Croce al centro e comunione in ginocchio: arbitrio o possibilità?

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Caterina63
00mercoledì 25 febbraio 2009 10:05

lunedì 23 febbraio 2009

RdR/Croce al centro e comunione in ginocchio: arbitrio o possibilità?

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di Daniele Di Sorco


Premessa

Tra i cambiamenti introdotti di recente nelle funzioni papali su iniziativa di Benedetto XVI, due sono quelli che hanno suscitato maggior interesse: la collocazione della croce al centro dell’altare e la distribuzione della Comunione ai fedeli inginocchiati [1]. È innegabile che queste scelte, pur riallacciandosi all’antica tradizione liturgica della Chiesa latina, costituiscono una novità, non solo rispetto allo stile celebrativo dei precedenti Pontefici, ma anche rispetto alla prassi comune di quasi tutte le Chiese di rito romano.

Il dibattito che ne è seguito basterebbe da solo a testimoniare l’importanza della questione.

In effetti, la posizione della croce e il modo di amministrare la S. Comunione riguardano direttamente, benché in modo diverso, la duplice dimensione, sacrificale e sacramentale, dell’Eucaristia. La croce con l’immagine del Crocifisso, infatti, è l’elemento che rappresenta visivamente tanto il sacrificio di cui la Messa è rinnovazione incruenta [2], quando lo stretto legame che unisce Cristo, offerente e vittima, al sacerdote che agisce in sua persona [3]. La Comunione, poi, è il momento culminante dell’azione liturgica per quei fedeli che, accostandosi alla sacra mensa, ricevono non solo la grazia sacramentale, ma anche la fonte e l’autore della grazia, Gesù Cristo, realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità sotto le specie del pane e del vino [4].

Poiché questi due misteri – la morte redentrice del Cristo e la sua riattualizzazione sacramentale – costituiscono il centro della religione cristiana [5], la loro traduzione sul piano rituale non può essere in alcun modo lasciata al caso o trattata con approssimazione. La necessità dei riti liturgici, come mezzo sensibile per elevare la mente dei fedeli alla contemplazione delle realtà spirituali da essi significate, è stata messa bene in luce dai Padri tridentini [6]. Si tratta di una verità che la Chiesa ha sempre creduto e messo in pratica [7]. Chi la ridimensiona o ne sminuisce la portata dimostra di misconoscere la natura umana, la quale, essendo al tempo stesso sensibile e razionale, «non può elevarsi facilmente senza sussidi esteriori alla meditazione delle cose divine» [8]. E, del resto, l’esperienza insegna che, laddove il culto è oggetto di scarse attenzioni, anche la dottrina non gode sorte migliore.

Ho ritenuto necessario mettere in chiaro questi presupposti perché appaia con tutta evidenza che la discussione sull’opportunità di certe scelte liturgiche non è affatto oziosa, vana o inutile. Dall’efficacia del simbolo dipende la possibilità di elevarsi alla verità che esso rappresenta. Perfettamente consapevole di questo principio, sintetizzato dagli antichi nel celebre adagio «lex orandi, lex credendi», la Chiesa ha sempre prestato la massima attenzione, non solo alla dimensione soprannaturale, ma anche all’aspetto esteriore e sensibile del culto. E l’attuale Pontefice, nei suoi scritti e nella pratica, ha più volte ribadito tale concetto.


La prassi attuale

Tornando ai due elementi rituali che sono oggetto del nostro scritto, è possibile osservare che la prassi oggi prevalente nelle chiese di rito romano prevede che la croce sia collocata a fianco dell’altare o dietro di esso, e che i fedeli ricevano la Comunione stando in piedi. Si tratta, com’è noto, di due significativi cambiamenti rispetto alla normativa vigente nel diritto liturgico antico, che voleva la croce al centro dell’altare e la Comunione distribuita ai fedeli inginocchiati.

Introdotte contestualmente alla promulgazione dei Messale riformato (con qualche ritardo o anticipazione a seconda dei luoghi), le due modifiche in questione furono motivate in vario modo. La croce, in seguito alla nuova dislocazione degli altari prevista (anche se non imposta) dalla riforma liturgica, veniva evidentemente considerata un ostacolo che impediva al celebrante e al popolo di guardarsi. Quanto alla Comunione, la possibilità di riceverla in piedi fu giustificata col ripristino di un uso arcaico, ancora osservato in molti riti orientali, che avrebbe avuto, secondo i riformatori, il vantaggio di incentivare la partecipazione attiva e cosciente dei fedeli al sacro rito [9]. Una diffusa tendenza a considerare vincolanti certe indicazioni puramente facoltative ha fatto sì che tali riforme entrassero nella pratica generale.

È noto che da qualche tempo il maestro delle cerimonie pontificie ha ripristinato, per questi due elementi, l’uso antico [10]. Tale decisione ha suscitato reazioni di segno opposto. Alcuni l’hanno giudicata positivamente e hanno auspicato una sua più larga diffusione nelle chiese locali. Per altri, invece, si tratta di una «moda» passeggera, frutto di idee personali del Papa e destinata a non durare a lungo.

Nonostante la divergenza di opinioni, sembra che tanto i primi quanto i secondi si accordino su un punto: la mancanza di idee chiare circa la compatibilità dell’uso antico con le norme liturgiche universali attualmente in vigore. La domanda che molti si pongono può essere così sintetizzata: la prassi introdotta di recente nella cappella papale va considerata una deroga alle leggi generali – consentita al Papa in quanto supremo legislatore, ma non agli altri – oppure una legittima possibilità contemplata dai libri liturgici?

Stante questa situazione di incertezza, ci proponiamo, col presente articolo, di dare uno sguardo al diritto liturgico in vigore per quanto riguarda la posizione della croce e il modo di amministrare la Comunione, di spiegare le ragioni in favore dell’uso antico e, infine, di fornire alcune indicazioni pratiche. Inutile dire che la nostra trattazione si riferisce soltanto alla forma ordinaria del rito romano: nella forma straordinaria la croce dev’essere sempre situata al centro dell’altare [11] e la Comunione ricevuta in ginocchio [12].


Il diritto liturgico

Per quanto riguarda la posizione della croce, l’Ordinamento generale del Messale romano ci fornisce tutte le indicazioni necessarie. Sarà, quindi, sufficiente elencarle, spiegarle e trarne le logiche conseguenze.

Innanzi tutto, la croce è annoverata tra le suppellettili indispensabili per la celebrazione della Messa, non solo all’interno di un luogo sacro, ma anche fuori di esso: «La celebrazione dell’Eucaristia, nel luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, la croce e i candelabri» [13].

Alla sua importanza sul piano simbolico si allude nella rubrica precedente, affermando che sull’altare «si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce» [14]. Più oltre si legge che la funzione della croce consiste nel «ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore» [15]: essa, pertanto, dovrebbe restare «vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche» [16]. Del resto, se pensiamo che nella tradizione ecclesiastica, tanto occidentale quanto orientale, l’altare rappresenta simbolicamente Gesù Cristo [17], non sarà difficile comprendere che la croce posta sopra di esso assolve l’indispensabile compito di rendere esplicita tale corrispondenza.

Quanto alle caratteristiche e alla posizione della croce, l’Ordinamento generale prescrive: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» [18]. Collocare la croce sopra l’altare è, dunque, perfettamente legittimo. Ma si può dire di più. Poiché, nella formulazione delle leggi liturgiche, le possibilità alternative vengono di solito disposte in ordine di preferenza, sembra che la dislocazione della croce sopra l’altare sia non soltanto permessa, ma, a parità di condizioni, raccomandata.

Le rubriche non forniscono nessuna indicazione, neppure indiretta, circa il punto preciso dell’altare sul quale dovrebbe trovarsi la croce. La scelta, quindi, spetta ai rettori delle singole chiese. E nulla impedisce loro di conformarsi all’uso antico che prevede la collocazione della croce al centro, davanti al sacerdote celebrante, a condizione che le altre disposizioni stabilite dalle rubriche siano rispettate.

Chiarita la questione della croce, resta da trattare quella della Comunione. Sull’argomento, il testo italiano dell’Ordinamento generale non brilla per perspicuità. In esso si afferma che «i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale» [19]. Viene spontanea una domanda: la congiunzione «o» ha valore esclusivo o inclusivo? Nel primo caso i fedeli dovrebbero adeguarsi all’unica modalità prescritta dalla Conferenza Episcopale, mentre nel secondo entrambe le modalità sarebbero possibili, a patto che la Conferenza Episcopale abbia autorizzato la Comunione in piedi.

