripta, si giungeva attraverso gradus ascensionis et descensionis. Dinanzi alla tomba, sempre secondo il Liber Pontificalis, furono sistemati alcuni preziosi elementi di illuminazione, donati dallo stesso Costantino, istoriati con le scene salienti della passione del martire a cui dedicherà uno splendido inno anche il poeta iberico Prudenzio, alla fine del iv secolo (Peristephanon, 2).

Tra il 579 e il 590, Papa Pelagio II edificò una basilica ad corpus tagliando la collina sovrastante, sacrificando una porzione delle catacombe di Ciriaca e creando una aula semipogea. Ma, al tempo di Papa Onorio (1216-1217), si rivide la costruzione pelagiana invertendo l'orientamento della basilica, che divenne il presbiterio del nuovo edificio di culto.

La devozione per l'arcidiacono romano nacque assai precocemente e, se escludiamo la rappresentazione del suo martirio nella medaglia di Sucessa, considerata un falso settecentesco, che imita il bel mosaico del mausoleo ravennate di Galla Placidia, dobbiamo rilevare che le figurazioni del martire ci offrono l'immagine di un giovane, con o senza tonsura, spesso imberbe, ma anche barbato. Egli porta - come Pietro - la croce del martirio sulle spalle, il libro, segno del suo stato diaconale, mentre, come si diceva, talora appare anche la graticola quale influenza della passio che narra la sua fine cruenta.

Nel v secolo appare, con la croce e il libro, in un affresco della catacomba di San Senatore ad Albano, dove compare per la prima volta in occidente anche la stola diaconale. Negli stessi anni, o poco più tardi, l'immagine di Lorenzo si inserisce in una teoria affrescata nelle catacombe di San Gennaro a Napoli, recando la corona del martirio, insieme a Pietro, Paolo e lo stesso Gennaro. La più antica rappresentazione legata alla fine atroce sulla graticola va riferita - come si è anticipato - alla decorazione musiva di una lunetta del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia, dove il martire appare in tutta la sua irruenza presso una sorta di tabernacolo aperto che contiene i vangeli e una grande graticola dove ardono vivaci le fiamme pronte per il vivicomburium.

Se l'immagine si diffonde anche nelle arti minori e, segnatamente, nei vetri dorati, la rappresentazione più maestosa, solenne e vivace risulta quella inserita nell'arco absidale della basilica pelagiana, ancora fortunatamente conservata. Qui, su uno splendido fondo aureo, si sviluppa un ricco mosaico che vede come protagonista un Cristo barbato assiso sul globo terrestre e vestito della porpora imperiale. Con la destra egli sostiene la croce, mentre con la sinistra propone il largo gesto dell'adlocutio, secondo il cerimoniale imperiale, ma anche del docente e del maestro di vita. Alla sua sinistra Lorenzo è riconoscibile dalla croce e dal libro aperto che sostiene, mentre il Pontefice Pelagio mostra enfaticamente il modellino della chiesa tiburtina. A destra sono sistemati il protomartire Stefano ed Ippolito, sepolto nella stessa via.

La convergenza delle testimonianze agiografiche, archeologiche, architettoniche e iconografiche ci parla di un culto ininterrotto per l'arcidiacono Lorenzo che, dal momento paleocristiano, attraversa i secoli, passando per la stagione bizantina e il medioevo e raggiungendo i nostri giorni, se il complesso tiburtino e la memoria del martire romano risultano ancora oggi centri di attrazione della devozione romana, ma anche dei pellegrini cristiani di tutto il mondo.



(©L'Osservatore Romano - 9-10 agosto 2010)



All'Angelus Benedetto XVI invita a dedicare attenzione agli altri senza egoismi

L'uso dei beni nella logica dell'amore


Il Papa ricorda l'esempio dei santi Domenico, Chiara, Lorenzo, Edith Stein e Kolbe

"Usare le cose senza egoismo, ma secondo la logica di Dio, la logica dell'attenzione all'altro, la logica dell'amore". È l'invito rivolto dal Papa ai fedeli raccolti domenica 8 agosto a Castel Gandolfo, per l'Angelus. Al termine della preghiera ha poi ricordato i santi della settimana.


Cari fratelli e sorelle,
nel brano evangelico di questa domenica, continua il discorso di Gesù ai discepoli sul valore della persona agli occhi di Dio e sull'inutilità delle preoccupazioni terrene.

Non si tratta di un elogio al disimpegno. Anzi, ascoltando l'invito rassicurante di Gesù "Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno" (Lc 12, 32), il nostro cuore viene aperto ad una speranza che illumina e anima l'esistenza concreta:  abbiamo la certezza che "il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova" (Enc. Spe Salvi, 2).

Come leggiamo nel brano della Lettera agli Ebrei nella Liturgia odierna, Abramo s'inoltra con cuore fiducioso nella speranza che Dio gli apre:  la promessa di una terra e di una "discendenza numerosa" e parte "senza sapere dove andava", confidando solo in Dio (cfr. 11, 8-12). E Gesù nel Vangelo di oggi - attraverso tre parabole - illustra come l'attesa del compimento della "beata speranza", la sua venuta, deve spingere ancora di più ad una vita intensa, ricca di opere buone:  "Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma" (Lc 12, 33).
 
È un invito ad usare le cose senza egoismo, sete di possesso o di dominio, ma secondo la logica di Dio, la logica dell'attenzione all'altro, la logica dell'amore:  come scrive sinteticamente Romano Guardini, "nella forma d'una relazione:  a partire da Dio, in vista di Dio" (Accettare se stessi, Brescia 1992, 44).

A tale proposito, desidero richiamare l'attenzione su alcuni Santi che celebreremo questa settimana e che hanno impostato la loro vita proprio a partire da Dio e in vista di Dio. Oggi ricordiamo san Domenico di Guzman fondatore, nel xiii secolo, dell'Ordine Domenicano, che svolge la missione di istruire la società sulle verità di fede, preparandosi con lo studio e la preghiera.

Nella stessa epoca santa Chiara di Assisi - di cui faremo memoria mercoledì - proseguendo l'opera francescana, fonda l'Ordine delle Clarisse. Ricorderemo il 10 agosto il santo diacono Lorenzo, martire del iii secolo, le cui reliquie sono venerate a Roma nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Infine, faremo memoria di altri due martiri del Novecento che hanno condiviso il medesimo destino ad Auschwitz. Il 9 agosto ricorderemo la santa carmelitana Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, e il 14 agosto il sacerdote francescano san Massimiliano Maria Kolbe, fondatore della Milizia di Maria Immacolata. Entrambi hanno attraversato l'oscuro tempo della Seconda Guerra Mondiale, senza perdere mai di vista la speranza, il Dio della vita e dell'amore.

Confidiamo nel sostegno materno della Vergine Maria, Regina dei Santi che amorosamente condivide il nostro pellegrinaggio. A Lei rivolgiamo la nostra preghiera.



(©L'Osservatore Romano - 9-10 agosto 2010)




Pope Benedict XVI speaks to faithfuls during Angelus prayers at his summer residence in Castel Gandolfo, in the outskirts of Rome on August 8, 2010.


Pope Benedict XVI speaks to faithfuls during Angelus prayers at his summer residence in Castel Gandolfo, in the outskirts of Rome on August 8, 2010.
Caterina63
00mercoledì 11 agosto 2010 18:12
Benedetto XVI nella catechesi settimanale propone l'esperienza eroica di molti santi

Il martirio prova di amore totale


Il martirio è una prova totale di amore nei confronti di Dio. Lo ha ricordato Benedetto XVI ai fedeli che questa mattina, mercoledì 11 agosto, sono giunti a Castel Gandolfo per partecipare al consueto appuntamento settimanale per l'udienza generale. Serve un amore sempre più grande, ha poi aggiunto il Papa, per trasformare il mondo.


Cari fratelli e sorelle,
oggi, nella Liturgia ricordiamo santa Chiara d'Assisi, fondatrice delle Clarisse, luminosa figura della quale parlerò in una delle prossime Catechesi.

Ma in questa settimana - come avevo già accennato nell'Angelus di domenica scorsa - facciamo memoria anche di alcuni Santi martiri, sia dei primi secoli della Chiesa, come san Lorenzo, Diacono, san Ponziano, Papa, e san Ippolito, Sacerdote; sia di un tempo a noi più vicino, come santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, patrona d'Europa, e san Massimiliano Maria Kolbe. Vorrei allora soffermarmi brevemente sul martirio, forma di amore totale a Dio.

Dove si fonda il martirio? La risposta è semplice:  sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d'amore, consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita (cfr. Gv 10, 10). Cristo è il servo sofferente di cui parla il profeta Isaia (cfr. Is 52, 13-15), che ha donato se stesso in riscatto per molti (cfr. Mt 20, 28). Egli esorta i suoi discepoli, ciascuno di noi, a prendere ogni giorno la propria croce e seguirlo sulla via dell'amore totale a Dio Padre e all'umanità:  "chi non prende la propria croce e non mi segue - ci dice, - non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà" (Mt 10, 38-39).

È la logica del chicco di grano che muore per germogliare e portare vita (cfr. Gv 12, 24). Gesù stesso "è il chicco di grano venuto da Dio, il chicco di grano divino, che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e, proprio attraverso questo, si apre e può così portare frutto nella vastità del mondo" (Benedetto XVI, Visita alla Chiesa luterana di Roma [14 marzo 2010]). Il martire segue il Signore fino in fondo, accettando liberamente di morire per la salvezza del mondo, in una prova suprema di fede e di amore (cfr. Lumen gentium, 42).

Ancora una volta, da dove nasce la forza per affrontare il martirio? Dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un'iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo. Se leggiamo le vite dei martiri rimaniamo stupiti per la serenità e il coraggio nell'affrontare la sofferenza e la morte:  la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza, nella povertà di chi si affida a Lui e ripone solo in Lui la propria speranza (cfr. 2 Cor 12, 9).

Ma è importante sottolineare che la grazia di Dio non sopprime o soffoca la libertà di chi affronta il martirio, ma al contrario la arricchisce e la esalta:  il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che in un unico atto definitivo dona a Dio tutta la sua vita, e in un supremo atto di fede, di speranza e di carità, si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore; sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al Sacrificio di Cristo sulla Croce. In una parola, il martirio è un grande atto di amore in risposta all'immenso amore di Dio.

Cari fratelli e sorelle, come dicevo mercoledì scorso, probabilmente noi non siamo chiamati al martirio, ma nessuno di noi è escluso dalla chiamata divina alla santità, a vivere in misura alta l'esistenza cristiana e questo implica prendere la croce di ogni giorno su di sé. Tutti, soprattutto nel nostro tempo in cui sembrano prevalere egoismo e individualismo, dobbiamo assumerci come primo e fondamentale impegno quello di crescere ogni giorno in un amore più grande a Dio e ai fratelli per trasformare la nostra vita e trasformare così anche il nostro mondo. Per intercessione dei Santi e dei Martiri chiediamo al Signore di infiammare il nostro cuore per essere capaci di amare come Lui ha amato ciascuno di noi.



(©L'Osservatore Romano - 12 agosto 2010)

Caterina63
00martedì 2 novembre 2010 15:36

Il Papa: il Vescovo Bogdánffy

sia un conforto per tutti i perseguitati


Nel ricordare la testimonianza di un martire rumeno del comunismo


ROMA, domenica, 31 ottobre 2010 (ZENIT.org).- All'Angelus domenicale Benedetto XVI ha ricordato la beatificazione avvenuta questo sabato nella cattedrale di Oradea Mare, in Romania, del Vescovo Szilárd Bogdánffy, che dopo la consacrazione episcopale venne arrestato dal regime comunista e morì in carcere “dopo quattro anni di sofferenze e umiliazioni”.

“Rendiamo grazie a Dio per questo eroico Pastore della Chiesa che ha seguito l’Agnello fino alla fine! La sua testimonianza conforti quanti anche oggi sono perseguitati a causa del Vangelo”, ha detto il Pontefice.

Nato il 21 febbraio 1911 nella località di Feketetó/Crna Bara, nell’allora diocesi ungherese di Csanad, attualmente diocesi di Zrenjanin, in Serbia, da genitori insegnanti, il neo beato compì gli studi presso la Facoltà di Filosofia e di Teologia dell’Università Péter Pazmany di Budapest.

Il 29 giugno 1934 venne ordinato sacerdote dal Vescovo Stephan Fiedler nella nuova parrocchia intitolata a Santa Teresa di Lisieux, in Oradea. Si dedicò all’insegnamento a Satu Mare, quindi nel seminario di Oradea e in diverse scuole.

Durante gli anni della feroce dittatura comunista, venne consacrato clandestinamente Vescovo il 14 febbraio 1949 dall’Arcivescovo Gerald Patrick O’Hara, Nunzio Apostolico in Romania nella Cappella della Nunziatura a Bucarest.

Pochi mesi più tardi, il 5 aprile 1949, fu arrestato con l’accusa di alto tradimento e di spionaggio e, dopo un processo farsa, condannato a 12 anni di lavori forzati in una miniera di piombo, prima di essere condotto in un campo di sterminio presso il Mar Nero.

In seguito venne trasferito nella prigione di Nagyenyed, dove ammalatosi di polmonite e a causa degli stenti e delle torture subite, si spense il 2 ottobre 1953.

Un insegnamento prezioso in particolare “in questa nostra epoca così stanca e, dopo l'ebbrezza di una libertà mondana, in fondo disgustata e delusa”, ha detto il Cardinale Péter Erdö, Arcivescovo di Esztergom-Budapest e Primate d'Ungheria, presiedendo la celebrazione eucaristica per la beatificazione del Vescovo Bogdánffy.

