Erik Peterson, il Protestante teologo tedesco che si convertì al Cattolicesimo, ricordato da Benedetto XVI

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Caterina63
00lunedì 25 ottobre 2010 23:39
L'udienza di Benedetto XVI ai partecipanti al convegno internazionale su Erik Peterson

In cerca di una città futura


"Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura". Per Benedetto XVI questa citazione presa dalla Lettera agli Ebrei (13, 14) potrebbe essere il motto ideale per definire la vita di Erik Peterson, il teologo tedesco - una delle figure più eminenti del XX secolo - alla cui opera è dedicato il convegno in corso in questi giorni a Roma in occasione del cinquantesimo anniversario della morte e i cui partecipanti sono stati ricevuti in udienza, nella mattinata di lunedì 25 ottobre nella Sala Clementina.

Dopo aver rivolto il suo personale saluto al cardinale Karl Lehmann, vescovo di Mainz, e ai familiari di Peterson, il Papa ha ripercorso con rapidi tratti la biografia dello studioso di Amburgo sottolineando come la difficile situazione politica in Germania dopo la prima guerra mondiale, ormai priva di certezze, si riflettesse anche nel dibattito teologico. In quel contesto il protestante Peterson decise di lavorare in campo storico e di affrontare specialmente problemi di storia delle religioni.

Di lì partì il suo cammino di ricerca durante il quale giunse sempre più alla certezza che non c'è nessuna storia staccata da Dio e che in questa storia la Chiesa ha un posto speciale e trova il suo significato.

Benedetto XVI ha messo in evidenza due capisaldi della riflessione teologica petersoniana:  anzitutto il carattere vincolante della Sacra Scrittura, la cui testimonianza rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni religiose permanentemente valide della Chiesa stessa. Convinzioni - emerge qui il secondo aspetto fondamentale - che si manifestano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste.

In questa tensione verso il futuro si ritrova quindi il richiamo alla Lettera agli Ebrei:  "Non abbiamo quaggiù una città stabile", ed Erik Peterson - ha ricordato Benedetto XVI non ha mai trovato un vero posto in tutta la sua vita, dove poter ottenere riconoscimento e stabile dimora. E proprio la precarietà della sua esistenza (acuita dalla perdita dell'insegnamento dopo la sua conversione al cattolicesimo) ha determinato il fatto che molte delle cose da lui pensate e scritte siano rimase frammentarie.

Particolarmente prezioso, perciò, per il Papa è stato e continua a essere l'impegno di quanti stanno lavorando all'edizione della sua opera e alla sua traduzione in varie lingue (italiano, francese, spagnolo, inglese, ungherese e perfino cinese). Un'opera nella quale emerge chiaramente come il suo pensiero non si ferma mai ai dettagli, ma sa contemplare sempre l'insieme della teologia.
 
"Non abbiamo quaggiù una città stabile" e perciò Peterson, anche quando non aveva la sicurezza di uno stipendio fisso, non esitò, una volta giunto a Roma, a sposarsi e a formare una famiglia, confidando nella provvidenza di Dio ed esprimendo in modo concreto la sua convinzione interiore che noi, pur essendo stranieri sulla terra, troviamo tuttavia un sostegno nella comunione dell'amore, e che nell'amore stesso vi è qualcosa che dura per l'eternità.
Andiamo infatti in cerca di una città futura.


(©L'Osservatore Romano - 25-26 ottobre 2010)
Caterina63
00lunedì 25 ottobre 2010 23:49

di Karl Lehmann da “L’Osservatore Romano
Cardinale, vescovo di Mainz

A partire dagli anni Trenta Peterson è vissuto a Roma. Per lungo tempo il suo fu un nome riservato a una stretta cerchia di interessati ai lavori. Ciononostante egli esercitò un notevole influsso sulla teologia evangelica e cattolica.

È importante conoscere in modo approfondito la sua vita e la sua opera.
Convertitosi dalla Chiesa evangelica a quella cattolica (1930), si sarebbe trovato coinvolto tra le forti tensioni di tempi estremamente difficili in termini storico-politici e, soprattutto, di realtà ecclesiali sconvolte da acerbi contrasti.

Da parte cattolica fu per lungo tempo oggetto della diffidenza allora prevalente nei confronti dei convertiti del suo profilo; dure furono pertanto le difficoltà da lui incontrate quando, nel periodo immediatamente successivo alla conversione, chiese di essere ordinato sacerdote secolare in una diocesi. Soprattutto in ragione della personalità di Peterson, e della sua significativa posizione teologica, persistente fu nel mondo evangelico l’attitudine a marcare la sua decisione con lo stigma del “traditore”.

L’atteggiamento critico assunto da Erik Peterson nel confrontarsi con la teologia protestante del suo tempo non può essere d’altronde frainteso e utilizzato, come qualcuno vorrebbe, quale testimonianza da addurre a favore di una tendenza antiecumenica. Le riflessioni da lui maturate a partire dagli anni Venti nell’ambito della teologia, del dogma, della liturgia e della Chiesa anticipano varie posizioni che nei decenni successivi, non di rado, sarebbero state oggetto di un laborioso processo di assimilazione.

Alcune di queste posizioni vanno tuttora precisate e approfondite, comportando esse, in vario senso, una certa distanza critica. Grazie all’approfondito sforzo di porre in luce l’essenza della rivelazione, della Scrittura e della Tradizione, della Chiesa, della liturgia e del diritto, Peterson ci guida, non senza una certa radicalità, verso il nucleo centrale della teologia, individuato peraltro al di là o al di qua di posizioni estreme o di schemi interpretativi correnti. Questo sforzo di differenziazione è necessario per quanto concerne, in particolare, il tentativo fatto da Peterson nei testi degli anni Venti sulla nozione di Ekklesìa, di comprendere in termini nuovi l’apostolicità della Chiesa e la successione apostolica.

Nell’opera di Erik Peterson la saldezza dei principi convive con un’attenta flessibilità. È questo uno stile chiaramente avvertibile nella definizione che egli elabora della successione apostolica e della sequela, soprattutto quando afferma che “una parte del mandato dei Dodici si perpetua nella successione apostolica e con la successione degli apostoli – con la successione della predica apostolica nel Vangelo scritto entriamo comunque nel mondo storico”.

È un esempio che documenta quanto stretto sia il nesso da lui individuato tra la predica di Gesù e il mandato dei Dodici, tra la predicazione degli apostoli e la Scrittura; si tratta per lui di componenti che vanno colte nel nesso che le vincola alla categoria della Tradizione. I nuovi documenti ecumenici convergono in alcuni punti con i tentativi fatti da Peterson, per quanto diversi possano poi essere gli sviluppi impressi di volta in volta a tali posizioni. Ciò vale a esempio per quanto concerne sia le riflessioni fatte da Peterson sulla natura dell’apostolato e sulla apostolicità della Chiesa, sulla teoria e sulla realtà dei ministeri nella Chiesa antica, sui problemi ermeneutici inerenti alla nozione di “successione apostolica”, sia sul significato che possano avere negli odierni dibattiti teologici le figure argomentative della sua pneumatologia. È inoltre interessante analizzare l’attenzione prestata da Peterson, grazie alla sua recezione del pensiero giuridico dell’antichità, alla partecipazione e all’influsso che il popolo può avere nella fase di accettazione e di acclamazione di decisioni di varia natura.

Le riflessioni di Erik Peterson, non ultime quelle relative ai fondamenti della Chiesa, contengono numerosi elementi che possono tuttora costituire termini di una proficua scoperta per l’ecumene. Le posizioni da lui espresse rappresentano uno stimolo a procedere nell’instancabile sforzo teologico di aprirsi davvero alle domande che emergono dalla profondità di una fede cristiana biblicamente fondata senza ignorare la storia della Chiesa.

