Identità del Sacerdote (Meditazioni)

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Caterina63
00venerdì 20 marzo 2009 00:00
In questo Thread inserirò materiale utile alla CONTEMPLAZIONE dell'identità del Sacerdote...[SM=g1740717] le immagini con il Santo Padre da me realizzate, potranno essere usate da chi vuole divulgare questo AMORE verso il Sacerdote...e invio TUTTI a pregare per i Sacerdoti, a voler loro BENE[SM=g1740734]  a rammentarci che se è vero che noi abbiamo bisogno di loro, anche LORO hanno bisogno  di vedere in noi i frutti della loro vocazione..HANNO BISOGNO DEL NOSTRO AMORE VERO E SINCERO....
Grazie a tutti i Sacerdoti per aver corrisposto alla Chiamata e ricordatevi: c'è sempre qualcuno che prega per VOI, che soffre con voi e er voi, catene interminabili di Rosario vengono pregati PER VOI...[SM=g1740717] 

Con affetto a TUTTI I SACERDOTI, filialmente dedico, Dorotea [SM=g1740738]

              [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]

*****


"Non dimenticatevi neanche per un momento che nell'inferno vi sono molti predicatori che ebbero maggiori doti di voi nel predicare, e che con le loro prediche ottennero più frutto di quanto voi fate, e per di più essi furono lo strumento affinché molti lasciassero di peccare. Ma quello che più fa meraviglia è che furono loro la causa strumentale grazie alla quale molti sono andati alla gloria, mentre loro stessi, i miseri, sono andati all'inferno, avendo attribuito a sé quello che era di Dio, gettandosi in mezzo al mondo, rallegrandosi di venire lodati da esso, crescendo in una vana opinione di sé e in una grande superbia, e per tale motivo si sono perduti".

S. Francesco Saverio

Un ottimo sito per trovare conforto e sostegno, cliccate qui:

http://www.haerentanimo.net/



Ogni sacerdote, senta in se stesso l’urgenza di essere realmente operatore di giustizia e di solidarietà in mezzo agli uomini: dinanzi a loro, il sacerdote è chiamato a testimoniare Cristo stesso. Nutriti della Parola di vita, i sacerdoti non possono rimanere ai margini della lotta per la difesa e la proclamazione della dignità della persona umana e dei suoi universali ed inalienabili diritti. Ha scritto Benedetto XVI a questo riguardo: «Proprio in forza del Mistero che celebriamo, occorre denunciare le circostanze che sono in contrasto con la dignità dell’uomo, per il quale Cristo ha versato il suo sangue, affermando così l’alto valore di ogni singola persona» ( Sacramentim Caritatis, n. 89).

Scopriremo il vero senso dell’amoris officium, di quella carità pastorale di cui ci parla Sant’Agostino (In Iohannis Evangelium Tractatus 123, 5: CCL 36, 678): la Chiesa come Sposa di Cristo, vuole essere amata dal sacerdote in modo totale ed esclusivo con cui Cristo stesso, Capo e Sposo l’ha amata. Comprenderemo la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato nella Chiesa Latina e del suo legame di convenienza profondissima con l’Ordinazione sacra: come dono inestimabile di Dio, come singolare partecipazione alla paternità di Dio e alla fecondità della Chiesa, come formidabile energia missionaria, come amore più grande, come testimonianza al mondo del Regno escatologico. Il celibato, accolto con libera ed amorosa decisione, diviene dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore (cfr. Conc. Ecum Vat. II, Decr. Presbyterorum ordinis, n. 16; Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores dabo vobis, n. 29).

Lettera della Congregazione per il Clero
in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera per la Santificazione Sacerdotale
Cláudio Card. Hummes, Prefetto
Mauro Piacenza, Segretario
Solennità del Sacro Cuore di Gesù
15 giugno 2007

 Sorriso

Messa e Predicazione; LITURGIA E PAROLA sono legati insieme....nel momento in cui viene meno una, si difetta l'altra.... Occhiolino




....san Josemaría rivolgeva spesso ai sacerdoti novelli, ma che servono anche e, forse, ancora di più a quelli di noi che sono sacerdoti da molti anni. Diceva: «Siate innanzitutto sacerdoti; poi, sacerdoti; sempre e in tutto, solo sacerdoti». In questa affermazione risalta il suo altissimo concetto del sacerdozio ministeriale, mediante il quale dei poveretti (lo siamo tutti davanti al Signore) sono costituiti ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (1 Cor 4, 1). La sua fede nell’identificazione sacramentale con Cristo che si realizza nel sacramento dell’Ordine era così solida che il suo unico motivo di gloria, a confronto del quale impallidivano tutti gli onori della terra, era semplicemente essere sacerdote di Gesù Cristo.
 
I santi, fin dai tempi più antichi, si sono soffermati a considerare la dignità del sacerdozio. Vari Papi, tra i quali ricordo in particolare san Pio X, Pio XI e l’attuale Romano Pontefice, hanno scritto documenti indimenticabili, che hanno alimentato e continuano ad alimentare la nostra vita sacerdotale. Anche san Josemaría ci ha lasciato il suo insegnamento. In un’omelia del 1973, quando si diffondevano voci confuse sull’identità del sacerdote e sul valore del sacerdozio ministeriale, riassumeva il suo insegnamento con queste parole: «L’identità del sacerdote è questa: essere strumento immediato e quotidiano della grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi. Quando si comprende questo principio, quando lo si medita nell’attivo silenzio della preghiera, come possiamo considerare il sacerdozio una rinuncia? È un guadagno incalcolabile. Maria Santissima, nostra Madre, la più santa delle creature – più di Lei solo Dio –, trasse una sola volta al mondo Gesù; i sacerdoti lo portano su questa terra, al nostro corpo, alla nostra anima, tutti i giorni: e Gesù viene, per nutrirci, per vivificarci, per essere fin d’ora pegno della vita futura»

(citazione tratta da ROMANA - Bollettino della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei)


INVITIAMO I SACERDOTI (ma anche noi laici cattolici) A FARSI PROMOTORI ED ESECUTORI DI QUANTO PRONUNCIATO DAL SANTO PADRE nella Sacramentum Caritatis:


Coerenza eucaristica

83. È importante rilevare ciò che i Padri sinodali hanno qualificato come coerenza eucaristica, a cui la nostra esistenza è oggettivamente chiamata. Il culto gradito a Dio, infatti, non è mai atto meramente privato, senza conseguenze sulle nostre relazioni sociali: esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede. Ciò vale ovviamente per tutti i battezzati, ma si impone con particolare urgenza nei confronti di coloro che, per la posizione sociale o politica che occupano, devono prendere decisioni a proposito di valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme.(230) Tali valori non sono negoziabili. Pertanto, i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana.(231) Ciò ha peraltro un nesso obiettivo con l'Eucaristia (cfr 1 Cor 11,27-29). I Vescovi sono tenuti a richiamare costantemente tali valori; ciò fa parte della loro responsabilità nei confronti del gregge loro affidato.(232)

La lingua latina

62. Quanto affermato non deve, tuttavia, mettere in ombra il valore di queste grandi liturgie. Penso in questo momento, in particolare, alle celebrazioni che avvengono durante incontri internazionali, oggi sempre più frequenti. Esse devono essere giustamente valorizzate. Per meglio esprimere l'unità e l'universalità della Chiesa, vorrei raccomandare quanto suggerito dal Sinodo dei Vescovi, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano II: (182) eccettuate le letture, l'omelia e la preghiera dei fedeli, è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note(183) della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano. Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia.(184)




e un accenno sull'Eucarestia:

DOMINUS EST "RIFLESSIONI DI UN VESCOVO DELL'ASIA CENTRALE SULLA SACRA COMUNIONE"  Libreria Editrice Vaticana, 8 euro, stampato nel 2008 e da poco è alla sua seconda ristampa....UN SUCCESSO....

dice mons. Ranjith nella sua prefazione:
"Ora io credo sia arrivato il momento di valutare bene la suddetta prassi (comunione alla mano) e di rivedere  E SE NECESSARIO, ABBANDONARE QUELLA ATTUALE CHE DIFATTI NON FU MAI INDICATA DALLA SACRAMENTUM CONCILIUM, NE DAI PADRI CONCILIARI...."

 Occhi al cielo

Per oggi, buona meditazione....[SM=g1740733]


[SM=g1740739] [SM=g1740739]
Caterina63
00sabato 4 aprile 2009 07:51
Sant' Isidoro di Siviglia Vescovo e dottore della Chiesa

4 aprile - Memoria Facoltativa

560? - 4 aprile.636


Etimologia: Isidoro = dono di Iside, dal greco

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Sant’Isidoro, vescovo e dottore della Chiesa, che, discepolo di suo fratello Leandro, gli succedette nella sede di Siviglia nell’Andalusia in Spagna; scrisse molte opere erudite, convocò e presiedette vari concili e si adoperò sapientemente per il bene della fede cattolica e per l’osservanza della disciplina ecclesiastica.

Ultimo dei Padri latini, S. Isidoro di Siviglia (560-636) ricapitola in sè tutto il retaggio di acquisizioni dottrinali e culturali che l'epoca dei Padri della Chiesa ha trasmesso ai secoli futuri. Scrittore enciclopedico, Isidoro fu molto letto nel medioevo, soprattutto per le sue Etimologie, un'utile "somma" della scienza antica, della quale con più zelo che spirito critico condensò i principali risultati. Questo volgarizzatore dotatissimo della scienza antica, che avrebbe esercitato su tutta la cultura medioevale un influsso considerevole, era soprattutto un vescovo zelante preoccupato della maturazione culturale e morale del clero spagnolo.

Per questo motivo fondò un collegio ecclesiastico, prototipo dei futuri seminari, dedicando molto spazio della sua laboriosa giornata all'istruzione dei candidati al sacerdozio. La santità era di casa nella nobile famiglia, oriunda di Cartagena, che diede i natali verso il 560 a Isidoro: tre fratelli furono vescovi e santi, Leandro, Fulgenzio e il nostro Isidoro; e una sorella, Fiorentina, fu religiosa e santa. Leandro, il fratello maggiore, fu tutore e maestro di Isidoro, rimasto orfano in tenera età.

Il futuro dottore della Chiesa, autore di una immensa mole di libri che trattano di tutto lo scibile umano, dall'agronomia alla medicina, dalla teologia all'economia domestica, fu dapprima uno studente svogliato e poco propenso a stare chino sui libri di scuola. Come tanti coetanei marinava la scuola e vagava per la campagna. Un giorno si accostò a un pozzo per dissetarsi e notò dei profondi solchi scavati dalla fragile corda sulla dura pietra del bordo. Comprese allora che anche la costanza e la volontà dell'uomo possono aver ragione dei più duri scogli della vita.

Tornò con rinnovato amore ai suoi libri e progredì tanto avanti nello studio da meritare la reputazione di uomo più sapiente del suo tempo. Chierico a Siviglia, Isidoro successe al fratello Leandro nel governo episcopale della importante diocesi. Come il fratello, sarebbe stato il vescovo più popolare e autorevole della sua epoca, presiedendo pure l'importante quarto concilio di Toledo (nel 633).

Formatosi alla lettura di S. Agostino e S. Gregorio Magno, pur senza avere la vigoria di un Boezio o il senso organizzativo di un Cassiodoro, con essi Isidoro condivide la gloria di essere stato il maestro dell'Europa medievale e il primo organizzatore della cultura cristiana. Un'amena leggenda racconta che nel primo mese di vita uno sciame d'api, invasa la sua culla, depositasse sulle labbra del piccolo Isidoro un rivoletto di miele, come auspicio del dolce e sostanzioso insegnamento che da quelle labbra sarebbe un giorno sgorgato. Sapienza, mai disgiunta da profonda umiltà e carità, gli hanno meritato il titolo di "doctor egregius" e l'aureola di santo.


Autore: Piero Bargellini





[SM=g1740733]
Caterina63
00mercoledì 13 maggio 2009 14:12
I Santi parlano ai Sacerdoti [SM=g1740734]

CONFERENZA DELLA PROF.SSA MARIA ANTONIETTA FALCHI PELLEGRINI

SANTA CATERINA E I SACERDOTI: UN MESSAGGIO PER LA CHIESA DEL TERZO MILLENNIO


"Nei secoli, sempre, gli avvenimenti visibili della vita della Chiesa si preparano nel dialogo silenzioso delle anime consacrate con il loro Signore. La Vergine, che custodiva nel suo cuore ogni parola che Dio le rivolgeva, è il modello di quelle anime attente in cui rivive la preghiera di Gesù sommo sacerdote, e quelle anime che, dietro il suo esempio, si danno alla contemplazione della vita e della passione di Cristo, vengono scelte di preferenza dal Signore per essere gli strumenti delle sue grandi opere nella Chiesa, come una santa Brigida e una santa Caterina da Siena".

