Dante poeta e teologo (l'umiltà dello storico), e pure profeta

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Caterina63
00giovedì 25 giugno 2009 07:48
Dante poeta teologo

L'umiltà dello storico
secondo Cacciaguida


di Davide Luglio
Université Paris-Sorbonne

In una nota del suo saggio Dante e Beatrice, Étienne Gilson confessava di aver sempre vagheggiato una certa "idea" della Divina Commedia:  che la forma "ideale" della teologia non si sia realizzata unicamente nelle opere formalmente teologiche, come in Tommaso d'Aquino, ma anche nella poesia, corrispettivo artistico e letterario di cui Dante ci ha fornito il migliore esempio.

Eppure quel che contraddistingue Dante, scrive Gilson, "è di aver scritto un immenso poema la cui materia è costituita di idee, ma che tuttavia non è affatto un poema didattico (...) in esso il bello non consiste nello splendore del vero, come nella Summa theologiae. La verità ne costituisce piuttosto la materia e la sua trasposizione poetica ha per risultato la bellezza. Se non erro, è questa appassionata sensibilità alla bellezza del vero (scientifico, filosofico e teologico) che contraddistingue Dante.

E sembra proprio che il suo caso sia unico, almeno nella tradizione letteraria occidentale, in cui il vero prevale sul bello, come deve essere, ovunque, tranne in poesia". Il punto di vista espresso qui da Gilson ricorda quello del teologo belga Jean Leclercq, autore del celebre L'amour des lettres et le désir de Dieu, che insisteva sull'unità di una teologia fatta non solo di dialettica, ma anche di altre forme o stili di esplorazione dei dogmi della fede cristiana, come la teologia monastica basata sulle lettere e l'interpretazione della letteratura di ispirazione religiosa. È nella linea tracciata da queste considerazioni teologiche che si situa lo studio che un altro autorevole studioso francese ha dedicato a Dante in una sua recente pubblicazione in italiano (François Livi, Dante e la teologia. L'immagine poetica nella "Divina Commedia" come interpretazione del dogma, Roma, Leonardo da Vinci, 2008, pagine 250, euro 20).

Facendo in qualche modo propria l'"idea" di Étienne Gilson, François Livi prospetta l'ipotesi di un Dante theologus nel senso forte del termine, il cui poema sarebbe il risultato di un costante confronto ermeneutico con i dogmi della fede cristiana. La teologia, spiega Antonio Livi nell'introduzione epistemologica del saggio, formula delle ipotesi di interpretazione del dogma.

Ma che si tratti di concetti, di norme o di immagini, tutto mira a rendere più comprensibile il mistero del dogma, che per definizione permane un mistero soprannaturale. Tanto inesauribile quanto è inintellegibile il dogma che ne costituisce l'oggetto, la riflessione teologica rappresenta quindi un lavoro ermeneutico che ha per scopo di accostare la nostra esperienza naturale al mistero del dogma e che, nel perseguire questo fine, può scegliere la via della creazione artistica. In questo caso, senza sovrapporsi ai dati della fede, la creazione poetica può, al contrario, divenire historia salutis quando il suo confronto ermeneutico con il dogma si inserisce pienamente nel contesto della rivelazione e ha per fine la contemplazione stessa del mistero della parola rivelata.

In altri termini, se la teologia è intellectus fidei, ciò non toglie che essa sia anche affectus e pulchritudo fidei, che essa sia, come scrive Antonio Livi, "un modo di "vivere" e far "vivere" la fede da parte della cultura di ogni tempo e di ogni luogo, con risultati che talvolta hanno il valore e la funzione di ricchezze di fede per molti secoli e per tanti luoghi diversi - così è infatti per un Agostino e un Tommaso, ma anche, per quanto adesso ci riguarda, un Dante Alighieri".

Questi chiarimenti sulla natura della teologia in quanto ipotesi di interpretazione del dogma costituiscono una premessa indispensabile per cogliere la portata dello studio proposto da François Livi. Da tempo è assodato che Dante rivendica per la poesia un valore filosofico che la dottrina scolastica le rifiutava decisamente. È sulla base della convinzione tomistica e più ampiamente scolastica che la poesia sia infima inter omnes doctrinas, che il domenicano Guido Vernani da Rimini, nel 1329, accusa Dante di essere "un poeta-visionario e un sofista chiacchierone che con le sue immagini fraudolente, distoglie il lettore dalla vera salvezza".

La critica scolastica sembra aver influito a lungo, in modo più o meno occulto, sulla ricezione del poema. La diffidenza nei confronti delle immagini utilizzate dai poeti - poeta utitur metaphoris propter repraesentationem (...) sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ricorda san Tommaso nella Summa - sembra infatti all'origine delle letture dualistiche della Divina Commedia che tendono a opporre - come si opporrebbero poesia e filosofia - le parti "poetiche" del poema alle sue trattazioni dottrinali.

Al contrario, è proprio la comprensione esatta della dimensione teologica delle immagini poetiche che ci consente di cogliere il senso dell'operazione ideologica compiuta da Dante e destinata, in accordo con la linea perseguita da protoumanisti come Albertino Mussato, a gettare le basi dell'umanesimo rinascimentale. Così, quando Dante, come poi Petrarca, oppone la poesia alla scolastica, lo fa rivendicando per la poesia un ruolo nella conoscenza filosofica - innanzi tutto metafisica e quindi teologica - in perfetto antagonismo con le posizioni della scolastica che limitava l'acquisizione di questa conoscenza al solo sviluppo logico dei concetti. La prospettiva adottata da François Livi, che sceglie di accostarsi alla Divina Commedia dal punto di vista dell'ermeneutica teologica, chiarisce senza alcun dubbio questo aspetto del dibattito ideologico nel quale si inserisce Dante.

L'architettura teologica del poema, il percorso attraverso i tre "regni" escatologici immaginati nella Divina Commedia, scrive l'autore, "non è un gioco letterario a tavolino o un espediente retorico per dare sfogo ai suoi desideri di rivalsa politica. La complessa impalcatura del poema è funzionale alla missione profetica di Dante, al suo messaggio di salvezza individuale e collettiva".

Senza pretendere all'esaustività nel trattare una problematica tanto vasta quanto quella del rapporto tra verità dogmatica e creazione poetica nel poema di Dante, François Livi procede a una serie di "sondaggi" particolarmente significativi. L'analisi del dogma escatologico attraverso le immagini della Divina Commedia apre questo percorso, iniziando col ricordare le premesse del dogma stesso, dalla caduta che ha seguito il peccato originale all'incarnazione del Verbo - che eleva la natura umana alla dignità della natura divina aprendo all'uomo la possibilità di accedere alla beatifica visione - fino alla parusia.

In questo capitolo introduttivo, estremamente denso, l'autore mette quindi in evidenza i fondamenti dogmatici dell'architettura dantesca, sottolineando nel contempo l'originalità della sintesi di elementi filosofici, ideologici e giuridici operata dal poeta nell'atto di definire la "topografia morale" dei tre regni dell'aldilà. Al dogma del Purgatorio è dedicato il secondo capitolo, di grande interesse giacché sottolinea l'importanza dell'interpretazione del dogma in vista di una corretta ricostituzione degli elementi che compongono l'architettura dantesca.

Come sappiamo, infatti, le sacre Scritture non propongono un insegnamento preciso ed esplicito riguardo alla realtà del Purgatorio, mentre tali riferimenti esistono per quanto riguarda il Paradiso e l'Inferno. Per cominciare, François Livi ricorda che l'Antico e il Nuovo Testamento contengono attestazioni della necessità di un'"espiazione temporanea" e riferimenti a colpe che non implicano una punizione eterna, ma richiedono un tempo di purificazione dopo il giudizio particolare che precede la parusia.

Egli passa in seguito all'esame delle numerose testimonianze offerte dalla tradizione attraverso la liturgia, l'epigrafia, la letteratura patristica greca e latina. Queste presentano "un materiale abbondantissimo che è impossibile ignorare. Numerosi concili dei primi secoli forniscono indicazioni pratiche sulle messe che possono essere celebrate per i defunti. Dall'epoca apostolica in poi, l'efficacia dei suffragi per i defunti è considerata unanimemente (...) come un dogma".

Luogo della purificazione, il Purgatorio offre anche l'occasione di un'analisi del significato del "contrappasso" e della drammatizzazione delle pene subite dalle anime penitenti che, per gli stessi peccati o per peccati simili, differiscono da quelle subite dalle anime condannate all'inferno.

Ma, come è noto, nella Divina Commedia l'itinerario purificatorio del pellegrino "è indissociabile da un preciso compito profetico:  il poeta non dovrà inventare, bensì riferire, nei limiti consentiti dalla parola umana, la sua eccezionale esperienza (...) Dante è allora investito di una missione profetica più complessa ed esplicita:  in quanto unico destinatario della visione, deve riferire un messaggio simbolico che denuncia la degenerazione attuale della Chiesa, messaggio interpretato dall'esegesi che Beatrice ne fa al poeta, annunciando nel contempo la volontà divina di ristabilire la giustizia nella società civile e religiosa".

L'ultimo capitolo è dedicato ad alcuni percorsi attraverso l'eccezionale ricchezza teologica e poetica del Paradiso. I canti xiv-xx danno luogo a uno studio che prende in considerazione problemi teologici di primaria importanza come la resurrezione dei corpi, la prescienza divina, la giustizia divina e la salvezza dei pagani. A proposito della resurrezione finale, la poesia offre a Dante la possibilità di avanzare ipotesi particolarmente suggestive riguardo allo splendore del corpo glorioso. Quanto al problema della prescientia divina, messo in evidenza dalle predizioni di Cacciaguida, la finzione poetica permette di accogliere come verità compiute delle teorie o dottrine che il poeta fa sue o considera plausibili.
 
L'assenza di una soluzione definitiva rende conto di una realtà teologica che Cacciaguida spiega al suo discendente, vale a dire "l'atteggiamento di umiltà intellettuale e di rispetto con il quale ogni creatura - il suo discendente al pari dei beati - deve accostarsi a realtà che trascendono le possibilità di comprensione dell'intelligenza umana (...) è proprio la proclamazione di questo mistero a determinare la luce soprannaturale che, proiettata sui funesti eventi annunciati da Cacciaguida e sulla sua impietosa analisi dei mali della società, non li rende per questo più "comprensibili", ma conferisce loro un nuovo significato inserendoli in una teologia della storia".




(©L'Osservatore Romano - 25 giugno 2009)

Caterina63
00venerdì 30 ottobre 2009 18:26
Filosofia e poesia nel quarto canto del "Paradiso"

Beatrice il teologo


di Inos Biffi

Dopo l'incanto di fronte alla figura di Piccarda e la dolcezza della lenta melodia dell'"Ave Maria", Dante si ritrova la mente assillata da alcune incalzanti e ardue questioni:  tutto il quarto canto del Paradiso è impegnato alla loro esposizione e soluzione, rivelando nel poeta tutta la competenza e la sottigliezza del filosofo e del teologo. Nel Convito (ii, xii, 7) Dante ricorda di essere andato "là dove (la filosofia) si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti", ossia presso i domenicani di Santa Maria Novella, o i francescani a Santa Croce, o gli agostiniani a Santo Spirito.




Si tratta, in questo canto iv del Paradiso, di versi prevalentemente didascalici, "astratti" e non poco ardui, inseriti quasi come un intermezzo dottrinale nel consueto svolgimento narrativo e lirico del poema; anche se l'ispirazione e l'immagine non si spengono e continuano ad animare le distinzioni proprie di una lezione "scolastica".
Il poeta è assalito da due dubbi:  non li esprime, ma si possono chiaramente leggere sul suo volto - "'l mio disir dipinto / m'era nel viso" (vv. 10-11) - e intuire dal suo silenzio. Egli non sa decidere quale manifestare per primo. E, per descrivere la propria condizione, in cui aveva la libertà imprigionata, e perciò non meritevole di rimprovero, ricorre a tre esempi.

Anzitutto, si paragona a chi si trovi "intra due cibi", a identica distanza e attraenti allo stesso modo, e quindi destinato a morire di fame per l'impossibilità di scegliere. Con una "figura rovesciata (dal soggetto all'oggetto delle brame)", come sottolinea Chiavacci Leonardi, Dante ricorre a un secondo esempio, equiparandosi a un agnello che, "intra due brame / di fieri lupi" (vv. 4-5), assalito da uno stesso timore, non saprebbe da quale dei due fuggire. A dire la sua irresolutezza nel terzo esempio il poeta si assimila a un cane fermo e indeciso  tra  due  daini:  "un cane intra due dame" (v. 6).

Ma ecco intervenire Beatrice a leggere nell'intimo di Dante, a interpretarne i segreti desideri e a scioglierne le questioni inespresse, che con uguale stimolo pulsano in lui e ne angustiano lo spirito. Sarà lei stessa a enunciarli.
Il primo dubbio, dal quale l'animo del poeta - appassionato di giustizia - è tormentato, riguarda la condizione di Costanza:  se si mantenne integra e inalterata la sua volontà di consacrazione; "se 'l buon voler dura" (v. 19) - infatti, "non fu dal vel del cor già mai disciolta" (Paradiso, iii, 117) - come mai, per colpa di un altro, la misura del suo merito si trovò ridotta?

Il secondo dubbio attiene alla destinazione delle anime dopo la morte:  parrebbe che esse ritornino alle stelle, da cui sono discese sulla terra a incarnarsi, secondo "la sentenza di Platone" della loro preesistenza, che è però in contrasto con la fede cristiana, per la quale le anime non preesistono, ma sono immediatamente create da Dio di volta in volta.

Beatrice incomincia a risolvere il secondo e più insidioso quesito che inquieta Dante. Tutti, essa spiega - dal Serafino che più si immerge in Dio ("s'india", v. 28), ai più grandi santi (siano Mosè, o Samuele, o i due Giovanni e la stessa Vergine), agli spiriti incontrati nel cielo più basso della Luna - hanno per sempre i loro seggi nello stesso cielo, l'Empireo, in un pieno appagamento, anche se differisce la gradazione della loro beatitudine a secondo dell'esperienza che, secondo i loro meriti, essi fanno dello Spirito di amore, che pure tutti li pervade.

