di Fabio Adernò
Se è vero che l’estetica di una cosa ne è espressione fenomenica dell’essenza, si potrebbe già dedurre dal primo impatto con questo intenso e profondo film di Michael Haneke – che merita davvero la Palma d’oro di Cannes – che vi è ben poco di positivo in una società falsamente moralizzata e moralizzante, dove il giudizio sulle cose si formula sempre e comunque a priori, dove la dicotomia tra Bene e Male si palesa agli occhi dello spettatore già coi colori della pellicola, mirabilmente realizzata in bianco e nero nemmeno fosse una produzione originale degli Anni ’40. E poi, quel silenzio, iniziale e finale; impressionante nel suo colore tetro, assordante nella sua gravità, quasi a voler far presagire, all’inizio, qualcosa di torbido… e volendo far sentire, alla fine, che quel torbido c’è, è tangibile, e non ha soluzione: come affacciarsi su un paesaggio notturno, in una notte senza luna e senza stelle.
“Das Weisse Band” catapulta letteralmente lo spettatore nel nord della Germania nell’anno 1913. La storia abbraccia poco meno di un anno, alle soglie del primo conflitto… ma sembra quasi di trovarsi in una bolla di sapone. I personaggi, la scenografia, la fotografia, tutto sembra essere racchiuso in un fermo immagine d’epoca… si ha come l’impressione di fermarsi a guardare le vecchie foto cartonate dei bisnonni, con quelle lunghe vesti nere, quegli abiti scuri, a tratti lisi, quei capelli impomatati dei giorni di festa, e quelle scarpe impolverate. Rumori e colori, ma anche profumi d’un secolo che sembra lontano anni luce dal nostro, eppure non sono neanche cento anni. La cura doviziosa dei particolari è senz’altro il punto di forza del regista. Nulla è lasciato al caso, dal ronzio delle mosche nella stalla, al cigolare d’una vecchia finestra, allo strusciare d’una
tenda, al rumore che provoca il sale immesso nel pentolone del minestrone. E tutto non potrebbe che essere bianco e nero: il buio delle notti d’inverno e quei campi di frumento sterminati, dove il sole, pallido, illumina le spighe fluorescenti, creando un riverbero a tratti persino infastidente, vien poi ricoperto dalla coltre di neve,
che ovatta persino gli animi.
Qualche critico ha voluto vedere in questa pellicola una sorta di “prefazione” ai mali del XX secolo; ma forse, ciò che realmente trasmette il film è un modo assoluto – e innaturale – di concepire l’esistenza umana: o dentro o fuori, o bianco o nero, tertium non datur. E tale modo altro non è che il concetto di società che s’è sviluppato nei Paesi della Riforma separati dalla Chiesa di Roma, la quale invece ha sempre offerto tutte le sfumature necessarie per comprendere la naturale poliedricità dell’esistenza. Una società ufficialmente nemica di qualunque gerarchia – ecclesiastica in primis – ma che in realtà ha fatto della disciplina “ordinata” un assoluto imprescindibile, dove ognuno “deve stare al suo posto”, perché “Dio ha disposto così”… un qualcosa di estremamente statico, dunque, poiché frutto di una volontà talmente imperscrutabile da non poter essere né interpretata né, tantomeno, conosciuta; paradossalmente, infatti, la Riforma ha prodotto un sistema dogmatico ben più rigido di quello tradizionale cattolico, fatto di regole ferree che, una volta infrante, tali rimangono, poiché, a differenza del Cattolicesimo, non v’è una “via della penitenza” che conduce alla “riconciliazione”, ma solo ed unicamente quella dell’espiazione, che non può che essere dolorosa e spesso interminabile; una sofferenza espiatoria che inizia e si conclude con l’esistenza in questa terra, poiché, non essendoci il Purgatorio, e riservando il Paradiso alle sole anime “predestinate”, la realtà ultima che può attendere l’uomo altro non è che l’Inferno, di cui ha già potuto tastare lo strazio durante l’esistenza terrena, attraverso le malattie, i dolori temporali, i mali quotidiani.
Il Protestantesimo ha avuto la pretesa di annullare il concetto di “Chiesa”, distruggendo il ruolo mediatore del Sacerdozio e facendo del ministero un mero “servizio alla comunità”, servizio che non può che essere svuotato del suo significato più profondo perché, non essendo più un tramite, il pastore è solo l’incaricato di turno a dare qualche consiglio; privo del carattere ontologico che conferisce l’Ordine Sacro, la guida spirituale della comunità ha unicamente una funzione strumentale, per altro mutilata della sua essenza; egli “deve” essere d’esempio, ma quest’esempio basta che sia apparente. Così com’è apparente il culto: freddo, diafano, privo degli splendori della Liturgia romana, esso trasmette un persistente senso ferale; e seppure ad esso si intersecano corali e musiche di pregio, esse appaiono prive di trasporto trascendente: è tutto orizzontale, piatto, spoglio di qualunque verticalismo necessario ad ogni rapporto col Divino.