“Se prima la grande tentazione era dovuta alla durezza della persecuzione – ha aggiunto il porporato, secondo quanto riferito da 'L'Osservatore Romano' – oggi piuttosto la quasi impercettibile complicatezza della vita, la distrazione e una certa misteriosa stanchezza interiore sono gli ostacoli che impediscono di terminare con lo slancio dell'amore quella corsa verso l'eterna felicità della quale parla san Paolo”.

“È come se una certa melancolia opprimesse i nostri cuori – ha affermato –. Eppure, come oggi la testimonianza dei martiri risuona e risplende di nuovo dal silenzio e dal buio della paura, così è con noi anche quella forza della fede, che può darci speranza e avvenire”.

Al termine della celebrazione, mons. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, e tra i prossimi Cardinali nel Concistoro del 20 novembre, ha detto che “chi arrestò il Servo di Dio era spinto non da motivi oggettivi, ma dall’odium fidei. Si voleva costringerlo con ogni mezzo ad abiurare dalla sua fede cattolica”.

“La gente – ha aggiunto – diceva che nel campo di lavori forzati di Capul Midia c’era un’unica porta, quella d’entrata. Era un vero inferno. Cibo scarso, maltrattamenti continui, mancanza di riposo (non si poteva dormire sdraiati, ma solo appoggiati ai bordi del letto), interrogatori sfiancanti (spesso duravano ininterrottamente fino a 82 ore), freddo, sporcizia. Tutto era programmato con l’intento di annientare psicologicamente e fisicamente i detenuti”.

Eppure, ha continuato mons. Amato, “i testimoni affermano, che, nonostante la situazione disumana del carcere, il Vescovo Bogdánffy non fece mai mancare i suoi generosissimi atti di carità verso gli altri detenuti”.

“Il sacrificio del Vescovo Bogdánffy – ha concluso – è la testimonianza concreta della vitalità della chiesa cattolica romena, della sua fedeltà all’unità della Chiesa e del suo amore al Santo Padre”.

Caterina63
00lunedì 8 novembre 2010 09:46

Padre Miguel Pro, eroico martire messicano


Da Cordialiter

Nel 1927 nel Messico spadroneggiava un feroce regime anticlericale guidato da Plutarco Elías Calles. Gli ordini religiosi furono sciolti e i preti vennero oppressi da severe restrizioni. Molti sacerdoti (soprattutto stranieri) furono costretti a nascondersi o ad abbandonare il Paese. Il giovane gesuita Padre Miguel Agustin Pro aveva un grande amore per le anime redente da Cristo a caro prezzo sulla croce del Golgota, e non riusciva a rassegnarsi al pensiero che la gente morisse come gli animali, senza poter ricevere i sacramenti. Decise pertanto di continuare l'apostolato sacerdotale in clandestinità, vestendosi con abiti civili e ingegnandosi a sfuggire (spesso in maniera avvincente e rocambolesca) dalle grinfie della polizia al soldo del regime. Ma un giorno riuscirono a catturarlo e a portarlo in galera.

Il 23 novembre 1927, a Città del Messico, Padre Miguel venne condotto innanzi plotone d'esecuzione per essere fucilato. Anche se innocente, era stato condannato alla pena di morte con un'accusa ingiusta. Il gesuita, come ultimo desiderio chiese di pregare. Gli venne concesso. Si inginocchiò, affidò la sua anima a Dio e perdonò di cuore i suoi carnefici. Rialzatosi stese le braccia come se fosse in croce, tenendo in una mano la corona del rosario e nell'altra un crocifisso (come immortalato nella foto). Il plotone intanto si era preparato ad eseguire l'esecuzione capitale. Erano i suoi ultimi momenti di vita su questa terra d'esilio. Appena i soldati alzarono i fucili, Padre Miguel diede il suo ultimo attestato d'amore al Redentore Divino acclamando a Cristo Re! Pochi istanti dopo veniva crivellato da una raffica di pallottole.

Padre Miguel Augustin Pro è stato beatificato il 25 settembre 1988.

Che il martirio dei cattolici messicani del XX secolo, possa essere di incoraggiamento a quei cattolici che ancora oggi, in vari Stati, vengono perseguitati a causa della loro fedeltà a Cristo.

Caterina63
00mercoledì 10 novembre 2010 19:25
Cento anni fa nasceva Julia Verhaeghe

Tante opere ma una sola è quella che conta


di Hermann Geissler

"Resterò in cielo ciò che ero in terra:  una madre per voi tutti". Queste parole riassumono bene il carattere della vita di Julia Verhaeghe, donna umile e semplice, che pure è stata un'importante figura femminile nella Chiesa del ventesimo secolo. Nata l'11 novembre 1910 a Geluwe, nelle Fiandre, in una famiglia numerosa, durante e dopo la prima guerra mondiale non ebbe la possibilità di ricevere un'istruzione completa e, a quattordici anni, dovette cominciare a lavorare come domestica per contribuire al sostentamento della sua famiglia.

Dotata di una particolare sensibilità, da giovane fu scandalizzata dal comportamento scorretto di alcuni ecclesiastici e attraversò "una specie di crisi di fede". Ma grazie a un testo di san Paolo, ascoltato durante la Messa, Dio l'aiutò a ritrovare la serenità e la fede:  "Il santo apostolo Paolo divenne per me uno strumento di Dio, una guida spirituale e un fratello diletto, di cui potevo sentire la vicinanza. In quel periodo mi pareva di vivere una seconda conversione verso il Cuore di Gesù e il suo Corpo, la Chiesa".

Più tardi Dio le mostrò fino in fondo la grandezza dell'amore di Gesù e la bellezza della Chiesa. Nello stesso tempo comprese in quale misura la fede di tanti uomini fosse fortemente indebolita e quali tribolazioni, per questo, avrebbe dovuto attraversare la Chiesa. Dopo un periodo di sofferenza, ella seguì l'invito del Signore, offrendosi a lui in una "santa alleanza", allo scopo di condividere la sua sete per le anime e partecipare alla sua opera di salvezza.

Julia, pur avendo contribuito in prima persona alla fondazione della famiglia spirituale "L'Opera" nel 1938, non volle mai essere chiamata "fondatrice", ma solo "madre". "Mi sento spinta interiormente a chiarire che non ho mai avuto l'idea di fondare io stessa un'opera. Ma Dio mi ha guarito dallo spirito del tempo, come anche altri della mia generazione; mi ha così tratto in salvo ed ha acceso in me un grande amore per la Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Io non ho fondato nulla. Da quando Gesù Cristo ha fondato la santa Chiesa, tutto è stato fondato. Egli ha bisogno solo di persone che vivano a fondo questa fondazione".

Dopo la seconda guerra mondiale intorno a Madre Julia si riunì un gruppo di persone che iniziarono a vivere in comunità, impegnandosi a sostenere gli uomini provati del tempo postbellico e a formare le loro coscienze. Nel corso degli anni si è poi sviluppata una nuova famiglia spirituale, costituita da una comunità di consacrate, una comunità sacerdotale e da altri fedeli associati in diversi modi.

Negli anni sessanta Madre Julia rimase colpita da un libro di John Henry Newman e sperimentò una profonda vicinanza spirituale con il convertito inglese, tanto da chiamarlo "fratello" per la sua anima.
La vita di Newman fu per lei come una conferma del suo amore per la Chiesa chiamata a vivere in una società in radicale trasformazione, della sua rocciosa fiducia nella provvidenza di Dio e del suo impegno nella formazione delle coscienze. È questo il motivo per cui "L'Opera" da molti anni si impegna per far conoscere la vita e le opere di Newman.

Durante tutta la sua vita, Julia fu debole di salute e spesso costretta a letto dalle malattie, ma il suo spirito fu sempre alacre oltre misura. Con vivo interesse e acuto discernimento seguì le correnti di pensiero nella società e nella Chiesa, invitando i fedeli a impegnarsi per un'autentica attuazione del Concilio Vaticano ii. Fu suo desiderio vivere una vita ritirata in comunione con Cristo, Re coronato di spine, e di sacrificarsi per il rinnovamento della Chiesa. Il Signore la chiamò a sé il 29 agosto 1997, durante la celebrazione della messa. Il suo corpo riposa nella chiesa de "L'Opera" a Bregenz, luogo in cui ha vissuto gli ultimi anni di vita.

"L'Opera" è oggi presente in dieci Paesi europei, negli Stati Uniti, a Gerusalemme e lavora in vari campi pastorali e sociali. Il 29 agosto 2001 ha ottenuto da Giovanni Paolo ii il riconoscimento pontificio come "Famiglia di Vita Consacrata". Il fine di questa nuova comunità "consiste nell'essere un riflesso del mistero della Chiesa, a lode della Santa Trinità e per la salvezza degli uomini, e nel dar testimonianza della sua bellezza soprannaturale come Corpo di Cristo e Famiglia di Dio. Ancorati nella santa Eucaristia, fonte dell'unità con Dio e tra di loro, e in fedeltà al Successore di Pietro e alla sana dottrina della fede, i membri vogliono contribuire a far sì che gli uomini comprendano più profondamente il mistero della Chiesa e siano fortificati nell'amore per essa in vista dei segni dei tempi" (Decreto del riconoscimento pontificio). I due pilastri su cui poggia il carisma de "L'Opera" sono l'adorazione e l'unità. Di particolare rilievo è la sua proposta di collaborazione tra donne e uomini, tra sacerdoti, persone consacrate e fedeli laici, per offrire alla Chiesa e al mondo un modello di unità e complementarità nel rispetto della vocazione di ciascuno.

Nella messa di ringraziamento per il riconoscimento pontificio de "L'Opera", celebrata nella Basilica Vaticana il 10 novembre 2001, l'allora cardinale Joseph Ratzinger disse:  "Madre Julia non ha fondato un'opera diversa dall'opera di Gesù Cristo, ma si è posta interamente al servizio della Sua opera. In tal modo ci invita a non porre altre opere accanto all'opera di Cristo, ma a dedicarci alla Sua opera, a essere e a vivere con la Sua opera e così, attraverso di Lui, con Lui e in Lui, porsi al servizio della salvezza del mondo. Tutto ciò che ella ha fatto è riferito a Cristo, Figlio del Dio vivente. Ed ella sapeva che Cristo non è una figura del passato, ma continua a vivere nella sua Chiesa. L'essere con Cristo è perciò essere con Lui là dove Egli vive attraverso i tempi - nella comunità della santa Chiesa". Alla fine della sua lunga vita, Madre Julia poteva scrivere:  "Credo di poter asserire che tutta la mia vita è divenuta una comunione con il Corpo mistico di Cristo".


(©L'Osservatore Romano - 11 novembre 2010)

Caterina63
00mercoledì 24 novembre 2010 12:56

La storia di Govindo, gemma preziosa della creazione

Quella di Govindo è stata una storia avventurosa, drammatica, bellissima e misteriosa. E interrogando questo mistero in questi giorni mi si è fissata in cuore l’immagine, indelebile, di venerdì scorso, il giorno della morte: tutta la mia famiglia in ginocchio, in lacrime e in preghiera, attorno al letto di Govindo che ci lasciava. Ecco dunque una prima risposta, un primo pezzo di quel mistero: Govindo, come
una lanterna viva, ha tenuto insieme la mia famiglia. Poi in quella stessa immagine ho visto anche un piccolo patriarca che, dal suo letto di morte, con i suoi occhi da bambino posati su di noi benchè mezzi nascosti da una maschera ad ossigeno non adatta per il suo piccolo viso, diceva: vi ho rifornito di amore fino ad oggi, continuerò a farlo anche dopo. E’ per questo che non di strazio vi voglio parlare ma di gratitudine. E ho tanti grazie da dire.

Innanzitutto grazie Te Signore della vita, che hai chiamato all’esistenza Govindo, senza di Te Govindo non poteva esserci. Tu gli hai disegnato un destino pieno di sorprese, scritto con tante matite colorate, con tante persone. E ci hai anche ridetto attraverso di lui il Tuo sistema preferito, il Tuo trucco per farTi trovare: Tu nascondi le gemme più preziose della Tua creazione in involucri da poco (anche se Govindo era bellissimo), poveri, fragili, malati. In involucri spesso rifiutati. Come disse la sister all’orfanotrofio a Calcutta a mia moglie Marina: non prendete un bambino sano, prendete uno di quelli che nessuno vuole. E che affare abbiamo fatto! Grazie Signore. 

Grazie alla Madonna, che in tutti questi anni, densi di problemi e di tribolazioni, che non sono mancate, ed anche di gioie e di allegria, non ci ha mai fatto mancare nulla, ha tenuto tutta la mia famiglia sotto il Suo manto protettivo. Ci tengo a ringraziarla qui, in questa chiesa dedicata alla Vergine del Carmelo, alla Madonna della Traspontina, di cui sono devoto perché è la mia parrocchia. E, dovete sapere, che Govindo ha avuto una apparizione di questa venerata Madonna. Qui devo aggiungere un grazie a Mario, membro della Confraternita dello scapolare, che ogni anno porta in processione nel quartiere di Borgo la bella statua della Madonna che vedete nella Cappella lì a sinistra. Bene, non posso dimenticare quella volta che Mario fece fermare la Madonna sotto casa mia, abitiamo al primo piano, perchè vide da sotto Govindo affacciato in braccio a me. E così la Madonna ci ha salutato appena fuori della finestra, ci ha quasi guardati in faccia e ci fu uno spontaneo applauso dei fedeli in processione. Non posso dimenticare questo gesto di benevolenza. Dunque grazie a Mario, che conosco appena di vista e grazie a Maria Vergine.