Citiamo la terzina che Chiavacci Leonardi definisce dall'"andamento glorioso e disteso":  "tutti fanno bello il primo giro, / e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l'etterno spiro" (vv. 34-36). Dante, particolarmente, in questo canto sa soffondere di poesia anche le questioni scolastiche e i ragionamenti più sottili, nei quali era perfettamente esperto.

Spiega Beatrice:  i beati incontrati appena sopra, in realtà, dimorano, come tutti gli altri, nel "primo giro". Essi appaiono come figure sensibili nel cielo lunare, che, tra tutti i cieli, è il meno elevato, a mostrare che nella sfera spirituale (l'Empireo) essi si trovano nella sfera meno elevata, "che ha men salita" (v. 39). D'altra parte, è proprio della conoscenza umana partire dal mondo sensibile e "raffigurato", per rappresentare e comprendere il mondo invisibile. Il nostro "ingegno", scrive, "solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno" (vv. 41-42). Dante traduce elegantemente in questi versi la sentenza scolastica:  "Nulla si trova nell'intelletto, che prima non abbia dimorato nelle realtà sensibili". Del resto, prosegue Beatrice, "avendo inizio dai sensi ogni nostra conoscenza", anche nella Scrittura le realtà divine e spirituali, così come il mondo angelico, vengono raffigurate mediante metafore e immagini corporali.

Ed è la differenza rispetto alla dottrina del dialogo platonico del Timeo:  le anime non tornano nel cielo della Luna, dopo esserne discese, e non vi dimorano; soltanto si mostrano in figura, se pure lo stesso pensiero di Platone non vada inteso in modo letterale, ma come un mito. Quel pensiero non mancherebbe di qualche verità - di "alcun vero" (v. 60), - e sarebbe degno di apprezzamento, se intendesse affermare sull'uomo, salvo il suo libero arbitrio, un influsso astrale; solo che, "male inteso" (v. 61), è giunto denominare e a venerare gli astri come divinità.

Il secondo dubbio, che turba Dante, è meno pericoloso e meno compromettente - "ha men veleno" - continua Beatrice. Al poeta non sembra giusto attribuire un minor merito, nel caso in cui una violenza sia subita, come nel caso di Costanza. In realtà, che la giustizia divina, inaccessibile alla comprensione umana, appaia ingiusta al giudizio umano "è argomento / di fede" (vv. 68-69), ed è coerente con la persuasione della Scrittura, secondo quanto afferma Paolo sugli "insondabili" giudizi di Dio e sulla inaccessibilità delle sue vie (Romani, 11, 33). Anzi, la stessa ragione umana è in grado di avvertire che non è ingiusto quel minor merito.

E Beatrice lo spiega in una serie di concetti espressi in versi laboriosi, in cui "prorompe il grande inno alla libera volontà dell'uomo" (Chiavacci Leonardi), che, secondo la stessa dottrina di Aristotele, per il quale la libertà di chi subisce rimane intatta, se non concede assolutamente nulla "a quel che forza" (v. 74). "Volontà, se non vuol, non s'ammorza" (v. 76), afferma Beatrice, com'è del fuoco, che, pur compresso, si leva sempre verso l'alto, mentre le anime appena incontrate dal poeta, sia pur con riluttanza, non tornando al chiostro, hanno accondisceso alla violenza e non hanno conservato una volontà intatta, a differenza di san Lorenzo sulla grata o di Muzio Scevola con la mano sul braciere. D'altronde, - riconosce Dante - "così salda voglia è troppo rada" (v. 87).

Ma il poeta è intricato da un'altra difficile questione, inespressa e che da solo non riuscirebbe a sciogliere. Unita "al primo vero", nessun'anima potrebbe dir bugie. Ora, secondo l'affermazione di Piccarda, "l'affezion del vel Costanza tenne" (v. 98), e questo sembra smentire l'affermazione di Beatrice, che la volontà di Costanza non fu perfetta. In realtà, sia Piccarda sia Beatrice dicono il vero. Costanza, infatti, se in senso assoluto non ha accondisceso al male, tuttavia, pur contro la sua volontà - "contra grato" (v. 101) - in senso relativo vi ha aderito, scegliendo il minor male, con la conseguenza di una mescolanza tra costrizione e adesione. In quelle condizioni - afferma Dante - "la forza al voler si mischia" (v. 107).

Un consenso, perciò, non è mancato, anche se emesso nel timore che dal rifiuto provenisse un male maggiore:  "in quanto teme, / se si ritrae, cadere in più affanno" (vv. 110-111). Ora, mentre Piccarda, parlando del "vel del cor" (Paradiso, iii, 117), si riferiva alla "voglia assoluta" (v. 113), Beatrice si richiama alla volontà condizionata e relativa, che non scusa totalmente dalla colpa, e può concludere che "ver diciamo insieme" (v. 114).

Tutte quelle riflessioni, fluenti copiosamente, come le onde di un "santo rio" (v. 115), dalla fonte di ogni verità - la sapienza di Dio rappresentata da Beatrice - placano la mente e acquietano i desideri del poeta, che riconosce di non poter manifestare adeguatamente la propria gratitudine per le parole di quella donna divina - amata dal primo amore ("amanza del primo amante", v. 118) - che tanto lo riscaldano e lo ravvivano.

Ma ecco riaccendersi in Dante la sete dell'intelletto, che Dio solo, sorgente della verità, può esaurientemente illuminare e appagare. Scrive il poeta:  "già mai non si sazia / nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessuno vero spazia" (vv. 124-126).

E quando questo avviene - e può avvenire ("giugner pollo", v. 128), perché sarebbe impensabile che il naturale desiderio umano di verità resti incompiuto - l'intelletto si riposa, simile a una fiera nella tranquillità della sua tana.

Per Dante, come per Tommaso d'Aquino, l'intima aspirazione dell'uomo alla verità non può restare insoddisfatta; altrimenti essa sarebbe, inammissibilmente, vana. Per l'uno e l'altro la persuasione è identica, ed è profondamente teologica:  nel suo intimo l'uomo aspira alla Verità - e quindi a Dio, dal quale essa scaturisce - e tale aspirazione non può andar delusa.

Il poeta rende l'incessante desiderio di verità, insito nell'uomo, e il suo progressivo ascendere di tappa in tappa - "di collo in collo" (v. 132) -, con la felice immagine del pollone, che butta e rampolla ai piedi di una pianta:  "Nasce (...) a guisa di rampollo, / a pié del vero il dubbio" (vv. 130-131). Per questo egli osa porre con deferenza alla sua guida ancora una domanda su una questione che gli risulta oscura, cioè se sia possibile soddisfare con altri beni un voto inadempiuto.

A questa domanda Beatrice si volge a Dante con uno sguardo così amoroso e così pervaso di luce divina, da non riuscire a sostenerlo e restare smarrito:  "con gli occhi pieni / di faville d'amor così divini / che (...) quasi mi perdei con li occhi chini" (vv. 139-142).

È ricorrente nel poema questo smarrimento di fronte all'"eccesso" divino di luce e di amore, che lo investe. E forse si tratta di esperienze vere e singolari, e non soltanto di pure descrizioni letterarie.

Vediamo, in ogni caso, che anche negli articolati ragionamenti e nelle accurate distinzioni filosofiche e teologiche, che si snodano come materia del canto, non cessano gli accenti lirici e il fascino delle immagini, che contrassegnano tutta la poesia di Dante.



(©L'Osservatore Romano - 31 ottobre 2009)

Caterina63
00lunedì 25 gennaio 2010 19:42
Dante, Beatrice e il canto v del Paradiso

Il sorriso luminoso
della libertà


di Inos Biffi


Un'altra domanda o, come dicevano i medievali, un'altra "questione" occupa la mente di Dante, che si trova ancora nel cielo della Luna e ci invita a soffermarci in un prolungato momento penetrante d'indagine teologica. Questo canto appare subito concettoso e un po' affaticato, ma non è raro incontrare nel cammino verso il Paradiso queste aree di riflessione e di dibattito consoni alla "scuola" che, mentre sciolgono i dubbi e gli interrogativi del poeta, gli permettono di proseguire la salita verso l'Empireo, non senza ricevere, a loro volta, i tocchi della bellezza e del linguaggio lirico.

Come avviene subito nell'"apertura ardente di luce e di amore" (Anna Maria Chiavacci Leonardi), che avvia il canto, Beatrice appare a Dante "fiammeggiare nel caldo d'amore/ di là dal modo che 'n terra si vede" (1-2), così che i suoi occhi ne restano abbagliati. Ma egli non se ne deve meravigliare:  godendo ormai della perfetta visione di Dio, Beatrice è pienamente immersa in quel "bene appreso", che la rende tutta risplendente. Del resto, già nell'intelletto del poeta, Beatrice vede risplendere, in riflesso, quella "eterna luce" che, "vista, sola e sempre amore accende" (9):  una volta veduto Dio, l'affetto per lui non si ritrae e si spegne più; e se, sulla terra, si cede all'attrazione di altri beni, è perché si fraintendono con la Luce divina le luci che sono unicamente una sua impronta:  "e s'altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce" (10-12).

Ed ecco, dopo questo inizio un po' laborioso, ma luminoso, l'interrogativo che assilla il poeta:  è possibile soddisfare a un voto inadempiuto con un'altra opera buona ("altro servigio"), così che l'anima sia messa al riparo da ogni contestazione? Nella sua risposta Dante ci offre "una delle più alte dichiarazioni teologiche proprie della maggior poesia del Paradiso. Qui confluisce la lunga e appassionata storia dell'amore di Dante per la libertà, massimo segno per lui della dignità dell'uomo, in quanto lo fa simile a Dio" (Chiavacci Leonardi).

Secondo le parole lucide e solenni di Beatrice, che sono poi quelle di Dante:  "Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontade / più conformato, e quel ch'e' più apprezza, / fu de la volontà la libertate; / di che le creature intelligenti, / e tutte e sole, furo e son dotate" (19-24). Ora, col voto si sacrifica a Dio "questo tesoro" della libertà - e la definizione è splendida:  la volontà libera è il tesoro dell'uomo. Ma, se è così, il voto è inderogabile:  non è possibile riprendere quel massimo bene che si è offerto:  nessun'altra opera lo potrebbe assolutamente compensare, a meno di ritenere che si possa compiere un'azione meritoria con denaro rubato.

Dante sa bene che la Chiesa usa dispensare dai voti, ma egli intende, al riguardo, dare al lettore la propria spiegazione, diversa da quella comune dei canonisti e più severa; per cui lo invita a "sedere un poco a mensa", così che la possa ben assimilare, e quindi ad aprire la mente e a imprimervi le sue parole, "Ché non fa scïenza/ senza lo ritenere, avere inteso" (41-42).

Nel "sacrificio" del voto occorre distinguere - spiega Dante - quello che si promette e la promessa come tale ("la convenenza"):  questa, che è la "forma" del voto, in quanto offerta della libertà e quindi del supremo bene dell'uomo, non potrà mai essere cancellata o sostituita - "già mai non si cancella / se non servata" (46-47):  e qui risalta tutto il rigore del poeta.

Potrà essere invece trasmutata la materia della promessa; tuttavia, la conversione di questo "carco a la (...) spalla" (55) non potrà avvenire in modo leggero e arbitrario, bensì con il consenso dell'autorità della Chiesa e per il potere delle sue chiavi, a condizione, inoltre, che quanto sostituisce il voto venuto meno sia di maggior valore, e fermo restando che ci sono materie inestimabili, che non si possono permutare, come nel caso dei voti religiosi.

Resta in ogni caso deciso e forte, di fronte al diffuso costume di formulare voti alla leggera, l'ammonimento di Dante che da poeta si fa maestro e quasi profeta:  il voto è un impegno serio, che esige di essere osservato puntualmente e senza commettere ingiustizie, al modo di Iefte e di Agamennone, che immolarono le loro figlie:  "Non prendan li mortali il voto a ciancia;/ siate fedeli e a ciò far non bieci" (64-65).

E aggiunge ancora più solennemente:  "Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:  / non siate come penna ad ogne vento, / e non crediate ch'ogne acqua vi lavi" (73-75) - cioè che basti una qualsiasi promessa per purificarvi.

Ed ecco l'alto richiamo a ciò che veramente importa:  la Scrittura e la guida del Papa, riconosciuta valida e autorevole, quand'anche siano indegni quelli che occupano la sede di Pietro:  "Avete il novo e 'l vecchio Testamento, / e 'l pastor de la Chiesa che vi guida:  / questo vi basti a vostro salvamento" (76-78).

Che se altri, per avidità e interesse, insegnassero diversamente e inducessero a moltiplicare i voti, "uomini siate, - ammonisce Dante - e non pecore matte" (80) a imitazione di quell'agnello che, abbandonandosi ai suoi capricci sconsiderati, "saltando e corneggiando" (Francesco da Buti), stoltamente "lascia il latte/ de la sua madre" (82-83). Il linguaggio del poeta, di là dai toni arroventati, rivela un amore appassionato e un fervido anelito per una Chiesa che, riformatasi, risplenda senza macchie. È l'ecclesiologia ineccepibile di un poeta, che qui si fa teologo.

Il quale, nel suo "cupido ingegno" (89), avrebbe altre questioni da sollevare, ma vengono sospese dallo sguardo ardente di Beatrice rivolto al Sole, dal suo silenzio e dalla trasfigurazione del suo sembiante, inondato da nuovo splendore. In un baleno - "come una freccia che tocca il bersaglio prima che la corda dell'arco abbia finito di vibrare" (Chiavacci Leonardi) - si trovano trasportati nel cielo di Mercurio, acceso di più intensa luce dalla gioia di Beatrice. Ma non solo il pianeta, immutabile, "si cambiò e rise" (97):  anche Dante, soggetto per natura alle mutabili impressioni, divenne più lucente e sorridente.