Per avere una risposta sicura è necessario ricorrere al testo latino, nel quale il termine corrispondente ad «o» è «vel» (inclusivo) [20]. Ne consegue che, secondo il diritto liturgico oggi vigente, ricevere la Comunione in ginocchio non è affatto proibito, neppure nei luoghi in cui la Conferenza Episcopale ha autorizzato la Comunione in piedi, ma si configura, per lo meno, come legittima possibilità.

Bisogna ammettere, tuttavia, che, per come è esposta nelle rubriche del Messale italiano, la norma che abbiamo appena analizzato si presta a numerosi fraintendimenti, dal momento che la sua corretta interpretazione è legata a una sottigliezza linguistica. Molti, in effetti, ritengono in buona fede che la Comunione in piedi, nei paesi in cui è stata autorizzata, sia un obbligo a cui tutti i fedeli devono attenersi. Queste incertezze hanno dato luogo a diverse situazioni incresciose. Appare dunque indispensabile ricorrere ad altre fonti del diritto liturgico nelle quali il problema in esame sia affrontato ex professo e, quel che più conta, con maggior chiarezza.

Per nostra fortuna, esistono due documenti della S. Congregazione per il Culto Divino che consentono di risolvere la questione in modo definitivo.

Si tratta di due lettere del 1° luglio 2002, invitate, rispettivamente, a un Vescovo e a un laico [21]. Costoro, di fronte al fenomeno di alcuni sacerdoti che erano soliti negare la Comunione a chi si presentava a riceverla in ginocchio, si domandavano se tale atteggiamento fosse lecito. In entrambe le risposte, la Congregazione, dopo aver dichiarato che «qualsiasi rifiuto della Santa Comunione ad un fedele sulla base del suo modo di presentarsi sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti del fedele cristiano, precisamente quello di essere assistito dai suoi Pastori per mezzo dei Sacramenti (CIC 213)», coglie l’occasione per precisare il senso della rubrica sopra esaminata: «Anche ove la Congregazione abbia approvato norme sulla posizione del fedele durante la Santa Comunione, in accordo con gli adeguamenti ammessi alla Conferenza Episcopale dall’Institutio Generalis Missalis Romani, 160, comma 2, ciò è stato fatto colla clausola per cui su tale base non si potrà negare la Santa Comunione ai comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi».

Confrontando queste disposizioni con l’Ordinamento generale del Messale, si possono trarre due conclusioni che riassumono in sé tutta la normativa attuale in materia. Primo, la distribuzione della santa Eucaristia ai fedeli inginocchiati è una prassi del tutto legittima. Secondo, spetta al singolo fedele, senza bisogno di previo accordo col celebrante (salvo ragioni particolari), scegliere la posizione che preferisce: la Congregazione parla infatti di «comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi» [22].

Da tutto ciò emerge che ricevere la Comunione in ginocchio non è semplicemente una legittima possibilità, ma un vero e proprio diritto di ciascun fedele, che nessun sacerdote può negare, limitare o ignorare [23].


Ragioni a favore dell’uso antico

Abbiamo fin qui cercato di rispondere alla domanda che dà il titolo al presente articolo. Prima di concludere con alcune indicazioni pratiche, resta da vedere se questo uso antico, di cui abbiamo dimostrato la legittimità giuridica, offra anche dei vantaggi a livello liturgico e pastorale rispetto alla prassi comune.

A proposito della posizione della croce, il card. Ratzinger osserva: «Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui, il trafitto (Zc 12, 10; Ap 1, 7)» [24]. E motiva la sua proposta con argomenti che a me paiono molto convincenti:

«Nella preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi l’uno con l’altro, e tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un uso esagerato e malinteso della “celebrazione rivolta al popolo” si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell’altare perfino nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo. La croce sull’altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento. Essa è l’iconostasi, che è scoperta, non ostacola l’andare l’uno verso l’altro, ma media e significa pure per tutti l’immagine che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione “versus populum”. Diverrebbe così nuovamente ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione “conversi ad Dominum”: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore» [25].

Mi limito ad aggiungere che, per costituire veramente un «punto comune di riferimento», la croce ha bisogno di essere collocata non solo sull’altare, ma anche in posizione centrale. Al centro della mensa eucaristica, l’immagine di Cristo crocifisso attira necessariamente su di sé lo sguardo, assolvendo bene la sua funzione simbolica; a lato dell’altare, per grande che sia, finisce per essere praticamente ignorata.

Per quanto riguarda la Comunione, riceverla in ginocchio, a mio avviso, favorisce nei fedeli un atteggiamento di maggior devozione, esprime in maniera visibile l’adorazione nei confronti di nostro Signore e costituisce una pubblica manifestazione di fede nella presenza reale [26]. A chi obietta che la disposizione interiore del comunicando non dipende dallo stare in ginocchio piuttosto che in piedi, rispondo che una delle funzioni del rito è appunto quella stimolare la pietà dei fedeli mediante un saggio uso dei segni esteriori che ci vengono offerti dalla nostra tradizione liturgica. E se è vero che, presa in se stessa, la posizione in piedi non esprime meno devozione di quella in ginocchio, è anche vero che, in una prospettiva storica, questo si verifica. La ragione è assai semplice. I riti non si limitano ad essere rivestimenti esteriori dell’immutabile Sacrificio dell’altare, ma plasmano la mentalità dei fedeli e, con essa, il loro sensus fidei [27].

Così, se per un orientale ricevere la Comunione in piedi è un atto di massima riverenza, perché così gli ha tramandato la sua tradizione, per un occidentale, abituato da secoli a riceverla in ginocchio, passare improvvisamente da un atto di riverenza maggiore a uno minore non è indifferente. Nel migliore dei casi un simile cambiamento si limita a produrre un’impressione di disagio o di confusione. Nel peggiore indebolisce la fede nella Presenza Reale.

Non è un caso, dunque, che il card. Ratzinger si sia espresso a favore di questa pratica, scrivendo che essa «ha in suo favore una tradizione secolare, ed è un segno particolarmente eloquente di adorazione, completamente adeguato alla luce della presenza vera, reale e sostanziale di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» [28].

Per concludere, mi sembra opportuno rilevare come, nei due casi presi in esame, il ripristino dell’uso antico non si configura affatto come una sterile operazione di archeologia liturgica o di antichizzazione del rito. Si tratta, piuttosto, di un'iniziativa che prende le mosse da un principio tanto evidente quanto trascurato: quando le rubriche ammettono diverse possibilità, la prassi più comune non è necessariamente la migliore. I singoli pastori di anime dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia pastorale delle scelte liturgiche da essi operate, senza avere timore, se le norme lo consentono, di adottare una soluzione diversa. Il popolo, dopo un’opportuna catechesi, capirà e apprezzerà.


Indicazioni pratiche

Concludiamo il presente contributo con una serie di indicazioni utili per tradurre in pratica i princìpi teorici finora esposti.


1) Per la croce è preferibile servirsi del modello generalmente in uso prima della riforma liturgica, composto da una base, da un’alzata e dalla croce propriamente detta con l’immagine del Crocifisso. Esso consente di collocarla sull’altare senza bisogno di piedistalli inutili e poco decorosi, e di rimuoverla facilmente quando sia necessario. Quanto alle dimensioni, si ricordi che la rubrica prescrive una croce «ben visibile allo sguardo del popolo radunato» [29] ed anche, naturalmente, del sacerdote celebrante. Sarebbe bene, a mio avviso, che arrivasse più o meno all’altezza del volto del celebrante. In questo modo fungerebbe davvero da fulcro visivo della funzione, verso cui convergono gli sguardi di tutti, e, al tempo stesso, non impedirebbe al popolo la vista dell’altare e in particolare delle sacre Specie durante l’elevazione. Quando l’altare è versus populum, da che parte dev’essere rivolta l’immagine del Crocifisso? Le rubriche non lo specificano, poiché l’indicazione sulla visibilità appena citata si riferisce genericamente alla croce, non specificamente all’immagine del Cristo morente. Varie ragioni consigliano che il Crocifisso sia rivolto al celebrante. Così, infatti, voleva la tradizione antica [30] e così appare meglio, a mio avviso, lo speciale legame che esiste tra il Cristo raffigurato sulla croce d’altare e il sacerdote che agisce in sua persona. Tale soluzione, del resto, è quella adottata dal Santo Padre nelle funzioni da lui presiedute [31].