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di Giancarlo Caronello

Il cinquantenario della morte di Erik Peterson ripropone la riflessione sul suo periodo romano (1930-1960). Se varie furono le ragioni che lo indussero a restare a Roma, determinante fu quella di venirvi e confrontarsi con la Chiesa cattolica nel luogo della sua massima visibilità; è a San Pietro che egli celebrò nel Natale del 1930 la sua conversione. 

Dopo un breve periodo d’incertezza, dovuto al comprensibile desiderio di inserirsi nel cattolicesimo tedesco, è al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana che trovò una sia pur precaria sistemazione, insegnandovi per oltre due decenni.

Accanto alle mura vaticane, in via di Porta Angelica 63, proprio di fronte alla Porta Sant’Anna trascorse gli ultimi anni della sua vita:  maestro senza scuola, rappresentò un punto di riferimento per teologi che stavano ritriangolando, senza tradirne la natura, il rapporto tra teologia, Chiesa e storia.

Il dialogo con Oscar Cullmann e Heinrich Schlier, con Jean Daniélou e Michele Pellegrino venne condotto da Peterson all’insegna del testimone che egli, non romano in vario senso, intendeva passare recependolo dalla plurisecolare tradizione che l’aveva portato a Roma. Il suo rapporto con la città fu pertanto profondo, instaurato col mistero che vi promana più che con la sua realtà socio-culturale, cui rimase sostanzialmente estraneo. La condizione di marginalità che ne conseguì ebbe per lui una valenza simbolica, tale da debordare quella, pur dolorosamente acuta, dello spazio biografico.

Peterson non si rifugiò mai nella biografia del “convertito”. A Igino Giordani, che gli chiedeva di fornirgli una “storia della sua conversione”, rispose con un cortese rifiuto; accettò solo che venisse tradotto il suo Carteggio con Adolf von Harnack del 1928. Fu il suo primo testo reso accessibile al lettore italiano, in un certo senso un biglietto da visita di cui il mondo romano non prese nota, occupato com’era a ridefinire i rapporti di visibilità conseguenti ai Patti del 1929.

Il carteggio era stato pubblicato in Germania nel novembre del 1932, oltre un anno dopo la dolorosa “lettera di addio” a Karl Barth – e con lui all’amata Chiesa evangelica”. La traduzione italiana appare nel gennaio 1933 su “Fides”, rivista di apologetica curata da Mario Bendiscioli con Giordani e il futuro cardinale Giulio Bevilaqua.

Contrariamente all’originale tedesco, che riporta il carteggio nella sua integralità con un lungo epilogo di Peterson sul “principio cattolico”, l’epistolario esce sotto forma di “articolo antologico” firmato da Bendiscioli stesso.

Il titolo è significativo:  “Adolf Harnack, il cattolicesimo e il destino del protestantesimo” (in Pensiero e vita religiosa della Germania nel Novecento, Brescia, Morcelliana, 2001, a cura di Massimo Marcocchi, pp. 185-200).

Lo scritto fa parte di una “mappa ecumenica” stesa da Bendiscioli in contrapposizione al dibattito condotto da Giuseppe Gangale sulla “teologia della crisi” e in riferimento a movimenti teologico-ecclesiali ritenuti consoni alla proposta harnackiana di una “chiesa-comunità” quale modello ecclesiologico del futuro. Ispirata alla prospettiva apologetica dettata  dalla Mortalium animos di Pio xi e focalizzata sulla categoria della “romanità”, su cui Bendiscioli farà successivamente autocritica, tale mappa non consente di cogliere facilmente le intenzioni originarie del testo.
A Peterson preme una riscoperta dei Padri, non una ripresa del romanticismo ecclesiologico. Ciononostante la traduzione antologica aiuta a intuire il nucleo del pudico silenzio di Peterson grazie all’oggettivante ruolo di testimone attribuitogli.

Nella presentazione del carteggio fatta da Bendiscioli due sono le polarità contrapposte alla posizione di Peterson:  da un lato, come rileva il titolo, il problema ecclesiologico posto dalla teologia liberale e, dall’altro, come è evincibile dal contesto pubblicistico, la definizione che ne fornisce la coeva cultura della crisi. A entrambi questi orientamenti Peterson oppone una riscoperta categoria patristica dell’Ekklesìa, in cui convergono sia la natura strutturalmente pubblica dello spazio ecclesiale, sia la dimensione trascendentale che ne è connessa. È su quest’oggettivazione del dibattito che egli intende attirare l’attenzione dell’ambiente teologico ed ecclesiale romano, senza peraltro ottenere l’eco sperata.

Più che strettamente biografico, il carteggio con Harnack è un documento storico del Novecento teologico. Tanto più che ora è leggibile contestualmente agli epistolari con Karl Barth e con Rudolf Bultmann, recentemente pubblicati dalla teologa Barbara Nichtweiß, curatrice dell‘Opera selecta di Peterson (Erik Peterson:  Theologie un Theologen, Briefwechsel mit Karl Barth u. a. Reflezionen und Erinnerungen, Würzburg, Echter, 2009).

I tre epistolari permettono di ricostruire dettagliatamente i termini e le tappe di un itinerario ecclesiologico interno alla teologia evangelica che non ha affatto perso attualità. In essi confluiscono riflessioni maturate durante la stesura di un progettato volume d’ecclesiologia cui Peterson lavora sin dai primi mesi del 1928. Il progetto è strettamente connesso alla disputa del 1925 – che aveva profondamente scosso la teologia protestante – sulla natura ecclesiale del dogma.

I primi risultati della ricerca vengono anticipati in forma sistematica con la Conferenza sulla Chiesa tenuta a Groningen nel settembre del 1928, stampata nell’autunno successivo e riproposta poi quale ultimo dei Trattati teologici (1951). Il lungo manoscritto contenente gli studi preliminari viene ora pubblicato, grazie a una rigorosa e non facile ricostruzione del testo, da Barbara Nichtweiß e dall’esegeta Hans-Ulrich Weidemann, con il titolo Ekklesia. Studien zum altchristlichen Kirchenbegriff (Würzburg, Echter, 2010). Costituisce l’atteso tassello mancante del mosaico ecclesiologico a cui Peterson aveva rinviato sin dall’inizio del suo soggiorno romano.

Con questa pubblicazione Barbara Nichtweiß ha reso accessibile un punto chiave del laboratorio teologico in cui Peterson opera negli anni fecondi e drammatici di Bonn (1924-1929). Sono ora più facilmente comprensibili sia il nucleo sistematico attorno a cui gravitano i carteggi, sia soprattutto la ragione per cui Peterson nel primo decennio del periodo romano farà dell‘Ekklesìa quale autocomprensione del primo cristianesimo un punto chiave delle sue pubblicazioni. È nell’aspetto pubblico e cosmico della Chiesa che convergono tematicamente la sua nozione di liturgia, la sua categoria di testimonianza e la sua teologia trinitaria, contrapposta nel 1935 a ogni riduzione teologico-politica.

Nel manoscritto pubblicato sono chiaramente leggibili i paradigmi di riferimento di quest’ecclesiologia in fieri:  quello pubblicistico della Ekklesìa come spazio assembleare, di culto e deliberativo, basato su una pòlis; quello escatologico della costituzione della Chiesa in un rapporto di connaturalità con la Gerusalemme celeste e quello specificamente apostolico della Chiesa quale ordinamento dottrinale e giuridico basato sull’autorità dei Dodici.