Ed ecco avvicinarsi a Beatrice e al poeta "più di mille splendori" - è la luminosa definizione dei beati -, persuasi che, rispondendo alle domande di Dante, accresceranno il fervore del loro stesso amore:  il loro corpo era intravisto come "un'ombra piena di letizia", dalla quale "un folgor chiaro (...) uscia" (107-108). Serviva davvero tutta la geniale  creatività del poeta, ormai completamente pervasa di luce, per richiamare così mirabilmente la corporeità dei beati.

Quei beati, che compaiono leggeri nella "sostanza diafana dei cieli" (Chiavacci), sono da Dante immaginati come i pesci che guizzano in una peschiera "tranquilla e pura" (100) e si raccolgono rapidi intorno a quello che ritengono una loro esca. Il poeta arde del desiderio di conoscere la condizione di quei beati; e uno di quegli spiriti, accesi della luce diffusa in tutto il Paradiso, lo invita a porre, senza timore, ogni domanda.

Quel beato si trova dentro lo splendore, che promana dai suoi occhi e dal suo riso, come in un nido. "Io veggio ben sì come tu t'annidi / nel proprio lume" (122-123), esclama Dante, rivolto alla "lumera" (130) divenuta ancora "lucente più assai" (132), e riconoscendo di ignorare chi vi si trovi avvolto.

Quella "figura santa", racchiusasi nella sua "troppa luce", come avviene del sole allo sciogliersi dei vapori che temperavano i suoi aggi, risponderà, però, al poeta nel canto successivo.
 
Ora, dopo che il poeta ha espresso, in modo risoluto e non senza tratti di originalità, la sua dottrina sui voti, sul valore della libertà umana, su ciò che essenzialmente conta per essere cristiani - ciò che fa della Commedia un libro anche di "teologia" e di Dante uno strenuo "riformatore" della Chiesa - l'ispirazione lirica riprende, ma nella trama del poema non verrà mai meno quella "profezia".


(©L'Osservatore Romano - 25-26 gennaio 2010)

Caterina63
00mercoledì 28 aprile 2010 10:30

Gagliardi scrive Lumen Gloriae

                                      Gagliardi scrive Lumen Gloriae thumbnail
By Redazione
Published: aprile 28, 2010

Nei canti finali della sua Commedia, Dante Alighieri descrive il cielo Empireo, presentato quale dimora di Dio, di Maria, degli angeli e dei santi. L’Empireo viene descritto come un “luogo” «che solo amore e luce ha per confine». La luce è pertanto, negli ultimi canti del Paradiso dantesco, strumento letterario che conosce innumerevoli declinazioni.

Questo volume analizza i canti della Commedia in cui Dante descrive la sua visita nell’Empireo (Paradiso XXVIII–XXXIII), con lo scopo di comprendere la natura della luce che lo caratterizza. La ricerca si presenta con la preziosa caratteristica dell’interdisciplinarietà:studia, infatti, la luce dell’Empireo dantesco non solo dal punto di vista letterario («poetica della luce»), ma anche scientifico («fisica della luce») e filosofico («metafisica della luce»), per approdare a dei risultati che chiamano in causa anche la teologia.

Mediante una dotta, eppure gradevole esposizione, l’autore sostiene che la natura della luce nell’Empireo descritto dall’Alighieri va definita in base alla categoria teologicadel lumen gloriae, la luce soprannaturale che permette alle anime del paradiso di vedere e conoscere l’essenza divina. In base a questa acquisizione, il presente saggio integra e, dove del caso, corregge alcune letture e valutazioni che in passato hanno ridotto o frainteso la portata del luminismo dantesco del cielo Empireo. Ne deriva la possibilità – tutta da esplorare – di una ricomprensione dell’intera opera dantesca attraverso la categoria della «sintesi poetica» tra fede, arte e cultura. - Mauro Gagliardi, LUMEN GLORIAEEditrice Vaticana, Roma 2010.



MAURO GAGLIARDI, nato nel 1975, ordinato presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno nel 1999, ha conseguito il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 2002 e la laurea quadriennale in filosofia presso l’Università di Napoli «L’Orientale» nel 2008. Professore Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, insegna anche presso l’Università Europea di Roma e tiene corsi e conferenze in diversi Paesi. Ha al suo attivo la pubblicazione di numerosi articoli, in diverse lingue, di cinque libri in qualità di autore e di vari volumi in veste di curatore. Nel 2008, Benedetto XVI lo ha nominato Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


Caterina63
00sabato 10 luglio 2010 21:15
Il mistero della redenzione dal «Convivio»
alla «Divina Commedia» (passando per san Tommaso)

Come si rimargina la ferita dell'origine


di Giovanni Di Giannatale
Dante e la redenzione. Il poeta esprime alcune considerazioni sul tema sia nelle opere minori sia nella Commedia, rielaborando e mediando la dottrina di san Tommaso immagini suggestive
.

Per inquadrare il suo pensiero, occorre partire dal Convivio, in cui, riflettendo sull'incarnazione del Verbo, dichiara che questa fu stabilita da Dio per riconciliare a sé la natura umana, privata dei doni soprannaturali e vulnerata nei doni naturali, a causa del peccato originale:  "Volendo l'incommensurabile bontà divina l'umana natura a sé riconformare che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quell'altissimo e congiuntissimo consistorio divino della Trinità che il Figliuolo di Dio in terra discendesse a far questa concordia" (iv, 5, 3).

In questo passo Dante sviluppa due concetti teologici:  la redenzione come libero atto di amore e di misericordia di Dio; l'incarnazione del Verbo come soddisfazione adeguata all'atto da riparare.


Dante, non a caso, parla di "elezione", cioè di scelta, del Dio uno e trino, ritenendo perciò, in linea con la dogmatica tomistica, che egli non fosse in nessun modo costretto a redimere gli uomini (sant'Atanasio, fondandosi sulla Lettera agli Efesini parlava apertamente di gratuità della redenzione).
 
Così insegna il Dottore Angelico, dopo aver utilizzato ex ratione il quarto libro della Metafisica di Aristotele sulla molteplice accezione del termine anankàion (necessarium):  Et sic manifestum est quod non fuit necessarium Christum pati:  neque ex parte Dei, neque ex parte hominis (Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, iii, quaestio 46, 1).

La passione di Cristo è stata tuttavia necessaria in quanto il peccato originale, commesso dai progenitori era così grave, che poteva essere compensato solo con un atto infinito di riparazione, cioè solo da una persona divina (perciò Tommaso - in Summa theologiae, iii, quaestio 1, 1 - parla di necessitas congruentiae, necessità indotta dalla convenienza/ adeguazione del "riparante" alla natura da riparare:  Unde manifestum est quod conveniens fuit Deum incarnari).

Dante riprende gli argomenti esposti nel citato passo del Convivio nel sesto e nel settimo canto del Paradiso. Nel primo connota l'opera della redenzione come "vendetta del peccato antico":  la passione, morte e resurrezione di Cristo è intesa come la "giusta punizione" richiesta dal peccato originale, nel senso che giusta fu la morte di Cristo sulla croce, come giusta fu, nell'imprescrutabile disegno di Dio, l'esecuzione della pena da parte dell'Impero romano, nella persona del legato imperiale, Ponzio Pilato.

Sul punto Dante ritiene che, nel piano provvidenziale di Dio, la condanna di Gesù fu un atto di onore per l'Impero romano, al quale Dio ha concesso la "gloria di far vendetta alla sua ira" (Paradiso, vi, 90), cioè di  "soddisfare  la  giusta  ira  di  Dio per colpa di Adamo con la giusta punizione di quella colpa".
Addirittura, esercitando un ardito artificio logico, il poeta arriva a sostenere che il peccato di Adamo non sarebbe  stato  punito  attraverso Cristo, se la giurisdizione imperiale non fosse stata legittima secondo il volere divino:  Si romanum imperium de iure non fuit, peccatum Adae in Cristo non fuit punitum (De monarchia, ii, 12, 1-5).

Tornando al canto settimo, Dante, attraverso la lectio magistralis di Beatrice, che rivendica a sé l'"infallibile avviso", spiega perché la punizione inflitta a Cristo con il supplizio della croce è da considerarsi giusta. Utilizzando la subtilitas della teologia scolastica, che faceva leva sulle distinzioni, Dante così dichiara:  "La pena dunque che la croce porse, / s'alla natura assunta si misura, / nulla già mai sì giustamente morse; / e così nulla fu di tanta ingiura, / guardando alla persona che sofferse, / in che era contratta tal natura" (Paradiso, vii, 40-45).

Il poeta invita a distinguere la "natura umana" assunta dal Verbo e la "natura divina" della seconda Persona:  la pena della croce e la morte che ne conseguì furono giuste e convenienti alla gravità della colpa, se si considera la natura umana; furono, invece, inique (di tanta ingiura), se si considera la "natura divina" di Cristo ("guardando alla persona che sofferse/ in che era contratta tal natura").


(©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
Caterina63
00lunedì 9 agosto 2010 17:40
L'orgoglio ferito di Dante affiora dalle terzine del sesto canto del "Paradiso"

Malinconia dell'esilio nel cielo di Mercurio


di mon. Inos Biffi
 

All'aprirsi del sesto canto del Paradiso, finalmente si rivela la "figura santa" che, annidata "nel proprio lume", Dante ancora non conosceva. Quell'"anima degna" è l'imperatore Giustiniano, che, sotto l'impulso dello Spirito, approntò il nuovo Corpus iuris, eliminando dall'antico diritto quanto ormai conteneva di superfluo e di inutile:  "Cesare fui e son Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch'i' sento, / d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano" (vv. 10-11).
La figura dell'imperatore emerge sull'ampio sfondo degli avvenimenti rievocati dai primi solenni versi del canto:  sono gli eventi che hanno portato il potere imperiale dall'occidente all'oriente, quando Costantino trasferì l'impero da Roma a Bisanzio, presso gli stessi monti, dai quali, con percorso inverso, era partito Enea.

Esattamente quel potere, passando "di mano in mano", giunse fino a Giustiniano.
D'altronde, in tutto questo non operava semplicemente una volontà o iniziativa umana. Secondo la teologia dantesca della storia, le vicissitudini di quel potere, simboleggiato nell'aquila - "l'uccel divino" - si svolgevano "sotto l'ombra de le sacre penne":  a esse, infatti, presiedeva un disegno guidato dalla Provvidenza.

Quanto all'impresa che lo rese celebre, Giustiniano precisa che essa fu compiuta - e qui Dante si affida alle fonti a lui note - dopo che, grazie alle parole del "sommo pastore", il "benedetto Agapito", fu condotto dall'eresia monofisita, che negava in Cristo le due nature, alla "fede sincera" (v. 17), la cui verità ormai gli appare con la stessa incontrovertibile chiarezza con cui, di fronte a due affermazioni contraddittorie, si vede subito necessariamente che l'una è vera e l'altra falsa.
 
Così, in comunione "con la Chiesa" (v. 22), affidati gli impegni militari al generale Belisario, svolti col sostegno della "destra del ciel" (v. 26), egli poté dedicarsi tutto all'"alto lavoro" (v. 24) che alla grazia di Dio piacque ispirargli. Viene, così, soddisfatto il primo interrogativo di Dante sulla figura avvolta nella sua stessa luce.
Dopo quella risposta, all'imperatore preme continuare sul tema del potere imperiale raffigurato nel "sacrosanto segno" dell'"uccel divino", e lo fa per affermare e ammonire che a torto "si move contr'al sacrosanto segno / e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone" (vv. 32-33), come fanno, da un lato, i comuni e le signorie ghibelline, e, dall'altro, le città guelfe, con la casa di Francia.

Segue, in uno schizzo limpido e incisivo, la memoria e la celebrazione della storia di quel segno divino. Dante parte da Pallante, il giovane virgiliano generosamente morto per Enea ("quasi capostipite delle nobili virtù dei futuri romani"); quindi, con rapidi e felici tocchi, fissa i momenti fondamentali e decisivi di quella storia:  si rimane sorpresi dalla capacità del poeta di ritrarre e di valutare, con l'icasticità di un verbo, o con la perspicuità di una definizione o la lucidità di un giudizio, le imprese dei grandi eroi, che hanno sostenuto l'impero, col suo difficile cammino, illustrandolo di gloria.

Sono, così, via via rievocate le gesta degli "egregi Romani"; il "dolor di Lucrezia" (v. 41); le guerre del tempo della Repubblica; la sconfitta dei Latini e dei Galli; il passaggio di Annibale tra "l'alpestre rocce" e l'abbattimento dei Cartaginesi (dell'"orgoglio de li Arabi"); il trionfo dei "giovanetti" Scipione e Pompeo; e quindi Cesare con le sue vittorie prodigiose, così fulminee, che non è possibile tenergli dietro né con la parola né con lo scritto "che nol seguiteria lingua né penna" (v. 63). Segue, con il ricordo di Ottaviano Augusto, l'accenno a "la trista Cleopatra" (v. 76), che "la morte prese subitana e atra" (v. 78) e, quindi, al mondo posto "in tanta pace" che si mantenne sorprendentemente chiuso il tempio di Giano.

Ma, soprattutto, Dante richiama quel che avvenne sotto Tiberio, e che può esser colto solo "con occhio chiaro e con affetto puro" (v. 87), cioè la condanna a morte di Cristo voluta dalla giustizia divina a soddisfazione del peccato di Adamo.

Sotto quell'imperatore Dio concesse all'aquila la "gloria di far vendetta a la sua ira" (v. 90), mentre, sorprendentemente, sotto il suo successore, Tito, - il poeta lo spiegherà nel canto successivo - a sua volta quella condanna di Cristo troverà la sua punizione.