Queste parole sono di Edith Stein e ci introducono in modo sorprendente alla comprensione di Santa Caterina, della sua relazione privilegiata con la Chiesa e con i suoi Ministri. Sono unite, in questo passo, le tre Sante che Giovanni Paolo II ha proclamato recentemente Compatrone d'Europa: santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena, santa Teresa Benedetta della Croce. E' una significativa coincidenza, forse l'intuizione di un cammino comune di cui l'Autrice non poteva prevedere gli esiti, ma comune a queste tre donne è certo "la contemplazione della vita e della passione di Cristo", la condivisione della sua preghiera sacerdotale.

Giungiamo, attraverso queste riflessioni, al cuore della santità di Caterina, al suo fondamento, forte come roccia: l'amore a Gesù Crocifisso, che si traduce in amore e dedizione alla Chiesa, sua Sposa, al suo Vicario in terra, ai suoi Ministri. E' un amore al tempo stesso di figlia e di madre, tenero e forte, apprensivo e rassicurante, severo e comprensivo, che tutto chiede e tutto da, totale, che non si risparmia. Perciò la Santa è stata scelta, ed ha accettato di diventare, strumento dell'opera di Dio nella Chiesa.

Straordinario e mirabile è il percorso diacronico di questa fanciulla senese: nata nel 1347, ventiquattresima figlia del tintore di panni Iacopo di Benincasa e di Monna Lapa, morta a Roma nel 1380, canonizzata da Pio II nel 1461, proclamata il 4 ottobre 1970 Dottore della Chiesa da Paolo vi, è infine proclamata il 1° ottobre 1999 Compatrona d'Europa da Giovanni Paolo II. Questo percorso, che attraversa molti secoli di storia della Chiesa, segna una sempre crescente attualità del messaggio di Caterina a fronte delle nuove prospettive socioculturali.

La Santa senese, che rifiuta il matrimonio, voluto dalla madre, per essere totalmente fedele all'unico Sposo, Gesù, e vive il suo matrimonio mistico nel mondo, nel terz'ordine domenicano delle Mantellate, incarna luminosamente il "genio femminile" descritto da Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem. Nelle parole del Papa, l'unione con Cristo e la libertà radicata in Dio spiegano la grande opera di Santa Caterina da Siena nella vita della Chiesa (M.D., n.27).

Solo l'unione con Cristo può aver dato a Caterina, in tempi in cui la donna non aveva spazi d'azione al di fuori della casa o del convento, la forza di viaggiare, di parlare in pubblico, di trattare con Papi e sovrani, di svolgere preziose e difficili funzioni di pacificazione nei sanguinosi conflitti politici del tempo, di combattere per la riforma e per l'unità della Chiesa. straziata prima dall'esilio avignonese e poi dallo Scisma d'Occidente. Caterina, una giovane donna incolta, che tratta con autorità gli uomini più potenti dell'epoca! Certo non erano sue la forza, l'autorità che manifestava: come ella stessa non ai stancava di ripetere. Cristo parlava in lei e per mezzo di lei, che era diventata strumento perfetto della volontà di Dio. Scriveva infatti ai potenti in nome di Gesù Crocifisso e nel suo prezioso Sangue e in questo nome glorioso poteva permettersi rampogne ed incitamenti, avendo sempre di mira la gloria di Dio, il bene della Chiesa, la salvezza delle anime, la pace di tutti gli uomini.

Leggendo la vita di Caterina, sovvengono le parole rivolte alla Vergine Santissima dall'Arcangelo Gabriele: "Nulla è impossibile a Dio". Ed il Signore stesso ricorda queste parole a Caterina, quando le chiede di uscire dalla casa per iniziare il suo apostolato pubblico. Nella sua vita tutto è opera di Dio: dalla sua dottrina, di cui già Pio II, nella bolla di canonizzazione, diceva "non acquisita fuit", non supportata da una adeguata formazione culturale, alla sua azione, che trascendeva ogni possibile impegno di forze umane. Di lei Paolo VI, proclamandola Dottore della Chiesa, dice: "Ciò che più colpisce nella santa è la sapienza infusa, cioè la lucida, profonda ed inebriante assimilazione delle verità divine e dei misteri della fede... una assimilazione, favorita, sì, da doti naturali singolarissime, ma evidentemente prodigiosa, dovuta ad un carisma di sapienza dello Spirito santo".

La docilità all'azione di Dio, al dono dello Spirito è ciò che fa grande santa Caterina, in una totale unione d'amore tra Colui che è e colei che non è, come il tipico linguaggio cateriniano esprime il rapporto tra il Creatore e la creatura. "Ho deciso di mandare femmine ignare, deboli e fragili per natura, ma ricche della mia sapienza divina, a confusione della loro superbia e temerarietà", le dice il Signore. Ancora una volta Dio ha scelto i deboli per confondere i forti ed ha rivelato ai piccoli, ad una piccola grande donna, i misteri del Suo Regno.

Vicina a Maria nell'obbedienza della fede, Caterina lo è anche nella maternità spirituale verso la Chiesa. "Caterina riflette in se stessa l'immagine di Maria, madre della Chiesa. Essa sente questo compito materno come la sua missione particolarissima". Perciò soffre quando vede la Sposa sciupata ed impallidita per le colpe dei suoi figli e di questo li accusa e li rimprovera, ed ancor più se sono i suoi stessi Ministri a ferire con la loro condotta la Sposa di Cristo. Come ricorda Giovanni Paolo II proclamandola Compatrona d'Europa, la vergine senese ha speso senza riserve tutta la vita per la Chiesa. Ella stessa lo testimonia ai suoi figli spirituali sul letto di morte: "Tenete per fermo, figlioli carissimi, che io ho dato la vita per la santa Chiesa".

Nel 1370, risvegliatasi dopo l'esperienza della morte mistica, Caterina confida al suo Confessore di aver udito dal Signore queste parole; "La cella non sarà più la tua consueta abitazione; anzi, per la salute delle anime ti toccherà uscire anche dalla tua città... porterai l'onore del mio nome e la mia dottrina a piccoli o grandi, siano essi laici, chierici o religiosi. Metterò sulla tua bocca una sapienza, alla quale nessuno potrà resistere. Ti condurrò davanti ai Pontefici, ai Capi delle Chiese e del popolo cristiano, affinché per mezzo dei deboli, come è mio modo di fare, io umilii la superbia dei forti".

Inizia così, per obbedienza all'amore di Dio, la vita pubblica di Caterina. Se lascia la cella della sua stanza per diventare ambasciatrice di Cristo, "Dolce Verità" in Italia ed in Europa, sempre più si raccoglie nella "cella, inferiore", dove l'anima s'intrattiene da sola con il suo Signore e qui, solo qui, attinge dal Crocifisso la sapienza e la forza per l'azione. Certo, S. Tommaso e l'intera tradizione cristiana sono presenti in Caterina, assimilati dall'ambiente religioso che la circonda. Ma la Santa non si fonda su una cultura umana, bensì, come S. Paolo, sulla conoscenza di Cristo Crocifisso e, da vera figlia di S. Domenico, trasmette agli altri ciò che ha conosciuto nella contemplazione.

La vita della santa senese testimonia come azione e contemplazione non siano alternative, ne tanto meno antitetiche, ma necessariamente si integrino, poiché nessuna è completa senza l'altra. Tanto più nella società contemporanea/ dove viviamo in una continua corsa contro il tempo, questo insegnamento appare significativo: nessun impegno» pastorale o lavorativo, può distoglierci dall'intimità con Colui senza il quale niente avrebbe più senso. Occorre permanere nella "cella interiore", nella cella del "conoscimento di sé": questo non si stanca di raccomandare Caterina ai Sacerdoti, come arma per vincere le tentazioni e le insidie del mondo.

Mentre l'Italia era straziata dalle lotte civili e la Chiesa era preda della corruzione e degli interessi politici, l'opera della Santa ha tre principali obiettivi; la pacificazione delle città italiane, la riforma della Chiesa, il ritorno del Papa a Roma da Avignone. In ogni impresa si impegna senza risparmiarsi, munita solo della forza della sua fede e della sua carità. E Dio corona di risultati la sua opera. Il ritorno di Gregorio XI dall'esilio di Avignone è il massimo di questi risultati, quello per cui la storia ricorderà sempre il nome di Caterina, un risultato arduo per chiunque, impossibile per una fanciulla priva di alcun potere terreno. Ma Dio operava attraverso di lei.

La gioia per il ritorno del Papa è di breve durata. Dopo poco la Chiesa è dilaniata dallo scisma. Caterina si reca a Roma, chiamata da urbano VI, è qui consuma le sue residue forze in olocausto per la Chiesa, sostenendo in ogni modo il legittimo Pontefice, non risparmiando alcun mezzo, dai rimproveri infuocati, alle esortazioni, alle preghiere per questa ultima battaglia, di cui non vedrà la conclusione.

Le battaglie combattute da santa Caterina per la Chiesa sono testimoniate nelle sue lettere a Papi, Cardinali, Monaci, Sacerdoti, ... In esse è sempre presente un grande amore ai sacri Ministri, amore unito a devozione e rispetto, riverente di fronte alla dignità del Sacramento che essi amministrano. "Padre, per la riverenza del Sacramento": molte volte si rivolge così ai Sacerdoti. La profondità di questo amore, che non dipende certo dai ineriti umani dei destinatari, è pari solo alla forza dei rimproveri per coloro che hanno deturpato il volto della Chiesa-Sposa. Ed è la consapevolezza di questo amore che rende libera Caterina, consentendole di pronunciare accuse e rimproveri per il bene della Chiesa, senza timore di essere spinta da altre, più terrene ragioni.

Solo al Papa, e mai ai secolari, tenuti sempre alla riverenza verso i Sacerdoti, spetta infatti la correzione dei difetti di questi ultimi, poiché Cristo ha lasciato all'Apostolo Pietro ed ai suoi successori le chiavi del suo Sangue, da cui traggono vita tutti i Sacramenti. Al Papa, che con ardente fede Caterina riconosce come "dolce Cristo in terra" e con tenero affetto chiama "Babbo mio dolcissimo", chiede di operare con forza per la riforma della Chiesa. "Mettete mano a levare la puzza de ministri della santa Chiesa; traetene e' fiori puzzolenti, piantatevi fiori odoriferi, uomini virtuosi che temano Dio".

Nelle lettere ai Sacerdoti, Caterina propone le linee di una riforma che, per toccare l'intero corpo ecclesiale, deve prendere le mosse dalla conversione personale. Addita ad essi l'amor proprio come fonte di tutti i vizi e l'umiltà come prima tra le virtù, raccomandando una vita sobria, staccata dai piaceri terreni, ma sollecita del bene delle anime, ispirata alla purezza, alla pace, alla carità. Il Sacerdote vive nell'orazione e, come lo descrive con bella simbologia Caterina, "con la sposa del breviario a fianco". Rivolgendosi, con materna sollecitudine, ai Sacerdoti nelle loro diverse condizioni umane, sempre rende presente, anche ai più fragili, la dignità, in cui Dio li ha posti, di dispensatori del Sangue dell'Agnello. E, per aiutarli, ricorda come il "conoscimento di sé", ottenuto con la ragione illuminata dalla fede, sia irrinunciabile condizione di una vita virtuosa ed incoraggia ad affidarsi a Maria alla quale, scrive, "siete stati offerti e donati". E ancora materna è la forza dei rimproveri, sempre orientât! alla conversione di chi ha sbagliato. Ma c'è un'unica raccomandazione da cui mai Caterina prescinde: "Rimanete nella dolce e santa dilezione di Dio".

E per concludere ascoltiamo dal carisma sapienziale di Caterina chi sono i Sacerdoti. La Santa vi dedica molte pagine del Libro, che sarà poi indicato come Dialogo della Divina Provvidenza, da lei dettato ai discepoli durante le estasi, e descrive la dignità ministeriale, dono di Dio, come dignità superiore a quella degli Angeli.

"O carissima Figliola, tutto questo ti ho detto acciò che tu meglio conosca la dignità in cui ho posto i miei ministri, e più ti dolga delle loro miserie… Essi sono i miei unti, ed io li chiamò i miei cristi, perché ho dato loro me stesso da amministrare a voi. Questa dignità non ha l'angelo, e l'ho data agli uomini, a quelli che io ho eletto per miei ministri".

