«Quod si concorditer fieret, id ipsum fieret meliore successu; sed nulla esset gloria triumphantium» (De civitate Dei 5, 17)
Se il passaggio dal comunismo alla democrazia fosse avvenuto attraverso un compromesso avrebbe avuto un esito migliore. Ma non ci sarebbe stata la gloria di chi poteva dire di aver vinto il comunismo
di Lorenzo Bianchi
Sant’Agostino in un affresco del VI secolo, Laterano, Roma
Per chi legge il De civitate Dei, è evidente che ad Agostino non interessa una teoria sulla guerra, sulla pace, sul potere, sul cambiamento di regimi politici, sulle leggi civili. Agostino, partendo da quel fatto non dovuto che è l’avvenimento della grazia (fatto in cui egli stesso era stato ed era coinvolto gratuitamente), osserva realisticamente come la vita di questo avvenimento si svolge nel tempo del suo camminare qui sulla terra. Il De civitate Dei è una osservazione realistica di come questo avvenimento di attrattiva e libertà si svolge nel tempo. Gli incontri di questo avvenimento, le cose che può utilizzare per il suo cammino, le opposizioni persino cruente al suo esserci, soprattutto le alternative ideali alla gratuità del suo accadere. 1. De civitate Dei, libro 15, 21 In questo primo brano Agostino sta accennando al capitolo quarto e al capitolo quinto del Libro della Genesi. Sta dicendo che nel capitolo quarto è descritta tutta la discendenza di Caino. Il testo della Genesi, quando parla di Caino e della sua discendenza, dice che egli costruì una città (cfr. Gen 4, 17). Dopo la discendenza di Caino, il testo ricomincia con la discendenza di Adamo. Da Adamo ed Eva nacque Seth, che ebbe come figlio Enos. Enos, cioè colui che ha posto la speranza nell’invocare il nome del Signore (cfr. Gen 4, 25-26). Ma l’autore sacro, dopo aver accennato a questo, riprende dicendo: Quando Dio creò Adamo… (cfr. Gen 5, 1-2). Agostino suggerisce una sua ipotesi sul motivo per cui, dopo aver descritto la discendenza che viene da Caino e dopo aver accennato a Seth e a Enos, colui che ha posto la speranza nell’invocare il nome del Signore, l’autore sacro ricomincia con Quando Dio creò Adamo. Quod mihi videtur ad hoc interpositum, ut hinc rursus inciperet ab ipso Adam dinumeratio temporum, quam noluit facere, qui haec scripsit, in civitate terrena; tamquam eam Deus sic commemoraret, ut non computaret. / A me sembra che chi ha scritto queste cose abbia messo qui questo versetto [Quando Dio creò Adamo] per un preciso motivo, perché da qui, proprio da Adamo, nuovamente ricominciasse il computo dei tempi, cosa che l’autore sacro non volle fare per la città terrena; è come se Dio la ricordasse senza calcolarne il tempo. Potremmo dire: la città terrena vive un tempo senza memoria. La città terrena evidentemente vive nel tempo. Ma è come un tempo senza avvenimenti; quindi è un tempo senza memoria. Cioè un tempo che passa, che trascorre, ma che non cresce come memoria, anzi, come scrive Péguy, decresce. Un tempo che non è l’accadere di una storia che va da avvenimento ad avvenimento. È solo un tempo che scorre. Invece il tempo della città di Dio è un tempo che cresce, andando da inizio in inizio, con inizi che non hanno fine. Sed quare hinc reditur ad istam recapitulationem, postea quam commemoratus est filius Seth, homo qui speravit invocare nomen Domini Dei, / Ma perché si ricomincia con questa ripresa dall’inizio, dopo che è stato ricordato il figlio di Seth, l’uomo che ha posto la speranza nell’invocare il nome del Signore, / nisi quia sic oportebat istas duas proponere civitates, / se non perché a questo punto era necessario presentare le due città, / unam per homicidam usque ad homicidam / una che va da un omicida a un altro / (nam et Lamech duabus uxoribus suis se perpetrasse homicidium confitetur), / (infatti anche Lamech alle sue due mogli dice di aver commesso un omicidio), / alteram per eum, qui speravit invocare nomen Domini Dei? / l’altra che invece cammina attraverso l’uomo che ha posto la sua speranza nell’invocare il nome del Signore? / Hoc est quippe in hoc mundo peregrinantis civitatis Dei totum atque summum in hac mortalitate negotium […]. / Questa è