2) Avendo parlato del Crocifisso, è impossibile non dire nulla a proposito dei candelieri. Com’è evidente, essi non hanno più da molto tempo la funzione pratica di dar luce all’altare, ma conservano intatto il loro valore simbolico, che allude, con la fiamma, a Cristo luce del mondo, e, con la consumazione della cera, al sacrificio [32]. Si capisce, dunque, che relegarli in un angolo dell’altare (o addirittura fuori da esso), appaiati, piccoli, quasi invisibili, ha poco senso. Molto meglio sarebbe collocarli simmetricamente da una parte e dall’altra della croce [33], cui il loro simbolismo è strettamente connesso: non necessariamente accanto ad essa, ma anche, e preferibilmente, alle estremità laterali dell’altare, quasi a fare da cornice luminosa alla mensa divina. Quanti devono essere? La rubrica ne prescrive almeno due, ma nulla impedisce che siano quattro o sei [34] (sempre in numero pari, per ragioni di simmetria rispetto alla croce); non di più [35], quando l’altare è versus populum, e non troppo alti, per evitare, come ammoniscono le norme, che ostacolino eccessivamente la vista [36].

3) La Comunione può essere distribuita alla balaustra nelle chiese che ancora la conservano? Non credo vi sia nessun ostacolo a questa soluzione. La rubrica, infatti, ordina che i fedeli si rechino all’altare processionalmente [37]; ma non vieta che, una volta giunti davanti ad esso, si dispongano lungo la balaustra. Tuttavia, per chi non potesse o non volesse adottare questo sistema, è consigliabile disporre, all’entrata del presbiterio, un inginocchiatoio piuttosto grande, ricoperto di cuscini, che consenta ai fedeli che intendono comunicarsi in ginocchio di poterlo fare agevolmente. Conviene che la balaustra o la parte superiore dell’inginocchiatoio siano ricoperti, come avveniva anticamente, da una tovaglietta bianca [38], che alluda al loro uso come «tavola della Comunione» dei fedeli, simbolico prolungamento dell’altare [39]. Questa tovaglia non esime dall’uso, obbligatorio, del piattello [40]. Si ricordi che la scelta sul modo di fare la Comunione spetta al singolo fedele; pertanto, la distribuzione dell’Eucaristia alla balaustra o all’inginocchiatoio non deve costituire un impedimento per coloro che vorranno continuare a riceverla in piedi. È compito del celebrante ricordare nei momenti opportuni, sia durante la liturgia che negli incontri di catechesi, la possibilità di comunicarsi in ginocchio e le ragioni a favore di tale scelta, senza tuttavia trasformarla, esplicitamente o implicitamente, in un obbligo.

4) È necessario ricordare, infine, che l’ordinamento delle norme liturgiche universali, come quelle che riguardano la posizione della croce o il modo di ricevere la Comunione, compete unicamente alla Santa Sede [41]. Le Conferenze Episcopali e i singoli Ordinari non hanno la facoltà di abrogarle, modificarle o restringerne il senso, a meno che ciò non sia loro espressamente consentito dal diritto [42] (nel caso da noi preso in esame, alle autorità locali è concessa soltanto la possibilità di autorizzare la Comunione in piedi). Di conseguenza, laddove le rubriche ammettono diverse possibilità, la scelta spetta al sacerdote celebrante o, quando previsto, al fedele.



[1] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008. Il Papa, quando era ancora Cardinale, ha affrontato più volte l’argomento nei suoi scritti, esprimendosi a favore della collocazione centrale della croce e della possibilità di ricevere la Comunione in ginocchio.

[2] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 1-2: Denz. 938-940; can. 1-4: Denz. 948-951.

[3] Cfr. PIO XI, Enciclica Ad catholici sacerdotii (20 dic. 1935): Denz. 2275; PIO XII, Enciclica Mediator Dei (20 nov. 1947): Denz. 2300; Catechismo della Chiesa cattolica, 1566.

[4] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIII, cap. 1 e 3: Denz. 874 e 876; can. 1 e 4: Denz. 883 e 886; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, q. 65, a. 3.

[5] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 11; GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 apr. 2003), 1.

[6] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943.

[7] Cfr. Rom. 1, 20; TERTULLIANO, De corona, c. 2, 3, 4: PL 2, 98-99; S. BASILIO MAGNO, De Spiritu Sancto, 27, 66: PG 32, 188; S. GIROLAMO, Ad Vigilantium, nn. 8-9: PL 23, 362-363; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q. 81, a. 7. La definizione dogmatica risale al CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, can. 7: Denz. 954: «Si quis dixerit, caeremonias, vestes sacras et externa signa, quibus in Missarum celebratione Ecclesia catholica utitur, irritabula impietatis esse magis quam officia pietatis: anathema sit».

[8] CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943 («non facile queat [natura hominum] sine adminiculis exterioribus ad rerum divinarum meditationem sustolli»). Cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q. 81, a. 7: «Mens autem humana indiget, ad hoc quod coniungatur Deo, sensibilium manuducatione, quia “invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspiciuntur”, ut Apostolus dicit (Rom. 1, 20). Et ideo in divino cultu necesse est aliquibus corporalibus uti, ut eis quasi signis quibusdam mens hominis excitetur ad spirituales actus, quibus Deo coniungitur. Et ideo religio habet quidem interiores actus quasi principales, et per se ad religionem pertinentes; exteriores vero actus, quasi secundarios, et ad interiores actus ordinatos».

[9] Cfr. A. M. ROGUET, La cena del Signore: la Messa oggi, trad. it., Milano, 1970, p. 170.

[10] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008: «Il cambiamento è diversificato. Uno è stata la collocazione del crocifisso al centro dell’altare per indicare che il celebrante e l’assemblea dei fedeli non si guardano, ma insieme guardano verso il Signore che è il centro della loro preghiera. L’altro aspetto è la comunione data in ginocchio dal Santo Padre e distribuita in bocca. Ciò per mettere in evidenza la dimensione del mistero, la presenza viva di Gesù nella Santissima Eucarestia. Anche l’atteggiamento, la postura sono importanti perché aiutano l’adorazione e la devozione dei fedeli».

[11] Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales Missalis romani, 527.

[12] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit. V, cap. II, n. 4. Sebbene la rubrica che prescrive la genuflessione riguardi direttamente solo i chierici, essa si applica, per evidente analogia, anche ai laici.

[13] Ordinamento generale del Messale romano, terza edizione tipica, 297. Si noti che la terza edizione tipica italiana del Messale romano, il cui testo latino è stato pubblicato nel 2000, è ancora in fase di allestimento. Esiste però una versione ufficiale, approvata il 25 gennaio 2004, della Institutio generalis (= Ordinamento generale), che è quella attualmente vigente, nonostante i messali attualmente in commercio nel nostro Paese seguano ancora la seconda edizione tipica.

[14] Ibid., 296.

[15] Ibid., 308.

[16] Ibid.

[17] Cfr. P. RADÓ, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi Brisg.-Barcinone, 1961, vol. II, pp. 1408-1409.

[18] Ordinamento generale del Messale romano, 308.

[19] Ibid., 160.

[20] Missale Romanum, ed. typica tertia (2000), Institutio generalis, 160: «Fideles communicant genuflexi vel stantes, prout Conferentia Episcoporum statuerit».

[21] Pubblicate in Notitiae, nov.-dic. 2002.

[22] Ibid. A proposito della Comunione in piedi, è opportuno ricordare qui una norma spesso disattesa: «Quando [i fedeli] si comunicano stando in piedi, si raccomanda che, prima di ricevere il Sacramento, facciano la debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme [emanate dalla Conferenza Episcopale]» (Ordinamento generale del Messale romano, 160).

[23] È la stessa Congregazione per il Culto divino, in una delle due lettere menzionate, a mettere bene in luce questo punto: «Datasi l’importanza di tale questione, la Congregazione vorrebbe richiedere alla vostra Eccellenza che s’indaghi specificamente se questo prete abbia effettivamente l’abitudine di rifiutare la Santa Comunione a qualsiasi fedele nelle suddescritte circostanze; e, se la lamentela è comprovata, sia fermamente istruito a lui e ad altri preti che possano aver avuto una tale abitudine di evitare simili comportamenti per il futuro».

[24] J. RATZINGER, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Milano, 1984, pp. 129-136.

[25] Ibid.