I Sacerdoti sono per Caterina "ministri del Sole", poiché sono ministri del Corpo e del Sangue di Cristo, che è una sola cosa con Dio, vero sole. Da questo altissimo Ministero derivano le funzioni, i doveri dei Sacerdoti: l'amministrazione dei Sacramenti, la dedizione alla gloria di "Di.o e alla salute delle anime, l'illuminazione dei fedeli con la parola e con l'esempio, la correzione dei peccatori, te preghiera per i fedeli, la carità verso i poveri.

I ministri santi e virtuosi, dice ancora Dio a Caterina, sono essi stessi somiglianti al gole. Ne hanno infatti la luce e il calore, "poiché in loro non vi è tenebra di peccato ne ignoranza, perché seguono la dottrina della mia Verità; ne sono tiepidi, poiché ardono nella fornace della mia carità". Perciò danno lume e calore nel corpo mistico della Chiesa, illuminando e riscaldando le anime con la scienza soprannaturale e l'ardente carità.

Per i Sacerdoti, i suoi "cristi", Dio chiede sempre riverenza e rispetto, qualunque possa essere la loro debolezza umana, poiché ogni offesa fatta a loro è fatta a Lui stesso, e chiede, a Caterina ed a tutti i cristiani, la preghiera assidua per la santa Chiesa e per i suoi ministri.

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1 La preghiera della Chiesa, 1936.
2 Tommaso da Siena detto il Caffarini, Vita di S.Caterina, P.II, c.I.
3 AAS, LXII, 31 ottobre 1970.
4 Tommaso da Siena detto il Caffarini, op.cit, P.II, c.I.
5 C. Riccardi, II messaggio filosofico e mistico di S. Caterina da Siena, Ed. Cantagalli, 1994, p.152.
6 Raimondo da Capua, Vita di S, Caterina da Siena, l.III, c.IV, n.363.
7 Ibid., n. 216.
8 Cfr. S. Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, c.115.
9 A Gregorio XI, Lettera 270.
10 A prete Andrea de' Vitroni, Lettera n.2.
11 A don Roberto da Napoli, Lettera n.342.
12 S. Caterina da Siena, Dialogo della Divina provvidenza, c.113.
13 Ibid., c. 119.



[SM=g1740733]
Caterina63
00martedì 30 giugno 2009 17:13
CHIESA CATTOLICA: l’intervista a mons. il vescovo Burke

Sul numero 37 (agosto-settembre) appena uscito, della rivista “Radici cristiane” è apparsa una importante intervista con Sua Eccellenza Raymond L. Burke, a cura di Thomas J. McKenna sul tema dell’Eucarestia. Ne riportiamo alcuni stralci.

Eccellenza, sembra che oggi prevalga una visione lassista nei riguardi della ricezione dell’Eucaristia. Perché? Crede poi che questo influenzi i fedeli nei modo di vivere come cattolici?

Una delle ragioni perché credo che questo lassismo è andato sviluppandosi è l’insufficiente enfasi nella devozione eucaristica: in modo speciale mediante il culto al Santissimo con le processioni; con le benedizioni del Santissimo; con i tempi più lunghi di adorazione solenne e con la devozione delle 40 ore. Senza devozione al Santissimo Sacramento la gente perde rapidamente la fede eucaristica. Sappiamo che c’è una percentuale elevata di cattolici che non crede che sotto le specie eucaristiche ci sono il corpo e il sangue di Cristo. Sappiamo inoltre che c’è un allarmante percentuale di cattolici che non partecipano alla Messa domenicale.

Un altro aspetto è la perdita del senso di collegamento fra il sacramento della Eucaristia e quello della Penitenza. Forse nel passato c’è stata un enfasi esagerata al punto che la gente credeva che ogni volta che si riceveva l’Eucaristia si doveva prima confessare. Ma ora la gente va regolarmente a comunicarsi e forse mai, o molto di rado, si confessa. Si è perso il senso della nostra propria indegnità e del bisogno di confessarsi dei peccati e far penitenza al fine di ricevere degnamente la Sacra Eucaristia.

Si somma a questo il senso sviluppatosi a partire dalla sfera civile che consiste nel credere che ricevere l’Eucaristia è un diritto. Cioè, che come cattolici abbiamo il diritto di ricevere la Comunione. È vero che una volta che siamo stati battezzati e abbiamo raggiunto l’uso della ragione, dovremmo essere preparati per ricevere la Sacra Comunione e, se siamo ben disposti, frequentemente dobbiamo riceverla. Ma d’altra parte noi non abbiamo mai un diritto di ricevere l’Eucaristia.

Ci sono leggi della Chiesa per impedire condotte inadeguate da parte dei fedeli a beneficio della comunità. Potrebbe lei commentarle e spiegarci fino a che punto la Chiesa e la Gerarchia hanno un obbligo di intervenire allo scopo di chiarire e correggere.

Nei riguardi dell’Eucaristia, per esempio, ci sono due canoni in particolare che hanno a che fare con la degna ricezione del Sacramento. Essi hanno come scopo due beni. Un bene è quello della persona stessa, perché ricevere indegnamente il Corpo e il Sangue di Cristo è un sacrilegio. Se lo si fa deliberatamente in peccato mortale, è un sacrilegio. Quindi per il bene della persona stessa la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l’Eucaristia, dobbiamo prima esaminare la nostra coscienza.

Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dobbiamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l’assoluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono nascosti e solo noti a noi stessi e forse a pochi altro. In quel caso, dobbiamo essere noi a tenere sotto controllo la situazione ed essere in grado di disciplinarci in modo di non ricevere la Comunione.

Ma ci sono altri casi di persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, come un ufficiale pubblico che con conoscenza e consentimento sostiene azioni che sono contro la legge morale Divina ed Eterna. Per esempio, pubblicamente appoggia l’aborto procurato, che comporta la soppressione di vite umane innocenti e senza difesa. Una persona che commette peccato in questa maniera è da ammonire pubblicamente in modo che non riceva la Comunione finché non ha riformato la sua vita. Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la Comunione, allora il ministro dell’Eucaristia ha l’obbligo di rifiutargliela.

Perché? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di fare un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per impedire che ci sia scandalo in due maniere. Primo, uno scandalo riguardante quale deva essere la nostra disposizione per ricevere la Santa Comunione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all’Eucaristia.
Secondo, ci potrebbe essere un’altra forma di scandalo, consistente nell’indurre la gente a pensare che l’atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credono sia un peccato serio, non deve esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione. Se abbiamo una figura pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti e che riceve l’Eucaristia, che finirà per pensare la gente comune? Essa può essere portata a credere che è corretto in un certo qual modo sopprimere una vita innocente nel seno materno.

(CR 1054/01 - 9/8/2008)
http://www.corrispondenzaromana.it/articoli/546/0/Chiesa-Cattolica/CHIESA-CATTOLICA:-l-intervista-a-mons.-Burke.html](CR 1054/01 - 9/8/2008)http://www.corrispondenzaromana.it/articoli/546/0/Chiesa-Cattolica/CHIESA-CATTOLICA:-l-intervista-a-mons.-Burke.htm


***************

Rifletterei molto su queste parole:

 Si è perso il senso della nostra propria indegnità e del bisogno di confessarsi dei peccati e far penitenza al fine di ricevere degnamente la Sacra Eucaristia.

A queste parole mi sovvengono quelle del Cristo: "Quando il figlio dell'uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede nell'uomo?"
Alla domanda sembrerebbe scontato dire: "Certo che ci credo in Gesù!!!" ma sarebbe duopo chiederci se crediamo veramente al Cristo e non piuttosto AD UNA IMMAGINE ACCOMODANTE che ci siamo costruiti affinchè ci tolga dall'imbarazzo di sentirci PECCATORI BISOGNOSI DI SALVEZZA E DI ASSOLUZIONE.... Pianto
Si è perso il senso della nostra propria indegnità e del bisogno di confessarsi .......

I LAICI RISCOPRANO IL PROPRIO RUOLO DI BATTEZZATI E I SACERDOTI RISCOPRANO L'IDENTITA' CHE GLI E' PROPRIA.....

Giovanni 20,23
a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».

2Corinzi 5,18
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione.


Tutta l'intervista di mons. Burke è da meditare, fare propria e far circolare.... parole come SCANDALO, SACRILEGIO, recentemente scomparse dal linguaggio dell'evangelizzazione, vanno riabilitate a cominciare proprio da NOI cattolici poichè come è stato fatto notare....l'Eucarestia, il riceverla NON è affatto un diritto MA E' DONO e come ogni dono occorre essere PRONTI a riceverlo....diversamente si compie un sacrilegio, si da scandalo, si da "ai porci il Cibo Santo" (Didachè) ci si AUTOCONDANNA, lo dice san Paolo:
1Corinzi 11,29
perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna


il concetto paolino del "non riconoscere" il corpo del Signore indica proprio la dottrina impartita dalla Chiesa sul Sacramento CHE SALVA E DA LA VITA ETERNA (cfr Gv.6)

Ringraziando la Provvidenza che in Benedetto XVI ci ha donato la possibilità di condannare questi abusi  e denunciare questa grave apostasia dalla sana dottrina Eucaristica, cerchiamo di diventare NOI stessi testimoni della Verità TRASMESSA(=TRADIZIONE) e con Carità fraterna, SOFFRENDO E PATENDO PER LA CHIESA, aiutare il nostro Prossimo a riscoprire o a scoprire che abbiamo con noi Dio VIVO E VERO che ci attende sia nel Confessionale quanto nell'Eucarestia..




Caterina63
00venerdì 11 settembre 2009 20:24
Ringraziando il sito Maranatha

vi invitiamo ad usare questi link per accedere direttamente alla Liturgia delle Ore sia per quelle di prima della Riforma (in latino e in inglese)

                      Ufficio Divino
CLICCATE QUI


sia per quelle dopo la Riforma del Concilio.....


                      Liturgia delle Ore

CLICCARE QUI


Un grande Patrimonio spirituale si schiude davanti a noi, approfittiamone.....



Cari Sacerdoti, ma anche noi, Laici....leggiamo quanto segue:
La rovina di Lutero cominciò dal breviario trascurato

e comprenderemo l'importanza della Preghiera della Chiesa.....

                                     
Caterina63
00giovedì 5 novembre 2009 12:48
Vangelo: Lc. 10,1-12. 17-20


In quel tempo, il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sè in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sue messe. Andate: Ecco Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace; la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: E' vicino a voi il Regno di Dio. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il Regno di Dio è vicino. Io vi dico che il quel giorno Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città".

I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: "Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel Tuo Nome". Egli disse: "Io vedevo Satana cadere dal Cielo come la folgore. Ecco, Io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei Cieli".


********************************************************

di don Stefano Varnavà

A due a due. In due ci si fa coraggio. In due c'è più sicurezza: se uno si fa male l'altro può soccorrerlo e cercare aiuto, e poi... lavorando insieme ci si "smussa" e ci si educa.

Il confronto è sempre produttivo, o decisivo come nel caso di Paolo e Barnaba che per diversità di valutazioni e vedute si sono separati.

Sottolineo: San Paolo e San Barnaba si sono separati.

La separazione non è peccato, è solo realismo, quando ci sono delle divergenze.

Meglio una separazione che un falso ecumenismo! [SM=g1740722]

Meglio una separazione che una ipocrita e riduttiva convivenza! Questo va detto anche per i coniugi. Questo va detto anche quando ci sono i figlio che ricevono l'esempio dai genitori. Meglio un esempio di chiarezza e di rispetto reciproco, ovviamente, che uno di ipocrisia e menzogna. Basta parlar chiaro a loro e spiegare la situazione.

Gesù manda i 72 discepoli a due a due, quindi manda 36 coppie.

Badate bene: 36 coppie, contemporaneamente, e in 36 villaggi diversi.

La Palestina, e specificatamente la Galilea e la Samaria non erano popolate come adesso. Inviare in 36 paesi contemporaneamente significava fare un annuncio a tappeto.

Qui dobbiamo riconoscere la capacità e la volontà organizzativa di Gesù.

12 Apostoli come le dodici tribù di Israele! A ciascuno affidò una squadra di appoggio e di operatività di 6 persone. 12 x 6 = 72: i 72 discepoli in questione.

Neofiti, ma Gesù si fida di loro, non solo, ma affida a loro una missione molto delicata. I discepoli avrebbero imparato, non solo ripetendo con chiarezza gli insegnamenti di Gesù, ma constatando di persona quanto "usciva" di portentoso e misterioso dalle loro mani: "Signore anche i demoni si sottomettono a noi nel Tuo Nome!".