Govindo ha avuto tanti amici. Lo vediamo anche oggi in questa chiesa così piena. Ma oggi si prega per lui in varie parti del mondo, a Buenos Aires, a Gerusalemme, a Calcutta, a Milano (il giorno dopo ho saputo anche in Africa e in Cina, ndr). Ne voglio ringraziare alcuni: il Coro che ha addolcito questa liturgia. Grazie. Gli amici della prima ora - come la nostra padrona di casa Paola che nei primi tempi, quando io e Marina dovevamo lavorare, ha portato con la sua macchina Gogo a riabilitazione, grazie Paola - e quelli dell’ultima ora, come don Mario, il sacerdote che abbiamo chiamato venerdì per l’Estrema Unzione e lui invece ha proposto di cresimarlo, regalando così a Govindo una madrina in extremis come Sister Elena, che si trovava lì al capezzale ed è stata nominata lì, sul campo. Grazie don Mario. E poi tanti amici non solo miei e di Marina, ma anche dei miei figli, i quali hanno esibito sempre Gogo come una medaglia e l’hanno fatto conoscere a tutti i loro amici, che ora vedo qui. Grazie. E poi grazie a voi colleghi di lavoro miei e di Marina, che in questi anni mi avete spesso chiesto come stava Gogo, che in questi giorni mi avete inondato di sms (ho cercato di rispondere a tutti). In ogni messaggio c’era una stilla di affetto sincero. Vi ringrazio.

Govindo è arrivato in una famiglia numerosa, ma era anche circondato da famiglie numerose. Perciò ha avuto tanti parenti. Troppi per menzionarli tutti. Ma qualcuno lo voglio ricordare, innanzitutto le due nonne: la nonna Liliana che lo ha preceduto qualche mese fa andando a fare un picchetto d’onore di famiglia in Paradiso, e la nonna Klara, che è qui, ed ha ha condiviso fino all’ultimo le ansie e le gioie di Govindo. Gli zii li salto perché sono troppi, così anche i cugini. Voglio invece spendere due parole sui nipotini di Govindo, i figli dei cugini nati in questi dodici anni e che guardavano questo strano bambino che non cresceva, che restava sempre uguale mentre loro ogni anno diventavano più grandi, che non mangiava per bocca come loro bensì tramite un tubo, che negli ultimi anni aveva anche un po’ di barba ma una corporatura più piccola della loro; facevano all’inizio, timorosi, qualche domanda perplessa, poi alla fine Gogo è diventato per tutti una presenza familiare su cui riversavano il loro affetto di bambini. Grazie ai nipotini di Bruxelles e di Milano. Da ultimo grazie a mia sorella Margherita e a suo marito Maurizio, a Nicola e Gigina di Gallipoli per essersi assunti davanti alla legge l’impegno di occuparsi di Govindo nel caso della scomparsa dei suoi genitori adottivi. Grazie anche a voi, senza le vostre firme Govindo non sarebbe arrivato.

Govindo - lo abbiamo sentito nell’omelia di padre Bernardo - ha avuto tante mamme. Quella Celeste l’ho già ringraziata. Voglio qui ringraziare la mamma carnale, che io non conosco. Tu hai abbandonato tuo figlio, sicuramente in preda all’angoscia, non so perché, forse la malattia incurabile, d’altra parte in India con un sistema sociale così diverso dal nostro… forse altro. Non so, forse ci pensi ancora. Sicuramente ti è costato molto. Grazie perché non lo hai soppresso, lo hai dato a chi poteva farlo vivere. Stai sicura che Gogo ora pensa anche al tuo bene e anche noi preghiamo per te.E qui siamo arrivati ad una mamma potente, madre di tantissimi figli, come Madre Teresa. Cara Madre, ti devo delle scuse perché in questi giorni di intenso dolore in cui ho pregato tanto ed ho chiesto di pregare perché Govindo ci fosse risparmiato mi sono sentito un po’ in conflitto di preghiera con te. Ho infatti avuto il sospetto che tu invece pregassi perché avevi voglia di tornare a giocare con lui come accadeva nell’ultimo anno della tua vita, quando Govindo all’orfanotrofio era diventato un po’ la tua mascotte. E ho immaginato che in Cielo si fosse aperto un arbitrato, quale preghiera deve vincere? Naturalmente non c’è stato nessun arbitrato e le tue preghiere hanno vinto perché tu, Beata, conosci il vero bene delle persone e di Govindo. Un bene che ha come misura l’infinito Bene e che spacca, supera, i criteri umani, anche quelli buoni e sinceri dei nostri affetti più profondi. Grazie Madre a te ed alle tue figlie che hanno voluto tanto bene a Govindo, da sister Shanta che lo imboccava col riso all’orfanotrofio di Shishu Bavan a Sister Elena madrina di cresima. Ultima mamma è arrivata Marina, mia moglie. Grazie Marina. Questa parte della storia di Govindo è iniziata con te, nel novembre di 14 anni fa quando hai incontrato Govindo a Calcutta, dove ti aveva mandato il tuo direttore per un servizio su Madre Teresa – grazie anche a te direttore, sei stato strumento inconsapevole, se non avessi inviato Marina Govindo non sarebbe arrivato -. Da uno di quegli slanci del tuo cuore generoso, che ho imparato ormai a conoscere in questi quasi trenta anni di matrimonio, è fuoriuscito quello sguardo di intesa tra te e Govindo che è all’origine del suo arrivo nella nostra famiglia. Ho conosciuto poi da vicino le tue angosce, le tue premure, le tue tenerezze le tue fatiche di mamma. Grazie Marina per tutto questo.In appendice a Marina non posso non ringraziare i miei splendidi figlioli, la vice mamma Maria, la primogenita, che ha accudito il fratellino quando papà e mamma erano al lavoro e le donne erano di riposo – a proposito grazie anche a loro, a Nella, Marya, Dorina, Halina -; grazie alla assennata Angela che, a differenza di tutti noi, si è assunta l’onere di fare le punture di antibiotico nel corpicino gracile del fratellino in questi ultimi giorni, noi non osavamo, lei ha preso il coraggio a due mani e le ha fatte; grazie a Cristina, che è stata la cantante, la fotografa, lo vestiva per le foto, e quindi è stata modista per Gogo; grazie a Luigi, il compagno prediletto di giochi.

Da ultimo un doppio grazie a te, figlio mio. Mi hai fatto sentire una papà scelto da suo figlio, prescelto, mi hai fatto sentire un papà migliore di quello che ero, non mi hai mai lesinato un sorriso, mi hai sempre cercato con le tue braccia, ti sei sempre avvinghiato al mio collo, anche quando non ero d’umore giusto. Mi hai reso, insieme coi tuoi fratelli, un papà felice. Grazie figlio mio.Il secondo grazie te lo preannuncio soltanto. La mia anima così appesantita da peccati, incoerenze, aridità, non può competere con la tua, così pura, limpida, innocente e perciò vicinissima a Dio. Però ho ancora una carta da giocare, sono tuo padre, mi devi l’obbedienza, ti chiedo perciò di aiutarmi a trasformare, d’ora innanzi, questo vuoto che mi annichilisce, che ci annichilisce, vero Marina?, in qualcosa di buono, in una nuova forma di quel bene che tanto ci hai regalato. Tu sei un figlio buono e so che lo farai. E io allora verrò a dirti il mio secondo grazie, quello definitivo, di persona, quando Iddio vorrà. Ciao figliolo amato.

(Tommaso R.)

Caterina63
00sabato 5 marzo 2011 12:34

Ai familiari di Shahbaz Bhatti lasciati fuori dalla chiesa nel giorno del funerale: anche San Francesco ebbe lo stesso trattamento


Ho appreso in questi momenti la tristissima vicenda accaduta a familiari, parenti e amici del Ministro pakistano, cattolico, Bhatti, martirizzato recentemente. Per motivi di presunta sicurezza, sono stati tenuti fuori della chiesa dove erano in corso i funerali non solo i tanti cristiani accorsi, ma perfino la sorella del defunto e altri congiunti. Leggi tutta la notizia su AsiaNews.
Mi è subito venuto in mente, con commozione, che quando ad Assisi trasferirono le spoglie di San Francesco nella nuova Chiesa a lui dedicata, per motivi di sicurezza, gli armigeri del Comune sprangarono le porte lasciando tutti i frati, i congiunti e i devoti fuori sulla piazza, mentre all'interno si procedeva alla tumulazione di un santo. Figuratevi che anche un frate del calibro di Sant'Antonio, presente ad Assisi, fu tenuto fuori!
L'amarezza e lo sgomento per una scena del genere ha attraversato i secoli ed è giunta nelle cronache fino a noi. Adesso vediamo ripetersi una cosa simile. L'unico pensiero che mi viene, in questo momento di assoluto dolore per familiari, amici e sostenitori è proprio questo: guardate, già lo trattano come un Santo! E i Santi, si sa, come diceva Padre Pio: "fanno più rumore da morti che da vivi". Il povero ministro delle minoranze, che non contava da vivo quasi nulla (così lo descrive la BBC) e non si capisce perchè doveva morire (sempre pensiero elevato della BBC che non riesce a vedere l'odio verso i cristiani), adesso che viene portato al cimitero fa parlare di sè tutto il mondo e attira sulla causa che gli stava a cuore ogni occhio internazionale.
E' quello che voleva e ha cercato di fare per tutta la vita. Forse otterrà dal cielo quello che in terra non è riuscito a provvedere per coloro che difendeva. Dopotutto i santi sono nostri avvocati, e i cristiani in Pakistan hanno proprio bisogno di tanti avvocati, non solo terrestri!


PAKISTAN
Funerali di Bhatti: bloccato l'accesso alla chiesa a parenti e fedeli, ira fra i cristiani
di Jibran Khan
All’arrivo del premier Gilani la polizia ha sigillato l’edificio, impedendo l’accesso a parenti e semplici fedeli. Indignazione della comunità cristiana, che si è stretta attorno alla famiglia del ministro cattolico. Vescovo di Islamabad: ho perso “un figlio”. E ad AsiaNews denuncia: il ministero degli Interni è responsabile della morte. Il corpo sepolto a Khushpur, migliaia i presenti fra cui musulmani, indù e sikh.

Mentre un gruppo di esponenti di governo, tra cui il Primo Ministro Gilani, partecipavano alla cerimonia, molti dei cristiani e persino alcuni parenti di Bhatti non hanno potuto entrare in chiesa, per il blocco imposto dalla polizia. La decisione ha scatenato la protesta della gente, che ha iniziato a manifestare il proprio disappunto. Uno di loro, Maqbool Bhatti, ha urlato a gran voce: “Adesso bloccate gli ingressi della chiesa, ma dove eravate quando Shahbaz Bhatti veniva ucciso?”. Persino la sorella del ministro, Anila Bhatti, non ha potuto assistere al funerale. In un misto d'ira e di delusione, la donna ha gridato “avete ucciso mio fratello, adesso mi impedite pure di vedere il suo corpo” aggiungendo che lo Stato non è capace di “proteggere le minoranze”. È rimasta all’esterno della chiesa anche la delegazione del partito Muttahida Quami Movement (MQM).
leggi qui il resto...


Testo preso da: Cantuale Antonianum http://www.cantualeantonianum.com/#ixzz1FiwrHE4U
http://www.cantualeantonianum.com



Le ultime parole del ministro Bhatti ricordate dal cardinale Jean-Louis Tauran

Sapeva che l'avrebbero ucciso



di JEAN-LOUIS TAURAN

Si è celebrata ieri, presso il Pontificio Collegio san Pietro Apostolo, la messa di suffragio del ministro pakistano delle Minoranze Shahbaz Bhatti, ucciso da estremisti islamici a Islamabad. Pubblichiamo l'omelia pronunciata dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.
La Liturgia della Parola ci ha ricordato che essere cristiani è sempre fare una scelta: tra la luce e le tenebre, tra la fede e la legge, tra la vita e la morte, tra il Dio rivelato da Gesù e la sapienza umana, tra servire e dominare. Non si tratta però solo di ascoltare la Parola di Dio, di ricevere i sacramenti o di acquisire una buona conoscenza. Ma Gesù domanda pure un'altra cosa. Desidera che il "dire" sia accompagnato dal "fare". "Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio".

Se ci accontentassimo di essere cristiani solo sociologicamente, o peggio, cristiani la cui vita fosse in contraddizione con ciò che diciamo di Gesù, allora correremmo il rischio di sentirci dire un giorno: "Via da me, non vi conosco". Oggi abbiamo davanti a noi la vita luminosa di Shahbaz Bhatti. Aveva scelto Cristo, come salvatore, la Chiesa come madre, ogni essere umano come fratello. Fu coerente fino alla fine. La sua vita fu e rimarrà per sempre una vita immolata, un sacrificio offerto a Dio. Come desiderava, lo troviamo ai piedi della croce di Gesù: "Non voglio posizioni di potere, voglio solo un posto ai piedi di Gesù, voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo!".

Queste parole sono così forti che converrebbe tacere. Ma lasciamoci prendere per mano dal nostro amico Shahbaz Bhatti. Seguiamolo fino alla croce di Gesù. Da lì, dice ai suoi aguzzini: "Fino al mio ultimo respiro continuerò a servire Gesù in questa povera umanità sofferente: i cristiani, i bisognosi, i poveri". Poi, con lui, alziamo lo sguardo verso il Crocifisso. È là che comprendiamo la profondità della perdizione dell'uomo, il mistero di iniquità, di cui parlava Paolo, il potere del male. Ma in Gesù crocifisso, scopriamo anche un po' dell'immensità dell'amore divino che redime. La croce ci rivela il volto misericordioso di Cristo, che ci apre sempre il cammino della speranza. Sant'Agostino ha immaginato un dialogo tra Gesù e il Buon Ladrone.

Sant'Agostino gli chiede: "Come hai fatto per capire il dramma del Calvario? Hai studiato le Scritture tra i tuoi latrocini? Come hai fatto a capire le profezie e confessare la tua fede in Cristo in modo così luminoso, proprio quando i suoi discepoli lo stavano abbandonando?". E poi Agostino presta al Buon Ladrone questa risposta: "No, non ho studiato le Scritture, non ho meditato le profezie, ma Gesù mi ha guardato e nel suo sguardo ho capito tutto!".