[26] Per sottolineare meglio l’importanza degli atti esteriori come manifestazione efficace della fede, non sarà inutile ricordare un significativo episodio della vita di S. Elisabetta Anna Bayley Seton. Assistendo per caso a una Messa solenne nel santuario di Montenero (presso Livorno), la Santa, pur essendo ancora protestante, fu molto colpita dall’atteggiamento di devozione manifestato dai fedeli, tanto che ella stessa, intuendo il mistero della Presenza Reale (come avrebbe poi ammesso nei suoi scritti), si inginocchiò dinanzi all’altare. Si trattò della prima tappa di un percorso che l’avrebbe condotta ad avvicinarsi e poi a convertirsi al cattolicesimo.

[27] È questo, del resto, il senso autentico dell’adagio «lex orandi, lex credendi», messo bene in luce da PIO XI nella Costituzione Apostolica Divini cultus (20 dic. 1925): Denz. 2200: «Hinc intima quaedam necessitudo inter dogma et Liturgiam sacram, itemque inter cultum christianum et populi sanctificationem».

[28] Cit. nella Lettera della Congregazione per il Culto Divino sul diritto di ricevere la Comunione in ginocchio: Notitiae, nov.-dic. 2002.

[29] Ordinamento generale del Messale romano, 308.

[30] Cfr. Dizionario pratico di Liturgia romana, a cura di R. LESAGE, trad. it., Roma, 1956, p. 138.

[31] Non sarebbe meglio, osserveranno alcuni, che il Crocifisso della croce d’altare fosse rivolto non solo verso il celebrante (e i ministri dell’altare), ma anche verso i fedeli? Certamente sì. Tale condizione, però, è realizzabile solo in quelle rare chiese dove si è mantenuta la prassi (perfettamente legittima: cfr. Risposta della Congregazione per il Culto Divino, prot. n° 2036/00/L, 25 settembre 2000) di celebrare verso l’abside. Nelle altre, a meno che non si voglia dotare la croce d’altare di un Crocifisso su entrambi i lati (soluzione che a me pare poco conveniente) si impone una scelta. La migliore, a mio avviso, consiste nel tenere l’immagine del Cristo morente rivolta verso il celebrante, per le ragioni che ho esposto. Nulla impedisce, tuttavia, di collocare nell’abside – come pala d’altare o a completamento della pala già esistente – un’altra croce con Crocifisso rivolta verso i fedeli, in posizione centrale ed elevata. Questa soluzione trova un parziale riscontro nell’architettura tradizionale delle chiese valdostane, dove, sebbene la croce d’altare fosse visibile ai fedeli (poiché la celebrazione avveniva versus Deum), si era soliti collocare un Crocifisso di grandi dimensioni in alto, tra la navata e l’abside.

[32] Cfr. P. RADÓ, op. cit., vol. I, pp. 73-74.

[33] Così prevedevano (e prevedono ancora, per le celebrazioni nella forma straordinaria del rito romano) le norme in vigore prima della riforma liturgica postoconciliare: cfr. Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales Missalis romani, 527.

[34] Ordinamento generale del Messale romano, 117: «almeno due candelabri con i ceri accesi, o anche quattro o sei, specialmente se si tratta della Messa domenicale o festiva di precetto». Per la Messa «stazionale» del Vescovo diocesano il Caeremoniale Episcoporum (125 c) raccomanda di usare sette candelieri.

[35] Salvo nel caso della Messa «stazionale» del Vescovo diocesano: cfr. la nota precedente.

[36] Secondo l’Ordinamento generale del Messale romano, 117, i candelieri non devono impedire «ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare».

[37] Ordinamento generale del Messale romano, 160: «Poi il sacerdote prende la patena o la pisside e si reca dai comunicandi, che normalmente si avvicinano processionalmente».

[38] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit. V, cap. II, n. 1.

[39] Cfr. Enciclopedia liturgica, a cura di R. AIGRAIN, trad. it., Alba, 1959, p. 204.

[40] S. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Istruzione Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004), 93.

[41] Codex Iuris canonici, can. 838, § 2.

[42] Ibid., §§ 3-4.




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Caterina63
00mercoledì 25 febbraio 2009 10:15
Al tema stupendamente trattato dall'amico Daniele.. [SM=g1740721] ..vorrei condividervi anche la discussione che si è liberata nel Blog... [SM=g1740722]
www.rinascimentosacro.com/



25 commenti

Anonimo ha detto...
Mi trovate d'accordo sul posizionamento della croce al centro dell'altare, però per completezza vorrei sentire anche la voce di coloro che sono contrari a mettere la croce sull'altare e i candelieri perchè ritengono che l'altare una volta che rappresenta cristo deve essere libero da qualsiasi suppellettile.
Naturalmente, a seguito delle scelte operate dal maestro delle celebrazioni del papa ( va sottinteso che ciò è volontà del pontefice) di contro molti vescovi italiani incoraggiano mediante gli uffici diocesani liturgici affinchè l'altare rimanga libera da qualsiasi suppellettile sacro.
Infatti , le messe domenicali trasmese da Rai 1 presentano sempre più frequentemente l'latare libero e i celebranti vestiti con paramenti semplicissimi. Come dire "una sfida" educata e silenziosa alle scelte di Benedetto XVI.
Credo che i vescovi italiani e i sacerdoti abbiano scelto la linea soft contro "gli abusi" liturgici di Benedetto XVI al contrario dei loro colleghi di Francia, Germania, Austria, Olanda etc....

Gradirei quindi una più ampia discussione su ciò

23 febbraio 2009 9.46

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Religioso prete ha detto...
La discussione è complessa poichè si confondono i piani.
A filo di norme liturgiche, Papa Benedetto (e con lui il suo cerimoniere) fa delle scelte legittime, che sono espressione della sua sensibilità.
Resta tuttavia il fatto che talora tali scelte siano interpretate da alcuni come la delegittimazione della riforma pos conciliare, quasi che, finora, si fosse in un regime di anormalità liturgica.
Vediamo con ordine.
1) La croce ci deve sempre essere, e ben visibile, poichè ricorda il legame tra il Sacrificio eucaristico ed il sacrificio del Calvario; nondimeno il centro visivo della celebrazione rimangono le Sacre Specie, poichè lì è presente il Crocifisso-Risorto. Una bella croce come quella posta in San Pietro, messa al centro della Mensa, appare all'Assemblea come la prima cosa che balza allo sguardo...
in realtà la prima cosa che deve balzare allo sguardo è il Pane consacrato e spezzato (che infatti viene mostarto all'adorazione dei fedeli)
2) Il segno delle candele è un forte richiamo battesimale; deve esserci, ma mi pare curiosa la scelta fatta nella basilica Vaticana di questi candelieri imponenti, proporzianati alle dimensioni della chiesa, ma che di fatto diventano un muro davanti all'Assemblea.
3) Circola, anche su questo Blog, l'idea che la Messa coram populo sia una celebrazione orizzontale, ben diversa dalla celebrazione verticale versus Deum.
Ora, al di là delle denominazioni convenzionali, ogni celebrazione eucaristica è versus Deum; anche nella celebrazione detta coram populo tutta la comunità (presbitero e fedeli) è orientata alla mensa eucaristica; Cristo ci raduna per imbandire il banchetto del suo Corpo e del suo Sangue e darci un pegno dell'Eternità.

23 febbraio 2009 11.42


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daniele g. ha detto...
Ma secondo me i vescovi non fanno questa opposizione silenziosa: semplicemente non gliene frega niente dell'altare, della croce al centro e dei candelieri. Stesso discorso applicabile alla stragrande maggioranza dei parroci (tranne alcuni che hanno pagato di tasca loro e regalato alla parrocchia croce e completo di candelieri, ma ne conosco solo pochi) che sono in tutt'altre faccende affaccendati. Se uno prova a proporre di sistemare l'altare come quello del papa subirà la rivolta del parroco e del sagrestano che per pigrizia non vogliono cercare 4 o 6 candelieri uguali, poi spolverarli, poi metterli sull'altare... senza contare poi la maggiore spesa per le candele o la cera liquida. Meglio tenere sul tavolo un bel vasetto di fiori in plastica da una parte e una lampada di Aladino con un'unica fiamma dall'altra...

23 febbraio 2009 11.49

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Anonimo ha detto...
Daniele,
le cose non sono come pensi tu.

Ma è la sciatteria che circola nelle parrocchie, e la superficialità.