Il Signore li manda con una particolare attenzione o prevenzione, se così si vuol dire: "State attenti che vi dovete considerare degli agnelli circondati da lupi. Uomo avvisato è mezzo salvato! Quindi adottate tutte le precauzioni del caso".

Precauzione: essere cauto che non equivale a essere prevenuto.

Precauzione vuol dire essere cauti prima e non dopo: "Siate dapprima prudenti e attenti come i serpenti che prima di muoversi si guardano in giro per vedere la situazione, e poi siate semplici come colombe".

Le Parole di oggi del Vangelo sono il "Manuale di istruzione del Missionario", ovverosia del Portatore della Buona Novella, cioè del Vangelo.

Il discepolo deve avvertire la presenza del lupo, e non solo questa, ma anche quella del lupo travestito da agnello.

Ci sono esseri che sembrano innocui ma che al momento buono si rivelano dei lupi che attentano alla persona e a quanto di prezioso essa ha: nel nostro caso l'anima!

"A cosa serve guadagnare il mondo intero se poi si perde l'anima? Con che cosa la si potrebbe ricomprare?".


Dice il Cardinal Biffi: "I nemici di Cristo diventano più pericolosi soprattutto quando fanno degli ampi sorrisi (lupi travestiti da agnelli)". Parlano di socialità e il grullo cattolico abbocca scambiandola per carità cristiana. Parlano di liberà dell'individuo e il grullo cattolico non si accorge che quella non è libertà dello spirito, ma asservimento politico. Parlano di diritti del cittadino e il grullo cattolico accetta il loro discorso sull'aborto, sul divorzio, e sull'annullamento della scuola cristiana. E tra i grulli cristiani ci sono anche dei Vescovi, cui Roma non dice niente, proprio niente! [SM=g1740721]


Il Signore dice di non portare borsa né bisaccia.

Il discepolo non deve appesantirsi di pesi, anche se buoni, ma spesso inutili allo scopo fissato da Gesù. Pesi che traggono in inganno perché si chiamano talvolta carità, assistenza, promozione umana...

I nemici di Cristo hanno capito bene dove i discepoli sono vulnerabili e hanno detto loro: "Voi bravi religiosi curate i poveri; dedicate tutto il vostro tempo agli emarginati, passate la vostra vita ad assistere gli anziani, e intanto noi entriamo nella scuola, nei mezzi di comunicazione per veicolare nelle masse le nostre idee di ateismo e astio contro la Chiesa. [SM=g1740721]

Questo discorso è stato fatto non a parole ma coi fatti dal 1968 in avanti. Così adesso, dagli studenti ai giovani professionisti abbiamo la maggioranza che non la pensa come Gesù, anzi ci ride sopra. Anche tra noi cristiani, ancora adesso, è più importante la "San Vincenzo" del teatro, il rito liturgico che la cultura, e così via. E in questa maniera noi siamo qui a "parlarci addosso" invece di andare dove si dovrebbe andare per portare il messaggio di Gesù.

Di noi cattolici tanti dicono:

"Il prete sta bene in sacrestia e guai se frequenta i "bar" della zona.

Il prete sta bene in oratorio, ma guai se va a insegnare nella scuola pubblica.

Il prete deve curare l'Azione Cattolica ma guai se introduce i giovani negli ambienti pubblici.

Il prete deve fare le canzoncine in Chiesa ma guai se si fa amico dei "big" della canzone e dello spettacolo. In questo ultimo caso poi viene ammonito da qualche Superiore Ecclesiastico: "Se continui a frequentare certa gente e certi ambienti ti mandiamo a fare il prete in montagna...

Tutto questo perché ci si dimentica che Gesù, a chi Lo criticava per certe sue "frequentazioni" (parla coi pubblicani e le donne fuori posto), rispondeva: "Il Medico è per i malati e non per i sani".


Il discepolo deve saper distinguere non solo le persone (lupi o agnelli), ma anche le case. E come?

Ascoltiamo le Parole di Gesù; "In qualunque (e sottolineo qualunque) casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Chi accetterà questa benedizione dimostrerà con il suo atteggiamento che è un figlio della pace".

Gesù ha detto: "Nessuno viene a Me se non è già stato attirato dal Padre. Chi crede in Dio e ci crede veramente, sa riconoscere le persone che hanno la sua stessa fede". Così come Abramo che ha riconosciuto in Melchisedec il suo stesso atteggiamento di fede in Dio Creatore e Signore di ogni cosa.

Chi avrebbe accettato il saluto di pace dei discepoli, avrebbe dimostrato di essere, come loro, figlio della Pace.

La pace è una delle caratteristiche di Dio in noi e con noi stessi.


Il Signore prevede anche la possibilità che, in qualche paese, nessuna famiglia accolga i due discepoli.

L'atteggiamento dei discepoli in questo caso non deve essere quello del rancore, della ritorsione. "Signore vuoi che facciamo scendere il fuoco su quel paese che non ha voluto accoglierci?" Così parlava Giovanni, detto Boanergès - figlio del tuono, dei fulmini e delle saette.

L'atteggiamento dei due discepoli deve essere quello della chiarezza: "Siamo venuti qui a parlarvi del Regno di Dio. Voi non ci avete voluto ascoltare: peccato perché avete perso una possibilità di cui dovrete rendere conto e vi troverete addosso dei guai che con la vostra fede avreste potuto tenere lontani. Comunque sappiate che il Regno di Dio è vicino a voi, come vicino a voi è Gesù di Nazareth". [SM=g1740722]


Gesù fa a tutti loro una esortazione iniziale: "Pregate il Padrone della messe perché mandi operai per la Sua messe perché la messe è molta ma i mietitori sono pochi".

Gesù che ci giudicherà alla fine della nostra vita sa distinguere chi semina da chi raccoglie. Lui stesso ha detto: "C'è chi semina e c'è chi raccoglie".

Lui sa benissimo che certi nostri interventi nel Regno di Dio sono semina e non raccolto.

Noi vorremmo vedere sempre i frutti della nostra semina, e magari anche subito. E invece non è così, almeno per noi piccoli, limitati e mortali.

Ci sono semi che fruttificano dopo generazioni. Il proverbio dice: "Chi pianta datteri difficilmente potrà vederli e mangiarli".

Tanti genitori potrebbero non vedere il frutto dei loro insegnamenti e sacrifici. Ma Dio, che tutto vede, sa. Ci stupiremo quando Lui ci farà vedere il frutto delle nostre semine, buone o cattive.

Pensate a quanto hanno seminato molti sacerdoti divenuti anche santi per esempio padre Pio o lo stesso Curato d'Ars... Non hanno visto il frutto delle loro fatiche: hanno subito anche derisioni e incomprensioni! Noi però i loro semi li abbiamo visti trasformati in frutti che adesso cogliamo.

"C'è chi semina e chi raccoglie"!

I 72 discepoli andavano a raccogliere ciò che gli altri prima di loro avevano seminato.

Dio Padre semina per primo, attraverso la Sua opera nelle anime di tanti buoni padri di famiglia, di tanti appassionati delle Sacre Scritture; semina anche attraverso il dolore stesso che mette a nudo tanti cuori e li rende poveri nello spirito.

In tutte queste persone, i discepoli, attraverso le Parole di Gesù avrebbero fatto un ottimo raccolto.

Il bisogno della Parola di Gesù avrebbe dovuto essere appagato da molti più discepoli. Per questo Gesù dice: "Pregate il Padrone della messe perché mandi operai per la Sua messa.".

Non è quindi l'uomo religioso o l'organizzazione della Chiesa che crea la vocazione, ma è Dio che nel misterioso formarsi di nuove vite, mette in alcune di loro quelle doti che sono la base, la connotazione specifica di una chiamata di un consacrato.

Purtroppo tante di queste eventuali vite vengono annullate sul nascere! Da te mamma che hai sposato quel particolare uomo e che avevi fatto nella tua giovinezza quel particolare cammino spirituale per il quale il Signore aveva fissato che da te sarebbe nato un Suo consacrato. E invece tu ti sei rifiutata di mettere al mondo quella creatura. E così abbiamo avuto un operaio in meno per la Sua messe!

S. Caterina fu l'ultima di 24 figli che la madre ha avuto con parti anche gemellari: uno moriva, l'altro proseguiva. Se i genitori di S. Caterina avessero pianificato le nascite con certi criteri d'oggi, non avremmo mai avuto S. Caterina. E questo è solo un esempio. Quanti genitori nella storia hanno detto al Signore: "Signore , noi abbiamo già due, tre figli, se però Tu ne vuoi uno per il Tuo Regno, mandacelo pure e noi Te lo regaleremo.

Genitori pensateci: seminate anche voi, non solo per voi ma anche per il Regno di Dio.

Altri mieteranno, ma Dio sa benissimo valutare non solo chi raccoglie, ma anche e soprattutto chi ha seminato.




[SM=g1740717] [SM=g1740720]

Caterina63
00giovedì 5 novembre 2009 14:56
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Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 21:38

Il Sacerdozio cattolico

Non si può definire il sacerdote senza il sacrificio né il sacrificio senza il sacerdote. Essi sono legati essenzialmente. Il sacerdote è fatto per il sacrificio[10] e non può esserci sacrificio senza sacerdote. Occorre quindi riflettere su cos’è il sacrificio per sapere esattamente cos’è il sacerdote. Il sacrificio è un qualcosa di misterioso, profondo, divino.

E’ un tesoro sul quale potete meditare per tutta la vostra vita sacerdotale, senza che sia esaurito al momento della vostra morte. Solo nell’al di là capiremo bene cosa sia questo sacrificio di Nostro Signore che rinnoviamo tutti giorni sull’altare[11]. Già nel Vecchio Testamento, il grande sacerdote entrava ogni anno nel Santo dei santi e, come dice san Paolo (Eb. 9, 7-11), non entrava senza il sangue delle vittime. Questa è un’immagine di ciò che sarebbe stato in futuro il sacrificio di Nostro Signore. Neanche Lui, il Santo per eccellenza, sarebbe entrato nel tabernacolo che non era opera dell’uomo senza il suo sangue prezioso[12]. Ed è quello che fa il sacerdote oggi, riproduce il sacrificio di Nostro Signore facendo discendere sull’altare il suo sangue, il sangue dell’espiazione, della riparazione e della Redenzione. Quanto è più grande, quanto più efficace, quanto più sublime, quanto più divino è il sacrificio che i sacerdoti offrono oggi di quello che un tempo offriva il grande sacerdote una volta l’anno, quando penetrava nel Santo dei santi[13]!

1. Il sacerdozio di Cristo

La definizione forse più bella, più completa del sacerdozio di Cristo si trova nell’epistola di san Paolo agli Ebrei. Tutta la prima parte di essa è destinata a farci conoscere cosa sia il sacrificio di Nostro Signore. E’ davvero meravigliosa. San Paolo è stato certamente ispirato quando scriveva queste pagine. Egli mostra innanzitutto che Gesù è superiore agli angeli (Eb. 1, 4-14 e 2). Poi spiega che Gesù è superiore a Mosè, il maggiore dei profeti (Eb. 3). Mentre Mosé balbettava il Nome di Dio, Gesù è la Parola sostanziale, il Verbo eterno, disceso fino a noi per salvarci.

I segreti dei cuori sono messi a nudo ai suoi occhi. Ben superiore quindi a quel che poteva essere Mosè. In terzo luogo, Gesù è incomparabilmente superiore ai grandi sacerdoti dell’antica Legge. Il sacerdozio di Cristo è in effetti il più perfetto che si possa concepire[14] . Donde gli viene queste perfezione? Lo vediamo facilmente considerando la triplice unione del sacerdote con Dio, con la vittima che offre e con il popolo per il quale la offre. Più il sacerdote è unito a Dio e più il suo sacrificio è perfetto; più è unito alla vittima e più ugualmente il suo sacrificio è perfetto. Infine, più è unito al popolo con il quale lo offre e più il suo sacrificio è perfetto. Quindi, più il sacerdote sarà unito a Dio, più il sacerdozio sarà perfetto, poiché il sacerdote deve supplire con la sua santità all’imperfezione dell’adorazione, della riconoscenza, dell’espiazione e della supplica del popolo, come spiega san Tommaso.