Poiché, da bambino e da uomo, Shahbaz ha fatto sì che Gesù incrociasse il suo sguardo e aprisse il suo cuore, egli non ha più avuto alcuna paura, anzi ha avuto il coraggio di servire i suoi fratelli cristiani e non cristiani, il proprio Paese, di offrire i suoi servizi alla Chiesa, a rischio della propria vita. Dobbiamo rendere grazie a Dio per aver messo sulla nostra strada quest'autentico "martire", cioè "testimone" della fede cristiana, che ha saputo "dire" e "fare" e che ci ricorda che nella croce si trova l'autentica speranza: la Croce ci spinge a dare la nostra vita per i fratelli; la Croce ci ricorda che l'amore e più forte dell'odio; la Croce ci fa comprendere meglio che c'è più gioia nel dare che nel ricevere; la Croce significa che Dio e sempre più grande di noi uomini, e soprattutto che la vita e più forte della morte.

Se Gesù ha detto: "Nessuno mi toglie la mia vita, ma sono io che la offro" (Giovanni 10, 18), Shahbaz Bhatti ha potuto dire: "Non ho più parole da dire, dedico la mia vita a Gesù!". Non esiste un cristianesimo senza la croce. Il messaggio evangelico disturberà sempre. Ma l'amore dei cristiani per tutti sarà sempre luce, consolazione e solidarietà in mezzo alla violenza. Non mancheranno mai cristiani capaci di portare la luce del vangelo nell'umano senza distruggerlo, ma purificandolo, come ricordava il Santo Padre giorni fa, evocando san Francesco di Sales, il quale scrisse: "l'uomo e la perfezione dell'universo; lo spirito è la perfezione dell'uomo; l'amore è quella dello spirito, e la carità quella dell'amore". Il nostro Amico ha saputo condividere con molti in Pakistan quest'amore cristiano che non esclude nessuno. Se avrà esercitato un potere, sarà stato "il potere del cuore".
Mi vengono alla mente immagini commoventi delle due Eucaristie che ho celebrato in Islamabad e in Lahore, nel mese di novembre scorso. La domenica 28 novembre, il ministro Bhatti venne a salutarmi all'aeroporto di Lahore e mi disse: "So che mi uccideranno. Offro la mia vita per Cristo e per il dialogo interreligioso".

A tutti nostri fratelli e sorelle cattolici del Pakistan giunga il nostro messaggio di comunione nella fede, la speranza e la carità. Spesso si sentono soli, senza protezione. Aspettano molto dalla comunità internazionale. Stamane il Santo Padre li ha raccomandati alla preghiera di tutta la Chiesa.

A tale proposito, come non ricordare che il 1° gennaio, il Papa invitava "i leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle nazioni a rinnovare il loro impegno per la promozione e la tutela della liberta religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l'identità della maggioranza, ma sono al contrario un'opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo".

Possa Dio farci capire meglio cosa vuol dire "dare la propria vita per i fratelli". In fondo, il peccato, il mistero del male che sembra dominare la scena del mondo, ha forse molto semplicemente la funzione di dare a Dio la gioia di perdonare, e ci sprona a essere, sulle strade della vita dove Gesù ci precede, araldi della sua presenza, convinti che da Lui "riceviamo adesso la riconciliazione" (cfr. Romani 5, 28), per essere a nostra volta riconciliatori degli uomini con Dio per mezzo della Croce.



(©L'Osservatore Romano 7-8 marzo 2011)



                         Christians hold a cross and a poster of slain Minister for Minorities Shahbaz Bhatti, during a protest in Hyderabad to condemn his assassination, March 3, 2011. Pakistan must not buckle to extremism, President Asif Ali Zardari said on Thursday, a day after Taliban militants killed his government's only Christian minister for challenging a law on blasphemy towards Islam.


 
Caterina63
00martedì 15 marzo 2011 18:12
l cardinale Sandri alle celebrazioni per l'anniversario della morte del santo

La spiritualità di Marone
dal silenzio alla carità


di MAURIZIO MALVESTITI

Nella festa di san Marone si è compiuto quest'anno il giubileo per i milleseicento anni della nascita al cielo del fondatore della Chiesa maronita, indicata dalla tradizione storica attorno all'anno 410. Qualche decennio più tardi Teodoreto di Ciro dedica l'intero capitolo sedicesimo della sua Historia religiosa alla vita del "monaco prete" a cui Giovanni Crisostomo aveva indirizzato una lettera. Nelle settimane scorse l'evento giubilare è stato celebrato da tutte le comunità maronite del mondo: sono numerose in Libano, in Siria e in altri Paesi mediorientali, come in ogni continente, con vescovi e sacerdoti della propria tradizione ecclesiale impegnati in un ammirevole servizio pastorale.

La conclusione del giubileo ha coinciso con la presentazione da parte del patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Nasrallah Pierre Sfeir, della rinuncia all'ufficio patriarcale, accettata da Benedetto XVI al termine delle celebrazioni romane.

Nella memoria liturgica di san Marone, che ricorre il 9 febbraio, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, ha preso parte a una divina liturgia nella chiesa dedicata al santo presso il Collegio maronita: "Un eremita dedito esclusivamente al Signore è divenuto padre e fondatore di una venerabile Chiesa. E la sua Chiesa ha voluto unire al nome di Antiochia, città-madre della propria tradizione teologica, liturgica e spirituale, quello del padre-fondatore per beneficiare dei frutti della sua santità". Così il porporato ha esordito nell'omelia, ricordando di avere anticipato la preghiera per tutti i maroniti nella visita del gennaio scorso al luogo della sepoltura di san Marone, nei pressi di Aleppo, in Siria.

Riferendosi alla prevista collocazione di una statua del santo in una nicchia esterna della basilica Vaticana, il cardinale Sandri ha detto che "quel giorno i maroniti, senza distinzione alcuna, si sentiranno col Vescovo di Roma nel cuore della santa Chiesa cattolica, madre e maestra che essi hanno sempre amato lungo tutti i secoli della loro storia. Grazie alla comunione con la Chiesa cattolica, nella certezza di essere in comunione col Signore Gesù, essi riceveranno un forte incoraggiamento a vivere, annunciare e celebrare la fede cristiana.

L'amata nazione libanese attende dai figli di san Marone una testimonianza di fraternità ecumenica e interreligiosa. È questo - ha sottolineato il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali - il mandato che il Papa vi affiderà: costruire unità, solidarietà e pace in Libano e in tal modo essere sale della terra e luce del mondo. Siate vicini a quanti danno la vita per rimanere fedeli a Cristo, mai dimenticando che il sangue di martiri è sempre seme di nuovi cristiani, e nella certezza che mai si potrà fermare la potenza umile di Dio, che è Cristo crocifisso e risorto. Ricordate cari maroniti - ha concluso il porporato - la responsabilità storica che avete nella custodia del cristianesimo in Oriente. Siate mediatori di pace e di civiltà in nome di Cristo. Il suo nome non sia mai cancellato dal Libano. La sua santa Croce continui a ispirarne il progresso religioso e civile".

La benedizione della statua si è svolta il 23 febbraio 2011, impartita da Benedetto XVI, accolto da una folta delegazione di libanesi, guidati dal cardinale patriarca Sfeir e dal presidente della Repubblica, Michel Suleiman, cristiano-maronita. Al rito ha fatto seguito la concelebrazione eucaristica nella basilica di San Pietro presieduta da Sfeir, che il cardinale Sandri ha salutato come erede spirituale di san Marone e ringraziato per l'opera apostolica svolta con zelo e determinazione tra innumerevoli tribolazioni. Il prefetto ha esteso il ringraziamento al presidente del Libano, per aver sottolineato con la sua presenza "il ruolo di san Marone e dei fedeli della sua Chiesa nel forgiare l'identità storica dell'intera nazione libanese".

E ha poi osservato che "la statua marmorea potrebbe significare solo una realtà immobile, pur nella sua bellezza, e un motivo di orgoglio per tutti i libanesi", auspicando piuttosto che essa richiami "nei suoi tratti artistici una realtà vivente: la Chiesa maronita. Ancorata in Cristo e nel suo Vicario in terra, essa possa rinascere sempre per l'annuncio del Vangelo a gloria di Dio e a bene delle anime. Nella comunione con tutte le sue membra possa essere testimone dell'amore di Dio - ha concluso - contribuendo ancora di più con i cristiani e i musulmani a sostenere la vocazione di pace e di riconciliazione propria del Libano in Medio Oriente e nel mondo".

Dal 24 febbraio al 2 marzo 2011, il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali ha preso parte alle celebrazioni giubilari nella diocesi statunitense di Our Lady of Lebanon of Los Angeles dei Maroniti su invito del vescovo Robert Joseph Shaheen. Tre le tappe della visita. La prima è stata Saint Louis, dove ha inaugurato l'Heritage Maronite Institute. "Cominciare dalla dedicazione di questo centro - ha affermato per l'occasione il cardinale Sandri - pone la mia visita sull'onda della memoria. Come ha scritto il vescovo, l'istituto si propone di valorizzare la storia dei maroniti in America attraverso l'educazione, la ricerca e la custodia del patrimonio maronita. Non c'è maturità umana e cristiana senza educazione. Il compito della famiglia, della parrocchia, dell'eparchia e della Chiesa intera, come della stessa società, è l'educazione. Ed essa ha bisogno del passato, nella sua profondità vitale, per progettare il presente e il futuro. Si impongono perciò la ricerca e la memoria", ha sottolineato il porporato, il quale ha ribadito che "senza memoria non c'è futuro" e che "le comunità vanno preservate dall'oblio della propria identità". A ispirazione in tale compito ha indicato il patrono: "San Marone ha la capacità di educarvi poiché è la vostra memoria e il riferimento a lui vi custodisce nell'autenticità cristiana".

A Houston, il prefetto ha incontrato la comunità di Nostra Signora dei Cedri del Libano, guidata dal parroco, padre Milad Haghi, missionario libanese maronita. Inaugurando il nuovo centro pastorale dedicato a George Mouawad, ha spiegato che, "se una comunità è veramente cristiana, deve passare dal culto divino alla pastorale familiare, giovanile e sociale, alla pastorale vocazionale, ecumenica e interreligiosa, alla missionarietà. Il culto a Dio è la sua priorità assoluta, ma è un dono da offrire alla storia degli uomini e delle donne in ogni tempo e in ogni luogo per santificarli e orientarli al regno di Dio".

Successivamente, nella liturgia concelebrata dal cardinale Daniel N. DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston, dal vescovo Shaheen e dal vescovo di Nuestra Señora de los Mártires del Líbano en México, Georges M. Saad Abi Younes, il prefetto Sandri ha tratteggiato un profilo di san Marone: "Egli fu l'uomo del silenzio e della preghiera. Fu l'uomo della penitenza e della carità. Per questo è motivo di speranza, che per noi è incrollabile perché radicata in Cristo Gesù". Ha poi sviluppato i primi due aspetti, chiedendosi: "Perché andavano in tanti da san Marone? Per ascoltare l'eloquenza del silenzio! Perché avvertivano dal silenzio il suo dialogo di fede e di amore con Dio. Erano affascinati dal suo silenzio perché comunicava il fremito della parola di Dio che è amore. Sembra un paradosso per il nostro tempo, che è soffocato da fiumi e fiumi di parole. Il suo silenzio era speciale: si era fatto preghiera, ossia unione profonda con Dio nell'amore. Egli convinceva i suoi ascoltatori perché era diventato una preghiera vivente, attingendo ardore dal silenzio del Crocifisso". Il cardinale ha poi concluso con un'efficace constatazione: "Il mondo in epoche oscure della storia e in tempi non lontani ha accusato Dio per il suo silenzio davanti al dolore e alla morte. Rimangono un enigma il dolore e la morte dell'uomo, ma per il silenzio del Crocifisso, che li ha vinti affrontandoli nella loro profondità, abbiamo la certezza che anch'essi sono una via, senz'altro stretta, come dice il Vangelo, ma una via all'amore".

A Los Angeles il cardinale Sandri, accolto dal vescovo Shaheen e dal parroco, padre Abdallah Zaidan, nella cattedrale di Nostra Signora del Libano, ha potuto completare il profilo di san Marone: "Egli avanzava nel silenzio e nella preghiera. E comprese che si aprivano davanti a lui, inevitabilmente, i sentieri della penitenza e della carità. Approdò alla via della verità e della vita, che è Cristo. L'unione con Dio lo portò ad abbandonare sempre più decisamente l'uomo vecchio e le sue passioni ingannatrici. La conversione del cuore e dei comportamenti lo condusse alla solidale carità verso ogni sofferenza spirituale e materiale. La sua vita continuò a fiorire per Dio e per i fratelli e a diffondere pace e unità", ha osservato il porporato, delineando una sorta di "spiritualità maronita" attorno al silenzio, alla preghiera, alla penitenza e alla carità, e sottolineando che "possono sembrare categorie fuori moda, dal punto di vista culturale, e sinonimo di noia, quasi una prigione della libertà e della spontaneità". In realtà esse generano la fedeltà: "E cos'è la fedeltà - si è chiesto Sandri - se non una ripetizione motivata dall'amore che persegue diritti e doveri e così costruisce la persona nel bene, rendendola capace di cambiare il mondo? Il giubileo maronita si chiude con il mandato della fedeltà cristiana, a cominciare da ciascuna vostra famiglia".