Il secondo post.

non penso che la croce al centro disturbi il popolo, semmai il celebrante che finirebbe di esser "il primo attore" con tanto di protagonismo e di veri "abusi liturgici".
Un acomunità matura, cosa che dubito da 40 anni ad oggi, porterebbe a comprendere maggiormente il valore del sacrificio di Gesù. L'adorazione delle specie consacrate sull'altare( impariamo a non utilizzare la parola cena , mensa, banchetto che provengono da una tradizione calvinista -luterana) rimane l' atto più importante . Ma quanti oggi sono disposti a inchinarsi o a prostrarsi davanti al Signore ?

23 febbraio 2009 12.29

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Anonimo ha detto...
Non c'è dubbio che un momento privilegiato in cui la croce (o il crocifisso) assume particolare significato è nella celebrazione eucaristica. La croce presiede tutta la celebrazione e, quindi, dev'essere posta in luogo visibile, non necessariamente sull'altare. Nel corso della storia della liturgia romana ci sono stati usi e sensibilità diverse. Prima del secolo XII/XIII, all'infuori di qualche tovaglia, non si metteva altro sull'altare: né croce, né candelieri, ne fiori... Noto che l'altare fa riferimento sia alla tavola dell'ultima cena sia al sacrificio della croce; è perciò al tempo stesso mensa o tavola e ara o altare.
Le diverse epoche hanno espresso diverse sensibilità nella fedeltà alla medesima fede eucaristica. Dal Vaticano II in poi si è sottolineata la dimensione conviviale dell'eucaristia (cosa legittima) e quindi si è preferito un altare mensa o tavola.
M.A.

23 febbraio 2009 12.34

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Caterina63 ha detto...
Religioso prete ha detto...

La discussione è complessa poichè si confondono i piani.
A filo di norme liturgiche, Papa Benedetto (e con lui il suo cerimoniere) fa delle scelte legittime, che sono espressione della sua sensibilità.
Resta tuttavia il fatto che talora tali scelte siano interpretate da alcuni come la delegittimazione della riforma pos conciliare, quasi che, finora, si fosse in un regime di anormalità liturgica.


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Bè che ci sia stato per 40 anni un regime di anormalità liturgica è palese, da 40 anni SUBIAMO una dottrina sulla Messa che non è più collegata al SACRIFICIO MA SEPARATAMENTE ALLA MENSA, AL BANCHETTO... ma non solo....lo ha ripetuto Ratzinger sia da Cardinale quanto da Pontefice...il Summorum Pontificum cura, MP, ne è la testimonianza scritta più MAGISTERIALE che abbiamo, se non basta questo per RIPORTARE sull'Altare ciò che abusivamente fu tolto, non andiamo a cercare altrove altre spiegazioni o peggio, altre giustificazione a NON accogliere l'invito del Papa...
^__^

C'è un altro aspetto da considerare, Benedetto XVI nel firmare l'Opera Omnia del suo magistero uscita in giugno 2008, scrive nella Prefazione a proposito della Croce sull'Altare:

" Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo."
(Benedetto XVI 29 giugno 2008 )

Il problema, denunciato per altro dallo stesso Ratzinger che da 40 anni si occupa anche di Liturgia, è stato quello che eliminando la Croce dall'Altare si è separata la DOTTRINA DEL SACRIFICIO preferendo esclusivamente quello della MENSA, l'Altare così è apparso con una nuova dottrina NON cattolica, APPARECCHIATA SOLO PER LA MENSA, MA NON PER IL SACRIFICIO,da qui la degenerazione degli abusi attorno ALLA MENSA e la stessa Messa non identificata più nel SACRIFICIO ma solo nel BANCHETTO...
Il ritorno del Crocefisso sull'Altare RIPRISTINA invece la dualità insieme, INDIVISIBILE, e del Sacrificio e del Banchetto....

Vale ciò che disse Ratzinger:

" La vera educazione liturgica non può consistere nell'apprendimento e nell'esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione nell'actio essenziale, che fa la liturgia, nell'introduzione, cioè, alla potenza trasformante di Dio, che attraverso l'evento liturgico vuole trasformare noi stessi e il mondo.

A questo riguardo l'educazione liturgica di sacerdoti e laici è oggi deficitaria in misura assai triste.
Qui resta molto da fare."
[Tratto da: Introduzione allo spirito della liturgia, pagg. 167-172]


(un grazie a Daniele per il testo che ci ha donato...^__^)

23 febbraio 2009 13.09

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Anonimo ha detto...
Oggi più che mai si è aperta una "voragine" se rinunciare all'idea che il CVII fu un punto di partenza e non di arrivo e quindi considerarlo "rottura" con quello che c'è stato prima , buona parte del II millennio del cristianesimo, oppure considerarlo CONTINUITA'nella Tradizione .

Molti preferiscono la rottura perchè più conveniente e vedono negli atti del papa attuale un ritorno non alla sana e retta Tradizione ma ad un generico passato, cos' continuano a catechizzare bambini, adulòti, e si servono sopratutto dei movimenti natidopo il CVII per fr si che il modo attuale delle cose non cambi.
Solo una mnete più libera può effettivamente vedere come si sia andato verso una protestatizzazione della messa e come anche l'arredo liturgico cambi nome ma altare a mensa banchetto, da specie eucaristiche a pane spezzato, da sangue di Cristo a vino versato, da sacrificio eucaristico a santa cena, dalla genuflessione utilizzata più dai laici agli inchini al sacramento utilizzato dalle suore e dai asacerdoti etcc.........

23 febbraio 2009 13.25

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Caterina63 ha detto...
Anonimo ha detto...

Oggi più che mai si è aperta una "voragine" se rinunciare all'idea che il CVII fu un punto di partenza e non di arrivo e quindi considerarlo "rottura" con quello che c'è stato prima , buona parte del II millennio del cristianesimo, oppure considerarlo CONTINUITA'nella Tradizione .

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Concordo....infatti ciò che si dovrà fare e ciò che dobbiamo fare è ricucire questo strappo....
Come ebbi a dire anche in altra occasione, una persona che si definisce atea mi ebbe a dire: " è ridicolo che vogliate ora difendere i crocefissi sui muri quando VOI per primi li avete tolti dagli Altari..."

questa frase mi gelò il sangue, aveva ragione!
Il chè non giustifica il non fare nulla per difendere la presenza dei Crocefissi sui muri degli Ospedali o nelle scuole...tuttavia questa considerazione apre un esame di coscienza NELLA CHIESA...

Il problema NON è il Concilio in sè...chiunque riduca i problemi che abbiamo dando la colpa al Concilio non ha compreso il vero dramma che la Chiesa sta vivendo ed anche subendo...
Non esiste a mio parere una idea di "arrivo o di partenza" associabile al Concilio, esso fu ed è un PERCORSO della Chiesa iniziato Duemila anni fa...senza un punto di arrivo o di partenza, ma di CONTINUITA'...^__^

Che il Concilio sia in continuità con la Tradizione lo dicono molti testi a partire quello di Giovanni XXIII nell'apertura....
tuttavia sarebbe da ciechi non dire che alla sua chiusura subentrarono VOCI E PARERI DISCORDI che pur non divenendo e non essendo l'autorità, divennero di fatto parte integrante di una volontà associata, attribuita al Concilio, alla Chiesa stessa con tutti i danni che ne sono derivati...è l famosa ermeneutica della discontinuità denunciata dallo stesso Ratzinger...


Il 22.12.2005 così parava Benedetto XVI alla Curia:

Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).

Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.

I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.

Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare.

23 febbraio 2009 14.16

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Anonimo ha detto...
Come inizio si dovrebbe avere il coraggio di far luce sul periodo post Concilio gestito da Mons Bugnini, Noè per arrivare all'epurazione di Mons Bartolucci dalla Cappella Sisitina, passando per la distruzione della Cappella Paolina, da me visitata dopo gli orrendi cambiamenti e mutilazioni d aparte di mons. Macchi, segretario di Paolo VI.
Quale furono le grandi responsabilità di questo Papa. che ebbe molto a soffrire per il bene della Chiesa, e che la fiction RAI ha presentato come un Papa da "cattolici adulti".

23 febbraio 2009 14.53

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Commento eliminato
Questo post è stato eliminato da un amministratore del blog.