L'imperatore rievoca, infine, il tempo in cui "il dente longobardo morse / la Santa Chiesa" (vv. 94-95), e la protezione riservatale da Carlo Magno, che la soccorse, vincendo i Longobardi, sotto la sua insegna - "sotto le sue ali" (v. 95).

Risulta, allora, ugualmente deplorevole e funesto il comportamento sia di quanti all'insegna pubblica oppongono l'emblema privato dei "gigli gialli" (v. 100) - e sono i guelfi - sia dei ghibellini, che se ne appropriano, riducendolo all'insegna di una fazione.
Sono così fieramente ammoniti e gli uni e gli altri:  i ghibellini a condurre le loro imprese "sott'altro segno", visto che scindono l'aquila dalla giustizia; e Carlo d'Angiò - "Carlo novello" (v. 106) - con i suoi guelfi, a non illudersi di poterla abbattere, ma d'aver paura dei suoi artigli, che hanno strappato il pelo a potenti ben maggiori di lui - "ma tema de li artigli/ ch'a più alto leon trasser lo vello" (vv. 107-108).

Certamente Dio non è disposto a mutare l'insegna del potere sovrano e universale, da lui provvidenzialmente protetta e custodita, con l'insegna di quei gigli che rappresentano un potere piccolo e insignificante. Non stupirebbe - premonisce oscuramente Dante - che l'opposizione a un tale disegno comportasse, come già altre volte, il pianto dei figli per la colpa dei padri.
Con quest'ultimo grido di avvertimento e di sprezzo, ha termine l'ardente e insieme dolente sequenza, che racchiude rimprovero e minaccia, amarezza e speranza, sotto il colore retorico dell'ironia.

Così Giustiniano ha largamente dato risposta alla prima domanda del poeta su chi fosse l'anima nascosta nella sua stessa luce:  una risposta che in realtà ha permesso a Dante di manifestare tutto il suo sdegno e la sua condanna per la politica del suo tempo, segnata da divisioni e lotte intestine che, in antitesi al progetto divino del potere imperiale, fomentano crudeltà e ingiustizie.
Resta da rispondere alla seconda domanda:  quali siano gli spiriti che dimorano nel cielo di Mercurio, "questa picciola stella" (v. 111). Sono "i buoni spiriti", che sulla terra hanno deviato dal vero fine, Dio, operando "perché onore e fama li succeda" (v. 114), e quindi elevando con più debole vigore verso il cielo "i raggi del vero amore" (v. 117).

Né per questo è intaccata e compromessa la loro "letizia", che proviene tutta dal vedere la corrispondenza tra il premio e il merito. Dio modera il loro desiderio - "addolcisce la viva giustizia/ in noi l'affetto" (vv. 121-122) - che non potrebbe volere una cosa ingiusta, come un grado di beatitudine non commisurato al merito.

Da qui la "dolce armonia" (v. 126) che regna tra i vari seggi del Paradiso, simile alla dolcezza, che in un canto polifonico scaturisce tra le diverse e concordi voci:  "Diverse voci fan dolci note" (v. 124).
Gli ultimi versi rievocano la figura di un giusto, che brilla di luce nella stella di Mercurio e la cui "ovra grande e bella" fu tuttavia "mal gradita" (v. 129), cioè mal ricompensata. Si tratta di Romeo di Villanova - "persona umìle e peregrina". Di ritorno da un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella, capitato a corte del conte di Provenza Raimondo Beringhieri, ne divenne primo ministro, servendolo con ineccepibile giustizia e facendo delle sue quattro figlie quattro regine.
A motivo delle calunnie degli invidiosi cortigiani fu tuttavia dal conte sospettato di cattiva amministrazione, per cui se ne partì "povero e vetusto" (v. 139), d'altronde, non senza che i provenzali, suoi accusatori, con la venuta degli Angioini, subissero il castigo della loro malvagità, secondo il principio "Mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui" (vv. 131-132).

Il mondo non conobbe l'intimo del suo cuore e la pena profonda provata nella sua vita di mendicante, accettata con pazienza e fierezza:  ne fosse a conoscenza, non farebbe che accrescere la sua lode:  "E se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe" (vv. 140-142).
In questi ultimi versi, intensi e appassionati, Dante adombra certamente la sua stessa condizione di "pellegrino" e di mendicante, come egli scrive nel Convivio, sopportata pazientemente per amore della giustizia; giunto al Paradiso ne può contemplare e pregustare ormai il premio eterno.


(©L'Osservatore Romano - 8 agosto 2010)
Caterina63
00sabato 20 novembre 2010 18:33
l Palio di Siena e Provenzan Salvani nel canto XI del Purgatorio

Lo stesso grido di sette secoli fa in piazza del Campo


di Carlo Pedretti

Scrivere storia per poterla leggere come cronaca. Questo sa fare Sergio Poletti nelle sue pubblicazioni e in particolare nel suo ultimo libro su Dante (Dante Alighieri tra poesia, politica, nobiltà e posterità, Mirandola, 2009) la sua vicenda umana e intellettuale, la sua visione poetica, i suoi sentimenti più riposti che solo la caparbia analisi dello psicanalista sa scovare, e infine la sua prolifica discendenza che - pochi lo sanno - continua ai giorni nostri.
 
Essa infatti emerge dalle pagine di questo libro attraverso la complessità di ramificazioni da rompicapo per imporsi subito con inevitabile suggestione come strumento di studio e consultazione, non più col tono di una elitaria e compassata genealogia come quella celebre del marchese Pompeo Litta, ma con l'accattivante periodare del racconto familiare, da veglie presso il focolare di altri tempi, e pur sempre col ritmo sostenuto, a volte mozzafiato, che non ha nulla da invidiare ai più scaltri programmi tv e alle migliori pagine della cultura (un genere in estinzione, peraltro, che va paurosamente scomparendo anche dai migliori quotidiani per lasciare spazio a banalità e scandali).

Un libro, dunque, all'antica anche se modernissimo.

E, come tale, esempio e ammonimento di come dovrebbe essere il migliore giornalismo che va pure scomparendo per scimmiottare i modelli della grande comunicazione d'oltr'Alpe e d'oltre Oceano, dove vige il limite insormontabile delle trenta righe o dell'immagine televisiva di trenta secondi. Un libro che è il frutto di un'immensa conoscenza mai fatta pesare e che risponde al tradizionale criterio postulato dai nostri padri di formazione manzoniana secondo i quali "un libro non val niente se non cambia la gente".

Questo libro è insieme un prezioso contributo allo studio e un affascinante quadro storico dominato dalla presenza di un eccezionale protagonista che non si può fare a meno di seguire perfino nella vicenda della poca polvere che i venerabili resti mortali, esumati dopo secoli, ha lasciato nel fondo di una cassetta per essere religiosamente raccolta in bustine finite nelle mani di collezionisti privati, che poi ne hanno fatto dono a istituzioni pubbliche.

Poletti è sempre attentissimo al particolare curioso e illuminante nel grande e articolato quadro della sua narrazione che procede a ritmo costantemente sostenuto. E chi legge si sente inevitabilmente trasportato a seguirlo, come quando, arrivati ai discendenti di Dante nel nostro tempo, ci si sofferma sulla storia del nobile casato dei Serego-Alighieri a Verona "che tutt'oggi fa continuare la dinastia, evidentemente la sola e vera che deriva direttamente dal sommo Dante".

Di qui la conclusione:  "Per saperne di più recatevi a Villa Serego, stupenda costruzione con porticato, affreschi, stemmi, mosaici, figure di imperatori romani e di divinità, incastonata tra le colline di Gargagnago, ai piedi del colle di San Giorgio, che fa da singolare sfondo scenografico, tra vigneti pregiati". In questo modo il lettore si ritrova protagonista, e vuol proprio saperne di più dopo aver letto che Pietro Alighieri, secondogenito di Dante, nel 1353 comprò terre e casa a Gargagnago, ora frazione di Sant'Ambrogio in Valpolicella dove ha appunto discendenti nei conti Serego-Alighieri". Ed è così che si arriva ai nostri giorni:  "Pier Alvise, figlio di Dante, classe 1954, è il re dei vini di quelle parti e il ventesimo pronipote del sommo Dante".

Il sommo Dante, come sempre, è presente in tutte le generazioni che si avvicendano nel corso dei secoli per farlo proprio, studiandolo e prendendolo come esempio al viver civile. Dai primi commentatori, via via fino a Roberto Benigni, Poletti li enumera tutti e sa che in ogni tempo c'è di che imparare per mettere a fuoco la figura del sommo poeta e integerrimo uomo politico partendo dalla sua umanità che lo rese esule fino alla morte. Di qui programmi di carattere divulgativo che cominciarono a imporsi dall'Ottocento in poi a vari livelli di cultura, dalla celebre lectura Dantis al lento ma sistematico espandersi dell'attività della benemerita "Società Dante Alighieri", che ha lo scopo di diffondere in ogni parte del mondo la conoscenza e la bellezza della lingua italiana.

Dante è ancora parte della nostra vita quotidiana e viene ancora portato sulle piazze quando la sua poesia viene costantemente proiettata sul nostro momento storico e come tale non ha nulla a che vedere con lo stereotipo della sua polvere mortale nelle bustine dei collezionisti.

Di questo ho avuto recentemente una prova eloquente di carattere personale. All'amico Poletti, rappresentante per eccellenza della benemerita categoria degli "storici di provincia", merita che ne faccia parte, a riprova della validità dell'assunto che Dante è ancora fra noi, nel senso che la nostra cultura e il nostro costume ci consentono di evocarlo e perfino di comprenderlo proprio come in una estemporanea lectura Dantis.

Poletti discorre a lungo del rapporto, anche di amicizia, di Dante con Giotto, e riporta i famosi versi:  "Credette Cimabue nella pintura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido". Il canto XI del Purgatorio dal quale proviene la citazione è sul tema dei superbi e, come altrove nella Commedia, mostra la malcelata antipatia del poeta per i senesi.

Il canto termina infatti con la splendida e tragica figura di Provenzan Salvani che forzando il proprio orgoglio si rassegna a implorare sul "campo", cioè sulla famosa piazza di Siena, il denaro per il riscatto di un amico:  proprio come un mendicante che chiede l'elemosina.

Lo scorso anno, il 15 luglio, si corse il celebre palio di Siena e l'evento fu preceduto dalla solenne presentazione dello stendardo rinnovabile ogni anno attraverso un severo concorso che porta all'ambita committenza. Nel 2009 la scelta cadde su Giuliano Ghelli, uno dei nostri pittori contemporanei che nel 1993 portai per la prima volta accanto a Leonardo - addirittura alla Dama con l'ermellino - in una grandiosa mostra leonardesca in Svezia. Al suo secondo trionfo, dopo quello svedese, Ghelli volle che partecipassi all'evento senese col discorso ufficiale per la presentazione del suo "cencio", il grande stendardo che gli avrebbe consentito di "tener lo campo" per quell'anno, accolto dal "grido" della stessa folla che il giorno dopo avrebbe accolto con lo stesso grido il vincitore della secolare corsa dei cavalli nel "campo" senese; corsa secolare, infatti, per essere documentata fin dal tempo di Dante.

E così il grido che Dante menziona come quello che accoglie Giotto vincitore dopo che Cimabue aveva tenuto "lo campo" nella pittura, l'ho sentito io stesso, sette secoli dopo, all'arrivo dello stendardo dipinto da Ghelli, solennemente presentato alla presenza delle autorità civili, militari e religiose, nel cortile del palazzo medievale aperto alla svettante Torre del Mangia, che tanto aveva affascinato Leonardo per l'ingegnoso sistema del batacchio snodato della sua campana. La storia che Poletti sa raccontare come cronaca è certamente meglio della squallida cronaca sfornata, senza alcun "grido", da certa nostra stampa quotidiana.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2010)
Caterina63
00sabato 20 novembre 2010 18:35
Antenati italiani del «Conte di Montecristo»

Quanto Dante in Dantès


di Claude Schopp

Il conte di Montecristo si nutre profondamente dell'opera di Dante.

Dalla Divina Commedia Dumas non attinge solo il nome di Cavalcanti (che "nel canto x dell'Inferno" ha avuto "Dante per genealogista"), taluni parallelismi (Ugolino, la lonza), o una perifrasi ("Paese dove 'l sì suona"); ne fa una rilettura romantica:  "Il XIX secolo francese si riappropriava di Dante attraverso il noir, in quanto poesia della crudeltà, gran repertorio dell'orrido e del patetico, origine del satanismo letterario, fulcro dell'indagine sul problema del male".

All'anticamera dell'inferno, ovvero al castello d'If, dove sono rinchiusi gli innocenti e dove Dantès incontra in Faria il suo Virgilio, fa seguito l'inferno dei castighi, istituito qui e ora dal conte che valuta le anime prima del Giudizio e si arroga il diritto di ricompensare e punire; davanti agli occhi dei lettori di Montecristo sfilano il corpo o l'ombra dei colpevoli, classificati da Dante e poi da Dantès:  gli spiriti vili (Caderousse) sono tormentati dagli insetti; i lussuriosi (madame Danglars) sono spazzati via da un uragano; i violenti contro il prossimo (Caderousse, Villefort, madame de Villefort) sono immersi in un fiume di sangue bollente; i violenti contro la Natura (Eugénie Danglars) corrono sotto la pioggia di fuoco; gli usurai (Danglars) siedono sotto una pioggia di fuoco; i ladri (Andrea) sono trasformati in serpenti; i traditori (Fernand) sono prigionieri nel ghiaccio.

L'inferno che appartiene a questo mondo, tuttavia, non può che essere ironico o parodico perché è solo una macchinazione umana, che Dio sembra avallare autorizzandone il successo. Ci vuole la morte di un bambino, innocente per definizione, perché Dantès perda la propria sicurezza. ""Ecco, Edmond Dantès!", esclamò [Villefort] mostrando al conte il cadavere della moglie e il corpo del figlio. "Ecco, guarda! Sei vendicato a dovere?". A tale spettacolo agghiacciante Montecristo impallidì; comprese che aveva appena valicato i confini della vendetta; comprese che non poteva più dire:  "Dio è con me e per me" (...). E, quasi avesse temuto che i muri della dimora maledetta gli rovinassero addosso, si precipitò in strada, dubitando per la prima volta di avere il diritto di fare ciò che aveva fatto".