Più la vittima sarà pura, preziosa ed interamente consumata in onore di Dio, più il sacrificio sarà perfetto. L’olocausto era il più perfetto dei sacrifici della vecchia Legge perché tutta la vittima era consumata in onore di Dio, per significare che l’uomo deve offrirsi a lui interamente. Più il sacerdote e la vittima saranno uniti, più il sacrificio sarà perfetto, poiché l’oblazione e l’immolazione esteriori della vittima non sono che il segno dell’oblazione e dell’immolazione interiori del cuore del sacerdote che compie in tal modo l’atto più grande della virtù di religione. Infine, più il sacerdote ed il popolo saranno uniti, più il sacerdozio sarà perfetto, poiché il sacerdote deve riunire tutte le adorazioni, rendimenti di grazie, preghiere, riparazioni dei fedeli in un’unica elevazione a Dio.

E’ sufficiente applicare questi principi al sacerdozio di Nostro Signore per concludere immediatamente che è il maggiore di tutti quelli che si possano concepire. Infatti, Gesù Cristo sacerdote non è soltanto puro da ogni colpa originale e personale, da ogni imperfezione, ma è la Santità stessa. Non è possibile immaginare un sacerdote più unito a Dio. E’ egli stesso Dio grazie alla sua unione ipostatica[15]. Di conseguenza, grazie alla sua unione con Dio, non può che essere il sacerdote più perfetto. Non può esistere un’unione più perfetta tra Nostro Signore, sacerdote, e la sua vittima. La vittima è egli stesso(Ep 5,2) e non si può immaginare una vittima più perfetta di Nostro Signore.

Anche qui, Egli è la perfezione assoluta, che supera tutto quanto si possa immaginare. L’unione tra il sacerdote e la vittima non può essere più intima, il legame del sacrificio esteriore e di quello interiore non può essere più stretto, poiché è il sacerdote stesso ad essere vittima[16], non solo nel suo corpo, ma nel suo cuore e nella sua anima. Il suo dolore più intenso è generato dalla sua carità alla vista del male immenso che ha la missione di cancellare. Questa unione tra il sacerdote e la vittima si è manifestata sempre di più nell’ultima Cena, al Calvario e dopo la Resurrezione. L’eucaristia, nel Cenacolo, è l’inizio della Passione; ne è anche la conseguenza. Quindi, il sacerdote e la vittima non possono essere uniti più perfettamente che in Nostro Signore immolato per noi. Infine, neppure l’unione tra il sacerdote ed il popolo fedele può essere maggiore che in Nostro Signore, perché egli è il capo del corpo mistico. Non può esistere un unione più grande che quella che vi è tra le membra ed il capo del corpo mistico perché noi siamo uniti a lui, nel corpo mistico, tramite la partecipazione alla sua grazia. E’ quindi Gesù, in qualche modo esteso al corpo mistico, che offre il sacrificio[17].

2. Il nostro sacerdozio

San Paolo e quindi lo Spirito di Dio, che gli ha dettato queste parole, afferma: “Il sacerdote, che è scelto tra gli uomini, è costituito sacerdote per gli uomini” (Eb. 5,1).
Facciamo attenzione a questa prima affermazione, che potrebbe forse giustificare il nuovo orientamento che si vuole dare al sacerdote oggi: un uomo costituito solo per gli uomini. Ma che dice dopo san Paolo? Precisa: “per gli uomini, per ciò che riguarda il culto di Dio” (Eb. 5,1).
E’ costituito per gli uomini, senza dubbio, ma nelle cose che sono di Dio, per condurli a Dio. E’ questa la finalità del sacerdozio[18]. San Paolo prosegue: “Affinché offra doni e compia il santo sacrificio per la Redenzione dei peccati” (Eb. 5,1).
Ed aggiunge anche: “Poiché è egli stesso soggetto a debolezza, deve compatire ed essere indulgente con coloro che sono nell’errore e nell’ignoranza” (Eb. 5,2).
Lì si trova tutto il segreto del sacramento della penitenza.

Il sacerdote è quindi costituito per offrire il santo sacrificio e diffondere le grazie del sacrificio, in modo particolare tramite il sacramento della penitenza, per chinarsi su coloro che sono nell’errore e nell’ignoranza. Dato che egli stesso è peccatore, deve offrire il santo sacrificio per i suoi propri peccati e non solo per i peccati del popolo di Dio. Vedete che in poche righe, san Paolo ha riassunto ciò che costituisce l’essenza stessa del sacerdote.

Allora, è importante che tutti quelli che sono chiamati a salire all’altare per ricevere un’ordinazione che li prepara ad offrire questi sacri misteri di Nostro Signore Gesù Cristo meditino queste parole di san Paolo. Devono sapere che anche loro sono deboli, e tuttavia Dio li ha scelti. E’ ancora san Paolo a dirlo: “Nessuno si attribuisce da se stesso questo onore; ma ci si è chiamati come Aronne” (Eb. 5,4), come i leviti, per offrire il vero sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo[19].
Quale mistero! Dio che vuole scegliere degli esseri umani per santificare gli uomini, per consacrarli alla continuazione della sua opera di Redenzione affidando loro il suo proprio sacrificio! E’ questo un grande mistero d’amore, di carità verso di noi e tutti quelli che attraverso il sacerdozio, nel corso dei secoli, riceveranno grazie di santificazione[20].

Mons. Marcel Lefebvre

La sainteté sacerdotale p. 191 e ss.


[10] Somma teologica, III, q. 63, a. 6; III, q. 82, a. 1.

[11] Omelia, Écône, 8 dicembre 1987.

[12] “ Il Nostro Dio e Signore [si è offerto] egli stesso una volta per tutte a Dio Padre sull’altare della croce con la sua morte, per realizzare per [noi] una Redenzione eterna” (concilio di Trento, 22ª sessione, 17 settembre 1562, dottrina sul sacrificio della messa, c. 1, DS 1740).

[13] Omelia, Écône, 27 settembre 1986.

[14] Somma teologica, III, q. 22, a. 1 e 4; q. 48, a. 3. Vedi ugualmente sant’Agostino, 1. VI, De Trinitate, c. 14; e sant’Alberto Magno, De Eucaristia, D.V, c. 3. Ed. Borgnet, 1899, t. 38, p. 387.

[15] Somma teologica, III, q. 2, a. 6. L’unione ipostatica designa l’unione sostanziale della natura divina e della natura umana in una sola persona, la persona stessa del Verbo, seconda persona della Santa Trinità.

[16] Somma teologica, III, q. 22, a.2.

[17] Ritiro, Écône, 22 settembre 1978.

[18] Omelia, Écône, 29 giugno 1975.

[19] Omelia, Écône, 1° novembre 1980.

[20] Omelia, Écône, 16 aprile 1987.



[SM=g1740722] [SM=g1740717] [SM=g1740720]

Caterina63
00mercoledì 11 novembre 2009 22:31
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Il vescovo Pinardi
nella Torino del primo Novecento




di Valerio Andriano

"Servo fedele, prudente e buono". Queste fondamentali caratteristiche del ministero episcopale ricordate in un'omelia lo scorso 12 settembre da Benedetto XVI si attagliano perfettamente anche alla figura di monsignor Giovanni Battista Pinardi, vescovo ausiliare di Torino nella prima metà del Novecento.

Pinardi nasce a Castagnole Piemonte nel 1880, nel giorno dell'Assunzione di Maria, da una famiglia contadina, profondamente religiosa. Il piccolo Giovanni Battista, quintogenito di sei fratelli, regolarmente, alle 5 del mattino, raggiunge la chiesa parrocchiale per servire la prima messa: qui nasce la sua vocazione al sacerdozio, maturata nell'ambiente salesiano di Alessandria e nei seminari diocesani di Torino. Sarà ordinato sacerdote il 29 giugno 1903, con 51 compagni di studi, nella chiesa dell'Immacolata, annessa all'arcivescovado. Nominato parroco di San Secondo in Torino nel 1912, accetta "per obbedienza" la nomina a vescovo titolare di Eudossiade e ausiliare del cardinale Richelmy il 24 gennaio 1916.
"Un uomo pio, d'una pietà che traspariva dal suo volto", così lo descrive il vescovo coadiutore Tinivella nell'omelia per la traslazione delle sue spoglie dal cimitero di Castagnole Piemonte alla chiesa di San Secondo in Torino, avvenuta nel dicembre 1964.

A chiunque lo incontrava, monsignor Pinardi dava l'impressione d'essere costantemente in unione con Dio e di cercare unicamente nella Sapienza divina la soluzione di tanti gravosi problemi che gli si presentavano ogni giorno. Per lunghe ore rimaneva in adorazione davanti al Tabernacolo, e chi l'ha visto pregare - annota un confratello parroco - ne ha certamente riportato sentimenti indelebili di edificazione. Uomo coraggioso e intrepido, affrontò la buona battaglia della fede in tempi difficili, meritò dal suo arcivescovo Maurilio Fossati, piuttosto parco negli elogi, la lusinghiera definizione di bonus miles Christi.

Non poche furono le battaglie del Pinardi, seriamente impegnato sul versante sociale, amico fraterno di don Luigi Sturzo, che in incognito gli rese visita a San Secondo, durante il viaggio che lo portava esule nel nord d'Europa. In tempi socialmente complessi, come lo fu il periodo tra le due guerre, monsignor Pinardi seppe attenersi rigorosamente alle indicazioni della dottrina sociale della Chiesa, che tracciava nella Rerum novarum e nei successivi documenti la via sicura da seguire. La via della povertà e della giustizia nella misericordia.

Effettivamente, come si scrisse, monsignor Pinardi non è mai stato "anti-qualcuno", diffondendo e difendendo l'ideale evangelico del pastore d'anime, fedele esecutore delle direttive del magistero. Attento e sollecito nel "servizio della parola", caratteristica propria e irrinunciabile del munus docendi, ricevuto dallo Spirito Santo, sapeva essere nella predicazione "totalmente relativo a Dio". Egli preparava minuziosamente le istruzioni parrocchiali - come s'usava allora durante la celebrazione pomeridiana dei vespri domenicali - le omelie e i molti discorsi d'occasione, dove tutto è riferito all'unico Assoluto: "Il Signore fa tutto bene, non chiediamogli mai perché. La sua volontà è il nostro paradiso in terra, prima di essere la nostra beatitudine eterna", era la frase ricorrente a ogni evento fausto o infelice che fosse. Dopo il Vaticano II, quando stavano per entrare in vigore le nuove norme liturgiche, pur accusando la comprensibile fatica d'un aggiornamento così articolato e profondo, in una delle sue ultime istruzioni parrocchiali diceva: "Verranno indicazioni nuove e noi le metteremo in pratica". E aggiungeva un'espressione ricorrente nelle sue catechesi: "Lo ha detto il Papa, lo dicono i vescovi, dunque è così".

La piena sintonia di Pinardi con il suo vescovo e con il magistero della Chiesa erano proverbiali. Ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, nel 1953, un noto giornalista e politico formatosi all'oratorio di San Secondo, nel discorso d'occasione ricordava: "Noi giovani ardenti uscivamo da quei colloqui con il cuore pieno di entusiasmo: era con noi un vescovo che intendeva il senso sociale del cristianesimo". Un vescovo che "conosceva quali doveri il mondo ha verso l'operaio e quali le strade da percorrere per redimerlo".

L'immagine di monsignor Pinardi è inscindibilmente legata al sacerdozio, che egli non soltanto ha tenuto in grande onore, ma ha esemplarmente incarnato in tutta la sua vita. La figura del sacerdote, nei suoi tratti essenziali, che attingono all'unico ed eterno sacerdozio di Cristo e rimangono invariati nel tempo, è caratterizzata dalla sua funzione pastorale. Il sacerdote è anzitutto pastore e la sua spiritualità è profondamente segnata dalla carità pastorale. Pinardi ne era profondamente consapevole. Non si spiega altrimenti la sua quasi angosciosa resistenza ad assumere la "croce" dell'episcopato, in cui si concentra la pienezza del mandato divino.
Quanto monsignor Pinardi apprezzasse il sacerdozio risulta dalla sua profonda devozione eucaristica, ma non solo, se si pensa che dalla parrocchia di San Secondo sono sbocciate in quegli anni una quarantina di vocazioni sacerdotali e, cosa meno nota, molti sacerdoti in difficoltà hanno trovato in lui comprensione, conforto, sostegno spirituale e concreta accoglienza in spirito di vera fraternità sacerdotale.

Ripensando la bella figura del Pinardi, acquistano particolare splendore le parole di Benedetto XVI, richiamate in precedenza, a illustrare la prima caratteristica che il Signore chiede al suo servitore, la fedeltà: "Gli è stato affidato un grande bene, che non gli appartiene. La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio... Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente... La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati".