infatti in questo mondo l’intera e somma attività della città di Dio mentre è pellegrina nella condizione mortale. La città di Dio non ha altro compito proprio in questo mondo che porre la sua speranza nell’invocare il nome del Signore. Se non si coglie questo, non si comprende il cuore con cui Agostino parla della pace, della guerra, del potere, delle virtù morali che hanno fatto grande Roma, da un lato così simili in un certo senso a quelle cristiane e dall’altro così tentate di orgoglio e quindi di empietà… Mentre i cittadini della città del mondo hanno il problema di costruire la città, il negotium, il compito, l’attività propria dei cittadini della città di Dio è porre la speranza nel domandare. Se si prescinde da questo totum atque summum negotium, non c’è interesse vero, umano a dare giudizi, per esempio sull’89 e sulle sue conseguenze. […] Filius ergo Cain, hoc est filius possessionis, (cuius nisi terrenae?) habeat nomen in civitate terrena. / Il figlio di Caino, cioè il figlio del possesso, (quale possesso se non quello delle cose della terra?) pone la sua consistenza nel dare il proprio nome alla città terrena. / […] Filius autem Seth, hoc est filius resurrectionis, / Il figlio di Seth, cioè il figlio della risurrezione, / speret invocare nomen Domini Dei; / ha come speranza l’invocare il nome del Signore; / eam quippe societatem hominum praefigurat quae dicit: Ego autem sicut oliva fructifera in domo Dei speravi in misericordia Dei; / rappresenta quella società di uomini che dice: come un ulivo fecondo nella casa del Signore spero nella misericordia del Signore; / vanas autem glorias famosi in terra nominis non requirat; / non cerca la vuota gloria della fama del proprio nome sulla terra; / beatus est enim vir, cuius est nomen Domini spes eius, / infatti è felice l’uomo la cui speranza è il nome del Signore, / et non respexit in vanitates et insanias mendaces. / e non si preoccupa delle cose vane e di devianti falsità. Il presidente russo Boris Eltsin in piedi su un mezzo blindato parla alla folla radunata nella piazza antistante il Parlamento di Mosca durante il colpo di Stato dell’agosto 1991
La città di Dio non cerca di essere famosa nel mondo, non cerca che il suo nome sia rinomato nel mondo perché è felice nel porre la speranza nel nome del Signore. Propositis itaque duabus civitatibus, / Avendo davanti agli occhi queste due città, / una in re huius saeculi, altera in spe Dei […] / una determinata dalle cose di questo mondo, l’altra che vive nella speranza di Dio «Una che vive nel possesso delle cose di questo mondo, l’altra che vive nella speranza di Dio», cioè, per usare le parole di Péguy, nella sorpresa, nello stupore della grazia di Dio. Questo stupore è solo un pegno, un anticipo, un inizio precario, eppure reale e certo. Quando Giovanni e Andrea Lo hanno incontrato, non era il possesso definitivo, che è proprio del Paradiso, ma era un anticipo reale di stupore certissimo. […] ut ex ipsa etiam comparatione vasorum irae / perché anche da questo paragone dei vasi d’ira / superna civitas discat, quae peregrinatur in terris, non fidere libertate arbitrii sui, sed speret invocare nomen Domini Dei. / la città di Dio che è pellegrina sulla terra impari a non fidarsi della propria libertà di scelta, ma riponga la speranza nell’invocare il nome del Signore Dio. / Quoniam voluntas in natura, quae facta est bona a Deo bono, / Poiché la volontà umana, creata buona dal Dio buono, / sed mutabilis ab immutabili, quia ex nihilo, et a bono potest declinare, ut faciat malum, / è mutevole, perché è creatura, e dal bene può abbassarsi fino a fare il male / quod fit libero arbitrio, / e ciò avviene per scelta libera, / et a malo, ut faciat bonum, quod non fit sine divino adiutorio. / ma che la volontà dal male faccia il bene, questo non avviene se non attraverso la grazia di Dio. Dentro la città del mondo c’è un’altra città, cioè un uomo o una comunità di uomini, che ha come totalizzante e suprema attività il porre la speranza nell’invocare il nome del Signore. Dentro questo orizzonte sono tutte le altre cose. Come scrive Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Infatti non è che i cittadini della città di Dio non abbiano interesse vero, umano per una vita sociale ordinata e in pace. Anche per loro la pace della città del mondo è una cosa veramente buona. Tanto è vero che, dentro quell’orizzonte (il porre la speranza nell’invocare il nome del Signore), possono usare meglio anche della pace terrena. 