Questa sciagura è un richiamo all'ordine; nessuno può fregiarsi di esprimere la volontà di Dio, nessuno può sostituirsi a Dio. L'uomo può solo intuirne i disegni:  "Iddio vuole che lo comprendiamo e ne mettiamo in discussione la potenza; è a tal fine che ci ha donato il libero arbitrio". Di nuovo si insinua il dubbio nella mente del conte, il cui scopo non era il compimento di una vendetta personale bensì la distruzione del male; ebbene, causando la morte di un innocente, egli non fa che rinnovare il male.

Libero, disperatamente libero, Montecristo deve scegliere, e per ritemprarsi decide di reimmergersi nella sofferenza iniziale, di ritornare nell'inferno del castello d'If:  "Orsù, suvvia, uomo rigenerato! Suvvia, ricco stravagante! Suvvia, dormiglione ridestato! Suvvia, visionario onnipotente! Suvvia, milionario invincibile! Riprendi per un istante la funesta prospettiva della vita miserabile e affamata; ripercorri i sentieri dove ti ha spinto la fatalità, dove ti ha condotto la sventura, dove ti ha accolto la disperazione".

Nella segreta che fu dell'abate Faria, si inginocchia accanto al letto su cui era morto il suo secondo padre, così come Dumas si era inginocchiato accanto al letto di morte della madre:  "Tu che mi hai donato la libertà, la sapienza, la ricchezza, tu che, alla stregua delle creature di un'essenza superiore alla nostra, possedevi la sapienza del bene e del male, se in fondo al sepolcro permane qualcosa di noi che sobbalza alla voce di quanti sono rimasti in terra, se nella trasfigurazione che subisce il cadavere aleggia qualcosa di animato nei luoghi dove tanto abbiamo amato o tanto patito, nobile cuore, mente superiore, anima profonda (...) in nome dell'amore paterno che tu mi accordavi e del rispetto filiale che io ti avevo votato, ti scongiuro:  tramite una parola, un segno, una qualsivoglia rivelazione, dissipami il residuo di dubbio che, se non si tramuta in convincimento, diventerà rimorso".

La madre aveva taciuto per l'eternità; rivincita dell'immaginario sul reale, Faria si manifesta a Dantès, il quale riceve dalle mani del carceriere il manoscritto dell'abate che reca in epigrafe:  "Strapperai i denti al drago e calpesterai i leoni, ha detto il Signore:  "Ah - esclamò - è questa la risposta! Grazie, padre mio, grazie!"". La parola di Dio, trasmessa dall'intercessore, giustifica l'azione passata, l'estirpazione della razza maledetta, e impone al vendicatore di portare a termine la missione che rispecchia i disegni di Dio o della Provvidenza.

Tuttavia tali sono lo stravolgimento per la morte del fanciullo e la consapevolezza di essere stato complice del Male (""Oh basta! Basta!", esclamò. "Salviamo l'ultimo!"") che Dantès abbandona l'Antico Testamento a favore del Nuovo:  cessa di essere il Padre terribile per ridivenire il Figlio misericordioso, il Redentore, di cui ha rivissuto la Passione. È colui che perdona le offese quando c'è pentimento:  ""Oh sì, mi pento! Mi pento!", esclamò Danglars. E si batté in petto con il pugno smagrito. "In tal caso vi perdono (...) io non sono il conte di Montecristo". "E chi siete, dunque?". "Sono colui che avete venduto, consegnato, disonorato; sono colui la cui fidanzata voi avete prostituito; sono colui sopra il quale avete camminato per ergervi sino alla fortuna; sono colui il cui padre avete fatto morire di fame, colui che vi aveva condannato a morire di fame, e che purtuttavia vi perdona, giacché egli stesso abbisogna di essere perdonato:  io sono Edmond Dantès"".

Il perdono è risurrezione:  Montecristo, lo spettro, svanisce, Edmond, il vivo, torna alla condizione puramente umana, all'intensa circolazione delle emozioni, si spoglia della sua durezza di pietra, rinasce all'amore:  "Il conte sentì allargarglisi il petto e il cuore dilatarsi; aprì le braccia, Haydée vi si precipitò lanciando un grido. "Oh sì, io ti amo!", esclamò costei. "Ti amo come si ama il proprio padre, il proprio fratello, il proprio marito! Ti amo come si ama la vita, come si ama il proprio Dio, giacché tu per me sei il più bello, il migliore e il più grande degli esseri creati!".
 
"Sia fatto come vuoi tu, dunque, angelo mio caro", esclamò il conte. "Iddio che mi ha innalzato contro i nemici e mi ha reso vincitore, ben lo vedo, Iddio non desidera porre il pentimento in fondo alla mia vittoria; volevo punirmi, Dio vuole perdonarmi". L'ultima parola di Dantès è rivolta a Dio:  è un giuramento di fedeltà alla volontà divina "il cui oggetto sono il fine e il bene"; è un umile ritorno alla vera preghiera, il Padre nostro.



(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2010)
Caterina63
00giovedì 3 febbraio 2011 00:42
L'interpretazione spirituale delle Scritture da Origene a Dante (passando per Gioacchino da Fiore)

Nel volgare di Dante
il segno dei Padri


 

di ENRICO DAL COVOLO

L'interpretazione spirituale delle Scritture - alquanto offuscata negli ultimi tre secoli dal metodo storico-critico - torna oggi a essere raccomandata con energia dal magistero della Chiesa, e in particolare da Benedetto XVI, che proprio sulla sostanziale unità dei due Testamenti fonda la proposta di un'esegesi "canonica", o meglio "teologica". Al riguardo, si può vedere ora l'Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini.

Ma prima della rivoluzione illuministica, quando appunto iniziò a prevalere il metodo storico-critico (benemerito, senza dubbio, ma in se stesso insufficiente), non c'era alcun dubbio: di fatto, alla scuola dei grandi Padri, l'interpretazione spirituale e cristologica rappresentò per tutto il medioevo la via privilegiata di accostamento alle Scritture.
Tuttavia questa interpretazione spirituale venne a declinarsi in modi assai vari, come vedremo appunto accostando in primo luogo il metodo della lectio divina, caratteristico dei Padri della Chiesa, e poi la lettura profetico-apocalittica di alcune correnti minoritarie, come i Gioachimiti, a cui la Commedia di Dante Alighieri si ispirò in maniera decisa.

Senza dubbio i Padri accostavano la Scrittura con il metodo della lectio divina. Giacché però su questa gravano ancor oggi pesanti equivoci, non possiamo limitarci a tale semplice risposta. Per uscire dagli equivoci, è necessario illustrare il metodo autentico della lectio. A tale scopo, ci lasceremo guidare dalla stessa dottrina dei Padri.

Dobbiamo riconoscere che il metodo della lectio è più antico dei nostri Padri. Di fatto, esso non è posteriore alla sacra Scrittura, perché lo si rintraccia già all'interno di essa. Valga per tutti l'episodio di Emmaus, alla fine del Vangelo di Luca. Il Signore risorto non è forse egli stesso l'autentico Maestro della lectio divina?

Da parte loro, poi, i Padri greci non si stancarono di coltivare e di raccomandare quella che Origene chiama thèia anàgnosis (la "divina ricognizione" dei testi sacri), e che i Padri latini, a partire da sant'Ambrogio, chiamano lectio divina.
Dopo Ambrogio, il metodo della lectio in occidente rimane legato alle antiche Regole monastiche, finché incontra il suo definitivo "codificatore" in Guigo II, priore della Grande Certosa negli anni fra il 1174 e il 1180. Siamo ormai vicini all'età di Dante.


Guigo ci ha consegnato una presentazione organica della lectio divina nella celebre Lettera "all'amatissimo fratello suo Gervaso", intitolata anche La scala di Giacobbe. "Un giorno, occupato in un lavoro manuale - scrive appunto Guigo II - mi trovai a pensare all'attività spirituale dell'uomo".
Dunque, proprio mentre sta eseguendo un'attività manuale, Guigo si rende conto che ogni manufatto, per riuscire soddisfacente, richiede tempi e ritmi precisi, o - più esattamente - esige una serie di operazioni scalari. Allora si domanda se per caso non succeda la stessa cosa anche per le attività dello spirito; e prosegue: "Si presentarono improvvisamente alla mia riflessione quattro gradini spirituali, ossia la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. Questa è la scala che si eleva dalla terra al cielo, composta di pochi gradini, e tuttavia di immensa e incredibile altezza, la cui base è poggiata a terra, mentre la cima penetra le nubi, e scruta i segreti del cielo" (Lettera, 2).
Questa riflessione di Guigo ci permette finalmente di elencare, nel loro ordine, le quattro tappe fondamentali, che rappresentano la nervatura della lectio divina: la lectio, la meditatio, l'oratio e la contemplatio. Aggiungo solo una precisazione, a proposito di quest'ultima tappa, la contemplatio. Non voglio certo negare che - in linea di principio - la parola contemplatio alluda a una forma di preghiera piuttosto elevata. Ma in questo caso i nostri Padri non pensavano tanto alla preghiera (per questo c'era già l'oratio). Pensavano piuttosto al confronto "faccia a faccia" con quel Dio tutto carità, che impone di trasformare in carità la vita intera del credente.

Che cos'è allora la vera contemplatio, nel contesto della lectio divina? È la conversione della vita, e non c'è alcun bisogno di inventare una quinta tappa - che sarebbe l'operatio - proprio perché l'operatio è già di per sé il contenuto autentico della contemplatio.
Conviene ricordare, a questo proposito, un passo della Deus caritas est di Benedetto XVI, là dove il Papa afferma, alludendo chiaramente al pio esercizio della lectio divina: "Nel confronto "faccia a faccia" con quel Dio che è Amore, il monaco avverte l'esigenza impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio, tutta la propria vita" (n. 40).
Trascorriamo ora alla lettura profetico-apocalittica delle Scritture e alla Commedia di Dante Alighieri. Se Dante accolse Roma come nuova mèta del pellegrinaggio di ogni fedele, certamente egli non rinunciò a guardare all'ecumene, alla giustizia e alla pace universali, e dunque agli "stremi" del mondo, a cui si rivolgevano i vecchi pellegrinaggi. Tuttavia - con la sua adesione allo "spirito profetico" (Paradiso, 12, 141) di Gioachino da Fiore, nell'interpretazione che ne offrivano i Francescani spirituali - Dante spostò dalla dimensione "spaziale" a quella "temporale" il suo concetto di universalità, interpretando il Giubileo del 1300 come segno del futuro, luminoso svelamento della verità spirituale.
Questa concezione profetico-apocalittica - che attraversa l'interpretazione gioachimita delle Scritture, come pure l'opera dantesca - ha indotto la critica a correggere la definizione tradizionale della Commedia da "poema allegorico" a "poema figurale".

Come ha dimostrato Auerbach, il modello a cui Dante si attiene non va ricercato né nelle rozze composizioni medievali delle visioni (come quelle di Giacomino da Verona, di Bonvesin da la Riva, di Uguccione da Lodi), né nei poemi allegorici (come il Roman de la Rose), ma nella Bibbia.
Leggendola e interpretandola, Dante - come già i Padri della Chiesa - non lasciava nulla al mondo della fantasia o della finzione, e tutto inverava alla luce del Nuovo Testamento: nei fatti e nei personaggi dell'Antico Testamento, infatti, egli riconosceva altrettante figure di eventi futuri, carichi sì di più pieni significati, ma che non toglievano alcuna veridicità storica alle figure stesse.
Per spiegare con un esempio la duplice e distinta verità presente nella Commedia, lo stesso Dante nella lettera a Cangrande ricorse proprio alla Bibbia, richiamando l'evento del passaggio del Mar Rosso raccontato nel libro dell'Esodo: se è vero che la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù dell'Egitto - realizzatasi con il passaggio del Mar Rosso - prefigura la redenzione, cioè la liberazione definitiva celebrata dalla Pasqua cristiana, non per questo l'adempimento neotestamentario annulla la realtà storica dell'esodo dall'Egitto faraonico, alla quale invece tale adempimento assegna una pregnanza assai maggiore di quella che la moderna concezione scientifica della storia attribuisce ai fatti.

Mentre infatti lo storico moderno considera i fatti storici come una successione continua di accadimenti, senza cercarvi il significato in un disegno complessivo che li inveri, l'interpretazione figurale di Dante suppone la conoscenza dei significati primi e ultimi della storia.

La Bibbia li illumina alla luce di quei "momenti forti" della storia della salvezza (la creazione, l'incarnazione, la redenzione, il giudizio finale), che al continuum degli accadimenti assegnano il loro pieno significato: così attraverso il metodo figurale Dante nella Commedia si assume il ruolo proprio degli agiografi biblici, che avevano scritto la storia umana interpretandola alla luce dei disegni di Dio.
Nella Commedia questo proposito sembra contrastare con lo stesso titolo dell'opera, che allude sia alla "mediocrità" dello stile sia all'"evidenza" del vocabolario adottato dai "viaggiatori-cantastorie" dell'epoca; e invece anche sotto questo profilo la Commedia rivela la propria matrice nell'interpretazione spirituale delle Scritture.