È lo splendore della verità, vissuta nella libertà che ne deriva, che ha illuminato i passi di Pinardi, in tutti i campi della sua intensa attività pastorale, dal ministero parrocchiale in senso proprio, ai problemi sociali della prima immigrazione verso Torino, della comunicazione con una tipografia e un giornale, della tutela dei diritti dei lavoratori, per sfiorare i più vasti ambiti della politica del Paese, aprendo nuovi orizzonti sul fronte della carità vissuta, tradotta in opere ancora oggi fiorenti, come la "Casa della misericordia". Tutti i suoi interventi in campo sociale - dall'assistenza al sindacato e alla politica - mai miravano al consenso popolare, dal quale monsignor Pinardi era per sua natura schivo, ma anzitutto al bene dei fedeli.

Monsignor Pinardi era uomo "di poche parole, ma di saggi consigli", che sapeva comprendere e ascoltare, accoglieva tutti con signorilità e cortesia e quanti ricorrevano a lui - ed erano molti - se ne tornavano sempre con grande sollievo, Questa dote era frutto anzitutto d'una, profonda e autentica, umiltà, virtù preclara del Pinardi, unanimemente riconosciutagli e frequentemente sottolineata da quanti hanno scritto di lui. "La sua fu un'umiltà magnanima, che lo rendeva né timido né incerto nei suoi interventi e nelle sue decisioni quando fosse in gioco la giustizia o la verità", scriveva, dopo la sua morte, il direttore del settimanale diocesano. In effetti Pinardi ricoprì in diocesi incarichi molto importanti in quel momento storico, come quello di presidente della Società "Buona Stampa", combattivo e irriducibile avversario "di coloro - come scriveva l'arcivescovo Fossati - che si fanno paladini di una falsa libertà e concorrono alla diffusione di quei fogli che sono per sistema nemici della Chiesa e avversari della buona causa".

Monsignor Pinardi, ben conscio della sua totale consacrazione, svolse con coerente fedeltà la sua missione, dedicandovi tutte le sue energie. Appena superati i sessant'anni la sua salute cominciò a essere malferma. "Monsignor Pinardi - scrive un confratello - non era vecchio, ma era logoro". Ciononostante riuscirà a superare la soglia degli ottant'anni, traguardo ragguardevole all'epoca, conservando lo spirito dei tempi migliori fino al tramonto, con invidiabile serena lucidità e il solo rammarico di non poter più lavorare come un tempo, nel totale abbandono alla volontà del suo Signore e nel distacco dalle cose del mondo. Ciò faceva dire all'arcivescovo Fossati, di fronte alla sua salma composta in San Secondo: "Ecce quomodo moritur vir iustus: qualis vita, finis ita!".

La carità pastorale, virtù con la quale s'imita Gesù Buon Pastore, che dona la propria vita, si realizza anzitutto nel servizio. Infatti l'episcopato è più un servizio che un onore, recita la Pastores dabo vobis (n. 23). E, come ricorda Benedetto XVI nell'omelia citata sopra, Gesù venuto per servire e dare la vita in riscatto di molti "ha reso il termine "servo" il suo più alto titolo d'onore. Con ciò ha compiuto un capovolgimento dei valori". Ma la carità pastorale trova il suo fondamento anche nella virtù della prudenza (Presbiterorum ordinis, 14, Ecclesiae imago, 22), virtù cardinale che rappresenta, dice Benedetto XVI, "la seconda caratteristica" del servo. Essa indica la ricerca incessante della verità, anche la verità scomoda.

Il servo prudente è innanzitutto un uomo di verità, è un uomo dalla ragione sincera. In tal senso Pinardi fu un uomo veramente ragionevole e saggio, capace di guardare il mondo e gli uomini e riconoscere così ciò che conta nella vita, senza lasciarsi abbagliare da pregiudizi. Uomo di "verità e di comunione", come sottolinea il direttorio sul ministero e la vita dei presbiteri (Tota Ecclesia, n. 30). Spesso nelle discussioni interloquiva: "No, non voglio che prevalga chi è più tenace nelle sue idee, ma chi ha più ragione. Riprendiamo a discutere". La prudenza, che suppone la saggezza, fu certamente una delle doti più in mostra e apprezzate del Pinardi, al cui consiglio molti ricorrevano proprio per la sua riservatezza e segretezza. Anche dopo il suo "ritiro nell'ombra", non si contavano i sacerdoti che ricorrevano a lui per un consiglio, sapendo di poter contare sulla sua prudente saggezza oltre che sulla sua riservatezza.
La sua bontà si traduceva anzitutto nell'amore ai poveri. Ed erano centinaia quelli che gravitavano attorno alla chiesa di San Secondo. Soleva, dire: "Anche se c'imbrogliano, amateli i poveri, Dio non ha dato loro quello che ha dato a noi".

Messaggero di bontà - "l'unica cosa davanti alla quale il mondo è ancora capace d'inginocchiarsi", per usare un'espressione del grande educatore salesiano don Cojazzi - monsignor Pinardi, già vescovo, saliva quattro piani di scale per raggiungere le soffitte di via San Secondo a portare conforto ai malati più poveri e abbandonati. Tutti lo conoscevano per il suo tratto affabile e rispettoso, a ognuno rivolgeva una parola scoprendosi il capo per salutare, con ammirazione della gente più semplice. Ma il segreto della sua bontà, da tutti riconosciuta, non può avere altra sorgente che Dio stesso, come il Signore afferma nel noto racconto evangelico: "Perché mi chiami buono, nessuno è buono se non Dio soltanto" (Marco, 10, 18). E Benedetto XVI rammenta che "la bontà presuppone soprattutto una viva comunione con Dio... se la nostra vita si svolge nel dialogo con Cristo... se le sue caratteristiche penetrano in noi e ci plasmano, possiamo diventare servi veramente buoni".

Monsignor Pinardi, sia per temperamento che per formazione, fu "un solitario" nel senso che non faceva parte di allegre combriccole di preti che dedicavano ore e ore al gioco delle carte, o a altri frivoli trattenimenti; situazione diffusa quanto mal tollerata dall'arcivescovo Richelmy, al quale il vicario generale con un certo humor replicava: "Eminenza, meglio i tarocchi (inteso come il gioco delle carte, ndr.) che passare il tempo a tagliare i panni all'arcivescovo!". Ma monsignor Pinardi non era certamente un prete "isolato" nella sua solitudine, che amasse non essere "disturbato", cosa che lamentava soltanto quando stava recitando le Ore o si stava preparando alla celebrazione dell'Eucaristia. La sua giornata scorreva continuamente a contatto con i fedeli, specialmente i più bisognosi, che prediligeva, ma anche con i confratelli, alle cui riunioni era sempre presente.

La fraternità sacerdotale, oggi tanto invocata, forse perché è diventata cosa rara, esigenza profonda della misteriosa realtà comunionale della Chiesa, era al vertice dei suoi pensieri e si manifestava nella sua cordiale accoglienza verso i confratelli, sublimandosi in una amicizia sincera, che trascende le categorie sociologiche mondane - incomprensione, solitudine, emarginazione - e supera le inevitabili difficoltà contingenti. Lo confermano molti sacerdoti da lui aiutati e beneficati, che ospitava nella spaziosa residenza parrocchiale, fino ad averne in casa contemporaneamente una dozzina.

L'arcivescovo di Vercelli, Imberti, dava atto di questa sua disponibilità, scrivendo come "l'arcidiocesi di Torino non sarà mai abbastanza riconoscente a quest'uomo integerrimo pieno di bontà e di carità, specie con i sacerdoti". Scrive uno dei suoi viceparroci, oggi quasi centenario: "Per i confratelli poveri ebbe finezze squisite d'assistenza; per molti, vicini all'ultimo passo, fu l'informatore delicato e sollecito della gravità del male e del momento che suggeriva gli ultimi sacramenti; per delusi, calunniati, percossi o sviati fu l'angelo del conforto, il braccio di sostegno: sono pagine di soavità e di amore paterno e fraterno che si leggono solo nei libri dell'aldilà...".

Indipendentemente da quale sarà il giudizio della Chiesa sulla eroicità delle virtù di monsignor Pinardi, del quale è stata introdotta la causa di canonizzazione nel 1999, l'esame delle circostanze storiche in cui visse e operò mette in risalto la grandezza dei doni che Dio gli ha fatto e la sua esemplare dedizione al ministero sacerdotale, che s'impone ancor oggi e offre in questo Anno sacerdotale un impareggiabile modello. Con ragione hanno scritto di monsignor Pinardi: "Era sempre un vescovo: nella visione soprannaturale ed equilibrata delle cose, nella ponderatezza e decisione delle parole, nella carità e generosità delle opere". Nessun miglior elogio si sarebbe potuto fare di un pastore zelante, secondo il cuore di Dio, come seppe essere il Pinardi, guida dinamica e discreta nel cammino della vita, secondo la vocazione universale dei fedeli, verso la santità.



(©L'Osservatore Romano - 12 novembre 2009)


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Caterina63
00giovedì 19 novembre 2009 23:57
Intervento dell'arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero

Il prete e la tentazione
del protagonismo



"La comunicazione nella missione del sacerdote" è stato il tema della giornata di studio promossa il 18 novembre dalla Pontificia Università della Santa Croce nell'ambito delle iniziative per l'Anno sacerdotale. Pubblichiamo quasi per intero l'intervento introduttivo dell'arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero.




di Mauro Piacenza


L'efficacia del ministero, garantita, nei suoi aspetti essenziali, dalla grazia divina, descritta nell'ex opere operato di tomista memoria, è affidata anche, misteriosamente e nel contempo in modo affascinante, alla libertà del singolo sacerdote e al percorso di progressiva conformazione esistenziale a Cristo, unico sommo sacerdote, che ha inizio con il sacramento dell'ordine e prosegue per tutto il tempo dell'esistenza terrena. In tal senso, ciascun sacerdote è, per eccellenza, uomo della comunicazione: della comunicazione con Dio e della comunicazione di Dio ai fratelli, a lui affidati nella sollecitudine del ministero.

Come ricorda la Lettera agli Ebrei (5, 1-2), il sacerdote è un uomo totalmente relativo a Dio, dell'unico "relativismo" di cui sia possibile gloriarsi! È un uomo costituito dalla Misericordia divina in una precisa funzione rappresentativa di Cristo stesso: è alter Christus, come c'insegna la migliore tradizione ecclesiale. In tal senso egli è, indipendentemente anche dalle personali doti di comunicatore, sacramentalmente costituito in comunicazione-rappresentativa di Cristo stesso: il sacerdote e il sacerdozio non sono autosufficienti o indipendenti da Cristo e, quando - Dio non voglia! - lo divenissero, perderebbero la propria stessa forza missionaria, riducendosi a mere realtà umane, incapaci, per conseguenza di comunicare e rappresentare il Mistero.

Lo stesso esercizio dei Tria munera sacerdotali è eminentemente un atto di comunicazione. Non mi riferisco solo al munus docendi, che lo è in modo più diretto e immediato nella predicazione e nella catechesi, ma anche al munus sanctificandi, in quella straordinaria forma di celeste comunicazione che è la divina liturgia, che obbedisce a precise regole comunicative proprie, mai disponibili a personali manipolazioni o aggiustamenti, e al munus regendi, per mezzo del quale i sacerdoti sono chiamati a comunicare la sollecitudine di Cristo Capo, Buon Pastore, che pasce, attraverso i suoi ministri, il gregge, per condurlo al Padre.
La comprensione e, dove necessario, la ri-comprensione della sostanziale natura ontologico-rappresentativa del sacerdozio ministeriale, distinto essenzialmente da quello battesimale, costituisce oggi un'autentica priorità per il clero, sia nella formazione iniziale, sia in quella permanente. Insegna a tal riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1581: "Questo sacramento configura a Cristo in forza di una grazia speciale dello Spirito Santo, allo scopo di servire da strumento di Cristo per la sua Chiesa. Per mezzo dell'ordinazione si viene abilitati ad agire come rappresentanti di Cristo, Capo della Chiesa, nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re".

La prima e più efficace condizione perché ciascun sacerdote assuma consapevolmente la responsabilità della comunicazione che pone in essere, è determinata dalla comprensione della propria autentica e profonda identità, sacramentalmente e definitivamente determinata, non disponibile e, proprio per questo, oggettiva comunicazione del divino. Lo stesso Santo Padre, nel mettere in luce il nucleo essenziale della spiritualità di san Giovanni Maria Vianney, nel cui 150° anniversario celebriamo l'Anno sacerdotale, lo ha individuato nella "totale immedesimazione con il proprio ministero". Proprio tale immedesimazione è condizione imprescindibile d'ogni efficace comunicazione.