In ogni celebrazione si è data lettura del messaggio inviato, per lo speciale giubileo, da Benedetto XVI. Dalla diaspora, il cardinale Sandri è passato alla madrepatria maronita, il Libano, dove è giunto il 4 marzo per festeggiare il cinquantesimo di episcopato e il venticinquesimo di servizio patriarcale del cardinale Sfeir. Il Patriarca ha incontrato Benedetto XVI il 25 febbraio scorso, ricevendo dalle sue mani la lettera autografa di ringraziamento all'atto dell'accettazione della sua rinuncia al governo della Chiesa maronita. Per tale motivo, in Libano, il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali si è subito recato a Bkerké (città sede del Patriarcato di Antiochia dei Maroniti) per rendere omaggio al presule, unitamente al nunzio apostolico, arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, il quale sabato 5 marzo avrebbe dato lettura della lettera pontificia all'inizio della divina liturgia presieduta dallo stesso patriarca, alla presenza del capo dello Stato libanese e delle più alte cariche della nazione, dei patriarchi cattolici melchita, siro e armeno, come delle rappresentanze di tutte le istituzioni ecclesiastiche, civili, ecumeniche e interreligiose. Ad accogliere i partecipanti alla solenne celebrazione l'amministratore della Chiesa patriarcale, il vescovo ausiliare Roland Aboujaudé.

Nel suo intervento il cardinale Sandri, dopo il saluto al presidente della Repubblica, ha affermato che "senza la componente cristiana il Libano non avrebbe potuto in passato e non potrà svolgere in avvenire quel mandato di pace che la sua storia, la sua cultura e la sua spiritualità gli hanno assegnato". Attestando, poi, la comune ammirazione "per il bene compiuto come vescovo, patriarca e cardinale di Santa Romana Chiesa" da sua beatitudine Sfeir, ne ha elogiato il servizio fedele nelle ore della sofferenza e della speranza dei suoi figli. E si è fatto latore del calice donato da Benedetto XVI, con queste parole: "È il calice del sacerdozio di Cristo a noi partecipato. Continui, beatitudine carissima, ad alzare il calice eucaristico invocando il nome del Signore a nostra salvezza. La proteggano sempre san Marone e Nostra Signora del Libano. In unione con l'intera comunità ecclesiale, voglia continuare a coltivare il grande cedro colmo di vitalità spirituale che è l'amata e nobile nazione libanese".

All'indomani il patriarca Sfeir ha presieduto l'eucaristia nel santuario nazionale di Nostra Signora di Harissa, concelebrata dal cardinale Sandri, dal nunzio apostolico Caccia, da numerosi vescovi e sacerdoti. Nell'omelia, il prefetto Sandri ha svolto il tema del primato di Dio e della sua inscindibile paternità. Ne fu banditore il padre della Chiesa maronita, che ha definito: "Un'eco efficace dello Spirito Santo che grida in noi: Abbà, Padre". Il segreto della fecondità sua e della Chiesa maronita vanno ravvisati nel primo posto dato a Dio lungo i secoli della storia "gloriosa ma talora sofferta per le oscure tempeste", nella quale, tuttavia, i maroniti "non hanno mai vagato come orfani perché ricondotti sempre dalla Madre di Dio e da san Marone al Signore e alla Chiesa". E ha aggiunto che "la signoria di Dio nella vita personale e familiare, come in quella sociale e culturale, è da indicare alle nuove generazioni perché è la garanzia della libertà, anche religiosa, come di ogni giustizia, e apre alla solidarietà nella storia proprio perché volge il nostro sguardo al Bene Eterno".

Si è quindi pregato per i vescovi maroniti chiamati a eleggere in sinodo il nuovo Patriarca perché "siano guidati unicamente dal primato di Dio. Ne ricerchino la santa volontà per individuare un vero padre e capo, capace di dare la vita come il Buon Pastore e di prodigarsi come san Marone per guarire le ferite spirituali e materiali dei suoi figli".

Il cardinale Leonardo Sandri ha concluso il suo intervento citando il beato Giovanni XXIII, il quale, visitando Harissa il 28 ottobre 1954 come patriarca di Venezia e legato papale, lasciò scritto in auspicio per tutti i libanesi le seguenti parole: oboedientia et pax, benedictio et pax¸ gaudium et pax. Nell'obbedienza troviamo la pace perché Dio ci benedice, moltiplicando la gioia. Grazie all'obbedienza dei libanesi, alle tradizioni religiose e civili si potrà compiere per essi la promessa biblica: "Ne rimarrà per sempre la discendenza e la loro gloria non si offuscherà". Prima di lasciare il Libano, il porporato è stato ricevuto dal presidente della Repubblica e ha reso visita ai patriarchi melchita, siro e armeno, e a diverse comunità religiose femminili e maschili. Ma, soprattutto, ha venerato nei rispettivi santuari i santi Marone, Charbel, Nimatullah, Rafka, e il beato Estéphan. Figli della Chiesa maronita e "vera gloria" del Libano.



(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)

Caterina63
00venerdì 15 aprile 2011 17:37

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 13 aprile 2011

La santità

Cari fratelli e sorelle,

nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio” (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.

Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo?

Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza” (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: “Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: “Viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41).

Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (ibid., 40).

La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo - scrive - siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.

Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. “«Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l'aiuto della grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all'esercizio di ogni virtù.

La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po' troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell'Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l'esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. 

Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell'essere santi.

 Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL  35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”.

Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.

Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.

Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13).

Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore.

Grazie.

Pope Benedict XVI waves to the faithful as he leaves his weekly general audience in St. Peter Square at the Vatican, on April 13, 2011.

Pope Benedict XVI smiles during a general audience he held in St. Peter's square at the Vatican, Wednesday, April 13, 2011. The book "YouCat," a youth-focused compilation of key church teachings, was presented to Pope Benedict XVI at his general audience Wednesday and officially launched at a Vatican news conference. The Italian publisher of a new book on Catholic Church teaching fixed a translation error that implied the Vatican approved of contraception with an insert Wednesday that stresses traditional church teaching on sex. On the eve of the presentation, officials confirmed that Nuova Citta, the Italian publisher of "YouCat," had pulled the Italian copies to fix the error, which concerned whether married couples could plan the size of their families.

Caterina63
00lunedì 11 luglio 2011 12:29
[SM=g1740733] Santa Veronica Giuliani 09/07

Questa straordinaria mistica è nata il 27-12-1660 a Mercatello sul Metauro, nella diocesi di Urbania (Pesaro), dal capitano Francesco e da Benedetta Mancini. La sua vita fu un susseguirsi di meraviglie. Battezzata con il nome di Orsola, a soli cinque mesi prese a camminare da sola per recarsi a venerare un quadro raffigurante la SS. Trinità. Non aveva ancora sette mesi quando ammonì un negoziante poco onesto: "Fate la giustizia, che Dio vi vede". A due o tre anni cominciò a godere delle frequenti visioni di Gesù e Maria, che le sorridevano e rispondevano dalle immagini appese alle pareti di casa mentre ella esclamava: "Gesù bello! Gesù caro! Io ti voglio tanto bene". Durante la Messa, al momento dell'elevazione, nell'ostia vedeva quasi sempre Gesù che l'invitava a sé. "Oh, bello!... Oh, bello!..." gridava la piccina, e si slanciava verso l'altare. Quando il sacerdote portò il viatico a sua madre, Orsola vide l'ostia sfolgorante di luce. A mani giunte supplicò: "Date anche a me Gesù".

Appena la morente si comunicò, le si pose accanto, sul letto, esclamando:

"Oh, che cosa bella avete voi avuto, mamma! Oh, che odore di Gesù!". Prima di morire la pia genitrice chiamò le sue cinque figlie attorno a sé e a ciascuna assegnò una piaga del crocifisso come rifugio e oggetto particolare di devozione. Ad Orsola, di sei anni, toccò quella del S. Cuore.

Nella fanciullezza, sentendo leggere la vita dei martiri, la santa concepì grande desiderio di patire per amore di Gesù. Una volta mise di proposito una manina nel fuoco di uno scaldino e se la scottò tutta senza versare lacrime. Si disciplinava con una grossa corda; camminava sulle ginocchia; disegnava croci in terra con la lingua; stava lungamente a braccia aperte in forma di croce; si pungeva con gli spini; si costruiva croci sproporzionate alle sue spalle, bramosa di fare tutto quello che aveva fatto il Signore il quale, nella settimana santa, le si faceva vedere coperto di piaghe.

Per amor di Dio, Orsola aveva compassione dei poverelli ai quali donava generosamente quello di cui disponeva. Scriverà più tardi: "Mi pareva di vedere nostro Signore, quando vedevo essi". Col passare degli anni crebbe in lei sempre più la brama di fare la prima Comunione. Supplicava Maria SS.: "Datemi cotesto vostro Figlio nel cuore!... io sento che non posso stare senza di Lui!" Fu soddisfatta il 2-2-1670 a Piacenza, dove suo padre si era trasferito in qualità di Sopraintendente alle Finanze presso la corte del Duca Ranunzio II. Gesù allora le disse: "Pensa a me solo! Tu sarai la mia sposa diletta!". Ma come lasciare il mondo se la sua bellezza le attirava le più vive simpatie di giovani distinti? Al babbo che l'adorava un giorno disse: "Come posso ubbidirvi, se il Signore mi vuole sua sposa?... Anch'Egli è mio padre, e Padre supremo. Non solo gli debbo ubbidire io, ma ancor voi".

Dopo aver mutato il nome di Orsola in Veronica, il 17-7-1677 riuscì a entrare, diciassettenne, nel monastero delle Cappuccine di Città di Castello (Perugia). E impossibile descrivere il cumulo di grazie, doni, privilegi, visioni, estasi, carismi singolari che Dio elargì incessantemente alla sua "diletta". I fenomeni mistici che in lei si verificarono furono controllati a lungo e severamente dalle autorità competenti. Dal 1695 al 27-2-1727, nonostante la grandissima ripugnanza che provava, la santa scrisse, senza rileggerle, in un Diario le fasi e le esperienze della sua vita interiore per obbedienza al vescovo, Mons. Eustachi, e al confessore del monastero, il P. Ubaldo Antonio Cappelletti, filippino. Riempì 21.000 pagine raccolte in 44 volumi, pubblicati dal 1895 al 1928 dal P. Luigi Pizzicarla SJ., con versioni in francese e spagnolo.

Dopo che Gesù elevò Suor Veronica al suo mistico sposalizio, fu soddisfatta nella sua ardente brama di patire per Lui. In modo misterioso, ma reale e visibile, sperimentò a uno a uno tutti i martiri e gli oltraggi della sua Passione. Di continuo esclamava: "Le croci e i patimenti son gioie e son contenti". Giunse a dire: "Né patire, né morire, per più patire". Accoratamente diceva a Gesù: "Sitio! Sitio! Ho sete non di consolazioni, ma di amaritudine e di patimenti". Si può dire che fin dall'infanzia pregasse: "Sposo mio, mio caro bene, crocifiggetemi con Voi! Fatemi sentire le pene e i dolori dei vostri santi piedi e delle vostre sante mani... Più non tardate! Passate da parte a parte questo mio cuore".

Nel 1694 divenne maestra delle novizie e ricevette nel capo l'impressione delle spine. Dopo tre anni di digiuno a pane e acqua, il venerdì santo del 1697 le apparvero le stimmate e nel cuore ebbe impressi gli strumenti della Passione. "In un istante, scrisse la santa, vidi uscire dalle sue santissime piaghe cinque raggi splendenti; tutti vennero alla mia volta; e io vedevo i detti raggi divenire come piccole fiamme. In quattro vi erano i chiodi e in uno la lancia d'oro, ma tutta infuocata, e mi passò il cuore da banda a banda, e i chiodi passarono le mani e i piedi". Per questo soffriva talmente, anche in modo visibile agli altri, che veniva chiamata la "sposa del crocifisso".

Il vescovo di Città di Castello, al corrente dei fenomeni soprannaturali che avvenivano in Suor Veronica, dopo un rapporto al S. Ufficio, ricevette istruzioni che applicò con la più grande severità. Accompagnato da sacerdoti sperimentati, si recò nel monastero e si convinse della realtà delle stimmate. Alcuni medici ne curarono le ferite per sei mesi. Dopo ogni medicazione le mettevano guanti alle mani muniti di sigilli. Ma le ferite, invece di guarire, s'ingrandivano di più. La badessa ricevette dal vescovo ordini destinati a provare la pazienza, l'umiltà e l'obbedienza della santa nella maniera più sensibile. Le fu tolto l'ufficio di maestra delle novizie; fu dichiarata scaduta dal diritto di voto attivo e passivo; le fu proibita ogni relazione con le altre suore; colpita da interdetto non fu più ammessa all'ufficio in coro né alla santa Messa; fu privata persino della Comunione e per cinquanta giorni fu chiusa in una cella simile ad una prigione.

Insomma, di proposito, fu trattata come una folle, una simulatrice e una bugiarda. Il Vescovo al S. Ufficio non poté fare altro che scrivere: "Veronica obbedisce ai miei ordini nella maniera più esatta e non mostra, riguardo a questi duri trattamenti, il più leggero segno di tristezza, ma al contrario, una tranquillità indescrivibile e un umore gioioso".

A queste sofferenze univa di continuo indicibili penitenze, accesissime preghiere per la conversione dei peccatori. "M'ha costituita mediatrice fra Lui e i peccatori. Questo è il primo offizio che Iddio mi ha dato" scriveva. Continui suffragi offriva alle anime dei defunti. Confidò nel Diario: "Mi ha promesso Iddio la grazia di liberare quante anime voglio dal Purgatorio". Aveva continuamente presenti al suo spirito pure i bisogni di tutta la Chiesa e specialmente dei sacerdoti.