I Padri della Chiesa alla sublimità dei contenuti rivelati dalla Bibbia vedevano giustamente corrispondere quel sermo humilis - che poteva anche scandalizzare alcuni Dottori come Agostino e Girolamo, formati alla nobile retorica classica - ma che rispecchiava la Persona di Cristo, nel quale culmina la rivelazione biblica: umiltà e sublimità si incontrano paradossalmente in Cristo, che è sia l'ultimo degli uomini, sia il figlio di Dio intronizzato alla destra del Padre nel Giudizio escatologico.
L'inesausta dialettica tra lettera e spirito, presente nella Bibbia stessa e rilevata sempre dai suoi più grandi lettori (si pensi ancora una volta a Origene), attraversa l'intero poema di Dante, che da una parte cercava la pantera del Phisiologus al di sotto dei dialetti della penisola, e dall'altra ascoltava docilmente l'ispirazione del "dittatore divino", che attraverso Beatrice lo aveva incaricato di compiere il viaggio narrato nella Commedia.
In questo senso egli aveva inseguito in un primo tempo lo stilus gravis adatto alle canzoni d'amore e al grande tema biblico di Deus caritas, e aveva cercato di avvicinare il suo "volgare aulico" alla lingua che lo stesso Creatore, che è Amore(1 Giovanni, 4, 16), doveva aver ispirato in principio ad Adamo ed Eva, perché "a sua immagine" (Genesi, 1, 27) cantassero il primo epitalamio della storia umana.
Ma questa lingua divina conservata nell'ebraico dei più antichi libri della Bibbia - come il Poeta sosteneva nel De vulgari eloquentia - in realtà non è mai esistita, e dunque anche la lingua delle Scritture doveva essere ricondotta alla storicità e precarietà del linguaggio umano (è quello che Dante negli anni della composizione della Commedia vuole sentirsi dire dallo stesso Adamo, quando lo incontra nel cielo delle Stelle fisse: Paradiso, 26, 91-96).

Eppure, se tale lingua divina non è più materialmente recuperabile dal passato, essa può essere ancora cercata nel futuro, lungo la via spirituale indicata dai gioachimiti: incarnato nella storicità del linguaggio, l'Amore divino può non solo ispirare la vera poesia, ma segnare in senso positivo l'evoluzione storica delle lingue, spingendole ad affratellarsi.
In questo senso Dante può definire le tre lingue sorelle - quella italiana, quella francese e quella provenzale - in contrapposizione amorosa, e quindi divina, con le "rime petrose", adatte invece al "tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce" (Inferno, 32, 2-3) del Cocito, nel cui ghiaccio è sequestrato l'Invidioso con il suo carico di odio inestinguibile.
La scelta del volgare fiorentino, concepito come "lingua del sì", trovava dunque giustificazione nelle Sacre Scritture, e Dante poteva servirsene come nuovo Adamo per "ridare nome" ed evidenza a tutte le cose, a quelle del cielo e a quelle della terra, del Paradiso e dell'Inferno.
Si tratta di una novità rivoluzionaria anche all'interno della società cristiana, perché con la scelta del volgare - compiuta attraverso il richiamo alle lingue della Bibbia - Dante toglieva alla casta clericale quel latino che essa aveva adottato come esclusiva lingua del sacro cristiano, e consegnava la locutio vulgaris al popolo laico, in modo che anche gli uomini comuni e le donne potessero esserne partecipi. Con il volgare neo-latino applicato al sacro cristiano si annuncia quel realismo, che già nell'occidente cristiano - in contrasto con l'oriente bizantino - aveva trovato fioritura nelle arti figurative, dalla miniatura alla pittura, dalla scultura alla sacra rappresentazione, e che ebbe in Giotto, contemporaneo di Dante, l'espressione più alta.

Gli artisti posteriori videro nell'opera di Giotto un'autentica rivoluzione artistica, tanto che, alla fine del Trecento, un suo seguace, Cennino Cennini, scrisse che Giotto "convertì l'arte di greco (bizantino) in latino" (neo-latino).

In tempi recenti si usò rubricare le opere letterarie e figurative, realizzate in questa svolta culminata in Dante e in Giotto, sotto la denominazione complessiva di biblia pauperum per la vasta accoglienza ricevuta in quelle fasce pauperistiche e spirituali del francescanesimo, che Dante frequentò assiduamente. Ancora una volta, l'interpretazione spirituale delle Scritture presiede al metodo patristico della lectio divina, come al poema figurale di Dante Alighieri.



(©L'Osservatore Romano - 3 febbraio 2011)

Caterina63
00venerdì 23 dicembre 2011 14:47
[SM=g1740717] Dante Alighieri... il "suo Paradiso", al di là dei riferimenti letterari e scolastici è davvero meraviglioso assaporare la Dottrina della Divina Incarnazione e del prodigioso concepimento e parto, attraverso delle parole formate in poesia....
E' tutto una poesia, è tutta una meraviglia! Fermiamoci a contemplare, sostiamo a meditare, e nello stupore degli eventi Divini, innamoriamoci anche noi di questa Madre come se ne innamorò Dio, come se ne innamorò Gesù, il frutto benedetto del Suo seno!
www.gloria.tv/?media=231633

Movimento Domenicano del Rosario
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Canto Karaoke Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio movimento domenicano del rosario Dante Alighieri Paradiso Canto XXXIII Musica di L. Vassallo voci e chitarra: G.Bottino - L. Vassallo


[SM=g1740738]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura

5 nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
così è germinato questo fiore.

10 Qui se' a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.
Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre

15 sua disianza vuol volar sanz'ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,

20 in te magnificenza, in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontate.

****************************************
Or questi, che da l'infima lacuna
de l'universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,

25 supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l'ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi

30 ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co' prieghi tuoi,
sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi

35 ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».

40 Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l'orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l'etterno lume s'addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s'invii

45 per creatura l'occhio tanto chiaro.
E io ch'al fine di tutt'i disii
appropinquava, sì com'io dovea,
l'ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m'accennava, e sorridea,

50 perch'io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l'alta luce che da sé è vera.

55 Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colui che sognando vede,
che dopo 'l sogno la passione impressa

60 rimane, e l'altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;

65 così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da' concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,

70 e fa la lingua mia tanto possente,
ch'una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,

75 più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E' mi ricorda ch'io fui più ardito

80 per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond'io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

85 Nel suo profondo vidi che s'interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo

90 che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
Un punto solo m'è maggior letargo

95 che venticinque secoli a la 'mpresa,
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.

100 A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che 'l ben, ch'è del volere obietto,
tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella

105 è defettivo ciò ch'è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch'un semplice sembiante

110 fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;
ma per la vista che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom'io, a me si travagliava.

115 Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco

120 che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer 'poco'.
O luce etterna che sola in te sidi,

125 sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

130 dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,

135 pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:

140 se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,

145 l'amor che move il sole e l'altre stelle.


[SM=g1740738]
Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 22:51

L’antica rete di quel dolce riso


Nella Divina Commedia, Dante individua l’origine della scristianizzazione nel momento in cui il cristianesimo viene ricondotto a una dottrina e a un’istituzione slegate dall’avvenimento della presenza di Gesù. E canta il sorriso di Beatrice, riflesso della Sua grazia. Recensione


di Paolo Mattei


Agostino Molteni, <I>Il sorriso di Beatrice. Invito alla lettura della Divina Commedia</I>, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2007, 128 pp., euro 11,00

Agostino Molteni, Il sorriso di Beatrice. Invito alla lettura della Divina Commedia, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2007, 128 pp., euro 11,00

«Così lo santo riso a sé traéli con l’antica rete». Eccolo, il sorriso di Beatrice, attrattiva irresistibile per gli occhi di Dante che lo sta contemplando al termine della sua salita sul monte del Purgatorio. Quel sorriso accompagna e illumina il viaggio oltremondano del poeta dall’Eden all’Empireo: lo aveva già incontrato, per la prima volta, nella giovinezza, come «una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare»; poi l’aveva perduto tra le complicate strade della sua vita, «ché la diritta via era smarrita»; ma, per grazia di Dio, lo aveva rincontrato ancora, ancor più rifulgente «de lo piacer divin», donato a lei dalla diretta visione di Dio, e pure a Dante, come riflesso di quello sguardo di Paradiso.

Proprio Il sorriso di Beatrice è intitolato un libro scritto da don Agostino Molteni, sacerdote lombardo, missionario in America Latina da vent’anni, e docente di Letteratura e Teologia presso l’Università Cattolica di Concepción, in Cile. Si tratta di un “invito alla lettura della Divina Commedia”, come recita il sottotitolo. Una lettura che si dipana – grazie al “lume del sorriso” di Beatrice, stella polare di questo viaggio nella Commedia dantesca – leggera e facile, senza l’inciampo di dotte e lunghe note a pie’ di pagina. Un viaggio nella Commedia, ma anche nella vita di Dante. E, sorprendentemente, in quella di tanti cristiani del nostro tempo. Un tempo ormai scristianizzato.



[SM=g1740733]  Dante e l’origine della scristianizzazione


Uno degli aspetti più interessanti e originali del lavoro di Molteni è infatti contenuto nella prima parte del libro, laddove è approfondita proprio l’intuizione di Dante circa l’origine della scristianizzazione del mondo. L’origine cioè di quel fenomeno che grosso modo sei secoli più tardi, un altro poeta, Charles Péguy, avrebbe cantato nei suoi Misteri e in Véronique: «Abbiamo il dolore di vedere mondi interi», scrive Péguy, «umanità intere vivere e prosperare dopo Gesù senza Gesù». Lo scrittore francese, assolutamente originale rispetto a tutta una certa apologetica anche molto recente, non descrive il mondo moderno scristianizzato come disperato. Osserva invece un mondo che fa tranquillamente a meno del cristianesimo, e, facendone a meno, vive prosperamente.
Nel suo saggio Molteni spiega come Dante individui l’inizio della scristianizzazione nel momento in cui il cristianesimo viene ricondotto a una dottrina o a un’istituzione slegate dall’avvenimento della presenza di Gesù. Il cristianesimo è una dottrina, è un’istituzione: ma è una dottrina e un’istituzione resa viva dall’avvenimento stesso della Sua presenza. Come per Gesù, che dice: «Questa dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato», così anche per i cristiani la dottrina e l’istituzione non sono un possesso, ma un Suo dono continuamente rinnovato. D’altronde, il termine “dottrina” indica proprio il tesoro del Signore, che Lui stesso custodisce. Se Gesù non fosse risorto, la Chiesa come istituzione sarebbe disumana. Per il fatto che è risorto, è Egli stesso che dona nel presente la possibilità di mettersi in rapporto con Lui, attraverso la visibilità del Suo corpo, che è la Chiesa.

Dante, spiega Molteni, aveva intuito che stava per sopraggiungere un tempo in cui la dottrina e l’istituzione avrebbero voluto sopravvivere anche se Gesù Cristo non fosse vivo e presente. Anche se la dottrina non fosse la Sua, cioè quella che il Padre continuamente Gli dona. Anche se la Chiesa non fosse il Suo corpo.
Quando il cristianesimo non è un avvenimento presente, ma è soltanto il discorso di una scuola slegato da un’attrattiva presente, accade, scrive Molteni, quello che Dante dice, per bocca di san Bonaventura, in questa terzina del Paradiso: «“L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”» (XII, 37-39): così si muovono i cristiani salvati dal sacrificio di Gesù – lenti, dubitosi e pochi –, perché anche la sapienza cristiana diventa pesante quando non è gratuito riconoscimento dell’attrattiva Gesù.

Eppure – spiega l’autore – il cuore e la memoria di Dante conservano e ci presentano le immagini di avvenimenti mirabili e imprevisti accaduti alcuni decenni prima del suo viaggio ultraterreno. Come quando parla, con la voce di Beatrice, di Domenico e di Francesco: «“La provedenza, che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo, / però ch’andasse ver’ lo suo diletto / la sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto, / in sé sicura e anche a lui più fida / due prìncipi ordinò in suo favore, / che quinci e quindi le fosser per guida”» (
Par. XI, 28-36): la Provvidenza – dice Beatrice a Dante –, con l’imperscrutabile disegno che sostiene ogni aspetto della creazione – l’uccellino che vola, la foglia che cade –, affinché la Chiesa, Sua sposa, andasse più sicura e fiduciosa verso il suo diletto – Gesù vivo, la felicità –, volle che venissero in suo aiuto Francesco e Domenico. I principi della Chiesa erano due semplici fedeli, uno dei quali, Francesco, nemmeno sacerdote.


<I>L’incontro di Dante e Beatrice</I>, miniatura del XIV secolo tratta dalla Divina Commedia, Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia

L’incontro di Dante e Beatrice, miniatura del XIV secolo tratta dalla Divina Commedia, Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia

La precarietà della grazia

Eppure, continua a spiegare Molteni, Dante osserva, attraverso le parole di san Benedetto, come la storia di grazia che aveva avuto inizio con Domenico e Francesco, dopo soltanto qualche decennio, era già sfiorita: «“La carne d’i mortali è tanto blanda, / che giù non basta buon cominciamento / dal nascer de la quercia al far la ghianda”» (Par. XXII, 85-87). Se una cosa bella passata non si rinnova, non rifiorisce, se l’inizio non riaccade come nuovo inizio e nuova grazia, il suo ricordo diventa triste nostalgia e può poi addirittura tradursi in violenza. La grazia non si può impugnare come possesso proprio, e Dante lo sa, come spiega l’autore del libro: «Lui riconosceva che la vita cristiana era precaria e che nessuno aveva la sicurezza infinita, per sempre, di vivere nella grazia».

Così Molteni cita un altro passo del
Paradiso, i quattro versi conclusivi del canto XIII, nei quali è san Tommaso d’Aquino che parla: «“Non creda donna Berta e ser Martino, / per vedere un furare, altro offerère, / vederli dentro al consiglio divino; / ché quel può surgere, e quel può cadere”» (139-142): nessuno creda di ritenere condannate o salvate persone solo per il fatto di averne viste alcune rubare e altre fare pie offerte; perché quello che adesso ruba può essere toccato dalla grazia e salvato, e quello che invece fa l’offerta, può cadere ed essere dannato.