Preziosi sono i tre commenti che integrano l’edizione del manoscritto, dotata peraltro di un accurato  sistema  di note. Mentre Nichtweiß contestualizza il manoscritto nell’opera di Peterson e nel dibattito ecclesiologico coevo, Weidemann pone in evidenza gli aspetti esegetici di una problematica omologazione storica del mistero ecclesiale alla “Chiesa dei gentili” e della necessità di un progressivo superamento, come in gran parte avvenne, nella successiva riflessione petersoniana. Il contributo del cardinale Karl Lehmann sulla successione apostolica documenta quanto sia oggi evoluta sul piano ecumenico la possibilità di dibattere le questioni ecclesiologiche poste da Peterson, destinate invece negli anni Venti ad approfondire, più che ad appianare, le divisioni confessionali.

Le reazioni da parte evangelica alla conferenza del 1928 accelerarono infatti in Peterson la decisione della conversione. Egli avvertì il glaciale silenzio sulle tesi esposte; il manoscritto ora pubblicato documenta il confronto con le ragioni del suo progressivo isolamento teologico ed ecclesiale. Eccettuate la voce amica del benedettino Anselm Stolz e quella critica del gesuita Erich Przywara, mancò anche nella Chiesa cattolica un adeguato confronto con le sue tesi, nonostante vivo fosse l’interesse affermatosi nella nascente teologia ecumenica francese.

La prima traduzione del testo si avrà, quasi di soppiatto e senza un’adeguata recezione, solo nel 1953 sulla rivista laica “Dieu Vivant”; determinante è l’intervento di Daniélou che l’anno successivo cura per le edizioni del monastero di Chevetogne la pubblicazione di un altro volume di forte afflato ecclesiologico, Il libro degli angeli. Vani restarono negli anni Trenta i tentativi fatti da Yves Congar di tradurre l’opera in francese e quelli avviati in parallelo da Giulio Bevilaqua di pubblicarla in italiano, nella stessa collana in cui egli aveva edito nel 1930, insieme a Bendiscioli, Lo spirito della liturgia di Romano Guardini.
 
Sporadici e di fatto privi di un’eco effettiva furono gli articoli che si occuparono dell’ecclesiologia di Peterson prima degli anni Sessanta.

Con la pubblicazione dell’articolo Chiesa di Joseph Ratzinger per la seconda edizione del Lexikon für Theologie und Kirche è chiaramente avvertibile una riscoperta dell’ecclesiologia di Peterson in ambito cattolico.
È il 1961, Peterson è morto da un anno. La sua posizione viene ripresa e in parte integrata da Ratzinger con il costante riferimento a quella simile dell’esegeta Schlier; alcune unilateralità del trattato petersoniano del 1928 vengono di riflesso relativizzate e riproposte nella loro originale intenzione di un ritorno alla tradizione patristica e in particolare al suo afflato pneumatologico. Determinante è la prospettiva storico-salvifica, espressa dall’unità dei due Testamenti, entro cui viene collocata tale riscoperta.

È significativo pertanto che la pubblicazione del lungo manoscritto petersoniano sulla Ekklesìa avvenga nelle stesse settimane in cui l’articolo del 1961 è riproposto nell’ottavo volume dell’opera omnia di Joseph Ratzinger (Kirche – Zeichen unter den Völkern. Schriften zur Ekklesiologie und Ökumene, Friburgo/Br. 2010, vol. 8/1, pp. 205-219).

Altrettanto rilevante è un altro contributo, ripreso nello stesso volume, sull’origine e sulla natura della Chiesa, pubblicato originariamente nel 1991 e peraltro già disponibile in italiano (Joseph Ratzinger, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2008, pp. 9-40).
Attento è il confronto che Ratzinger instaura con la proposta ecclesiologica di Peterson:  rivelatrici sono sia le riflessioni dedicate alla autodeterminazione della Chiesa come Ekklesìa, sia quelle sul paradigma storiografico ed escatologico entro cui viene affrontato lo spinoso problema della costituzione della Chiesa nel tempo.

Caterina63
00lunedì 25 ottobre 2010 23:59

A trent’anni dalla morte di Heinrich Schlier
Essere senza dimora in questo mondo

Intervista con Veronika Kubina-Schlier, figlia del grande esegeta tedesco scomparso il 26 dicembre di trent’anni fa

Intervista con Veronika Kubina-Schlier di Lorenzo Cappelletti

Heinrich Schlier
      In occasione del trentennale della morte di Heinrich Schlier, il grande esegeta luterano convertitosi al cattolicesimo nel 1953, 30Giorni ha pensato di ricordarlo attraverso un’intervista a Veronika Kubina-Schlier, la più giovane dei suoi quattro figli. Gentilmente la professoressa Veronika Kubina-Schlier, anch’ella convertitasi al cattolicesimo al termine degli studi secondari, ha accettato di addentrarsi in alcuni passaggi della vita della sua famiglia di origine che illustrano ancor più, se ce ne fosse bisogno, la testimonianza cristiana di Heinrich Schlier.
     
      Ci può dire qualcosa sulla storia della vostra famiglia? Qualcuno di voi ha proseguito sulla strada degli studi teologici ed esegetici già percorsa da vostro padre? 

      VERONIKA KUBINA-SCHLIER: Non si sa molto della storia della nostra famiglia. Mio padre proveniva da una famiglia di medici, mia madre da una di commercianti. Noi siamo quattro fratelli che hanno tutti scelto professioni molto diverse: uno è fisico, un altro è esperto di economia politica, una è professoressa e giornalista; soltanto io, la più piccola, ho in certo qual modo seguito le orme di mio padre e quelle di mia madre, una teologa evangelica della prima ora. Ho completato i miei studi di Teologia a Freiburg i. Br. nel 1974 con un dottorato sul Libro di Giobbe col professor A. Deissler, e lavoro ancora oggi come teologa. 

      Quale eco avevano nella sua famiglia le ricerche, le scoperte, gli approfondimenti fatti da suo padre in campo esegetico e teologico, e il dialogo da lui intrattenuto con altri grandi studiosi come Karl Barth, Rudolf Bultmann, Hans-Georg Gadamer, Martin Heidegger, Erik Peterson e altri ancora? Ha conosciuto personalmente qualcuno di loro? 

      KUBINA-SCHLIER: Mia madre apprezzava molto il lavoro di mio padre, e l’ha accompagnato lungo gli anni in modo competente e critico. In famiglia, mio padre parlava solo raramente del suo dialogo con quelli che lei chiama “altri grandi studiosi”; e bisogna anche dire che non c’erano tante occasioni per farlo, visto che sulla nostra vita familiare incombevano, ancora negli anni del secondo dopoguerra, i disagi di quei tempi: i rischi a cui mio padre era andato incontro; la distruzione della nostra casa a Elberfeld e la conseguente separazione dai luoghi di residenza dei miei genitori. Rudolf Bultmann, Günther Bornkamm e Peter Brunner erano legati a noi in quanto nostri padrini; Erik Peterson di tanto in tanto ci faceva visita a Bonn. Attraverso quello che ci ha raccontato nostra madre sono venuta a sapere molte cose sugli anni dei loro studi e sui loro grandi maestri; e, negli anni successivi, anche attraverso quel che mi ha detto mio padre, col quale, in un’atmosfera più distesa, ho potuto piacevolmente conversare su questo. 

      Un momento particolarmente significativo non solo della biografia ma anche dell’evoluzione del pensiero di suo padre sembra essere stata l’opposizione ai Deutsche Christen (i cristiani evangelici nazionalisti) durante gli anni del nazismo. Ricorda qualcosa, magari di come ne parlava a posteriori? 