La seconda suggestione, che mi pare urgente offrire, riguarda l'indebito, e non di rado perfino davvero imbarazzante, proliferare dei "preti-star", presenti in molti organi d'informazione, soprattutto in televisione, senza alcun permesso dell'ordinario e senza possibilità di reale controllo da parte della legittima autorità ecclesiastica.

Se da un lato sarebbe onestamente auspicabile, in tale ambito, un'opportuna riflessione sul servizio di "sorveglianza" degli ordinari - non si tratterebbe di un soffocante regime "poliziesco", ma di senso di responsabilità e di carità pastorale verso tutti, credenti e non - dall'altro ferisce non poco la constatazione di come spesso, se non nella maggioranza dei casi, certi sacerdoti, e persino alcuni religiosi, si discostino, anche palesemente, dalla comune dottrina, e non solo in ambito morale, ma anche de fide. È il segno d'uno smarrimento della propria coscienza identitaria, che determina, non di rado, disorientamento nei fedeli laici e nei comuni ascoltatori, i quali sono posti davanti alla differenza, talora clamorosa, tra la dottrina ufficiale della Chiesa e quanto comunicato - aggiungerei "inopportunamente!" - dai sedicenti preti-star.

Sappiamo bene come il mondo, nel senso giovanneo - e in tal senso non pochi media svolgono pienamente questo compito - abbia sempre cercato di travisare la verità, di disorientare e, soprattutto, di nascondere la poderosa unità della dottrina cattolica, sia intesa in se stessa, come compiuto sistema di comprensione del reale che ha in Dio stesso la propria origine soprannaturale, sia rispetto alla reale unità del Corpo ecclesiale che, ben lo sappiamo, è seme fecondo d'efficace testimonianza, all'insegna della preghiera sacerdotale: Ut unum sint. Ora è quanto mai importante evitare il proliferare di quello che non ho timore di definire un vero e proprio far west comunicativo, nel quale alcuni sacerdoti, pretendendo di parlare in nome della Chiesa e, di fatto, in parte rappresentandola, almeno in forza dell'ordinazione sacramentale, procurano divisione e disorientamento, arrecando un vero e proprio danno all'unità e all'efficacia della comunicazione ecclesiale ed evangelica.

Se si considera, poi, l'amplificazione che tali interventi mediatici hanno, in forza degli strumenti adottati la responsabilità diviene davvero incalcolabile. Vengono in mente le parole chiare del Signore: "Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli" (Matteo, 5, 19). Probabilmente, parte della Chiesa, e in essa del corpo episcopale chiamato a vigilare, deve ancora assumere pienamente il significato portante che, anche a livello antropologico, ha avuto, e avrà nei prossimi decenni, la cosiddetta "rivoluzione mediatica", che, dopo quella francese e industriale, è la più importante rivoluzione della modernità.
Un'ultima osservazione sul significato e sulla corretta collocazione teologica della comunicazione. Non di rado si è creato un certo slittamento semantico tra i termini "comunione" (communio) e "comunicazione", pensando d'individuare reali o presunte "radici trinitarie" alla comunicazione umana. Se è chiaro che è sempre l'uomo l'attore, o almeno uno degli attori, della comunicazione, e che l'uomo è stato creato a immagine del Dio trinitario, ed è chiamato a divenirne somiglianza, tuttavia non pare direttamente giustificata un'identificazione dei due suddetti termini.

La communio appartiene all'ordine dei fini ed è assolutamente necessario rispettarne la natura, anche e soprattutto all'interno del discorso teologico. La comunicazione, per contro, appartiene all'ordine dei mezzi e può lecitamente essere descritta come un mezzo, forse come uno dei mezzi più efficaci, per il raggiungimento o, meglio, l'accoglienza della communio. Ritengo che la riflessione su questa "strumentalità" e "finalizzazione" della comunicazione alla comunione, sia premessa indispensabile d'ogni pensare teologico, che voglia portare un contributo realmente edificante, e permetta, anche alla comunicazione dei sacerdoti, una reale finalizzazione che, in sintesi, potrebbe, semplicemente, rispondere alla domanda: "Quanto sto comunicando appartiene alla Chiesa? Favorisce la comunione? Comunico, cioè metto in comunione, chi mi ascolta, con duemila anni di storia cristiana?". [SM=g1740733] [SM=g1740721]

Anche nella comunicazione dei sacerdoti è di straordinaria efficacia quanto ricordato dal Papa nella Caritas in veritate: "L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende - per dirla in termini di fede - dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: "Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407)". Evidentemente può essere causa di gravi errori anche nel campo della comunicazione e della "comunicazione nella missione del sacerdote".



(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2009)


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Caterina63
00martedì 12 gennaio 2010 20:25
Il segretario generale della Cei a un convegno per assistenti e sacerdoti dell'Unitalsi

Conquistati da Cristo
ogni giorno


La figura del prete e il suo compito pastorale sono al centro del convegno per assistenti e sacerdoti che l'Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali (Unitalsi) ha promosso a Roma dall'11 al 13 gennaio sul tema "Siate imitatori di Gesù Cristo". Martedì 12 la relazione conclusiva della mattinata è stata tenuta dal vescovo segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei). Si tratta di una riflessione sullo stile della lectio divina ispirata nel titolo a un versetto paolino:  "Conquistato da Cristo, il presbitero corre verso di Lui per conquistarlo" (cfr. Filippesi, 3, 12). In precedenza il cardinale Camillo Ruini, presidente del comitato per il progetto culturale della Cei, intervenuto sul tema "Gesù Cristo, sorgente e centro della vita sacerdotale", ha messo in risalto come in un contesto di secolarizzazione "una risposta a tale crisi deve partire dagli stessi presbiteri, che sono chiamati a essere loro per primi dei "credenti sul serio"". La secolarizzazione - ha rilevato il porporato - è un fenomeno che negli ultimi cinquant'anni "ha prodotto anche una certa crisi del sacerdozio ministeriale". Tuttavia - ha rimarcato - "oggi si può dire che la religione non solo non è tramontata, ma anzi conta forse più che in passato". La  differenza è che adesso la fede non è più un "dato assodato" e che "oggi il credere e il non credere è possibile a tutti". Pubblichiamo di seguito ampi stralci della relazione del segretario generale della Cei.

di mons. Mariano Crociata
 

La mia riflessione vorrebbe svolgersi interamente attorno al versetto paolino citato nel titolo dell'intervento affidatomi, non per farne una esegesi, ma nel tentativo di trarne qualche indicazione teologica e spirituale per la nostra vita di presbiteri. Il testo propriamente è il seguente:  "Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù" (Filippesi, 3, 12). Si coglie subito che il tema proposto inserisce la figura del presbitero al posto di quella di Paolo, volendo suggerire una precisa applicazione dell'impegnativa affermazione paolina. Una tale applicazione è legittima e non impropria, richiede tuttavia di essere circostanziata.
 
È vero infatti che è un apostolo a parlare di sé e della sua esperienza, ma è vero anche che egli parla del suo essere cristiano, credente, in una delle più significative pagine con espliciti richiami autobiografici. Così facendo egli non mette tra parentesi il suo ministero apostolico, poiché anzi scrive la sua lettera in quanto primo annunciatore del Vangelo e fondatore della Chiesa, ma non tratta e non si appella espressamente alla sua autorità di apostolo, come fa invece in altre pagine. Inoltre, egli si rivolge alla comunità di Filippi come tale e quindi alla totalità dei suoi membri senza distinzioni di carismi e ministeri. Quanto san Paolo testimonia, interessa e interpella innanzitutto ogni cristiano, tocca il credente come tale.

In tutto il capitolo terzo della lettera, san Paolo parla di sé per parlare di Cristo. Innanzitutto mette in guardia da coloro che nella comunità portano scompiglio e divisione appellandosi a una perfezione e a una conoscenza superiori, poi espone i motivi di vanto che potrebbe esibire per mostrare di non essere inferiore a nessuno; motivi umani di vanto che tuttavia ha disprezzato ritenendoli spazzatura a confronto con la sublimità della conoscenza di Cristo. Unicamente per la fede in lui Paolo spera la salvezza, per la potenza della sua morte e risurrezione. In questo contesto san Paolo parla di guadagno e di perdita, intendendo che tutti i motivi di vanto di tipo etico e religioso non valgono nulla per giungere alla salvezza; al contrario la fede conferisce al credente la giustizia di Dio, poiché lo schiude alla relazione con Dio fino ad allora insuperabilmente preclusa. Con la morte e la risurrezione di Gesù, Dio giustifica l'uomo che si lascia aprire alla fede e lo stabilisce in un rapporto di comunione con sé. In questo consiste l'unico vero guadagno che merita di essere conseguito; il resto è perdita e merita di essere lasciato perdere.

San Paolo dunque richiama l'esigenza di fronte alla quale s'è trovato, di scegliere che cosa perdere e che cosa guadagnare, che cosa veramente conta, ciò per cui val la pena disfarsi di tutto il resto; egli giunge a rinnegare il suo stesso patrimonio religioso, in quanto sistema chiuso e autosufficiente; e non per sostituirlo con un altro sistema e nemmeno per annullarlo, ma per ritrovarlo pienamente inverato nella nuova relazione con Cristo Gesù, da credente, cioè da uomo reso giusto dinanzi a Dio, grazie al mistero pasquale dello stesso Cristo.

Al centro dell'esperienza e della teologia di Paolo si pone l'incontro con Cristo, a partire dal quale tutto si ricomprende e si ricompone nel suo significato e nel suo valore. Spiega infatti Benedetto XVI:  "Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo:  morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui "spazzatura"; non è più "guadagno", ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo" (Udienza generale, 3 settembre 2008).

Nessuna presunta perfezione religiosa, come quella vantata dai giudeo-cristiani o dagli gnostici, può reggere il confronto con il primato e la centralità della persona di Cristo, poiché rivela tutta la sua vanità e inconsistenza di umana pretesa, e anzi pericolosità, tanto da portare san Paolo a chiamare simili seminatori di zizzania "cani" e "cattivi operai"; e ancora nella parte conclusiva del capitolo terzo ne parla come di "nemici della croce di Cristo", destinati alla "perdizione", gente che ha per dio il proprio ventre e si vanta di cose di cui dovrebbe vergognarsi.

Se fin qui lo sguardo era stato rivolto al passato dell'origine del dono della fede e della giustizia di Dio in Cristo, a conclusione del capitolo viene orientato verso il compimento futuro definitivo. Paolo vive e invita a condurre l'esistenza terrena nel legame e nel radicamento nell'incontro con l'evento e la persona di Gesù Cristo nell'attesa del suo ritorno ultimo, glorioso e glorificante anche per noi. Ma quale deve essere, tra questi due tempi iniziale e finale, il nostro atteggiamento e il nostro agire?

In primo luogo san Paolo dichiara in tutta onestà, e certo anche per distinguersi da quanti ostentano una presuntuosa perfezione e superiorità, di non aver ancora raggiunto la meta e nemmeno la perfezione. Così dicendo non smentisce e nemmeno sminuisce la grandezza e l'integrità del dono ricevuto con la fede e la giustificazione, ma lascia chiaramente intendere che esse non sono un possesso conseguito una volta per tutte e umanamente inalienabile o irreversibile. Nei confronti del dono ricevuto ci si deve comportare come di fronte a qualcosa che si deve ancora raggiungere e per cui bisogna lottare.
 
L'impegno volto a conquistare e raggiungere la meta è in realtà sopraffatto e anticipato da una conquista compiuta questa volta da parte di Dio nei confronti dell'uomo, di Cristo nei confronti di Paolo, in un vero e proprio sconcertante capovolgimento:  prima di poter conquistare qualcosa, anzi proprio per poter conquistare, il credente ha bisogno di essere conquistato; e in ogni caso, la sequenza ordinata di successione delle iniziative vede al primo posto Dio e il suo Cristo che afferra, ghermisce l'uomo facendone un credente chiamato e abilitato a porsi alla conquista dello stesso Dio e Cristo. Solo l'intera estensione temporale di una esistenza, dal momento della conversione alla sua conclusione con la morte, può contenere la risposta e l'accoglienza umanamente adeguata del dono di Dio in una libertà consapevole.

Ma ciò che vale per tutta l'esistenza si condensa nel momento iniziale della conversione o, meglio, dell'incontro con Cristo e, in lui, con il Dio unico e vero. Quella che sembra nella formulazione paolina una correzione e una precisazione, in realtà contiene e svela una verità più profonda. La riscoperta del primato della grazia, della iniziativa e del dono di Dio in Cristo non può ridurre, né tanto meno cancellare, il carattere originario anche della risposta e della fede dell'uomo.