23 febbraio 2009 15.15

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Anonimo ha detto...
Forse è utile una lettura meno traumatica dell'argomento dibattutto. Non c'è dubbio che la dimensione più evidente dell'Eucaristia sia quella del convito. Non si può tuttavia dimenticare che il convito eucaristico ha anche un senso profondamente e primariamente sacrificale. Le due dimensioni vanno insieme e simbolicamente sono presenti già nell'altare (mensa e ara). Il primo millennio che non ha collocato il crocifisso sull'altare non ha vissuto in un regime di anormalità liturgica.
M.A.

23 febbraio 2009 16.51

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Daniele ha detto...
Non si tratta di svalutare o di delegittimare la prassi in uso nel primo millennio, ma di considerare la questione in una prospettiva di continuità storica.

Le due dimensioni - sacrificale e conviviale - dell'Eucaristia sono di per sé presenti nel sacrificio eucaristico, indipendentemente dal modo in cui esso viene celebrato. In questo senso, neppure l'altare è un elemento strettamente necessario, e dubito che le comunità primitive attribuissero un significato simbolico (e quindi rituale) alla tavola sulla quale celebravano la Messa.

Col passare del tempo, la dottrina del sacrificio eucaristico è andata incontro a sempre maggiori approfondimenti, sia sul piano teologico, sia - conseguentemente - sul piano dell'applicazione rituale. Da un punto di vista liturgico, tale sviluppo si è configurato, il più delle volte, con l'esplicitazione di simbologie già presenti "in nuce" nelle cerimonie esistenti.

All'altare fu attribuito, in tempi molto antichi, il significato di mensa del convivio e ara del sacrificio. Col passare del tempo, si ritenne opportuno rende più esplicito il secondo aspetto (anche in seguito all'approfondimento della teologia eucaristica) collocando sopra di esso la croce. Non si trattò di un'"anomalia" rituale che veniva corretta, bensì di uno sviluppo che, senza rinnegare la tradizione, la ampliava.

Il problema, a mio avviso, si verifica quando tale sviluppo si trasforma in frattura. Ovvero, per citare il caso più frequente, quando si cerca di recuperare riti od elementi rituali di un passato ormai lontano, inserendoli in un contesto affatto diverso da quello originario.

È vero, infatti, che nel primo millennio non si usava la croce sull'altare. Ma è anche vero che il contesto liturgico dell'epoca era assai diverso da quello attuale (o da quello immediatamente precedente il Concilio Vaticano II).

Eliminare, a distanza di mille anni, una pratica liturgica che, appunto per la sua durata, è ben radicata nella psicologia dei fedeli, non è senza conseguenze. Tanto più che lo sviluppo rituale procede ordinariamente per approfondimento, non per diminuzione, dei simboli.

La prassi liturgica dei secoli antichi (quando sia possibile ricostruirla in modo attendibile) ha per il liturgista lo stesso valore che l'etimologia ha per il linguista: fornisce preziose informazioni sull'origine e sull'evoluzione di certi fenomeni, ma non è determinate per stabilire il loro significato attuale, che dipende da tutta una serie di altri fattori.

23 febbraio 2009 19.25

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Daniele ha detto...
A proposito della presenza della croce sull'altare, è interessante riportare ciò che scrisse Benedetto XIV nell'enciclica Accepimus praestantium (16 luglio 1746):

"Noi stessi abbiamo parlato di questa vecchia usanza di collocare la croce sull'altare, quando si compie il rito sacro, nei Nostri scritti Sul sacrificio della Messa, che da Noi sono stati composti in italiano; molti poi ne abbiamo aggiunti, quando gli stessi, tradotti in latino, sono stati pubblicati una seconda volta.

A questi aggiungiamo anche che, soprattutto a motivo dell’antichità di questa usanza, una grandissima devozione è stata sempre dedicata alla croce, la quale è collocata al centro dell'altare quando si celebra la Messa; gli stessi rinnovatori più ostili hanno avuto grande paura ad allontanarla dal centro, quando consacrano l'Eucaristia; di ciò è testimone il Gretser nel suo Trattato sulla Croce, al cap. 13, tomo I di quell'edizione, che alla fine è stata stampata.

In verità, se osserviamo l'usanza degli orientali, i Greci hanno stabilito di porre presso la porta principale del santuario, da entrambi i lati, le immagini di Cristo Signore e della Beata Vergine, e sopra l'altare la croce assieme al libro dei santi Vangeli.

Nella liturgia copto-araba, che, desunta dai manoscritti Codici Vaticani, è stata stampata nell'anno 1736 nel Collegio Urbano della Propaganda Fide, a p. 33 si prescrive al sacerdote celebrante di impartire al popolo la benedizione con la croce, che poi la baci e che la porga ad un diacono, perché la collochi sopra l’altare.

Infine il rito siriano dei Maroniti stabilisce precisamente le stesse disposizioni che abbiamo indicato più sopra e che sono prescritte nelle Rubriche del Messale Romano. Infatti il Patriarca Stefano così scrive: "Codesta usanza si sviluppò in tutte le Chiese, così che il simbolo della salutifera croce è posto sopra l'altare" (libro 2, trattato 2, 4).

Anche il Sinodo nazionale, che è stato convocato nell’anno 1736 sul monte Libano e che Noi stessi abbiamo convalidato con la Lettera apostolica Sulla sacrosanta Messa, così stabilisce: "Sull'altare sia collocata, nel mezzo, la croce; ai suoi lati, almeno due candelabri con le candele accese, da una parte e dall'altra" (§ 2, cap. 13)".

23 febbraio 2009 20.05

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Anonimo ha detto...
Non si tratta di frattura né di recuperare riti od elementi rituali di un passato ormai lontano (accuse di comodo fatte spesso alla recente riforma liturgica). Si tratta semplicemente di esprimere in forma rituale una determinata sensibilità con cui "oggi" è considerata l'eucaristia. Se dopo Trento è stato necessario sottolineare e difendere la dimensione sacrificale dell'eucaristia, oggi possiamo anche rivalutare, in armonia e senza rotture col passato, la sua dimensione conviviale.
M.A.

23 febbraio 2009 21.54

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Anonimo ha detto...
La dimensione conviviale però avviene mediante una lettura riformata e non certo seguendo la Tradizione della Chiesa dei primi secoli, poichè come giustamente è statodetto a volte le fonti sono rare e naturalemte la liturgia nei secoli si è sempre più approfondita.

Ma dopo il CVII, l'approfondimendo è diventato essenzialità, semplicismo dei riti , secondo la mentalità di voler ritornare alle fonti.
Le fonti dei primi secoli, tolgiendo le belle scritture dei padri , a volte sono lacunosi sul modus in cui i cristiani celebravano l'Eucaristia.

Quindi convivio, ma non con lettura in modo orizzontale, ma guardando sempre a "colui che hanno trafitto" . La conseguenza è semplice, colui che si è sacrificato per la salvezza di tutti gli uomini si fa dono speciale nelle specie eucaristiche e un rimando e un voler entrare nel mistero e una anticipazione della gloria dell'Agnello.