      KUBINA-SCHLIER: Il periodo nazista per mio padre non fu né un momento né un episodio: la sua vita e il suo pensiero teologico furono decisamente segnati dalla ideologia dei nazisti e dalle vicende politico-ecclesiali. Da cristiano e da uomo di chiare vedute politiche, mio padre (come anche mia madre) seppe dare sin dall’inizio un lucido giudizio sul movimento delle camicie brune, opponendo resistenza laddove fu possibile: come personalità di spicco della Chiesa confessante (Bekennende Kirche), ad esempio, dette un deciso contributo alla fondazione dell’Ateneo teologico a Elberfeld e ne fu il direttore clandestino. Quando lo Stato, subito dopo l’apertura, nel 1935, pose il divieto all’Ateneo, mio padre non esitò a restituire, quello stesso anno, la sua venia legendi [il permesso di insegnare, ndr] per Marburg, spiegando questo gesto con il suo rifiuto di principio di permanere in un «incarico di insegnamento conferitogli dallo Stato». La grave minaccia portata dallo Stato nazista alla sua (e anche alla nostra) vita determinò, tra l’altro, quella tragica separazione della nostra famiglia che si fece sentire per tanti anni ancora dopo la fine della guerra. Mio padre non parlava molto di quegli anni, era mia madre a tener vivo il ricordo per noi bambini.

La copertina dell’edizione italiana di Heinrich Schlier, Sulla risurrezione di Gesù Cristo, Morcelliana – 30Giorni, Roma 2005, 88 pp.
      Nella breve cronaca in latino che fu stilata al momento dell’accoglienza di suo padre nella Chiesa cattolica, egli viene definito «uomo profondamente religioso, di grande ingegno, molto educato, umile e riservato». Trova confacenti questi aggettivi? E quali altri le sembrerebbe necessario aggiungere per delineare la personalità di suo padre? 

      KUBINA-SCHLIER: Non mi sembra che un elenco di aggettivi possa rendere giustizia a mio padre. Testimonianze biografiche rese da altri e anche da lui stesso, per esempio nelle sue lettere, ne danno un’immagine molto più viva. Se dovessi comunque aggiungere qualcosa alla lista di qualità che emergono dalla cronaca della conversione di mio padre, direi: vulnerabile, cordiale, critico, spiritoso, generoso… 

      Come è stato recepito dalla sua famiglia e dall’ambiente intorno a voi il passaggio al cattolicesimo di suo padre? Egli non era un semplice fedele, era un professore e un pastore evangelico. 

      KUBINA-SCHLIER: Avendo avuto luogo a Roma, la conversione di mio padre fu percepita dalla mia famiglia soltanto da lontano; e l’abbiamo accettata senza problemi. Grazie all’atteggiamento aperto e tollerante di entrambi i miei genitori, le parole “evangelico” e “cattolico” per noi non erano termini da battaglia.
Le reazioni dell’ambiente attorno a noi furono, come era prevedibile, molto diverse e andarono dal più aperto giubilo (da parte cattolica) ad una accettazione amichevole e piena di comprensione, fino all’incomprensione e a celate e maligne ostilità
.
Tanti amici e collaboratori degli anni difficili rimasero comunque fedeli a mio padre, a volte anche nonostante serie divergenze nel merito delle questioni. A tal proposito vorrei citare soltanto alcuni nomi fra gli altri: Ernst Bizer, Helmut Gollwitzer, Hans-Georg Gadamer, Günther Bornkamm e Peter Brunner. 

      L’anno della morte di suo padre fu un anno cruciale per la Chiesa cattolica, l’anno dei tre papi: della morte di Paolo VI, dell’elezione e della improvvisa morte di papa Luciani a cui fece seguito l’elezione di Giovanni Paolo II. Ricorda quali erano i sentimenti di suo padre verso questi pontefici? 

      KUBINA-SCHLIER: Non so quale sia stato il rapporto di mio padre con questi papi. Nonostante la sua obbedienza alla gerarchia, preferiva tenere le distanze da “Roma”. A volte citava una frase di Erik Peterson: «Chi si converte avendo conosciuto “Roma” deve avere un amore profondo per la Chiesa».
 

      E rispetto a papa Ratzinger, già noto come teologo fin dagli anni del Concilio Vaticano II e fatto cardinale da Paolo VI nel 1977, ricorda qualche espressione di suo padre o qualche aneddoto? Sa che nel discorso del 10 maggio 2003, in occasione del primo centenario della costituzione della Pontificia Commissione Biblica, il cardinale Ratzinger, allora prefetto della Congregazione della Dottrina della fede, prese a modello la conferenza tenuta da suo padre nel 1936 sulla responsabilità ecclesiale di chi studia teologia? 

      KUBINA-SCHLIER: Con Joseph Ratzinger mio padre ha lavorato volentieri in diverse commissioni e in differenti occasioni: lo apprezzava come teologo dogmatico, lamentava però a volte la sua scarsa comprensione per la teologia biblica e per un pensiero modellato sulla Bibbia. «È proprio un teologo dogmatico!», disse una volta dopo una settimana di comune lavoro seminariale. Di un riferimento fatto dal cardinale Ratzinger a una conferenza di mio padre del 1936 non so nulla, ma, vista la predilezione dell’attuale Pontefice per citazioni di noti studiosi del passato, non mi stupisce.
 

Heinrich Schlier, Breve rendiconto. Il racconto autobiografico della conversione al cattolicesimo di uno dei più grandi esegeti del XX secolo, Òmicron – 30Giorni, Roma 1999, 64 pp.
      Presso numerosi colleghi e interpreti dell’opera di suo padre si legge che già negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II egli risultava piuttosto isolato, quasi realizzandosi nei fatti ciò che lui stesso scriveva alla fine della sua operetta autobiografica Kurze Rechenschaft (Breve rendiconto), e cioè che era comunque una terra straniera quella in cui aveva trovato la sua patria. È vero? E se sì, perché? 

      KUBINA-SCHLIER: Di una relativa emarginazione di mio padre già nell’immediato postconcilio non saprei dire. Sia nell’ambito scientifico sia in quello dell’interpretazione spirituale della Scrittura fu fino alla morte molto stimato, come dimostrano le parole di Karl Rahner e Günther Bornkamm: «… un carismatico del pensiero teologico»; o quelle di Rudolf Schnackenburg: «… un maestro dell’interpretazione del Nuovo Testamento». Sono giudizi che non vengono da gente… stravagante. I suoi commentari scientifici d’altronde fanno parte dei testi consigliati nelle Facoltà teologiche, cosa che non esclude, anzi include eventuali critiche ad essi; i suoi piccoli scritti erano molto richiesti in svariati ambiti; numerose commissioni ecclesiali hanno domandato il suo consiglio, tanto che egli fu attivo a diversi livelli della mediazione ecclesiale, dal consiglio parrocchiale di Sankt Michael a Bonn, fino alla Commissione per la Fede e la morale della Conferenza episcopale tedesca, di cui fu consulente.

Non c’è da stupirsi se, nel proliferare delle correnti teologiche dopo il Concilio Vaticano II, ci siano stati anche giudizi di altro genere. Quanto alla domanda su ciò che abbia inteso dire mio padre con quella frase tratta dal suo
Kurze Rechenschaft, richiederebbe una risposta molto più articolata. Personalmente credo sia scaturita da un profondo senso dell’essere senza dimora in questo mondo, da un modo di percepire la vita attinto da sorgenti diverse. A volte ciò che ha emarginato mio padre è stata l’invidia e la gelosia dei suoi colleghi cattolici.
 
Un esempio: quando stava per essere chiamato a Monaco – se ricordo bene era la cattedra di Romano Guardini a risultare vacante – “ci si” adoperò fattivamente per impedirlo, ripescando una vecchia disposizione che vietava a un laico l’insegnamento presso una cattedra cattolica. Constatare questa forte gelosia, quasi “un invidiarsi il pane”, ferì profondamente mio padre, anche se, con signorilità, preferì non parlarne. Aveva imparato a non dipendere dai successi esteriori e a non cercare la realizzazione della sua vita negli onori. Aveva già dovuto sperimentare l’ostacolo frapposto ai suoi progetti professionali, relativamente a Marburg, a Königsberg e anche ad Halle!, a causa del suo impegno per la Chiesa confessante (la
Bekennende Kirche).
 