2. De civitate Dei, libro 5, 17, inizio Il secondo brano è tratto dal libro quinto del De civitate Dei. È un brano che da un lato dà conforto, qualunque sia la condizione mondana in cui la città di Dio si trova a vivere, e dall’altro dà il criterio ultimo di giudizio sul potere. Un criterio di giudizio così realistico che anche persone non credenti possono intuire ed evidenziare, come per esempio Alberto Asor Rosa in un articolo su la Repubblica dal titolo Il disegno dell’impero, scritto durante la guerra in Iugoslavia (cfr. A. Asor Rosa, Il disegno dell’impero, in la Repubblica, 6 aprile 1999, p. 1). Quantum enim pertinet ad hanc vitam mortalium, quae paucis diebus ducitur et finitur, / Per quanto riguarda questa vita di noi creature mortali, vita che trascorre e finisce in pochi giorni, / quid interest sub cuius imperio vivat homo moriturus, / che interesse ha sotto quale potere viva l’uomo che deve morire / si illi qui imperant ad impia et iniqua non cogant? / se coloro che esercitano il potere non obbligano a cose empie e cattive? «Impia et iniqua». Impia: Giovanni, il discepolo prediletto, nell’Apocalisse scrive che è diabolico rivestire il potere mondano, che pure è dato da Dio, di abiti religiosi. L’empietà cui possono obbligare coloro che detengono il potere è accettare tale rivestimento. D’altra parte gli empi per Agostino sono coloro che non hanno la grazia della vera pietas che consiste nel «porre la speranza nella grazia e nella misericordia del vero Dio» (De civitate Dei 5, 19: «Spes posita in gratia et misericordia veri Dei»). Agostino non condanna «con rancore», per usare il termine di Péguy, questa condizione umana, storica, di empietà. Se così fosse non avrebbe potuto valorizzare, fino a commuoversi, fatti e persone della storia di Roma. Invece l’empietà quale alternativa ideale alla vera pietas si dà quando a fatti mondani, terreni, si attribuisce valenza religiosa e valenza salvifica. Così quel passaggio di potere che è stato il 1989 è empio in quanto rivestito di immagini religiose e di aspettative salvifiche. Credere che il 1989, con il crollo del muro di Berlino, portasse di per sé fede e quindi salvezza agli uomini è una cosa empia. Agostino dice che ai cittadini della città di Dio basta che coloro che ci governano / illi qui imperant non chiedano questo. Et iniqua: cose inique. Da questo punto di vista potremmo dire che l’89 è stato di fatto un allargare spazi ai commerci della droga, della prostituzione, delle armi. Questo nella realtà è stato il 1989. Berlino, 10 novembre 1989: all’indomani della caduta del Muro, la folla si raduna davanti alla Porta di Brandeburgo
Aut vero aliquid nocuerunt Romani gentibus, quibus subiugatis imposuerunt leges suas, / E infatti che cosa altro hanno fatto di male i Romani quando ai popoli assoggettati hanno imposto le loro leggi / nisi quia id factum est ingenti strage bellorum? / se non che lo hanno fatto con grandi stragi di guerra? / Quod si concorditer fieret / Se invece avessero fatto la stessa cosa [per esempio il passaggio da un regime comunista a un regime più liberale] attraverso un compromesso / id ipsum fieret meliore successu; / la stessa cosa avrebbe avuto un esito migliore; Se quel passaggio si fosse svolto concorditer «attraverso un compromesso» avrebbe avuto un esito migliore. Non avremmo avuto in questi dieci anni stragi continue di guerre. O forse ci sarebbero state altre guerre, ma non direttamente derivate dalla modalità ideologica dell’89. sed nulla esset gloria triumphantium […]. / ma non ci sarebbe stata alcuna gloria di chi invece così poté proclamarsi vincitore. Se avessero realizzato una transizione attraverso un compromesso, non ci sarebbe stata la gloria di chi poteva dire di aver vinto il comunismo.