E ancora, nel canto XIX del
Paradiso, l’Aquila dice a Dante: «“Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’, / che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo”» (Par. XIX, 106-108): molti che adesso gridano il nome di Cristo, nell’ultimo giudizio, saranno assai meno vicini a Lui di qualcuno che ora non lo conosce (di qualcuno che, magari, avrà offerto solo un bicchiere di acqua fresca al più piccolo dei suoi: «Non perderà», dice Gesù, «la sua ricompensa»). E più avanti, nel canto successivo, sono i beati a dire: «“E voi, mortali, tenetevi stretti / a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti gli eletti”» (Par. XX, 133-135). La certezza cristiana è l’abbandono del bambino in braccio alla madre, non una sicurezza costruita.


«... e ’l Vangelio si tace»

I brani appena citati raffigurano un’istituzione e un insegnamento cristiani che non scaturiscono e non rimandano alla Sua presenza viva. (Anche se il Signore non ha abbandonato la Sua Chiesa. E il sacramento dell’Eucaristia e la devozione alla Madonna non sono mai venuti meno e hanno reso anche ai più piccoli vicina e familiare la presenza reale e attuale del Signore). Beatrice, in un passo del Paradiso citato nel libro, sembra dirlo chiaramente a Dante: «“Voi non andate giù per un sentiero / filosofando; tanto vi trasporta / l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero! / E ancor questo qua su si comporta / con men disdegno che quando è posposta / la divina Scrittura o quando è torta”» (XXIX, 85-90): voi uomini siete trasportati soltanto dall’amore a ciò che appare e dal rincorrere i vostri pensieri; eppure, il correre dietro all’apparenza, il vivere dell’istintività e l’inseguire i propri pensieri, in Paradiso si giudica un male minore rispetto al posporre la divina Scrittura o oltrepassarla.
Un passo, questo, suggestivo anche per l’attualità.


Continua Beatrice: «“Non vi si pensa quanto sangue costa / seminarla nel mondo e quanto piace / chi umilmente con essa s’accosta”» (Par. XXIX, 91-93): non si pensa a quanto sangue è costato a Gesù e a tutta la schiera degli apostoli e dei martiri seminare il Vangelo nel mondo, e quanto piace al Signore chi alla Sacra Scrittura umilmente si accosta. E Beatrice, ancora: «“Per apparer ciascun s’ingegna e face / sue invenzioni; e quelle son trascorse / da’ predicanti e ’l Vangelio si tace”» (Par. XXIX 94-96): per apparire originale, invece di stare umilmente al dato, ciascuno s’inventa discorsi; e questi sono accolti e diffusi dai predicatori, mentre il Vangelo si tralascia. «“Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi / quante sì fatte favole per anno / in pergamo si gridan quinci e quindi”»: Beatrice continua a far notare a Dante come questa voglia di discorsi produca una nube di parole proclamate dal “pergamo” – dal pulpito –, che confondono la gente che le ascolta: «“sì che le pecorelle, che non sanno, / tornan del pasco pasciute di vento”» (Par. XXIX, 103-107).

«“Non disse Cristo al suo primo convento: / ‘Andate, e predicate al mondo ciance’; / ma diede lor verace fondamento; / […] Ora si va con motti e con iscede / a predicare, e pur che ben si rida, / gonfia il cappuccio, e più non si richiede”» (Par. XXIX, 109-111.115-117): ora chi predica lo fa con motti e sciocchezze, osserva Beatrice, con l’intento, teatrale, di mettersi in mostra di fronte al conquistato riso dei fedeli. Ma Cristo ai primi apostoli non aveva chiesto di fare teatro. E nel canto IX del Paradiso: «“Per questo l’Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare a’ lor vivagni. / A questo intende il papa e’ cardinali: / non vanno i lor pensieri a Nazarette, / là dove Gabrïello aperse l’ali”» (133-138): è abbandonato il Vangelo e sono abbandonati i Padri della Chiesa. Si attende solo allo studio dei testi delle leggi, consunti e fittamente glossati ai margini. Invece, è così semplice l’avvenimento cristiano: tutto è iniziato nel piccolo paese di Nazareth.

<I>San Bernardo mostra a Dante  la Vergine in gloria</I>, particolare della miniatura di Giovanni di Paolo tratta dal codice Yates-Thompson della <I>Divina Commedia, Paradiso</I>, canto XXXI, f.186r, British Library, Londra

San Bernardo mostra a Dante la Vergine in gloria, particolare della miniatura di Giovanni di Paolo tratta dal codice Yates-Thompson della Divina Commedia, Paradiso, canto XXXI, f.186r, British Library, Londra

La «scuola» e il sorriso di Beatrice

Nella seconda parte del libro di Molteni si ripercorrono i passi in cui Dante descrive il sorriso di Beatrice, attraverso cui il poeta aveva intravisto il riflesso della Sua grazia che brilla qui sulla terra nel volto, nei gesti e nelle “opere belle” di chi di quella grazia vive. Beatrice spiega con tenerezza a Dante perché egli aveva smarrito quel sorriso. Dante s’era dato agli studi credendo che quella scuola potesse rendere felice la vita. E Beatrice dolcemente lo rimprovera: la vita è resa felice dal brillare della grazia e non dai discorsi su di essa.

«“Perché conoschi”, disse, “quella scuola / ch’hai seguitata, e veggi sua dottrina / come può seguitar la mia parola; / e veggi vostra via da la divina / distar cotanto, quanto si discorda / da terra il ciel che più alto festina”» (Purg. XXXIII, 85-90): Beatrice desidera che Dante conosca l’insufficienza di quella scuola in cui si producono grandi quantità di discorsi; desidera che conosca la distanza tra quei discorsi sulla grazia e il suo grazioso brillare: la stessa distanza che separa la terra dal cielo sconfinato. Discorsi che lo avevano affaticato («portava la mia fronte / come colui che l’ha di pensier carca», aveva detto il poeta in un altro passo del Purgatorio), privi com’erano di quella leggera suavitas donata dallo Spirito Santo.

Ecco, quindi, il sorriso di Beatrice da cui Dante è riconquistato: «Tant’eran li occhi miei fissi e attenti / a disbramarsi la decenne sete, / che li altri sensi m’eran tutti spenti. / […] così lo santo riso / a sé traéli con l’antica rete!» (Purg. XXXII, 1-3.5-6): il sorriso di Beatrice, che da dieci anni egli non aveva più visto, come la rete degli apostoli, prende Dante che lo guarda stupito.
E poi, nel Paradiso, Dante continua il suo racconto: «… rimirando lei, lo mio affetto / libero fu da ogne altro disire, / fin che ’l piacere etterno, che diretto / raggiava in Bëatrice, dal bel viso / mi contentava col secondo aspetto» (Par. XVIII, 14-18): guardandola, Dante riconobbe quello che il suo cuore desiderava, e fu libero da ogni altro desiderio finché la felicità eterna, il Signore, che brillava direttamente in Beatrice, riflettendosi nel suo bel viso, non rendeva contento anche lui.

Poi Dante rivolge la sua ultima meravigliosa preghiera a Beatrice: «“O donna in cui la mia speranza vige, / e che soffristi per la mia salute / in inferno lasciar le tue vestige, / di tante cose quant’i’ ho vedute, / dal tuo podere e da la tua bontate / riconosco la grazia e la virtute. / Tu m’hai di servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi / che di ciò fare avei la potestate. / La tua magnificenza in me custodi, / sì che l’anima mia, che fatt’hai sana, / piacente a te dal corpo si disnodi”. / Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana» (Par. XXXI, 79-93). Con queste parole di preghiera il poeta saluta la sua guida, che torna cogli altri santi a godere per sempre della visione di Dio. Dante prega, domanda. Il brillare della grazia, del piacere sommo riflesso nel volto e nei gesti, si può solo domandare. Anche quando lo si vede, lo si domanda, come fa il bambino «che ricorre / sempre colà dove più si confida» (Par. XXII, 2-3).

Questo libro è come un augurio che tutti possano imbattersi nel lume di quel sorriso.

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Caterina63
00domenica 19 agosto 2012 11:12

San Bernardo, Dante e l'ultimo traguardo

E Beatrice lasciò il posto a chi fu trasfigurato


di mons. Inos Biffi


Quando l'itinerario di Dante sta per finire e il traguardo cui mirava sta per essere raggiunto, ecco apparire la figura dell'abate cistercense, il «sene vestito con le genti glorïose» (Paradiso, XXXI, 59-60). 

«La conclusione del poema sacro -- scrive Gilson -- non è altro che l'unione dell'anima con Dio, immagine della visione beatifica». Anche Beatrice allora «si ritira e lascia al suo posto quest'uomo che l'amore ha trasfigurato a immagine di Cristo, Bernardo di Clairvaux» e di cui la Chiesa celebra la memoria il 20 agosto.

«Nella Divina commedia -- è sempre Gilson a rilevarlo -- Beatrice non è né una causa assolutamente prima né un fine assolutamente ultimo. 
Essa è l'inviata dell'amore divino presso Dante («Amor mi mosse, che mi fa parlare», Inferno, ii, 72): tramite la conoscenza di Dio, è l'amore di Dio, che lo deve condurre. Essa viene dall'amore e va all'amore. Ed è il motivo per cui Dante, con arte mirabile, ha sottolineato in anticipo il fatto che, dal momento in cui comincia a sentire i primi ardori dell'amore estatico, comincia anche a dimenticare Beatrice.

Ben lungi dall'offendersi per questo, Beatrice piuttosto se ne compiace, perché, simile alla fede, essa è venuta solo per potersi poi eclissare».
Avviene nel Paradiso, al canto decimo. Dante, su invito di Beatrice, si è volto a ringraziare Dio, Sole degli angeli, e allora, scrive il poeta, «sì tutto 'l mio amore in lui si mise, / che Bëatrice eclissò nell'oblio. / Non le dispiacque, ma sì ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise» (Paradiso, x, 59-63). 

Virgilio fino al Paradiso terrestre, poi Beatrice, infine san Bernardo di Clairvaux. «È lei -- osserva sempre Gilson -- che invierà san Bernardo presso Dante («A terminar lo tuo disiro, / mosse Beatrice me del loco mio», Paradiso, XXXI, 65-66), per condurlo all'estasi finale, coronamento del suo pellegrinaggio nell'al di là, fine ultimo del poema sacro e primizia del fine ultimo dell'uomo.

Essa dunque non può condurre Dante al termine del suo viaggio. L'intento del poeta è perfettamente chiaro, e Pietro Alighieri, commentando l'opera del padre, non si è ingannato sul significato di questo passo: «L'episodio di Dante lasciato da Beatrice sta a significare che non possiamo vedere e conoscere Dio attraverso la teologia, ma attraverso la grazia e la contemplazione. 
Per ciò viene impetrata dalla Vergine la grazia di vedere ciò che non è possibile percepire attraverso le scritture». Come Beatrice s'era fatta precedere da Virgilio finché la fede non era ancora necessaria, e si è sostituita a Virgilio nel momento in cui il lume naturale era divenuto insufficiente (...), essa si eclissa a sua volta davanti a san Bernardo nel momento in cui l'opera preparata dalla conoscenza deve compiersi per mezzo dell'amore».

San Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae scrive: «Maggiormente parteciperà del lume della gloria, chi possiede maggior carità, poiché, dove c'è carità più grande, qui maggiore è il desiderio, e il desiderio, in certo modo, rende il desiderante idoneo e preparato a ricevere il desiderato» (i, 12, 6, c). «Tutto san Bernardo -- commenta Gilson -- sta in questa affermazione»; «Nulla di più cistercense, ma anche nulla di più tomista».

Ancora una volta, Dante è proceduto non «per fredde allegorie», presentandoci «personificazioni astratte (...): Giustizia, Fede, Teologia, Filosofia», ma, «con una prodigiosa trovata artistica, un puro colpo di genio», «per simboli, cioè per personaggi rappresentativi». Nel caso di Bernardo per il personaggio che rappresentava ai suoi occhi la teologia mistica, o la «mistica unitiva». 
L'abate di Clairvaux «è scelto da Dante come l'espressione più alta della teologia mistica» (Raul Manselli). E infatti è in un'esperienza mistica che il cammino di Dante si consuma.

Ora il poeta può vedere non più unicamente, come nei due precedenti regni, delle «ombre vane, fuor che ne l'aspetto» (Purgatorio, ii, 79), ma facce umane vere, accese di carità, fregiate di luce divina, accese del sorriso, che nasce e perviene dal loro intimo, facce dignitose e gentili: «Vedëa visi a carità süadi, / d'altrui lume fregiati e di suo riso, / e atti ornati di tutte onestadi» (Paradiso, XXXI, 49-51).

In particolare egli può ammirare il volto di Maria, che compare come un sorriso di bellezza («una bellezza ridente» scriveva Anna Maria Chiavacci), che si moltiplica in letizia indefinibile negli occhi degli altri santi: quel volto che è lo specchio del volto di Cristo. In nessun viso -- dirà il poeta -- si riflette il viso di Gesù come in quello di Maria, la cui chiarezza -- spiegherà Bernardo -- «sola ti può disporre a veder Cristo» (Paradiso, XXXII, 86-87).

(L'Osservatore Romano 19 agosto 2012)




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Caterina63
00lunedì 4 maggio 2015 18:31

  Papa: Dante, cantore del riscatto umano dalla "selva oscura"




Un busto di Dante Alighieri - ANSA





04/05/2015 



Un “profeta di speranza” e un “annunciatore” della liberazione per ogni uomo e donna. È quanto Papa Francesco scrive di Dante Alighieri, nel giorno in cui in Italia si celebrano solennemente i 750 anni dalla nascita del sommo poeta. In un messaggio inviato al cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Francesco ricorda l’ammirazione nutrita nei secoli dai Pontefici nei riguardi dell’Alighieri. Il servizio di Alessandro De Carolis:


Dante Alighieri, ovvero il poeta della “possibilità di riscatto”, del “cambiamento profondo”, per il quale nessuna “natural burella” – nessuna umana debolezza – potrà risultare così impraticabile da impedire all’uomo che lo vuole di riuscire “a riveder le stelle”. C’è un’eco forte delle sue convinzioni nel ritratto che Francesco fa del celeberrimo autore della “Commedia”.