Sottomessa sempre in vita ai superiori, la santa volle morire il 9-7-1727, dopo 33 giorni di malattia, appena il confessore, il P. Guelfi, le disse: "Suor Veronica, se è volontà di Dio che l'ordine del suo ministro intervenga in quest'ora suprema, vi comando di rendere lo spirito". Quando morì era badessa da undici anni. Nel suo cuore verginale furono trovati scolpiti gli emblemi della passione così come li aveva descritti e persino disegnati per ordine del confessore. Il suo corpo è venerato sotto l'altare maggiore della chiesa delle Cappuccine in Città di Castello. Pio VII la beatificò il 18-6-1804 e Gregorio XVI la canonizzò il 26-5-1839.

Autore: Guido Pettinati

www.gloria.tv/?media=173839



[SM=g1740717]

Caterina63
00giovedì 24 novembre 2011 23:38
[SM=g1740720] Suor Valsa, massacrata a colpi d'asciaSuor Valsa


di Anto Akkara24-11-2011


Più di 500 cristiani, fra cui decine di suore, hanno preso parte all’incontro di preghiera e di protesta che, guidato dall’arcivescovo Vincent Concessao, ha avuto luogo il 18 novembre davanti alla cattedrale del Sacro Cuore di Nuova Delhi in reazione al brutale assassinio di una suora cattolica.

La 53enne Valsa John, delle Suore di Carità di Gesù e Maria, è stata uccisa a colpi di ascia il 15 novembre perché si prendeva cura dei poverissimi clan tribali dello stato federale di Jharkhand, nell’India nordorientale, sfruttati dall’industria mineraria.

«Valsa non era una suora ordinaria. Con lei abbiamo perso una sorella coraggiosa e determinata che stava dalla parte dei poveri», ha detto suor Mary Scaria, consorella più anziana dell’assassinata e segretaria della commissione giuridica della Conferenza episcopale cattolica indiana (CBCI), al termine dell’incontro di preghiera.

Secondo la polizia, la suora, originaria dello Stato meridionale del Kerala, è stata uccisa da una folla di una cinquantina di persone che, nel remoto villaggio di Bachuwari, attorno alla mezzanotte del 15, l’hanno prima picchiata con dei bastoni e poi finita con delle asce dopo aver bussato alla porta della casupola dove abitava.
La suora risiedeva in quel villaggio nella giungla sin dal 1995 impugnando il testimone delle tribù povere e sfruttate oltre che fatte forzosamente sfollare dalla lobby mineraria.

«A causa delle iniziative di protesta capitanate dalla suora, la compagnia che in quella zona sfrutta le miniere di carbone ha infatti dovuto concedere ai tribali immiseriti e sfrattati tutto ciò che essi chiedevano», ha detto suor Lilly Mary, la madre superiora provinciale della congregazione cui apparteneva la suora ammazzata, che risiede a Ranchi, la capitale dello Stato del Jharkhand, a 450 chilometri di distanza dal villaggio in cui si è verificato il delitto.

L’accordo con la compagnia mineraria, ha spiegato suor Mary, fu siglato nel 2007 dopo un decennio di animate contestazioni nel corso del quale erano state pure depositate alla polizia diverse denunce false contro la suora uccisa, peraltro dismesse dai tribunali.

A causa delle continue minacce che le giungevano, i responsabili della sua congregazione avevano comunque chiesto alla suora di lasciare quella pericolosa regione. «Ma lei era decisa a restare con la sua gente», ha sottolineato suor Scaria, avvocato dell’Alta Corte di Nuova Delhi. Sorella Valsa, che entrò nella congregazione Suore di Carità di Gesù e Maria 24 anni fa dopo essere stata insegnante di scuola secondaria - aggiunge suor Scaria -, preferiva lavorare in questa difficile area.

«Quando ho sentito la notizia sono rimasta esterrefatto», ha detto a La Bussola Quotidiana Anil Radhakrishnan, un giornalista indù che lavora nello Stato indiano da cui veniva suor Valsa. Il giorno della morte della donna, Radhakrishnan ne ha del resto pubblicato un profilo commovente sulle pagine di Malayala Manorama, il principale quotidiano del Kerala scritto in lingua malayalam.

Il suo articolo, intitolato Unfading lamp of love (“Un lume d’amore che non si spegne”), si fondava su ciò che il giornalista aveva visto direttamente nel 2007 allorché fu inviato in quella lontana regione per realizzare un servizio sulla “donna dell’anno” commissionatogli dal noto periodico femminile del Kerala Vanita (“donna”).

«Quando la mia jeep raggiunse il villaggio, i tribali armati di archi e di frecce fermarono il veicolo. Ma quando fu detto loro che il sottoscritto doveva fare un servizio dedicato alla loro guida, diedero fiato ai corni e ci condussero da lei festanti con caroselli tradizionali», ricorda  Radhakrishan.
Stringendo le mani della suora avvolta nello stesso sari verde che indossavano i tribali, il capo del villaggio riferì al giornalista che la donna era il “loro Dio” e gli raccontò di come ella li avesse assistiti contro le angherie. «Era davvero il campione di quelle genti», ripete ora il giornalista.

Mentre Amarnath Khanna, il capo della polizia del distretto di Pakur a cui appartiene il villaggio teatro dell’omicidio, dice che i sospetti ricadono sulla mafia mineraria, conferme in questo senso giungono anche da Stephen Marandi, ex vice capo del governo locale dello Jharkhand, un cristiano protestante.

«Suor Valsa mi aveva informato delle minacce e per questo ho sono ricorso al governo dello Stato affinché venissero avviate indagini», ha detto alla stampa Marandi, che fu uno dei protagonisti dell’accordo tripartito del 2007.

«Di quelle minacce ci parlava da molto tempo», conferma Baby Malamel, fratello maggiore della suora ammazzata. «Ho visitato il villaggio dove è stata uccisa mia sorella.  Un testimone oculare mi ha detto che gli aggressori venivano da fuori».




Caterina63
00sabato 26 novembre 2011 12:19

i martiri inglesi: fedeli fino al sangue alla Santa Messa cattolica

"a Tyburn, un gran numero di nostri fratelli e sorelle morirono per la fede; la testimonianza della loro fedeltà sino alla fine fu ben più potente delle parole ispirate che molti di loro dissero prima di abbandonare ogni cosa al Signore. Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia. E tuttavia la Chiesa non si può esimere dal dovere di proclamare Cristo e il suo Vangelo" (Benedetto XVI)



Una bella riproduzione del patibolo (Tyburn tree-l’albero di Tyburn), divenuto l’albero
della vita: un altare su cui celebrare la Santa Messa (Tybur Convent, Londra).


Nel febbraio del 1601, al Tyburn, presso Londra due uomini venivano impiccati. Erano un certo Filcock e un tale conosciuto come Barkworth. L‘accusa era di tradimento perché sacerdoti. I due, infatti, erano preti cattolici e venivano condannati alla forca quali vittime dell’odio anglicano contro la fede cattolica. Poco prima di morire, padre Filcock ebbe ancora la forza di dire con gioia: «Questo è il giorno fatto dal Signore».
Padre Filcock e padre Barkworth erano solo due delle decine di martiri cattolici che sacrificavano l’esistenza da quando Enrico VIII nel 1534 si era staccato dalla Chiesa di Roma e si era autoproclamato capo dell’anglicanesimo: da quell’anno, fino al 1681, i martiri inglesi sono stati più di trecento: cinquanta uccisi sotto Enrico VIII, 189 sotto Elisabetta I e gli altri sotto i loro successori.
I primi furono un gruppo di Certosini che il 4 maggio e il 19 giugno 1535 immolarono la loro vita sulle forche del Tyburn per non aver voluto separarsi dalla Chiesa Cattolica. Vittime illustri di Enrico VIII furono il Cardinal Giovanni Fisher e Tommaso Moro, il Gran Cancelliere del regno, che pagarono con il supremo sacrificio di sé il loro rifiuto alla “supremazia” imposta dal re.

L’opera di Cranmer




Il “simpatico marchingegno” per eliminare gli odiati papisti: il “Tyburn tree”, l’albero di Tyburn,
presso Londra. In basso, una stampa che rappresenta lo squartamento di un condannato.


Dal 1533, era diventato primo arcivescovo anglicano di Canterbury, Thomas Cranmer (1489-1556), il quale odiava la Messa come un nemico vivente e negava la dottrina della transustanziazione e della presenza reale di Gesù e l’offerta sacrificale del Salvatore fatta dal sacerdote per la salvezza del mondo. Sotto il regno del giovanissimo re Edoardo VI, Cranmer si mosse in modo subdolo e determinato verso l’eliminazione totale del Santo Sacrificio della Messa, pubblicando nel 1549 il primo Book of common prayer, un testo ambiguo indirizzato a trasformare la Messa nella cena protestante, fatto che sarà evidentissimo con il secondo Book of common prayer nel 1552. La “nuova liturgia”, vera negazione della Santa Messa cattolica, avrebbe dovuto sradicare il Cattolicesimo inglese che affondava le sue salde radici nei primi secoli dell’era cristiana. Purtroppo la tristissima operazione era destinata in gran parte al successo. Con l’ascesa al trono di Elisabetta I, nel 1559, con l’Atto di Uniformità, fu proibita la Messa cattolica (detta “la Messa papista!”) e furono imposte agli inglesi le eresie luterane e calviniste e venne proclamato che il Cattolicesimo era stato solo un coacervo di invenzioni idolatriche. Con implacabile odio anticattolico Elisabetta rese obbligatorio, sotto gravissime pene, la partecipazione al nuovo culto anglicano stabilito da Cranmer. Ciò significava la più grande disgrazia per i Cattolici: non poter più partecipare al Sacrificio del Signore e alimentarsi di Lui, vittima immolata al Padre per la salvezza del mondo. I Vescovi “recusanti”, ancora fedeli a Roma, furono sostituiti con altri più docili alla regina, mentre sempre più numerosi sacerdoti e fedeli finirono in carcere, presto destinati al patibolo. Iniziava così l’era dei martiri d’Inghilterra e il sangue dei cattolici prese a bagnare il suolo britannico. Nel 1568, il futuro Cardinale Guglielmo Allen (1532-1594) aveva fondato a Douai, poi a Reims, in Francia, un Seminario per la formazione di giovani sacerdoti da inviare nella loro patria, l’Inghilterra, a convertire gli anglicani. Allo stesso modo, nel 1578, il Collegio Inglese di Roma, auspice sempre l’Allen, fu trasformato in Seminario per il medesimo fine.



Seminarium Martyrum
I sacerdoti formati in questi Seminari, nelle Congregazioni e negli Ordini religiosi, in primo luogo nella giovane Compagnia di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola, imbarcandosi per l’Inghilterra, già sapevano che cosa li aspettava, a volte allo stesso approdo e dopo pochi mesi di apostolato clandestino: il martirio nel modo più atroce. Il Collegio Inglese di Roma si meritò presto il titolo glorioso di Seminarium Martyrum, Seminario dei martiri. La strada che portava da Roma a Reims e alla terra inglese, diventò “la strada del martirio”. Elisabetta I odiava soprattutto questi preti, rotti a tutte le fatiche, pronti ad immolare la loro giovinezza per assicurare ai Cattolici inglesi il tesoro più sublime che è il Santo Sacrificio della Messa. Primo martire fra loro, fu padre Cutberto Mayne, scoperto nel 1577 e impiccato il 30 novembre dello stesso anno. Impossibile scrivere tutti i nomi santi di costoro: viaggiavano in tutte le parti del Regno, predicando, confessando, celebrando la Messa nelle case dei cattolici dove si davano appuntamento gruppi di fedeli altrettanto eroici. Quando la Messa veniva celebrata, i fedeli trovavano la forza di affrontare qualsiasi difficoltà, anche le torture più atroci, se erano scoperti insieme ai loro sacerdoti.
Intanto, Elisabetta I mobilitava spie e sgherri a caccia dei “papisti”, colpevoli di un solo grande delitto: di essere sacerdoti e di offrire il Santo Sacrificio della Messa; oppure, se laici, di rimanere cattolici e di partecipare al medesimo Sacrificio. Tra questi martiri, risplende di singolare grandezza il giovane gesuita Edmond Campion, che poté raccogliere qualche frutto della sua opera e inviare una lettera alla regina, documento conosciuto come “La provocazione di Campion”, in cui smentiva la calunnia rivolta ai preti cattolici di essere traditori dello Stato e affermava la loro missione sacerdotale. “Sappiate che noi tutti Gesuiti abbiamo stretta un’alleanza per portare con gioia quella croce che voi ci imporrete e per non disperare mai della vostra conversione, finché ci sarà solo uno di noi per godere le gioie del vostro Tyburn o per sopportare i tormenti delle vostre torture nelle vostre prigioni”. Padre Campion salirà al patibolo il 1° dicembre 1581.

In odio alla Messa




Patibolo per i Cristiani fedeli alla Messa di sempre…

Anche i fedeli che aiutavano i sacerdoti erano destinati alla morte, come, per citare un solo nome, capitò a Margherita Cliterow, che pagò con la morte più atroce la sua ospitalità ai ministri di Dio. Gli editti di persecuzione si moltiplicarono. Nel 1585, la regina stabilì che qualsiasi uomo nato in Inghilterra era reo di alto tradimento, se dopo aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale in un altro Paese, rimetteva piede sul suolo inglese. La pena era di essere impiccato, poi estorto e squartato ancora vivo. Questo per privare sempre più i Cattolici della Santa Messa. I primi a soffrire per la nuova legge furono il padre Hug Taylor e il laico Marmaduke Bowes, uccisi il 27 novembre 1585 a York. La persecuzione di Elisabetta contro i cattolici proseguì fino alla sua morte, avvenuta nel 1603.