L’austerità auspicata nei costumi, ha prodotto piuttosto un deterioramento della natura stessa della fede, ridotta a logorante intimismo spirituale che nel “servizio domenicale” ha il suo coronamento: il pastore legge la Bibbia e interpreta a modo suo la Scrittura, con un passivo accoglimento del sermone da parte dell’assemblea. La mutilazione dell’impianto sacramentale, ove l’Eucaristia è unicamente “memoria” e non vero e proprio Sacrificio, in realtà produce lo svuotamento del Cristianesimo, perché si toglie Cristo come Cibo e se ne dà solo un ricordo sbiadito, impoverito nella natura del dono eucaristico.
Raschiando via dall’uomo l’anelito alla possibilità di “essere in Dio”, si concede ad esso solo di essere “di Dio”, schiavi e non figli. L’apparato morale costruito da Lutero – che di morale, per altro, ne ebbe ben poca – ha trasformato l’uomo, per natura orientato al Bene Sommo, in una creatura che ha un continuo bisogno di emendazione, alla quale viene ricordato quotidianamente che ha una natura pervicacemente orientata al peccato (e dunque alla morte) ma che la Grazia è un qualcosa di praticamente irraggiungibile: che fare dunque? Soffrire, patire, mortificarsi. Ciò che il Cattolicesimo ha sempre rifiutato, in ultimo condannando il Giansenismo, per il Protestantesimo è regola di vita. Non essendoci la mediazione della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato i Sacramenti, l’uomo è lasciato solo davanti a Dio: non esiste la comunione dei Santi, l’intercessione della Vergine, l’ausilio della grazia sacramentale; esiste solo l’uomo singolo, che deve misurare la sua coscienza in modo autonomo e, consapevole di quanto sia peccatore, espiare, espiare, espiare.
Nello spettrale villaggio tedesco descritto dal film, si riesce a toccare con mano questa fredda realtà, priva di qualunque calore umano. Tutti sospettano di tutti, poiché non confidano in nessuno. La riunione domenicale è un atto dovuto, per conformismo; ma mentre per il cattolicesimo i Sacramenti agiscono ex opere operato, per il protestantesimo la presenza alla funzione della domenica è un qualcosa di quasi apotropaico, e chi non va in chiesa “avrà sicuramente qualcosa da nascondere”.
Lo sguardo glaciale del pastore è tra gli elementi più enigmatici della pellicola. In quella fredda severità, persino nel gestire gli affari familiari, si riscontra una untuosità ipocrita, epifenomeno di quel fariseismo radicato in ogni “buona società” protestante; atteggiamento, questo, senz’altro dettato dalle necessità dell’impianto teologico, privo di ogni respiro, di pathos, reso un immobilismo conformista e moralistico luterano. “Nel villaggio tutti sanno…” eppure tutto si risolve in ossequiosi gesti. Lo zelante pastore, ad esempio, punisce la figliola senza accertarsi di cosa abbia realmente fatto: la umilia, con parole taglienti come lame affilate, fino a farla svenire. Perché? si chiede lo spettatore: la risposta è che non v’è altro giudizio se non quello immediato, fondato sulle categorie statiche del sillogismo protestante: tutti gli uomini sono peccatori, tu sei un uomo, dunque sei un peccatore. E dunque, per espiare, non avendo la possibilità del foro sacramentale della confessione – ove la contrizione del cuore diventa sublime atto di amore per Dio che si rende presente nel perdono assolutorio – altro non resta che portare per chissà quanto tempo un nastro bianco, simbolo di una purezza intima perduta, indice di quella impossibilità per l’anima di lavarsi alla fonte della salvezza.
Il male, dunque, è un qualcosa di connaturato all’uomo, una catena dalla quale non può sfuggire, un piombo dal quale non si può liberare e che gli impedisce di tendere pienamente a Dio. E nei volti dei bambini di questo film, tutti molto espressivi ed intensi, si vede riflessa questa luce spenta nei loro occhi, poiché è stato loro inculcato che non c’è via d’uscita… e il comportarsi bene non è “fare la volontà di Dio, che vuole il tuo bene” ma piuttosto far ciò di cui non si può fare a meno per mitigare la collera di un Dio geloso e severo.
E si può tranquillamente dire, forse, che i veri protagonisti della pellicola sono proprio queste piccole anime, violentate nella loro intimità spirituale, vittime di una disciplina rigidissima, che produce una diffusa e costante infelicità. E gli abitini neri nei quali sono avvolti è come se fossero le loro piccole bare, poiché si ha l’ardire di pensare sia bene – per le loro anime – che essi muoiano al mondo, come se la nascita fosse già una colpa, per non essere stati voluti angeli.
I fatti misteriosi che avvengono lungo il film, legati da quel fil rouge che poi è, per l’appunto, il filo del Male, si intrecciano senza soluzione di continuità: l’inizio e la fine sono tronchi, il susseguirsi di avvenimenti accresce la tensione verso una conclusione che si attende con ansia… ma il Male, per i protestanti, inizia nell’uomo e finisce nell’uomo, non può passare, ma solo un po’ attenuarsi, per poi ritornare in modo prorompente e inesorabile, come la falce in tempo di mietitura, in una vita priva della Grazia.