      In questi trent’anni dopo la sua morte, per quanto lei sappia, l’interesse per l’opera e la testimonianza di suo padre è cresciuto o è scemato? E laddove c’è stato, come e da dove è scaturito? Sa che 30Giorni ha offerto in omaggio a tutti i suoi lettori nel 2005 una riedizione in italiano (con prefazione del cardinale Ratzinger) e quest’anno nuove traduzioni in inglese, francese, spagnolo e portoghese, dell’operetta Sulla risurrezione di Gesù Cristo che hanno suscitato molto interesse? 

      KUBINA-SCHLIER: Mi rallegro della grande risonanza delle traduzioni del libretto Sulla risurrezione di Gesù Cristo
pubblicate come supplemento alla vostra rivista. In questi trent’anni dopo la sua morte l’interesse per l’opera di mio padre ha conosciuto un crescente declino; e anche per questo ci sono tante ragioni: l’esegesi ha sviluppato nuovi metodi, ha acquisito nuove conoscenze, pone nuove domande. Il linguaggio accurato, ma spesso connotato in senso biblicistico ed esistenzialistico, viene ormai capito quasi soltanto dagli “addetti ai lavori”. Dunque suscitano ancora interesse soprattutto gli scritti spirituali di mio padre. Più di rado vengono studiati i suoi grandi commentari da esperti che vogliono attingere al ricco tesoro della “delucidazione del contesto”.

I temi su cui si era focalizzato il pensiero di mio padre, la Chiesa, il ministero, il ministero sacerdotale, sono inesauribili; ma, a quanto vedo, attualmente non sono oggetto di dibattito aperto e di controversia, e le ragioni non sono necessariamente di merito. Anche se le interpretazioni date da mio padre possono essere state unilaterali e legate alla situazione del momento – cosa che vale per qualunque opera scientifica – il dibattito in futuro dovrà confrontarsi con la sua analisi testuale.


Caterina63
00martedì 26 ottobre 2010 00:09
I GRANDI CONVERTITI DAL PROTESTANTESIMO
ALLA CHIESA CATTOLICA
NEL SECOLO VENTESIMO



 tra noi, a Roma, e insegna scienze ecclesiastiche, quell'Erik Peterson, che, discepolo e collega di Harnack alla Università  di Bonn, è passato al cattolicesimo in conseguenza di una lunga ricerca e personale elaborazione della teologia cristiana.

Anche per lui lo studio non è stato che una lunga, faticosa e alla fine dolorosa strada verso Roma.
Ha narrato lui stesso ai suoi colleghi protestanti di Bonn, Karl Barth e K. L. Schmidt, come arrivasse a siffatta conclusione:
«Debbo aggiungere che questo passo fu terribile a farsi? che ho amato sinceramente la Chiesa evangelica, la quale non cesserà  d'aver parte del mio affetto?... So bene che in questo momento io suscito risentimenti vari: gli uni diranno che se l'aspettavano avendolo sempre sospettato, gli altri parleranno di doppiezza mia, e altri ancora mi tratteranno da romantico inconsistente. Ma - vedete? - ho 40 anni e ho rinunziato alla famiglia, alla mia vocazione, alla mia posizione sociale. Ho studiato per 20 anni teologia; quel che ho fatto perciò, l'ho fatto costrettovi dalla mia coscienza e per non essere respinto da Dio. Chi mi giudica ora sappia che io mi appellerò dal suo giudizio al giudizio stesso di Dio!» (
3).

E' stata dunque coerenza di studio che lo ha menato al passo della conversione, dopo che, da innumerevoli contraddizioni, ha veduto come il protestantesimo si dibatta nelle more di un biblicismo, asserito in principio, e annullato di fatto; e come - e lo aveva detto a Harnack in un interessante scambio di lettere nel 1928 - «senza autorità  dogmatica non vi possa essere Chiesa alcuna; anzi - ciò che è ancor più grave - non potrà  aver luogo alcuna efficacia della Chiesa.

«Sono stato richiesto più volte da medici, giuristi, economisti, uomini politici, della posizione della Chiesa evangelica nei riguardi di questioni relative ai loro campi di attività . E ho sempre dovuto constatare che la Chiesa evangelica non poteva prendere posizione alcuna nei riguardi delle questioni accennate, perchè ad essa, in conseguenza del difetto di un fondamento organico, avere un punto di vista non è possibile. Rimane senza forza obbligatoria.
«Io vedo chiaramente che con ciò la Chiesa evangelica perde ogni influsso, anzi che con ciò essa stessa vien meno. La Chiesa cessa d'essere una grandezza «pubblica», quando rinuncia a una presa di posizione dogmatica. Sono certo che non possiamo retrocedere alle posizioni del secolo XVI.
Già  per il fatto che ci manca il supplemento dogmatico di una «autorità  cristiana», tanto più necessario sarebbe cercare una nuova base dogmatica» (
4).


testo tratto da: Igino Giordani, I grandi convertiti, Roma 1951/2, pp. 131-136.

 



Caterina63
00sabato 13 novembre 2010 14:44

Teologia e politica. Benedetto XVI legge Erik Peterson (1890-1960)


Pubblichiamo di seguito alcuni brani di un commento di Massimo Introvigne al discorso di Sua Santità Benedetto XVI sul teologo Erik Petersen. Potrete trovare il commento completo qui sul sito del Cesnur, mentre l’intervento del Papa, qui.


Con la consueta attenzione agli anniversari, Benedetto XVI ha ricordato i cinquant’anni dalla morte, avvenuta il 26 ottobre 1960, del teologo tedesco Erik Peterson (1890-1960), senza mancare di notare che nel 2010 ricorrono pure «i 120 anni dalla nascita ad Amburgo di questo illustre teologo». Il discorso tenuto il 25 ottobre 2010 ai partecipanti al Simposio internazionale su Erik Peterson è molto denso. La stessa teologia di Peterson è complessa: «molte cose pensate e scritte da Peterson sono rimaste frammentarie – ricorda il Pontefice – a causa della situazione precaria della sua vita». Peterson, inoltre, è sempre stato poco popolare. Critico del liberalismo e uomo di destra, si separò da molti suoi compagni di strada conservatori tedeschi che aderirono o almeno vennero a patti con il nazional-socialismo, di cui fu e rimase sempre critico intransigente, scegliendo l’esilio personale e accademico a Roma. Qui, in condizioni economiche non facili, «ha abitato […] con la sua famiglia, per alcuni periodi a partire dal 1930 e poi vi si è stabilito dal 1933: prima sull’Aventino, vicino a Sant’Anselmo, e, successivamente, nei pressi del Vaticano, in una casa di fronte a Porta Sant’Anna».

Nello stesso tempo – come scrive uno specialista della sua dottrina politica, György Geréby – «non apparteneva alla critica di sinistra del nazismo», anzi «veniva dalla stessa direzione antiliberale»dei nemici più acerrimi di tale sinistra. Era cordialmente detestato dai protestanti per la sua conversione del 1930 al cattolicesimo. E spesso non era capito dai cattolici perché la sua teologia era troppo difficile – «alla fine l’oscurità di Peterson può essere dovuta solo alle conoscenze specialistiche necessarie per seguire la sua argomentazione» – e talora batteva strade inconsuete. In breve, come afferma Benedetto XVI, Peterson – le cui carte, tra l’altro, si trovano all’Università di Torino – era, «in modo particolare», «straniero». «Egli ha vissuto questo essere straniero del cristiano. Era divenuto straniero nella teologia evangelica ed è rimasto straniero anche nella teologia cattolica, come era allora».