Pellegrinaggio in versi
Il Papa della misericordia ravvisa nei versi immortali di Dante un aspetto potente di quel rinnovamento che nasce in un cuore che si apre a una dimensione più grande. “Ci invita ancora una volta – scrive nel suo messaggio – a ritrovare il senso perduto o offuscato del nostro percorso umano e a sperare di rivedere l’orizzonte luminoso in cui brilla in pienezza la dignità della persona umana”. Del resto, osserva, tutta la Commedia può essere letta “come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico”.  Come un “paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce”,  in una strofa del Purgatorio, “l’aiuola che ci fa tanto feroci”.

Lettura non riduttiva
Il Messaggio del Papa è un compendio di quanto in passato i suoi predecessori abbiano detto, citato e attinto dal Vate fiorentino per conferire un tratto di bellezza a un aspetto del loro magistero e soprattutto per ammirare come la fede avesse potuto ispirare parole così intramontabili. Ad esempio Benedetto XV, che per il sesto centenario della morte di Dante, proprio indicando il “ben poderoso slancio d’ispirazione” che “egli trasse dalla fede divina", esortò a considerare “l’importanza di una corretta e non riduttiva lettura dell’opera di Dante soprattutto nella formazione scolastica ed universitaria”.

Paolo VI: “Nostro è Dante!”
O Paolo VI che 50 anni fa, chiudendo il Vaticano II impresse nella sua Lettera Apostolica Altissimi cantus quell’affermazione recisa: “Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica”, individuando  nella Commedia un fine “pratico e trasformante”, poiché – affermò – l’opera “non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in alto grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso”.

“Dilata in fiamma poi vivace”
Anche San Giovanni Paolo II – rammenta il Papa – ha fatto “spesso” riferimento alle opere dell’Alighieri e nella prima Enciclica, Lumen fidei, scrive Francesco, “ho scelto anch’io di attingere a quell’immenso patrimonio di immagini, di simboli, di valori costituito dall’opera dantesca” quando per “descrivere la luce della fede, luce da riscoprire e recuperare affinché illumini tutta l’esistenza umana, mi sono basato proprio sulle suggestive parole del Poeta, che la rappresenta come «favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”.

Luce nella “selva oscura”
In definitiva, conclude Papa Francesco, “onorando Dante Alighieri come già ci invitava a fare Paolo VI, noi potremo arricchirci della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia, per giungere alla méta sognata e desiderata da ogni uomo: ‘L’amor che move il sole e l’altre stelle’”.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AL PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA 
IN OCCASIONE DELLA CELEBRAZIONE DEL 750° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI DANTE ALIGHIERI

 

Al Venerato Fratello 
Cardinale Gianfranco Ravasi

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura

In occasione della solenne celebrazione del 750° anniversario della nascita del sommo poeta Dante Alighieri, che si tiene presso il Senato della Repubblica Italiana, desidero rivolgere a Lei e a quanti saranno partecipi della commemorazione dantesca il mio cordiale e amichevole saluto. In particolare lo porgo al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, al Presidente del Senato, Pietro Grasso, a cui vanno le mie vive congratulazioni per questa significativa iniziativa, al Ministro Dario Franceschini; e lo estendo a tutte le Autorità presenti, ai Parlamentari, alla Società Dante Alighieri, agli studiosi di Dante, agli artisti e a quanti con la loro presenza vogliono onorare una delle figure più illustri non solo del popolo italiano ma dell’umanità intera.

Con questo messaggio vorrei unirmi anch’io al coro di quanti considerano Dante Alighieri un artista di altissimo valore universale, che ha ancora tanto da dire e da donare, attraverso le sue opere immortali, a quanti sono desiderosi di percorrere la via della vera conoscenza, dell’autentica scoperta di sé, del mondo, del senso profondo e trascendente dell’esistenza.

Molti miei Predecessori hanno voluto solennizzare le ricorrenze dantesche con documenti di grande importanza, in cui la figura di Dante Alighieri veniva riproposta proprio per la sua attualità e per la sua grandezza non solo artistica ma anche teologica e culturale.

Benedetto XV dedicò al Sommo Poeta, in occasione del VI Centenario della morte, l’Enciclica In praeclara summorum, datata 30 aprile 1921. Con essa il Papa intendeva affermare ed evidenziare «l’intima unione di Dante con la Cattedra di Pietro». Ammirando «la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno», il Pontefice invitava a «riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina» e a considerare l’importanza di una corretta e non riduttiva lettura dell’opera di Dante soprattutto nella formazione scolastica ed universitaria.

Il beato Paolo VI, poi, ebbe particolarmente a cuore la figura e l’opera di Dante, a cui dedicò, a conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, esattamente cinquant’anni fa, la bellissima Lettera Apostolica Altissimi cantus, in cui indicava, con grande sensibilità e profondità, le linee fondamentali e sempre vive dell’opera dantesca. Paolo VI con forza e intensità affermava che «nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica» (n. 9). Quanto al fine dell’opera dantesca, Paolo VI affermava chiaramente: «Il fine della Commedia è primariamente pratico e trasformante. Non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in alto grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso» (n. 17). Citava, poi, il significativo passo della lettera del Poeta a Can Grande della Scala: «Il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità» (n. 17).

Anche san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sono spesso riferiti alle opere del Sommo Poeta e lo hanno più volte citato. E nella mia prima Enciclica, Lumen fidei, ho scelto anch’io di attingere a quell’immenso patrimonio di immagini, di simboli, di valori costituito dall’opera dantesca. Per descrivere la luce della fede, luce da riscoprire e recuperare affinché illumini tutta l’esistenza umana, mi sono basato proprio sulle suggestive parole del Poeta, che la rappresenta come «favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla» (n. 4; cfr. Par. XXIV, 145-147).

Alla vigilia del Giubileo Straordinario della Misericordia, che si aprirà l’8 dicembre prossimo, a cinquant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, auspico vivamente che le celebrazioni del 750° anniversario della nascita di Dante, come quelle in preparazione al VII centenario della sua morte nel 2021, possano far sì che la figura dell’Alighieri e la sua opera siano nuovamente comprese e valorizzate, anche per accompagnarci nel nostro percorso personale e comunitario. La Commedia può essere letta, infatti, come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico. Essa rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce «l’aiuola che ci fa tanto feroci» (Par. XX, 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità. È questo l’orizzonte di ogni autentico umanesimo.

Dante è, dunque, profeta di speranza, annunciatore della possibilità del riscatto, della liberazione, del cambiamento profondo di ogni uomo e donna, di tutta  l’umanità. Egli ci invita ancora una volta a ritrovare il senso perduto o offuscato del nostro percorso umano e a sperare di rivedere l’orizzonte luminoso in cui brilla in pienezza la dignità della persona umana. Onorando Dante Alighieri, come già ci invitava a fare Paolo VI, noi potremo arricchirci della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia, per giungere alla méta sognata e desiderata da ogni uomo: «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).

Dal Vaticano, 4 maggio 2015

Francesco




 


Caterina63
00lunedì 7 settembre 2015 08:50

IL PARADISO RITROVATO/ 16
Dante Alighieri
 

La fatica non è a nessuno in alcun modo risparmiata. Così, se nell’Inferno Dante ha rischiato di morire dinanzi alle mura della città di Dite, ora in Paradiso corre il pericolo di non vedere Dio. È stato investito della missione di raccontare tutto quanto ha visto, ma farlo dovrà sostenere un esame. Sulla fede.

di Giovanni Fighera

La fatica non è a nessuno in alcun modo risparmiata. Così, se nell’Inferno Dante ha rischiato di morire dinanzi alle mura della città di Dite, ora in Paradiso corre il pericolo di non vedere Dio. È stato investito della missione di raccontare tutto quanto ha visto dal trisavolo Cacciaguida e gli è stato profetizzato l’esilio (canto XVII), ha visto i santi che gli sono venuti incontro nei diversi cieli. Tutto questo, però, non è ancora sufficiente. Per poter vedere Dio Dante dovrà sostenere una prova, un vero e proprio esame di baccelliere, che nel Medioevo si affrontava proprio a trentacinque anni (l’età che ha Dante nella finzione letteraria della Commedia, ambientata nel 1300) per conseguire la facoltà di insegnare ovunque. Il superamento dell’esame sarà per il poeta un’ulteriore comprova del valore del cammino compiuto e dell’insegnamento appreso. 

L’esame è complesso. Consta di tre parti ognuna delle quali è costituita da una quaestio. Di prassi,solo alla fine dell’argomentazione del discepolo, il maestro interveniva per integrarne eventualmente il discorso. Tanto più brevi erano gli interventi finali quanto più valida era da considerarsi la prova sostenuta dal baccelliere. Il primo maestro che interroga Dante è san Pietro. Il tema è la fede. Non a caso è proprio l'apostolo a proporre quest’argomento, colui che ha camminato sulle acque sprofondando poi per il dubbio, che ha promesso a Gesù che non l’avrebbe mai rinnegato, ma che l’ha, in seguito, tradito per tre volte e per altrettante ha attestato di amarlo. Il Maestro gli affiderà, così, la sua Chiesa. San Pietro che non è, certo, un esempio di perfezione, testimonia, però, un indefesso amore e un’instancabile ripresa, dopo il peccato e le difficoltà, che lo porteranno al martirio in croce. Le sue lacrime sono il segno di quell’amore che lo ha condotto a seguire Gesù per capire chi fosse. Ricordiamoci che quando Gesù chiese ai suoi discepoli chi pensassero che Lui fosse, solo Pietro arrivò a dire: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente». San Pietro nella sua sequela iniziata per lo stupore di fronte a quell’uomo è giunto fino a riconoscere la straordinarietà di Gesù, la sua divinità. 

Ecco, proprio lui chiede: «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto:/ fede che è?». Prima di rispondere,Dante guarda Beatrice per trarre conforto dai suoi occhi. Rifacendosi allora a san Paolo, Dante attesta: «Fede è sustanza di cose sperate/ e argomento de le non parventi;/ e questa pare a me sua quiditate». Ovvero, se da un lato «è il fondamento sostanziale delle nostre speranze», dall’altro la fede è «la premessa concettuale dalla quale dobbiamo dedurre ciò che non vediamo». Poi, Dante chiarisce meglio: «Le profonde cose/ che mi largiscon qui la lor parvenza,/ a li occhi di là giù son sì ascose,/ che l'esser loro v'è in sola credenza,/ sopra la qual si fonda l'alta spene;/ e però di sustanza prende intenza./ E da questa credenza ci convene/ silogizzar, sanz' avere altra vista:/ però intenza d'argomento tene». In parafrasi: «I profondi misteri dell’eternità che mi vengono manifestati qui così chiaramente sono così nascosti a chi vive sulla Terra che laggiù non esistono se non nella fede, sulla quale si fonda la speranza della salvezza e per questo la fede prende la denominazione di sostanza. Inoltre, la fede può essere catalogata come argomento, dal momento che, non avendo noi vivi alcuna percezione di questi misteri, li deduciamo dalla fede». 

San Pietro allora domanda al sommo poeta se possieda la fede. Dante non ha dubbi al riguardo erassicura l’apostolo. Allora questi incalza chiedendo da dove gli provenga questo tesoro. Dante replica che il fondamento è costituito dalle Sacre Scritture, l’Antico e il Nuovo Testamento. «Chi ci assicura», chiede di nuovo san Pietro, «che esse siano parola di Dio?». Allora Dante risponde che «la prova inoppugnabile della verità sovrannaturale delle Scritture sta in una serie di eventi, che sovrastano risorse e tecniche della natura: se la natura fosse un fabbro, diremmo che, per quel genere di eventi, non è in grado né di fondere il metallo né di batter l’incudine». La prova che le Sacre Scritture sono Parola di Dio sta negli eventi incredibili ivi raccontati. Allora il santo chiede quale sia la garanzia che quelle opere raccontate siano vere e autentiche. Il più grande miracolo che ne attesta la verità è che san Pietro entrò «povero e digiuno/ in campo, a seminar la buona pianta che fu già vite e ora è fatta pruno». 

Bellissima risposta. La prova più grande, il motivo più convincente, la ragione più profonda per cuiDante crede è l’esistenza della Chiesa, la sua testimonianza vivente: ragioni  solo umane non possono spiegare come essa sia cresciuta fino a diventare pianta con fusto, da seme che era, se si considera anche la pochezza degli uomini che seminarono (san Pietro, il primo Papa, è definito qui «povero e digiuno»). La fede è un criterio di conoscenza, uno dei più utilizzati, se non il più frequente nella vita quotidiana. Del resto la stessa cultura si basa su questo principio di fede, fiducia, credito attribuito a testimoni credibili. Il primo criterio di conoscenza che utilizziamo nella quotidianità, nel rapporto con le persone, nella conoscenza più in generale non è quello scientifico, ma quello basato sulla fiducia che noi attribuiamo a un testimone credibile.  Quando uno studente prende appunti e li studia, applica il principio di conoscenza per fede, cioè dà credito all’insegnante che parla. Allo stesso modo, quando parliamo con una persona, attribuiamo un attestato di credibilità o meno al nostro interlocutore. 

La fede nel campo religioso nasce dall’incontro con testimoni credibili, come gli apostoli che hannoincontrato Gesù e a loro volta molti hanno incontrato gli apostoli, che hanno testimoniato quanto visto e vissuto, pronti addirittura alla morte. San Pietro pone infine l’ultima domanda a Dante: in che cosa credi, ovvero qual è il contenuto della tua fede? Conclude Dante: «Io credo in uno Dio/ solo ed etterno (sic), che tutto ’l ciel move,/ non moto, con amore e con disio; […]/ e credo in tre persone etterne, e queste/ credo una essenza sì una e sì trina,/ che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’». Ecco la professione di fede di Dante, prontamente approvata dall’apostolo.        


















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