23 febbraio 2009 22.05

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lycopodium ha detto...
“I gesti della liturgia se non ricreati e/o riscoperti nella loro validità dirimente diventano entropici” (L. Codemo)
Io non saprei dire di meglio!
Però la questione dell’altare “versus populum” difficilmente può coincidere con quella della “comune partecipazione alla mensa eucaristica”, né si può risolvere dicendo, come nei nostri gruppi giovanili, che “Gesù non ha costruito un ara sacrificale; si è messo a tavola con i suoi”.
Così si rischia di confondere il “segno profetico” (il pane e il calice del vino), l’ “evento fondatore” (il sacrificio della Croce) e la “reiterazione rituale dell’evento fondatore” (l’Eucaristia); la celebrazione eucaristica “prende” i segni profetici e li inserisce in una sequenza rituale che ci incorpora nel Sacrificio che ci costituisce. La Messa non è dunque la ri-presentazione dell’Ultima Cena, ma del Mistero Pasquale in toto (Croce – Risurrezione – Ascensione - Pentecoste). Ratzinger teologo (Festa della Fede) analogamente diceva che l’Ultima Cena detta il contenuto dogmatico dell’Eucaristia (l’istituzione, per usare un termine che oggi non piace), ma non la forma rituale.
Qual è la via di uscita “rituale”? Direi che la via d’uscita è proprio la dimensione “rituale”. E qui soccorrono l’etnologia e la fenomenologia della religione (in singolare convergenza con il dato dogmatico): un pasto rituale non è irrelato, ma dice sempre dipendenza da un sacrificio.
Come la tradizione cristiana ha recepito questa evidenza e l’ha iconizzata? In modo multiforme, certo. Ma l’iniziale tavola del Signore (non una tavola qualunque, ma sempre “dedicata”), anche quando era semplicemente tale, si è sempre pensata in comunione con l’avvenimento della Croce. Poi, a conferma, è venuta la scelta di erigere l’altare sulla tomba di un martire, cioè di chi più di ogni altro è stato esistenzialmente unito alla Croce di Cristo: ed ecco esplicitarsi il suo carattere di “ara del sacrificio”. Il progressivo “innalzamento” dell’altare non è stato, dunque, una perversione del primitivo celebrare (come sostiene un tedioso cliché), ma il recupero cristiano di un significato (ancora latente, per mera contingenza storica) ad un tempo pre-biblico, biblico e cristologico: l’altare come “luogo elevato”, dove avviene l’incontro decisivo tra la trascendenza del divino e il legame con l’umano (il Crocifisso stesso è innalzato).
È stato dunque il provvidenziale approdo all’autentica teologia liturgica dell’altare cristiano: in Cristo (altare, vittima e sacerdote) esso è inscindibilmente “ara del sacrificio (= la Croce)”, “mensa del sacro convito”, “santo monte della definitiva alleanza tra Dio e l’uomo”.
Che c’entra tutto questo con il “versus populum”? Il problema sono le discrasie generate dall’incongrua ricezione di questa modalità celebrativa.
È modalità celebrativa comunionale? Certo! Ma il pasto rituale, all’origine, non aveva la disposizione che noi moderni usiamo per pranzo e cena (che vediamo raffigurata nella Cena leonardesca e, con piatta e banale riproposizione, nelle messe di certi movimenti religiosi attuali): aveva un “capo-tavola”, decisamente più cogente.

E comunque “altare verso il popolo” non necessariamente significa (come in una acritica acquiescenza a ideologie assembleariste, orizzontaliste, negatrici del trascendente …) né altare “in mezzo (geometricamente parlando)”, né altare “sbattuto in faccia”.
È forse venuto il momento propizio di necessari radicali correttivi (nella mentalità e nelle realizzazioni), che la tradizione - non tanto e non solo “tridentina” - conosce bene: tanto per iniziare, l’intima connessione con il Crocifisso (iconostasi latina, la definiva Ratzinger teologo), il rilancio del presbiterio e delle soglie di accesso… e, infine, il ritrovamento del ciborio/baldacchino e del suo simbolismo (l’effusione dello Spirito).
La presenza del ciborio/baldacchino consentirebbe di integrare le diverse visioni celebrative (anche di chi vorrebbe che, durante il canone, tutti pregassero con lo sguardo “rivolto verso l’alto”): dal e ciborio il CROCIFISSO dovrebbe “discendere”, così sarebbe sospeso sopra l’altare, ma non direttamente a contatto, a modo di suppellettile.
E non sarebbe affatto senza significati teologico-liturgici.

23 febbraio 2009 23.18

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Daniele ha detto...
È errato affermare che la dimensione sacrificale della Messa sia stata sottolineata dal Concilio di Trento.

Dal punto di vista dottrinale, quel Sinodo non fece altro che definire dogmaticamente alcuni principii che i teologi avevano elaborato in tutti i loro dettagli da vari secoli. E si vuol dire che ciò fu fatto per ribadire la fede cattolica in un momento in cui essa rischiava di essere oscurata dall'eresia protestante, rispondo che oggi la situazione non è migliore, visti i continui attacchi che provengono (anche da parte cattolica) alla Messa come sacrificio e alla spaventosa ignoranza del popolo su questo punto.

Da un punto di vista rituale, il Concilio non innovò nulla. S. Pio V, che fece proprio l'incarico di riformare i libri liturgici, si limitò ad estendere alla Chiesa universale il Messale in uso a Roma e in molte altre diocesi, le cui cerimonie (ad eccezione di aggiunte poco importanti) risalivano a diversi secoli prima.

Lo sviluppo liturgico che ci fu dopo il Concilio di Trento, quindi, non presentò alcuna discontinuità rispetto alla tradizione anteriore.

Va precisato, poi, che la dimensione sacrificale della santa Messa è quella primaria e che tutte le liturgie storiche (occidentali e orientali) tendono a metterla in luce mediante simboli piuttosto eloquenti.

Non mi risulta che il Concilio Vaticano II o i Sommi Pontefici abbiano mai espresso, nei loro documenti, il desiderio che la Messa riformata dovesse sottolineare quell'aspetto conviviale che col passare del tempo si sarebbe attenuato. Ciò a cui l'assise vaticana intendeva dare impulso era la partecipazione attiva dei fedeli (concetto, del resto, che esisteva dai tempi di S. Pio X), sostenuta, s'intende, da una moderata riforma rituale che fosse in linea con la tradizione allora esistente (il Messale del 1965 è un'ottima espressione, sia pure perfettibile, della volontà del Concilio).

A dire il vero, l'attenuazione di alcuni simboli facenti esplicito riferimento al sacrificio furono motivati dai riformatori con ragioni di tipo "archeologico" (nonostante siffatto procedimento fosse stato condannato da Pio XII nella "Mediator Dei") o "ecumenico" (occorreva favorire il dialogo coi protestanti, i quali, com'è noto, non credono che la Messa sia un sacrificio).

Per ultimo, è necessario ribadire che l'efficacia psicologica dei riti è proporzionale alla loro continuità storica. Durante e dopo il Concilio non c'è stato, a livello magisteriale, alcun mutamento di "sensibilità" riguardo all'Eucaristia. Questo, invece, è stato introdotto da alcuni studiosi, sia per le ragione che ho esposto sopra, sia per una idiosincrasia, neppure troppo nascosta, verso la teologia medievale e tridentina, quasi che la concezione eucaristica del primo millennio, per essere più vicina alle origini, fosse anche più autentica.

Non è un mistero, poi, che in certi ambienti di studio "cattolici" non ci si fa scrupolo di insegnare che il concetto di Messa come sacrificio sarebbe stato "inventato" nel V secolo e sarebbe quindi, per ciò stesso, da rigettare. Ma questo esula dalla nostra discussione.

Fatto sta che la liturgia nuova, appunto per la sua discontinuità (anche sul piano visivo) rispetto a quella in vigore immediatamente prima, ha contribuito al diffondersi di una grande confusione circa l'essenza stessa dell'Eucaristia. Molti buoni cattolici ritengono in assoluta buona fede che la Messa sia esclusivamente un pasto fraterno, una festa comunitaria, un evento commemorativo. La dimensione sacrificale è totalmente estranea dalle loro menti. Non per colpa loro, ma perché nessuno glielo ha insegnato e perché il rito stesso non esprime più con la dovuta efficacia questo concetto.

Bisogna, dunque, abbandonare una concezione puramente sincronica della liturgia, in cui le singole cerimonie sono considerate in se stessi, per tornare a una sana visione diacronica, in cui i riti, come ogni linguaggio simbolico (non escluse le lingue parlate), hanno valore non solo in base alla loro origine, ma anche e soprattutto in proporzione alla loro continuità storica.

24 febbraio 2009 10.46

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Anonimo ha detto...
La croce al centro della mensa (l'altare è quello che le sta dietro!) è un timido compromesso che non accontenterà nessuno e non avrà seguito. Inutile perdere tempo a cincischiare quando la soluzione c'è già, e da duemila anni circa.

E altrettanto inutile opporre argomento ad argomento, sconfinando in qualche caso nell'autocaricatura del liturgista professionale. Qui non si tratta di difendere le buone ragioni per cui un preciso impianto liturgico è andato avanti per secoli e secoli, e tantomeno di attaccarle o di tentare improbabili mediazioni!

24 febbraio 2009 11.21

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Caterina63 ha detto...
Dice Daniele:

Non mi risulta che il Concilio Vaticano II o i Sommi Pontefici abbiano mai espresso, nei loro documenti, il desiderio che la Messa riformata dovesse sottolineare quell'aspetto conviviale che col passare del tempo si sarebbe attenuato. Ciò a cui l'assise vaticana intendeva dare impulso era la partecipazione attiva dei fedeli (concetto, del resto, che esisteva dai tempi di S. Pio X), sostenuta, s'intende, da una moderata riforma rituale che fosse in linea con la tradizione allora esistente (il Messale del 1965 è un'ottima espressione, sia pure perfettibile, della volontà del Concilio).