Lo stesso Geréby afferma che «pochissimi teologi, tra cui Joseph Ratzinger, sono stati in grado di seguire le sue argomentazioni». Il Papa confida «una riflessione personale. Ho scoperto per la prima volta la figura di Erik Peterson nel 1951. Allora ero Cappellano a Bogenhausen e il direttore della locale casa editrice Kösel, il signor [Heinrich] Wild, mi diede il volume, appena pubblicato, «Theologische Traktate» (Trattati teologici). Lo lessi con curiosità crescente e mi lasciai davvero appassionare da questo libro». In seguito, l’attuale Pontefice ebbe modo di conoscere personalmente Peterson e di rimanere vicino alla sua famiglia dopo la morte del teologo nel 1960. Nel discorso del 25 ottobre afferma che «è per me una gioia particolare poter salutare la famiglia Peterson presente tra noi, le stimate figlie e il figlio con le rispettive famiglie. Nel 1990, insieme con il Cardinale Lehmann, ho potuto consegnare a Vostra madre, nel vostro comune appartamento, in occasione del suo 80° compleanno, un autografo con l’immagine di Papa Giovanni Paolo II».

[…] Per questa conversione, come il beato cardinale John Henry Newman (1801-1890), pure carissimo a Benedetto XVI, Peterson ha pagato un prezzo molto alto. «Egli è passato dalla sicurezza di una cattedra all’incertezza, senza dimora, ed è rimasto per tutta la vita privo di una base sicura e senza una patria certa, veramente in cammino con la fede e per la fede, nella fiducia che in questo essere in cammino senza dimora era a casa in un altro modo e si avvicinava sempre più alla liturgia celeste, che lo aveva toccato».

Sì, la liturgia. Nella controversia con Schmitt, Peterson afferma sulla base delle sue ricerche storiche che l’antica liturgia della Chiesa è la viva e quotidiana affermazione pubblica dell’assoluta sovranità del Dio trinitario, contro ogni pretesa assolutistica del potere umano. E nello stesso tempo asserisce che le verità della fede e le promesse escatologiche «si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio. L’Ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla Santa Messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli Angeli e i Santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei Santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno.

Queste considerazioni di Benedetto XVI sul rapporto tra Peterson e la liturgia non ci portano in realtà lontani dalla sua critica della «teologia politica». La liturgia, ricordandoci continuamente che la verità e la perfezione dell’esistenza umana si trovano soltanto nel compimento escatologico, che la celebrazione liturgica terrena prefigura fermandosi però sulla sua «soglia», ribadisce ancora una volta – contro le ideologie totalitarie – che la Gerusalemme celeste non si trova nella storia umana ma solo oltre la storia. Da Peterson, dopo gli orrori delle ideologie, possiamo dunque «imparare tutto il dramma, il realismo e l’esigenza esistenziale e umana della teologia».

In vita, Peterson secondo Benedetto XVI, «non ha ricevuto il riconoscimento che avrebbe meritato»; forse, «sarebbe stato, in qualche modo, troppo presto». Ragione di più per studiarlo oggi. «Auspico – ha concluso il Pontefice – che […] sia diffuso ulteriormente il pensiero di Peterson, che non si ferma nei dettagli, ma che ha sempre una visione dell’insieme della teologia».



DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
A
I PARTECIPANTI AL SIMPOSIO INTERNAZIONALE
SU ERIK PETERSON
 

Lunedì, 25 ottobre 2010

 

Eminenze,
cari fratelli nel sacerdozio,
gentili Signore e Signori,
cari amici,

con grande gioia saluto tutti Voi che siete venuti qui a Roma in occasione del Simposio internazionale su Erik Peterson. In particolare ringrazio Lei, caro Cardinale Lehmann, per le cordiali parole con cui ha introdotto il nostro incontro.

Come Lei ha affermato, quest’anno ricorrono i 120 anni dalla nascita ad Amburgo di questo illustre teologo; e, quasi in questo stesso giorno di 50 anni fa, il 26 ottobre 1960, Erik Peterson moriva, sempre nella sua città natale di Amburgo. Egli ha abitato qui a Roma, con la sua famiglia, per alcuni periodi a partire dal 1930 e poi vi si è stabilito dal 1933: prima sull’Aventino, vicino a Sant’Anselmo, e, successivamente, nei pressi del Vaticano, in una casa di fronte a Porta Sant’Anna. Per questo, è per me una gioia particolare poter salutare la famiglia Peterson presente tra noi, le stimate figlie e il figlio con le rispettive famiglie. Nel 1990, insieme con il Cardinale Lehmann, ho potuto consegnare a Vostra madre, nel vostro comune appartamento, in occasione del suo 80° compleanno, un autografo con l’immagine di Papa Giovanni Paolo II, e ricordo volentieri questo incontro con Voi.

 “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14). Questa citazione dalla Lettera agli Ebrei, si potrebbe porre come motto della vita di Erik Peterson. In realtà, egli non ha trovato un vero posto in tutta la sua vita, dove poter ottenere riconoscimento e stabile dimora. L’inizio della sua attività scientifica cade in un periodo di rivolgimenti nella Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. La monarchia era crollata. L’ordine civile sembrava a rischio di fronte agli sconvolgimenti politici e sociali. Ciò si rifletteva anche nell’ambito religioso, e, in modo particolare, nel protestantesimo tedesco. La teologia liberale fino ad allora predominante, con il proprio ottimismo nel progresso, era entrata in crisi e lasciava spazio a nuove spinte teologiche in contrasto tra loro. La situazione contemporanea poneva un problema esistenziale al giovane Peterson. Con interesse sia storico che teologico, egli aveva già scelto la materia dei suoi studi, come afferma, secondo la prospettiva “che quando rimaniamo soli con la storia umana, ci troviamo davanti ad un enigma senza senso” (Eintrag in das Bonner „Album Professorum“ 1926/27, Ausgewählte Schriften, Sonderband S. 111).

Peterson, lo cito di nuovo, decise di “lavorare in campo storico e di affrontare specialmente problemi di storia delle religioni”, perché nella teologia evangelica di allora egli non riusciva “a farsi strada, nel folto delle opinioni, fino alle cose in se stesse” (ibid.). In questo cammino giunse sempre di più alla certezza che non c’è alcuna storia staccata da Dio e che in questa storia la Chiesa ha un posto speciale e trova il suo significato. Cito di nuovo: “Che la Chiesa c’è e che essa è costituita in un modo tutto particolare, dipende strettamente dal fatto che (…) c’è una determinata storia specificamente teologica” (Vorlesung „Geschichte der Alten Kirche“ Bonn 1928, Ausgewählte Schriften, Sonderband S.88). La Chiesa riceve da Dio il mandato di condurre gli uomini dalla loro esistenza limitata e isolata ad una comunione universale, dal naturale al soprannaturale, dalla fugacità al compimento alla fine dei tempi. Nel bel libretto sugli Angeli afferma in proposito: “Il cammino della Chiesa conduce dalla Gerusalemme terrestre a quella celeste, (…) alla città degli Angeli e dei Santi” (Buch von den Engeln, Einleitung).

Il punto di partenza di questo cammino è il carattere vincolante della Sacra Scrittura. Secondo Peterson, la Sacra Scrittura diventa ed è vincolante non in quanto tale, essa non sta solo in se stessa, ma nell’ermeneutica della Tradizione apostolica, che, a sua volta, si concretizza nella successione apostolica e così la Chiesa mantiene la Scrittura in un’attualità viva e contemporaneamente la interpreta. Attraverso i Vescovi, che si trovano nella successione apostolica, la testimonianza della Scrittura rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni di fede permanentemente valide della Chiesa, che incontriamo innanzitutto nel credo e nel dogma. Tali convinzioni si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio.