L’era dei martiri però non finì. Sotto re Giacomo I (1604-1618), morirono in venticinque. Ventiquattro sotto Carlo I (1628- 1646). Venticinque sotto Carlo II (1678- 1681), in base alla legge del 1585. Il più illustre in questo periodo è il padre Giovanni Ogilvie, gesuita scozzese, impiccato a Glasgow nel 1615 a 35 anni. Proclamata la repubblica (1646), Olivier Cromwell che odiava la Messa e il sacerdozio cattolico, pose una taglia sulla testa di ogni sacerdote uguale a quella per acchiappare un lupo: dall’Irlanda cattolica che non aveva mai accettato lo scisma e l’eresia di Enrico VIII, molti preti furono deportati come schiavi nelle isole Barbados e molte proprietà dei Cattolici furono confiscate. Anche in Irlanda, la persecuzione mirava ad estirpare la fede cattolica, estinguendo in essa la presenza del Signore Gesù nell’Eucaristia. L’ultima vittima fu l’Arcivescovo Primate d’Irlanda, Mons. Olivier Plumkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681. La maggior parte di questi martiri, sacrificati non solo in odium fidei, ma anche in odium Missae, sono stati elevati alla gloria degli altari dai Pontefici, da Leone XIII a Giovanni Paolo II. Alla loro epopea, Robert Benson (1871-1914), convertito dall’anglicanesimo e diventato sacerdote cattolico, anche per il sostegno di Papa San Pio X, dedicò la sua stupenda opera Con quale autorità?, in cui scrive commosso: «Era la Santa Messa che il governo inglese considerava un delitto ed era per la Messa che creature di carne e ossa erano pronte a morire. Era per la Messa che il cattolico perseguitato possedeva una così profonda vita spirituale da superare ogni difficoltà, l’anima di questa vita era la Messa».

Un secolo dopo, nel suo aureo libro La Messa strapazzata (1760), Sant’alfonso Maria de’ Liguori avrebbe scritto che «abolire la Messa è l’opera dell’anticristo», mentre i martiri inglesi, forse i più eucaristici di tutta la Chiesa, con il loro sangue stanno a testimoniare per noi oggi, che la Messa dev’essere la nostra vita. La Messa è il perenne Sacrificio di adorazione a Dio e di espiazione dei peccati, è il dono che ci ha lasciato Gesù nostro Redentore, affinché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza (cf Gv 10,10), e sappiamo giungere, se occorre, sino al martirio, per affrettare un’autentica primavera di santità nella Chiesa e nel mondo d’oggi.

Tratto da: Paolo Risso, Fiaccole nella notte, Edizioni l’Amore Misericordioso, 2009



 
Pubblicato da unafides

Caterina63
00giovedì 14 giugno 2012 19:07
La commovente storia di Chiara Corbella, sposa e madre, deceduta a causa di un male incurabile, ma ascoltiamo e leggiamo la sua storia che è parte viva della Comunione dei Santi....

www.gloria.tv/?media=300613

Chiara Corbella è una ragazza nata in cielo pochi giorni fa. Aveva 28 anni ed era sposata con Enrico Petrillo.

Una coppia normalissima della generazione Wojtyla, cresciuta in parrocchia e a pane e Gmg. Dopo essersi conosciuti a Medugorje hanno fatto un cammino da fidanzati con l’aiuto di alcuni frati di Assisi, e si sono sposati nel settembre 2008.

Chiara è rimasta subito incinta di Maria. Ma purtroppo alla bimba, sin dalle prime ecografie, è stata diagnosticata un’anencefalia.

Senza alcun tentennamento l’hanno accolta e accompagnata nella nascita terrena e, dopo circa 30 minuti, alla nascita in Cielo. Ho assistito personalmente al funerale che è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Una vittoria di Cristo sulla morte, ribadita da questa piccola bara bianca e da due genitori che hanno scritto e cantato, ringraziando e lodando il Signore per tutta la Messa.
Qualche mese dopo, ecco un’altra gravidanza.

Anche in questo caso l’ecografia non è andata bene. Il bimbo, questa volta era un maschietto, era senza gambe. Senza paura e con il sorriso sulle labbra hanno scelto di portare avanti la gravidanza. Ho parlato io stesso con Enrico che mi raccontava la sua gioia di avere un bimbo anche se privo delle gambe. Purtroppo, però, verso il settimo mese, l’ecografia ha evidenziato delle malformazioni viscerali con assenza degli arti inferiori e incompatibilità con la vita.
Anche in questo caso i due giovani con il sorriso (io l’ho visto e seguito quel sorriso che nasce dalla fede) hanno voluto accompagnare il piccolo Davide fino al giorno della sua nascita in cielo avvenuta (anche in questo caso) poco dopo la nascita terrena. C’ero anche al funerale di Davide. Anche lì tanta bellezza, tanta fede e una sorta di invidia per quella gioia portata nonostante la croce.
Una gioia non finta e di circostanza, ma esempio per molte famiglie coetanee.

Finalmente una nuova gravidanza: Francesco... Tutti noi amici abbiamo gioito non poco per questa notizia e per la speranza di Chiara ed Enrico verso la vita. Molti avrebbero - comprensibilmente - desistito dal riprovarci.
E mentre le ecografie confermavano la salute del bimbo, al quinto mese di nuovo la croce.
A Chiara è stata diagnosticata una brutta lesione della lingua e fatto, un primo intervento i medici le hanno detto che si trattava di un carcinoma. Nonostante questo, Chiara ed Enrico hanno voluto difendere questa vita.

Non hanno avuto dubbi e hanno deciso di portare avanti la gravidanza mettendo a rischio la vita della mamma. Chiara, infatti, solo dopo il parto si è potuta sottoporre ad un intervento più radicale e ai successivi cicli di chemio e radioterapia. Il sottoscritto e molte altre famiglie, sono testimoni oculari di tutte queste prove portate avanti con il sorriso e con un sereno e incomprensibile affidamento alla Provvidenza.
Ho parlato più e più volte con Chiara ed Enrico di come in tutte queste prove mai si son lasciati sconvolgere, ma solo hanno accettato la volontà di Colui che non fa nulla per caso. E di come, sempre, hanno ripetuto la loro preghiera quotidiana di consacrazione a Maria terminante con Totus Tuus... Potrei raccontare molte altre cose... i mesi difficili di chemio e radioterapia, il rosario familiare del giovedì sera messo in piedi da varie famiglie a loro vicine, la consacrazione del loro figlio a Maria nella Porziuncola...

Ora Chiara è nata in cielo.
E in molti siamo testimoni di questa vita Santa.

Così raccontava in una sua testimonianza: «Il Signore ha sempre qualcosa di diverso per noi. Non tutto va come noi pensiamo. Avevo visto con la dottoressa, attraverso l’ecografia, che la scatola cranica della nostra bambina non si era formata. Anche se lei si muoveva perfettamente, per lei non c’erano possibilità. Io non me la sentivo proprio di andare contro di lei, mi sentivo di sostenerla come potevo, e non di sostituirmi alla sua vita. Ora non sapevo come dirlo a mio marito. Ho passato una notte terribile, e ho detto: «Signore, mi vuoi donare questa cosa, ma perché non me lo hai fatto scoprire insieme a mio marito? Perché mi chiedi di dirglielo? A quel punto ho visto un quadro della Madonna, e ho pensato che anche a Lei il Signore aveva donato un figlio e gli aveva chiesto di annunciarlo a suo marito.
Anche a Lei il Signore aveva donato un figlio che non era per lei, che sarebbe morto e Lei avrebbe dovuto vedere morire sotto la Croce. Questa cosa mi ha fatto riflette sul fatto che forse non potevo pretendere di capire tutto e subito, e forse il Signore aveva un progetto che io non riuscivo a comprendere. Ma già avviene il primo miracolo: il momento in cui lo dico a Enrico è stato un momento indimenticabile. Mi ha abbracciato e mi ha detto: «E’ nostra figlia e la terremo così com’è».
Nonostante tutto è stata una gravidanza stupenda, in cui abbiamo potuto apprezzare ogni singolo giorno, ogni piccolo calcio di Maria è stato un dono. Il figlio dona la vita alla madre... Il parto è stato naturale, veloce e indolore. Il momento in cui l’ho vista è un momento che non dimenticherò mai. Ho capito che eravamo legati per la vita. L’abbiamo battezzata, ed è stato il dono più grande che il Signore potesse farci».




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Caterina63
00martedì 21 agosto 2012 23:08

[SM=g1740738] Una variegata corona intorno alla Vergine Maria


Una riflessione sui Santi di agosto, mese dell'Assunta


di P. Mario Piatti icms,

Direttore del mensile “Maria di Fatima”

ROMA, sabato, 11 agosto 2012 (ZENIT.org) - I Santi sono una delle più belle conferme della inesauribile e “inarrestabile” fecondità del Vangelo. Nel travagliato corso della storia non sono mai mancate - né mai mancheranno - figure significative che, con la loro luminosa testimonianza di fedeltà a Cristo e alla Chiesa, hanno segnato positivamente la loro epoca e hanno donato, alla propria e alle generazioni successive, un efficace segno di speranza e di salvezza.

Il mese di agosto possiede, in questo senso, una grazia e una fisionomia del tutto singolari. Racchiude infatti, custodendola nel suo cuore, come un prezioso tesoro, la Festa dell’Assunta, nella quale celebriamo la prima cittadina del Cielo. Colei che partecipa, con tutto il suo essere ed eternamente, della vittoria di Cristo sul male e sulla morte, ci ha preceduti nel cammino della Fede e, nel faticoso pellegrinare verso la Patria, ci indica la via e intercede costantemente per noi, perché un giorno possiamo condividere con Lei il medesimo destino di gloria.

Una mirabile schiera di anime sante fa da corona – in questo mese - alla Madre del Signore. La liturgia quotidiana ci dona, generosamente, quasi di ogni epoca della cristianità, la sorprendente immagine di una Chiesa viva, operosa, colma di soprannaturale sapienza e capace di stupire ancora per la imprevedibile fantasia dello Spirito.

Per offrire solo qualche rapido esempio: Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1 agosto), affermato giurista e poi sacerdote, ineguagliabile maestro di morale e fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, riconduce l’era dei lumi, il “700, razionalista e spesso dissacrante, alla bellezza di una fede popolare, ricca e profonda, affettuosa, che abbracci integralmente la umanità di Gesù e ci consegni tutta la dolcezza e la verità della sua amabile Persona.

Sant’Eusebio (2 agosto), vescovo di Vercelli, lungo il secolo IV, nella inquieta epoca dell’arianesimo – che ostinatamente negava la divinità di Cristo - si fa campione di ortodossia, al pari di Atanasio in Oriente e come lui subisce l’umiliazione dell’esilio e inenarrabili sofferenze, per difendere il genuino credo di Nicea.

San Giovanni Maria Vianney (4 agosto), riproposto in tempi recenti dal Papa come insigne modello di vita sacerdotale, si scontra, nella sua fanciullezza, con gli amari frutti della Rivoluzione francese e, attraverso un infaticabile impegno di preghiera, di predicazione, semplice e accattivante –sostenuta da un incessante spirito di penitenza e da una amabilissima carità verso i poveri- diviene uno straordinario confessore e una illuminata guida di innumerevoli anime, per la cittadina di Ars, di cui fu Curato, ma anche per tutta la Francia.

San Sisto II, con i suoi compagni (7 agosto), subisce il martirio al tempo dell’imperatore Valeriano, nel 257; proprio come il diacono Lorenzo (10 agosto), uno dei patroni principali di Roma, a cui furono dedicate nella Capitale numerose chiese e cappelle, a ricordo della sua gloriosa testimonianza di fede e del suo fervido servizio, in favore della comunità cristiana dell’Urbe.

Che dire di San Domenico (8 agosto), “capostipite” e padre dell’Ordine dei Predicatori -che avrebbe donato alla Chiesa una schiera di anime elette-; o di Santa Chiara (11 agosto), intrepida seguace del Poverello di Assisi, chiamata da Dio a generare una famiglia di contemplative, che fino ai giorni nostri sostengono, nella preghiera, nel silenzio della clausura e nella francescana letizia, tutto il popolo di Dio?

Cito appena San Bernardo, guida spirituale di generazioni di santi, e San Pio X (20 e 21 agosto); San Giuseppe Calasanzio (25 agosto), formatore di fanciulli e di giovani (come spesso, accade, morì purtroppo incompreso, nel 1648, nell’apparente fallimento della sua Opera: solo dopo la morte venne riabilitato pienamente e innalzato poi alla gloria degli altari).

Per giungere ormai alla soglia della nostra epoca, accenno brevemente a Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein, 9 agosto) e a San Massimilano Maria Kolbe (14 agosto), straordinari testimoni di fedeltà al Vangelo e associati, nel supremo sacrificio della vita, nel campo di concentramento di Auschwitz.

Non posso concludere senza menzionare almeno – è doveroso! - nel chiudersi del mese, Santa Monica e il figlio Agostino (27 e 28 agosto), vescovo di Ippona, dottore della Chiesa, autore di geniale e inarrivabile fecondità: accomunati in terra, e ancor più in Cielo, dal medesimo amore per Cristo, cercato, desiderato e abbracciato per sempre con ardore.

Dovrei e potrei continuare ancora, perché tante altre figure ricorda la Chiesa (il Battista, San Bartolomeo, il Santo Re “crociato” Ludovico...) in questo mese straordinario, nel quale, ai classici “riti” ed esodi estivi - forse vissuti oggi in tono minore, per la diffusa crisi economica - vale la pena di affiancare qualche lettura buona.

Magari la vita di un Santo: ci accorgeremmo che questi nostri fratelli maggiori sono ben più vicini alla nostra quotidianità di quanto ci immaginiamo; che sanno comprenderci e amarci e che da lassù, dove vivono beati, insieme alla Vergine Assunta – capolavoro inarrivabile della Grazia, eppure tanto accessibile e prossimo a tutti - pensano anche a noi, ci accompagnano con trepidazione, ci benedicono. E ci attendono nella vera “Terra Promessa”: il Cielo.