A dire il vero, l'attenuazione di alcuni simboli facenti esplicito riferimento al sacrificio furono motivati dai riformatori con ragioni di tipo "archeologico" (nonostante siffatto procedimento fosse stato condannato da Pio XII nella "Mediator Dei") o "ecumenico" (occorreva favorire il dialogo coi protestanti, i quali, com'è noto, non credono che la Messa sia un sacrificio).

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Ecco...questo è il cuore del problema....interessante anche il riferimento a Benedetto XIV...
^__^

Poi:

Anonimo ha detto...

La croce al centro della mensa (l'altare è quello che le sta dietro!) è un timido compromesso che non accontenterà nessuno e non avrà seguito. Inutile perdere tempo a cincischiare quando la soluzione c'è già, e da duemila anni circa.

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Non facciamo i diffcili,^__^ l'Altare è Altare anche quello davanti, sopratutto se è stato debitamente CONSACRATO, non come si sta lasciando fare al CN che usa altari NON consacrati DI PROPOSITO...e qui non si comprende perchè il Papa tace quando il CN sostiene che la Lettera del Card. Arinze sull'invito a celebrare Messa su altari conacrati, sia una lettera privata e priva di Normativa...


La Croce al centro dell'Altare dunque NON è un timido compromesso, al contrario è un riequilibrare la situazione, è un diritto del Crocefisso RITORNARE su quel CALVARIO che è l'Altare che poi si trasforma anche in Mensa...
^__^

24 febbraio 2009 14.20

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Anonimo ha detto...
Caterina63 (di cui apprezzo sempre gli interventi), in molti casi è molto più semplice rimuovere l'altare nuovo che sistemare candelabri e croce su quello nuovo, mi creda.

E nelle chiese antiche è anche più saggio, perché si ripristina la struttura così come era stata pensata dai suoi ideatori/curatori.

La proposta del Santo Padre è più che sensata, perché ricompone, almeno quando il calice con le particole consacrate è sulla mensa, l'unità di altare, crocifisso e tabernacolo. Ma è soluzione che accontenterà pochi e scontenterà molti (e i fautori delle mense e quelli dei vecchi buoni altari).

Forse i fatti mi daranno torto, ma io sarei pronto a scommettere che questa proposta di Benedetto XVI (e già del Cardinal Ratzinger) avrà poca fortuna. Le Messe post-V2 rimarranno in gran parte tali e quali.

Per fortuna (ma noi sappiamo che di Altro si tratta) questo grande Papa ha riaperto la via alle celebrazioni secondo la forma tradizionale del rito.

L'Anonimo di prima

24 febbraio 2009 18.15

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Caterina63 ha detto...
Caro "anonimo di prima" ^__^
indubbiamente concordo...sarebbe più sensato, l'ha almeno dove non è stato devastato...riportare l'uso dell'Altare esistente...ma come sappiamo si sono affrettati a devastare quel poco che è rimasto e bisognerà dunque accontentarsi delle macerie rimaste....
La grandezza di Dio sta anche nel fatto che si accontenta di questi sforzi...^__^

Sono anch'io pessimista sulla riuscita dell'iniziativa del Pontefice che da giugno che ha riportato la Comunione in ginocchio e la Croce sull'Altare, NESSUN VESCOVO e nessuna Parrocchia l'ha ancora imitato....
e guai aparlarne, ti rispondono: "il Papa sta a Roma, noi siamo qui...." provare per (tristemene)credere a questa cruda realtà...

Ma proprio per questo i così detti "Tradizionali" come la FSSPX, devono sforzarsi di accogliere la mano tesa del Papa e venirci a dare una mano....essi troveranno una Chiesa non completamente allo sbando, perchè non siamo in pochi a ragionare ancora come Benedetto XVI o come mons. Nicola Bux....^__^

ad majora!

24 febbraio 2009 21.08


Caterina63 ha detto...
scusate l'errore gravissimo di: "la" con l'acca....^___^

24 febbraio 2009 21.11


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lycopodium ha detto...
@ Daniele
"Bisogna, dunque, abbandonare una concezione puramente sincronica della liturgia, in cui le singole cerimonie sono considerate in se stessi, per tornare a una sana visione diacronica, in cui i riti, come ogni linguaggio simbolico (non escluse le lingue parlate), hanno valore non solo in base alla loro origine, ma anche e soprattutto in proporzione alla loro continuità storica".

Si e no. E' vero che la psicologia del linguaggio simbolico richiede una continuità. Ma è possibile anche che determinati valori si siano eclissati nel tempo e che vadano riproposti.
Per esempio, io penso al profondo simbolismo del ciborio/baldacchino, che costituisce l'epiclesi spaziale dell'anamnesi che è l'altare (anamnesi ed epiclesi sono i due polmoni della preghiera eucaristica). La presenza del ciborio trasfigura e di molto un qualunque presbiterio; anche solo cerimonialmente parlando, un bella fetta di abusi sparisce d'incanto.
Un altro aspetto da approfondire: le passate generazioni avevano un'adesione spontanea ai simbolismi della liturgia; oggi ce ne dobbiamo riappropriare, non in modo libresco e verbale, ma con tutto il nostro essere; il che può voler dire soprattutto non appropriarci della liturgia, ma farci conquistare da essa.
Questo discorso vale sia per il NO che per il VO, troppo spesso contrapposti in contese inutili e dannose.

24 febbraio 2009 21.56

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Anonimo ha detto...
sono un parroco di campagna e da quando ho letto il magnifico libro del Cardinale Ratzinger sullo spirito della Liturgia la Croce è stata messa in centro all'altare e accanto i sei candelieri.Stat Crux dum volvitur orbis...ma anche senza scomodare il bellissimo e tremendo motto dei Padri Certosini custodi e figli di quella Certosa che non è mai stata riformata perchè mai deformata ...l'altare versus pop. con la croce ha ricordato a me chi sono e che cosa ,qual grande mistero celebro ogni volta che dico Messa,ma anche ai miei parrocchiani è tornato assai utile il ripristino dell'altare per il Santo Sacrificio della Messa,altri miei confratelli si sono convinti della bontà e ormai della necessità di questa riforma.Quanto alla Comunione in ginocchio,tutti i Chierichetti si comunicano in ginocchio.Riportiamo nelle Chiese,nella Messa ,nelle celebrazioni la DEVOZIONE,è quello che manca.Ringrazio il Santo Padre per l'esempio. Dimenticavo venne un vescovo a celebrare e spostò la croce ,un parroco a la page venuto a celebrare per suoi amici nel giorno del matrimonio,io ero assente per l'oratorio,mandò la croce in sacrestia sotto lo sguardo allibito del chierichetto,un missionario di passaggio si spinse a fare tutta una predica contro la barricata sull'altare ero presen te e in sacrestia lo vidi solo impallidire,,,coraggio avanti col Papa sempre.Un parroco di campagna

25 febbraio 2009 7.48

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Caterina63 ha detto...
Stupendi e significativi gli ultimi due commenti per cui ringrazio
Iycopodium e l'Anonimo "parroco di campagna"....
faccio bene ad essere ottimista eh!?
^__^
Grazie pr le vostre riflessioni...


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Caterina63
00lunedì 31 dicembre 2012 14:56

Solo Comunione in ginocchio nella Genova del Cardinale Siri

 
Gli altari versus populum abbiano sempre, anche nel tempo in cui non si svolgono le azioni liturgiche i candelieri (non meno di due, o quattro, meglio sei) [...]
Sono infatti i candelieri che distinguono l’altare cattolico dall’altare acattolico e ciò è della massima importanza. [...]

Si consiglia, anche se la legge permette una maggiore libertà, di mantenere l’uso del Crocifisso sull’altare nella parte mediana in modo che il Celebrante e il popolo abbiano sempre visivamente ricordato che su quell’altare si celebra la rinnovazione dello stesso Sacrificio della Croce. [...]

Tra i due modi consentiti dalla legge generale per accostarsi alla santa Comunione, quello più consentaneo alla mentalità delle nostre popolazioni, è quello di porsi in ginocchio. Si prescrive pertanto di distribuire la santa Comunione al fedele inginocchiato. Non è ammessa nella Archidiocesi la Comunione in piedi. Qualora si presentassero fedeli, abituati ad altro cerimoniale si invitano garbatamente, ma fermamente a uniformarsi alle disposizioni diocesane.
 
[Citazioni tratte dal “Decreto sul culto all’Eucaristia e degli altari” emanato dal Cardinale Giuseppe Siri l'8 dicembre 1974].


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