L’Ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla Santa Messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli Angeli e i Santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei Santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno.

Forse è questo il punto, in cui devo inserire una riflessione personale. Ho scoperto per la prima volta la figura di Erik Peterson nel 1951. Allora ero Cappellano a Bogenhausen e il direttore della locale casa editrice Kösel, il signor Wild, mi diede il volume, appena pubblicato, «Theologische Traktate» (Trattati teologici). Lo lessi con curiosità crescente e mi lasciai davvero appassionare da questo libro, perché lì c’era la teologia che cercavo: una teologia, che impiega tutta la serietà storica per comprendere e studiare i testi, analizzandoli con tutta la serietà della ricerca storica, e che non li lascia rimanere nel passato, ma che, nella sua investigazione, partecipa all’autosuperamento della lettera, entra in questo autosuperamento e si lascia condurre da esso e così viene in contatto con Colui dal quale la teologia stessa proviene: con il Dio vivente. E così lo iato tra il passato, che la filologia analizza, e l’oggi è superato di per se stesso, perché la parola conduce all’incontro con la realtà, e l’attualità intera di quanto è scritto, che trascende se stesso verso la realtà, diventa viva e operante. Così, da lui ho imparato, in modo più essenziale e profondo, che cosa sia realmente la teologia e ho provato perfino ammirazione, perché qui non si dice solo ciò che si pensa, ma questo libro è espressione di un cammino, che era la passione della sua vita.

Paradossalmente, proprio lo scambio di lettere con Harnack  esprime al massimo l’improvvisa attenzione, che Peterson stava ricevendo. Harnack ha confermato, anzi aveva scritto già precedentemente e indipendentemente, che il principio formale cattolico secondo cui «la Scrittura vive nella Tradizione e la Tradizione vive nella forma vivente della Successione», è il principio originario e oggettivo e che il «sola Scriptura» non funziona. Peterson ha colto questa affermazione del teologo liberale in tutta la sua serietà e da questa si è fatto scuotere, sconvolgere, piegare, trasformare e così ha trovato la via alla conversione. E con ciò, ha compiuto veramente un passo come Abramo, secondo quanto abbiamo ascoltato all’inizio dalla Lettera agli Ebrei: “Non abbiamo quaggiù una città stabile”. Egli è passato dalla sicurezza di una cattedra all’incertezza, senza dimora, ed è rimasto per tutta la vita privo di una base sicura e senza una patria certa, veramente in cammino con la fede e per la fede, nella fiducia che in questo essere in cammino senza dimora era a casa in un altro modo e si avvicinava sempre più alla liturgia celeste, che lo aveva  toccato.

 

Da tutto questo si comprende che molte cose pensate e scritte da Peterson sono rimaste frammentarie a causa della situazione precaria della sua vita, dopo la perdita dell’insegnamento, in seguito alla sua conversione. Ma pur dovendo vivere senza la sicurezza di uno stipendio fisso, si sposò qui a Roma e costituì una famiglia. Con ciò egli ha espresso in modo concreto la sua convinzione interiore che noi, sebbene stranieri - e lui lo era in modo particolare - troviamo tuttavia un sostegno nella comunione dell’amore, e che nell’amore stesso vi è qualcosa che dura per l’eternità. Egli ha vissuto questo essere straniero del cristiano. Era divenuto straniero nella teologia evangelica ed è rimasto straniero anche nella teologia cattolica, come era allora. Oggi sappiamo che egli appartiene a entrambe, che entrambe devono imparare da lui tutto il dramma, il realismo e l’esigenza esistenziale e umana della teologia. Erik Peterson, come ha affermato il Cardinale Lehmann, è stato certamente apprezzato e amato da molti, un autore raccomandato in una cerchia ristretta, ma non ha ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbe meritato; sarebbe stato, in qualche modo, troppo presto.

Come ho detto, lui era qui e là [nella teologia cattolica e in quella evangelica] uno straniero. Quindi non si potrà mai lodare abbastanza il Cardinale Lehmann per aver preso l’iniziativa di pubblicare le opere di Peterson in una magnifica edizione completa, e la signora Nichtweiß, alla quale ha affidato questo compito, che ella svolge con ammirevole competenza. Così l’attenzione che gli viene rivolta attraverso questa edizione è più che giusta, considerando che ora varie opere sono state anche tradotte in italiano, francese, spagnolo, inglese, ungherese e perfino in cinese. Auspico che con questo sia diffuso ulteriormente il pensiero di Peterson, che non si ferma nei dettagli, ma che ha sempre una visione dell’insieme della teologia.

Di cuore ringrazio tutti i presenti per essere venuti. Il mio ringraziamento particolare agli organizzatori di questo Simposio, soprattutto al Cardinale Farina, il Patrono di questo evento, e al Dottor Giancarlo Caronello. Volentieri rivolgo i miei migliori auguri per una discussione interessante e stimolante nello spirito di Erik Peterson. Aspetto abbondanti frutti da tale Convegno, e imparto a tutti Voi e a quanti Vi stanno a cuore la Benedizione Apostolica.







Caterina63
00sabato 4 dicembre 2010 01:07

Il nastro bianco e il grigiore della teologia protestante



di Fabio Adernò

Se è vero che l’estetica di una cosa ne è espressione fenomenica dell’essenza, si potrebbe già dedurre dal primo impatto con questo intenso e profondo film di Michael Haneke – che merita davvero la Palma d’oro di Cannes – che vi è ben poco di positivo in una società falsamente moralizzata e moralizzante, dove il giudizio sulle cose si formula sempre e comunque a priori, dove la dicotomia tra Bene e Male si palesa agli occhi dello spettatore già coi colori della pellicola, mirabilmente realizzata in bianco e nero nemmeno fosse una produzione originale degli Anni ’40. E poi, quel silenzio, iniziale e finale; impressionante nel suo colore tetro, assordante nella sua gravità, quasi a voler far presagire, all’inizio, qualcosa di torbido… e volendo far sentire, alla fine, che quel torbido c’è, è tangibile, e non ha soluzione: come affacciarsi su un paesaggio notturno, in una notte senza luna e senza stelle.

“Das Weisse Band” catapulta letteralmente lo spettatore nel nord della Germania nell’anno 1913. La storia abbraccia poco meno di un anno, alle soglie del primo conflitto… ma sembra quasi di trovarsi in una bolla di sapone. I personaggi, la scenografia, la fotografia, tutto sembra essere racchiuso in un fermo immagine d’epoca… si ha come l’impressione di fermarsi a guardare le vecchie foto cartonate dei bisnonni, con quelle lunghe vesti nere, quegli abiti scuri, a tratti lisi, quei capelli impomatati dei giorni di festa, e quelle scarpe impolverate. Rumori e colori, ma anche profumi d’un secolo che sembra lontano anni luce dal nostro, eppure non sono neanche cento anni. La cura doviziosa dei particolari è senz’altro il punto di forza del regista. Nulla è lasciato al caso, dal ronzio delle mosche nella stalla, al cigolare d’una vecchia finestra, allo strusciare d’una
tenda, al rumore che provoca il sale immesso nel pentolone del minestrone. E tutto non potrebbe che essere bianco e nero: il buio delle notti d’inverno e quei campi di frumento sterminati, dove il sole, pallido, illumina le spighe fluorescenti, creando un riverbero a tratti persino infastidente, vien poi ricoperto dalla coltre di neve,
che ovatta persino gli animi.