[SM=g1740717] [SM=g1740720]

Caterina63
00sabato 6 ottobre 2012 23:21
[SM=g1740733] 15 marzo 2012: E andiamo ora al santuario del Corpus Domini, dove il Cardinale Carlo Caffarra ha celebrato venerdì la Messa solenne in occasione della festa di Santa Caterina da Bologna, nel 300mo anniversario della sua canonizzazione.

Testo dell'Omelia

"Dallo spirito del tempo al tempo della grazia. Caterina maestra e modello nel cammino di fede".
300° Ottavario in onore di Santa Caterina da Bologna
Santuario del Corpus Domini, 9 marzo 2012

Diamo inizio con questa solenne celebrazione eucaristica all’Anno cateriniano, durante il quale, prendendo occasione e dal trecentesimo anniversario della sua canonizzazione [1712] e dal sesto centenario della sua nascita [1413], desideriamo vivere un incontro profondo colla santa.

1. Vorrei proprio iniziare, cari fratelli e sorelle, da una verità della nostra fede, che noi proclamiamo nel Simbolo, quando diciamo: "Credo … la comunione dei santi".

Il Concilio Vaticano II ci dona un insegnamento profondo al riguardo: "non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo di esempio, ma più ancora perché l’unione di tutta la Chiesa nello Spirito Santo sia consolidata dall’esercizio della carità fraterna. Poiché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i santi ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio" [Lumen gentium 80].

Esiste dunque una misteriosa ma reale vita in comune che noi condividiamo coi santi: la vita di Cristo in noi è la stessa vita che è in loro. Nulla è più meraviglioso di questa condivisione operata in noi e nei santi dallo Spirito Santo, che fa una sola vita di tutti.

Il rapporto fra ciascuno di noi e i santi è molto più profondo del rapporto cogli uomini e donne con cui convivo nella stessa città. La Chiesa celebra i suoi santi perché l’unione viva con loro è la sua stessa vita.

L’incontro con Caterina, che cercheremo più profondamente questo anno, ci aiuti ad avere un senso più perspicace del mistero della Chiesa.

2. Ma Caterina appartiene a quella compagine di santi e sante che la teologia cattolica indica col nome di mistici. Caterina è stata una mistica. Chi sono? che cosa significa? perché alcuni santi sono chiamati in questo modo?

La prima cosa da non fare, cari fratelli e sorelle, è quella di legare al fatto del misticismo cattolico fatti ed esperienze fuori dell’ordinario, preternaturali. La mistica cristiana non è questo.


Che cosa allora?

Mediante la fede, ogni discepolo del Signore, ognuno di noi, attinge la realtà in cui crede; pone in essere un rapporto reale con la realtà in cui crede: la S.S. Trinità, la divina persona di Gesù, Verbo fatto carne, la sua reale presenza nell’Eucaristia [ … ]. Come esiste questo mondo nel quale siamo nati, nel quale viviamo, dal quale colla morte usciremo, così esiste il mondo della fede, la realtà di cui solo la fede è la porta di ingresso. E il mondo della fede è molto più consistente dell’altro.

Il mistico è colui che ha portato ad una perfezione tale quella stessa fede che è in ognuno di noi, che per lui il mondo della fede è la realtà in cui vive abitualmente, nell’intima comunione col Padre in Cristo per opera dello Spirito Santo.

Da tutto questo deriva una conseguenza assai importante. Il mistico, cioè colui che ha avuto il dono di una fede portata alla perfezione, diventa guida di tutti i suoi fratelli e sorelle: colla sua stessa presenza e, non raramente come anche nel caso di Caterina, coi suoi scritti.


È guida perché ci sveglia dall’ipnosi del mondo sensibile; perché è l’indicazione permanente che, come ci insegna l’Apostolo, "passa la scena di questo mondo" [1 Cor 7, 31]. "ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno" [1Gv 2, 17].

Il mistico ci ricorda la vera condizione della persona umana: ostaggio del tempo, cittadino dell’eternità.

Caterina, da questo punto di vista, è la coscienza critica della nostra città, la quale se perde di vista il suo approdo ultimo, non può che essere consegnata ad ogni tempesta.

3. Caterina infine è una donna: appartiene a quella straordinaria schiera di mistiche che hanno segnato la storia della Chiesa e della civiltà, come Angela da Foligno, Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Maddalena de’ Pazzi, Teresa del Bambino Gesù, per limitarmi a qualche nome. Esiste qualcosa che le accomuna così che si possa parlare di una presenza propriamente al "femminile" nella vita della Chiesa da parte di queste mistiche?

Ai piedi della Croce, sulla quale il corpo fisico di Gesù era devastato dalla sofferenza, c’erano Maria ed alcune donne. Furono loro a prendersene cura dopo che fu staccato dal legno.

"Prendersi cura" del Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa, forse è questo il grande carisma di ogni mistica: pensiamo alla situazione della Chiesa al tempo di Caterina da Siena. Elle se ne prese cura. Pensiamo alla condizione storica di Bologna e allo spezzarsi definitivo dell’unità colla caduta di Costantinopoli: di esse Caterina ebbe visioni profetiche.

L’unione del mistico col Cristo è così profonda che egli in Lui e con Lui assume su di sé tutto il mondo, tutto il peccato e le divisioni del mondo. Dimorando nel Cuore di Cristo, diventa cittadino del mondo intero.

La donna-mistica, che vive questa cittadinanza, la vive nel suo "prendersi cura": prendersi cura di ogni miseria, in Cristo.

Cari fratelli e sorelle, ringraziamo e lodiamo il Signore per aver dato Caterina alla nostra città. Ci ottenga di entrare veramente attraverso la porta della fede nel mondo che non passa, di passare dalle ombre alla Realtà. Così sia.

www.gloria.tv/?media=268373



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Caterina63
00martedì 6 novembre 2012 15:15
Incontri con Maria

 
di MARIA DI LORENZO

Finanziere, eremita, presbitero
     

Servo di Dio Quintino Sicuro, «una vita silenziosa che grida al mondo intero il primato della fede».
  

Non è una storia molto comune, anzi è probabilmente unica, l’esperienza di vita vissuta dal vicebrigadiere Quintino Sicuro che abbandonò la giubba grigia della Guardia di finanza per vestire i panni del prete eremita. Qualcuno dei lettori forse arriccerà il naso. Un eremita, e per di più sacerdote? Appare come una contraddizione evidente. Ma nulla, in verità, nella vicenda di questa singolare figura, di cui è in corso da alcuni anni la causa di beatificazione, si presenta con i caratteri dell’ovvietà, della scontatezza.

Don Quintino riposa ora in un sarcofago di arenaria, scavato da lui stesso dentro la roccia, appena fuori dall’eremo in cui visse, sul Monte Fumaiolo. Ma il suo spirito è vivo, la sua testimonianza attrae ancora con la forza profetica di una vita, come la sua, interamente donata al Signore. Una vita silenziosa che grida al mondo intero, col suo stesso silenzio, il primato della fede.

L'eremo di sant'Alberico.
L’eremo di sant’Alberico.

L’incontro con Dio. La sua storia comincia da lontano, da un paese del Salento, Melissano, in provincia di Lecce. Lì Quintino Sicuro era nato, il 29 maggio 1920, quinto di cinque figli, da una famiglia di modesti agricoltori. All’età di 12 anni aveva espresso il desiderio di farsi frate, ma non era riuscito a superare l’esame di ammissione; così aveva deciso di frequentare l’Istituto tecnico industriale di Gallipoli. Nel 1939 s’era quindi arruolato nella Guardia di finanza.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale il giovane salentino partecipa alle operazioni belliche sul fronte greco-albanese, salvandosi miracolosamente dall’eccidio di Cefalonia; in seguito come partigiano prende parte alla guerra di liberazione nazionale. Viene catturato dai nazifascisti, ma riesce a evadere in maniera rocambolesca dal carcere e, travestito da prete, raggiunge in bicicletta l’Italia del Sud già liberata.

Dopo la guerra Quintino riprende regolarmente servizio nella Guardia di finanza. È un giovane coraggioso e volitivo, dal carattere esuberante e incline alle passioni, non molto dissimile da tanti giovani d’oggi. Gli piace vestire bene ed essere sempre alla moda, lasciandosi pure travolgere da alcune avventure sentimentali, finché non conosce Silvia, una giovane maestra, con cui si fidanza e fa progetti di matrimonio.

Ma c’era come un’inquietudine in fondo al suo cuore che non lo lasciava mai, un tarlo interiore che non gli dava pace. Poco alla volta comprende che la sua strada è un’altra e, a 27 anni, lascia la Guardia di finanza per entrare nel convento dei Frati minori di Ascoli Piceno.

Vi resta solo due anni. Nell’autunno del 1949 giunge all’eremo di san Francesco presso Montegallo. Si sente chiamato a essere solo con Dio, alla più completa solitudine, che solo la vita eremitica può dare. «Non importa se il mondo mi dice pazzo. Basta che piaccia all’Amore!», scriveva ai suoi familiari, costernati per la sua scelta così radicale e, all’apparenza, così "folle".

Don Quintino Sicuro.
Don Quintino Sicuro.

Da Montegallo, quattro anni dopo, si sposta verso il Monte Fumaiolo, prendendo in custodia l’eremo di sant’Alberico. Quintino si lega intimamente a questo luogo, che ricostruisce e consacra con il suo esempio, il suo apostolato silenzioso, le dure penitenze, la straordinaria carità.

Vi arriva nel 1954, quando l’eremo è solo un rudere abbandonato: in pochi anni lo rimette in piedi, pietra su pietra con le proprie mani, lavorando e cantando a squarciagola, con la sua voce forte e stonata, splendidi canti alla Madonna.

Così trasforma un luogo tanto remoto e desolato, dove non arrivava quasi un raggio di sole, in una oasi di pace e di serenità spirituale dove tutti avrebbero potuto ritemprare il proprio spirito e cercare, trovandolo, l’incontro con Dio. «È impossibile dire le grandi gioie che si gustano al servizio dell’Amore», scriveva. Adesso era veramente felice.

Il patto con Maria. «Mi darò tutto al mio Signore, dissi, ma tu, Madre celeste, non mi abbandonare. Mi sforzerò di salire, se tu mi darai una mano». Era una specie di patto, un’intesa segreta, fra lui e Maria. A lei, che amava profondamente, don Quintino avrebbe attribuito la grazia del suo sacerdozio. Ci pensava da molto tempo, ma oramai era molto avanti negli anni, e in più, non avendo fatto studi letterari, la sua cultura era piuttosto scarsa.

Si impegnò nello studio fino allo spasimo e il 30 novembre 1959 venne ordinato sacerdote. Per l’occasione volle recarsi a Lourdes per ringraziare la Madonna, facendo tutto il percorso a piedi.

In questo modo si realizzava la sua originale, duplice vocazione: di prete ed eremita. Tanti, giovani soprattutto o persone in ricerca, salivano fino al suo eremo per parlare con lui, per confessarsi e avere consigli. Don Quintino diventa un punto di riferimento per molti.

«Tutta la vita moderna – diceva – è un anelito verso Dio, anche se inconscio o non confessato o rinnegato. Il desiderio dell’uomo di oggi di conoscere il futuro, l’ansia di andare sempre più veloce, più lontano e più in alto, l’affanno di scoprire cose nuove, l’ossessione di rendere la vita sempre più comoda e l’aumentata insoddisfazione di tutto, per me sono la manifestazione dell’anelito, del bisogno che l’uomo ha di Dio; gli sforzi che fa, sono per raggiungerlo».

In divisa quando era vicebrigadiere della Guardia di finanza.
In divisa quando era vicebrigadiere della Guardia di finanza.

In quella freddissima gola del Monte Fumaiolo, a oltre mille metri di altezza dell’Appennino romagnolo, c’era un uomo che dalla mattina alla sera, nel silenzio del suo eremo, rendeva continuamente grazie a Dio. Un uomo che non dormiva su un materasso, ma sopra una dura tavola, avendo una pietra come cuscino, che viveva della carità degli altri e, spesso, masticava fili d’erba per placare i morsi della fame. Un uomo che nel suo eremo accoglieva tutti, peccatori e sbandati, e per ciascuno aveva una parola buona; che non sapeva disquisire di filosofia o teologia, però viveva il Vangelo.

Presto santo. La mattina del 26 dicembre 1968 don Quintino doveva celebrare una Messa al Monte Fumaiolo e benedire l’impianto della sciovia, che si inaugurava proprio quel giorno. Una macchina andò a prenderlo alle scalette di sant’Alberico, senonché la strada era tutta ghiacciata poiché durante la notte era nevicato. La vettura arrancava a fatica, e più di una volta i passeggeri furono costretti a scendere e a spingerla sulla strada lastricata di ghiaccio.

Quando finalmente arrivarono a destinazione, don Quintino ebbe appena il tempo di caricarsi lo zaino sulle spalle che si accasciò improvvisamente a terra, stroncato da un infarto.

Il 1° novembre 1985 il vescovo di Cesena e Sarsina, mons. Luigi Amaducci, ne ha introdotto in sede diocesana la causa di beatificazione e canonizzazione, processo che si è concluso il 28 agosto 1991; quindi due anni dopo, nel 1993, gli atti processuali sono stati trasferiti a Roma, presso la Congregazione per le cause dei santi, in attesa di vederlo presto elevato, come si spera, all’onore degli altari.

Maria Di Lorenzo
  

Invito all’approfondimento:E. Ostolani, Il servo di Dio don Quintino Sicuro, Stilgraf 2005, senza indicazione pagine, sip; Associazioni "Amici di don Quintino" di Melissano, Sarsina e Montegallo (a cura di), Scritti del servo di Dio don Quintino Sicuro, Centro stampa piceno 2005, senza indicazione pagine, sip.
 

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