Qualche critico ha voluto vedere in questa pellicola una sorta di “prefazione” ai mali del XX secolo; ma forse, ciò che realmente trasmette il film è un modo assoluto – e innaturale – di concepire l’esistenza umana: o dentro o fuori, o bianco o nero, tertium non datur. E tale modo altro non è che il concetto di società che s’è sviluppato nei Paesi della Riforma separati dalla Chiesa di Roma, la quale invece ha sempre offerto tutte le sfumature necessarie per comprendere la naturale poliedricità dell’esistenza. Una società ufficialmente nemica di qualunque gerarchia – ecclesiastica in primis – ma che in realtà ha fatto della disciplina “ordinata” un assoluto imprescindibile, dove ognuno “deve stare al suo posto”, perché “Dio ha disposto così”… un qualcosa di estremamente statico, dunque, poiché frutto di una volontà talmente imperscrutabile da non poter essere né interpretata né, tantomeno, conosciuta; paradossalmente, infatti, la Riforma ha prodotto un sistema dogmatico ben più rigido di quello tradizionale cattolico, fatto di regole ferree che, una volta infrante, tali rimangono, poiché, a differenza del Cattolicesimo, non v’è una “via della penitenza” che conduce alla “riconciliazione”, ma solo ed unicamente quella dell’espiazione, che non può che essere dolorosa e spesso interminabile; una sofferenza espiatoria che inizia e si conclude con l’esistenza in questa terra, poiché, non essendoci il Purgatorio, e riservando il Paradiso alle sole anime “predestinate”, la realtà ultima che può attendere l’uomo altro non è che l’Inferno, di cui ha già potuto tastare lo strazio durante l’esistenza terrena, attraverso le malattie, i dolori temporali, i mali quotidiani.

Il Protestantesimo ha avuto la pretesa di annullare il concetto di “Chiesa”, distruggendo il ruolo mediatore del Sacerdozio e facendo del ministero un mero “servizio alla comunità”, servizio che non può che essere svuotato del suo significato più profondo perché, non essendo più un tramite, il pastore è solo l’incaricato di turno a dare qualche consiglio; privo del carattere ontologico che conferisce l’Ordine Sacro, la guida spirituale della comunità ha unicamente una funzione strumentale, per altro mutilata della sua essenza; egli “deve” essere d’esempio, ma quest’esempio basta che sia apparente. Così com’è apparente il culto: freddo, diafano, privo degli splendori della Liturgia romana, esso trasmette un persistente senso ferale; e seppure ad esso si intersecano corali e musiche di pregio, esse appaiono prive di trasporto trascendente: è tutto orizzontale, piatto, spoglio di qualunque verticalismo necessario ad ogni rapporto col Divino.

L’austerità auspicata nei costumi, ha prodotto piuttosto un deterioramento della natura stessa della fede, ridotta a logorante intimismo spirituale che nel “servizio domenicale” ha il suo coronamento: il pastore legge la Bibbia e interpreta a modo suo la Scrittura, con un passivo accoglimento del sermone da parte dell’assemblea. La mutilazione dell’impianto sacramentale, ove l’Eucaristia è unicamente “memoria” e non vero e proprio Sacrificio, in realtà produce lo svuotamento del Cristianesimo, perché si toglie Cristo come Cibo e se ne dà solo un ricordo sbiadito, impoverito nella natura del dono eucaristico.

Raschiando via dall’uomo l’anelito alla possibilità di “essere in Dio”, si concede ad esso solo di essere “di Dio”, schiavi e non figli. L’apparato morale costruito da Lutero – che di morale, per altro, ne ebbe ben poca – ha trasformato l’uomo, per natura orientato al Bene Sommo, in una creatura che ha un continuo bisogno di emendazione, alla quale viene ricordato quotidianamente che ha una natura pervicacemente orientata al peccato (e dunque alla morte) ma che la Grazia è un qualcosa di praticamente irraggiungibile: che fare dunque? Soffrire, patire, mortificarsi. Ciò che il Cattolicesimo ha sempre rifiutato, in ultimo condannando il Giansenismo, per il Protestantesimo è regola di vita. Non essendoci la mediazione della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato i Sacramenti, l’uomo è lasciato solo davanti a Dio: non esiste la comunione dei Santi, l’intercessione della Vergine, l’ausilio della grazia sacramentale; esiste solo l’uomo singolo, che deve misurare la sua coscienza in modo autonomo e, consapevole di quanto sia peccatore, espiare, espiare, espiare.

Nello spettrale villaggio tedesco descritto dal film, si riesce a toccare con mano questa fredda realtà, priva di qualunque calore umano. Tutti sospettano di tutti, poiché non confidano in nessuno. La riunione domenicale è un atto dovuto, per conformismo; ma mentre per il cattolicesimo i Sacramenti agiscono ex opere operato, per il protestantesimo la presenza alla funzione della domenica è un qualcosa di quasi apotropaico, e chi non va in chiesa “avrà sicuramente qualcosa da nascondere”.

Lo sguardo glaciale del pastore è tra gli elementi più enigmatici della pellicola. In quella fredda severità, persino nel gestire gli affari familiari, si riscontra una untuosità ipocrita, epifenomeno di quel fariseismo radicato in ogni “buona società” protestante; atteggiamento, questo, senz’altro dettato dalle necessità dell’impianto teologico, privo di ogni respiro, di pathos, reso un immobilismo conformista e moralistico luterano. “Nel villaggio tutti sanno…” eppure tutto si risolve in ossequiosi gesti. Lo zelante pastore, ad esempio, punisce la figliola senza accertarsi di cosa abbia realmente fatto: la umilia, con parole taglienti come lame affilate, fino a farla svenire. Perché? si chiede lo spettatore: la risposta è che non v’è altro giudizio se non quello immediato, fondato sulle categorie statiche del sillogismo protestante: tutti gli uomini sono peccatori, tu sei un uomo, dunque sei un peccatore. E dunque, per espiare, non avendo la possibilità del foro sacramentale della confessione – ove la contrizione del cuore diventa sublime atto di amore per Dio che si rende presente nel perdono assolutorio – altro non resta che portare per chissà quanto tempo un nastro bianco, simbolo di una purezza intima perduta, indice di quella impossibilità per l’anima di lavarsi alla fonte della salvezza.

Il male, dunque, è un qualcosa di connaturato all’uomo, una catena dalla quale non può sfuggire, un piombo dal quale non si può liberare e che gli impedisce di tendere pienamente a Dio. E nei volti dei bambini di questo film, tutti molto espressivi ed intensi, si vede riflessa questa luce spenta nei loro occhi, poiché è stato loro inculcato che non c’è via d’uscita… e il comportarsi bene non è “fare la volontà di Dio, che vuole il tuo bene” ma piuttosto far ciò di cui non si può fare a meno per mitigare la collera di un Dio geloso e severo.

E si può tranquillamente dire, forse, che i veri protagonisti della pellicola sono proprio queste piccole anime, violentate nella loro intimità spirituale, vittime di una disciplina rigidissima, che produce una diffusa e costante infelicità. E gli abitini neri nei quali sono avvolti è come se fossero le loro piccole bare, poiché si ha l’ardire di pensare sia bene – per le loro anime – che essi muoiano al mondo, come se la nascita fosse già una colpa, per non essere stati voluti angeli.

I fatti misteriosi che avvengono lungo il film, legati da quel fil rouge che poi è, per l’appunto, il filo del Male, si intrecciano senza soluzione di continuità: l’inizio e la fine sono tronchi, il susseguirsi di avvenimenti accresce la tensione verso una conclusione che si attende con ansia… ma il Male, per i protestanti, inizia nell’uomo e finisce nell’uomo, non può passare, ma solo un po’ attenuarsi, per poi ritornare in modo prorompente e inesorabile, come la falce in tempo di mietitura, in una vita priva della Grazia.


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