Alla luce di questi cardini del pensiero e dell'esperienza paolina, propongo tre spunti per la riflessione ulteriore. Quando Paolo parla del suo essere stato conquistato si riferisce all'evento di Damasco, incontro con la rivelazione di Gesù, che ha cambiato profondamente la sua vita legandolo irreversibilmente a lui. Gli interlocutori di Paolo hanno anch'essi un punto di riferimento, ovvero il giorno e l'ora nella quale sono stati raggiunti da Cristo e hanno accettato la professione di fede e il battesimo. Forse nella nostra condizione odierna risulta difficile indicare un evento, un giorno, una circostanza in cui possiamo dire di essere stati conquistati da Cristo, dal momento che il nostro battesimo, ricevuto nella prima infanzia, non si lega a un momento di coscienza in conversione e di orientamento radicale della vita a Cristo.

In realtà non pochi hanno vissuto esperienze singolari, non legate necessariamente a eventi sacramentali d'iniziazione cristiana, in cui si è verificata una presa di coscienza e un profondo cambiamento, vera e propria attualizzazione dell'inizio del cammino di fede con il battesimo. Il più delle volte tuttavia il nostro incontro con Cristo s'è dipanato lungo un percorso puntinato di passaggi significativi, che hanno dato al nostro essere conquistati da lui il carattere di un processo di continua e crescente attualizzazione. Ciò che è comunque avvenuto in noi, diciamo pure su un piano ontologico, ha bisogno di essere assunto nella coscienza dell'incontro con Cristo come evento personale, esistenziale, di libera accoglienza e corrispondenza, per maturare e far crescere il senso dell'urgenza di correre per conquistarlo.

Oggi siamo largamente avvertiti - ed è la seconda riflessione - del fatto che il ministero presbiterale, particolarmente nella celebrazione dei sacramenti, secondo la dottrina dell'ex opere operato, non può vantare motivi umani d'efficacia, poiché solo la grazia di Dio giustifica, redime e salva. Così che lo stesso sacramento dell'ordine non dipende dalla dignità e dalla qualità spirituale e morale di chi ne viene investito, ma dalla potenza dello Spirito che viene effuso con l'ordinazione; infatti i presbiteri "sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa", come dice la Presbyterorum Ordinis (n. 2).

E tuttavia, il carattere sacramentale conferito non rimane estraneo alla persona del presbitero ma lo impregna interamente, così che l'essere e l'agire sacerdotale in lui non possono venire separati. Per tale ragione l'ex opere operato non riduce l'efficacia sacramentale ad automatismo o azione magica. I sacramenti, e in qualche modo tutte le azioni pastorali ed ecclesiali, insieme suppongono la fede e l'alimentano, richiedono il coinvolgimento personale di tutti i partecipanti nella celebrazione e nell'intera vita ecclesiale. L'opus operantis esercita una sua incidenza nell'efficacia sacramentale e pastorale dell'azione del ministro, non sul piano ontologico, ma su quello esistenziale e relazionale; e poiché i piani sono distinti ma non separati, l'inadeguatezza e l'infedeltà del ministro rischia di compromettere la pienezza dell'azione della grazia sacramentale e impoverire se non minacciare la qualità dell'intera vita pastorale ed ecclesiale.

La prospettiva paolina, come d'ogni autentica spiritualità cristiana e presbiterale, è però rovesciata, poiché Paolo, come apostolo, è divorato interamente dalla sua comunione con Cristo e dal desiderio che egli regni nel cuore e nella vita dei credenti. L'esemplarità della sua vita non è ricercata a scopo dimostrativo, in uno sforzo funzionale all'esercizio della sua attività, ma scaturisce spontaneamente dalla sovrabbondanza gratuita e generatrice della centralità di Cristo nella sua persona e nella sua vita. Il presbitero allora è, come Paolo, un credente esemplarmente assorbito dalla relazione con Cristo e interamente proteso a conquistarlo. Egli trasmette ai credenti qualcosa che non è suo, anzi si pone a servizio di una relazione tra i credenti e Cristo che lo supera interamente, pur essendo egli interamente al suo servizio; e tuttavia egli svolge questo servizio prima con la sua vita che con le sue parole o le sue attività, nel senso che gli altri vedono plasticamente realizzato nella sua esistenza ciò a cui il suo servizio apostolico intende e ha il potere di condurli.

Infine, i presbiteri non solo s'impegnano a guidare con l'esemplarità della loro vita, ma accompagnano il cammino dei credenti aiutandoli a scoprire il loro incontro storico con Cristo e sostenendoli nel loro tendere alla piena comunione con Cristo. Il nostro ministero ha bisogno di puntare su tre esigenze non raramente trascurate. La prima esigenza è quella di condurre a un incontro personale con Cristo che stabilisca le persone in una capacità di fede personale autonoma di profonda comunione con lui.
 
L'esperienza ecclesiale dovrebbe essere sempre più vissuta come luogo in cui questo incontro personale viene preparato, sostenuto, realizzato. La seconda esigenza è quella del coraggio e della forza di convinzione nel proporre la prospettiva escatologica come propria di un vero credente e della Chiesa. Cerchiamo di tendere a una comunione piena e definitiva che dà senso al cammino terreno senza distrarre da esso, ma anche senza essere distratta a causa dei suoi richiami e dei suoi impegni.

C'è nella polemica paolina una vigorosa reazione contro il tentativo di trovare appagamento qui, anche in ragione di una vantata perfezione soddisfatta di sé. La terza esigenza segue da quanto detto, poiché non c'è un modo mediocre e rilassato di tendere alla conquista di Cristo; conquista dice sforzo, tensione, fatica e dedizione ostinata, abnegazione. Tutto ciò non è possibile senza una fede appassionata, senza un cuore innamorato, senza un desiderio vivo di unione con Cristo.

Si ripropone così alla fine la questione che è emersa già nel corso di questa conversazione:  se uno è già conquistato da Cristo, che bisogno ha di tendere a conquistarlo? E, al contrario, se uno non è stato conquistato, non si sente ancora veramente conquistato, può far finta di esserlo cercando a sua volta di conquistarlo? Non dovrebbe forse stare ad aspettare di essere conquistato? La risposta che ho cercato di dare alla prima domanda dovrebbe guidare anche di fronte alle altre. Trovarsi nel circuito cristiano comporta comunque già la cognizione, o almeno il presentimento, del valore incomparabile di Cristo Gesù, della sua parola, della sua persona. Si tratta di corrispondere a tale percezione iniziale assecondandola in un cammino di ricerca esistenziale che non può pretendere di trovare punti fermi una volta per tutte.


(©L'Osservatore Romano - 13 gennaio 2010)
Caterina63
00mercoledì 13 gennaio 2010 23:22

VERSO IL SACERDOZIO

a cura di mons. Massimo Camisasca
(Superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo)

“Vita comune e silenzio: due punti che segnano una traiettoria”
“Il sacerdote: innanzitutto figlio, poi padre di molti”
“Il sacerdote: creatore di un popolo”
“Il sacerdote: amore per la verità”
“Il sacerdote: luce nella notte”
Il sacerdote: l’uomo di Dio al servizio degli altri uomini
“Chiamati ad essere padri nella Chiesa”
“Davanti a Cristo, vicari di Cristo”
“Aderire alla libertà di Dio”
“Educazione alla gratuità”
“Educazione al silenzio”
“La continua educazione della liturgia”
“I pericoli dello spiritualismo e dell’attivismo”
“L’uomo vero”

"Come il Padre ha mandato me, così io mando voi"

La Ratio fundamentalis del 1970 diceva che la vocazione sacerdotale, «quantunque sia un dono soprannaturale e del tutto gratuito, si appoggia necessariamente su doti naturali, così che, se ne manca qualcuna, giustamente si deve dubitare che esista vera vocazione». E negli Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale del 1974 si arriva a dire che «se non c’è l’uomo, non c’è il chiamato».


Caterina63
00giovedì 28 gennaio 2010 20:00
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Claret de la Touche
e la santità dei preti


di Piergiorgio Debernardi
Vescovo di Pinerolo

Negli ultimi due secoli numerose sono state le persone che hanno ricevuto dal Signore la missione di offrire la loro vita per la santificazione del clero. Tra queste, particolarmente esemplare è la venerabile madre Luisa Margherita Claret de la Touche, monaca della Visitazione. Ella nacque a Saint-Germain-en-Lay (Francia) il 15 marzo 1868 in una famiglia borghese e benestante. Attratta dalla vita contemplativa, entrò nel monastero della Visitazione di Romans, nella diocesi di Valence, il 20 novembre 1890.

Il 1902 è l'anno in cui il Signore rivelò a madre Luisa Margherita ciò che doveva dire ai sacerdoti e ciò che doveva realizzare per la loro santificazione. Il Signore stava prendendo possesso totale della sua vita, del suo corpo e del suo spirito. La forza dell'amore si manifestava anche sensibilmente in forti palpitazioni del cuore, tanto che le sembrava che questo si staccasse per unirsi a quello di Cristo. Provava dolori ai piedi, alle mani e al fianco destro, come già era avvenuto altre volte. Il Signore la univa a sé, ancora più strettamente.

Il 5 giugno 1902, vigilia della festa del Sacro Cuore, è la data che segna l'affidamento a madre Luisa Margherita di una particolare missione da compiere nella Chiesa nei confronti dei sacerdoti. Essa deve ricordare loro le insondabili ricchezze dell'amore del cuore di Cristo, continuando la missione già iniziata con le rivelazioni a Margherita Maria Alacoque.

Madre Luisa Margherita sentì per diversi giorni la voce che le affidava questo compito. Il 6 giugno, festa del Sacro Cuore, scrive:  "Ieri mi trovavo dinanzi al santissimo sacramento; soffrivo ed ero in quello stato d'animo stanco e doloroso nel quale mi trovavo già da qualche settimana, quando Gesù si fece sentire alla mia anima. Lo adoravo, dolcemente consolata della sua presenza e mentre lo pregavo per il nostro piccolo noviziato, gli chiedevo qualche anima da formare per Lui. Allora mi rispose:  "Ti darò delle anime di uomini".

Profondamente sorpresa da queste parole di cui non comprendevo il senso, me ne stavo silenziosa cercando di spiegarmele. E Gesù riprese:  "Ti darò delle anime di sacerdoti. Tu sei colei che s'immolerà per il mio clero. Voglio darti istruzioni durante questa ottava, scrivi tutto ciò che ti dirò"".

Il racconto prosegue con la successiva rivelazione:  ""Il prete è un essere talmente investito di Cristo da diventare quasi un Dio; ma è anche un uomo, e bisogna che lo sia. Bisogna che senta le debolezze, le lotte, i dolori, le tentazioni, i timori, le rivolte dell'uomo; deve fare l'esperienza della propria miseria per poter essere misericordioso; ed è anche necessario che sia forte, puro, santo per poter santificare. Per amare, il mio prete deve avere il cuore grande, tenero, ardente, forte. Quanto deve amare il prete! Deve amare me, suo Maestro, fratello, amico, consolatore, come io ho amato lui; e io l'ho amato fino a confondere la mia vita con la sua, fino a rendermi obbediente alla sua parola. Deve amare la mia Sposa, che è la sua Sposa, la santa Chiesa, e di quale amore! Un amore appassionato e geloso, geloso della sua gloria, della sua purezza, della sua unità, della sua fecondità. Infine, deve amare le anime come suoi figli. Quale padre ha tanti figli da amare quanto il prete?"".

Il 7 giugno una nuova rivelazione:  ""Il cuore del mio sacerdote deve essere una fiamma ardente che riscalda e che purifica. Se il mio prete conoscesse i tesori d'amore che il mio Cuore racchiude per lui! Venga al mio Cuore, vi attinga, si riempia d'amore fino a traboccarne spandendolo sul mondo! Margherita Maria ha mostrato il mio Cuore al mondo; tu mostralo ai miei sacerdoti, attirali tutti al mio Cuore"".

Il 10 giugno:  "Dopo la comunione ho detto a Gesù:  "Mio Salvatore, quando la nostra beata sorella ha mostrato il tuo divin Cuore al mondo, i sacerdoti lo hanno visto; non basta forse?". Gesù mi ha risposto:  "Adesso voglio fare a loro una speciale manifestazione". Poi mi ha fatto vedere che vi è un'opera da compiere:  riscaldare il mondo con l'amore e per quest'opera vuole servirsi dei suoi sacerdoti. E, con un'espressione così toccante e tenera che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi, mi ha detto:  "Ho bisogno di loro per compiere la mia opera!". Perché possano spandere l'amore, essi debbono esserne ricolmi ed è nel Cuore di Gesù che debbono attingerlo".

Il 13 giugno:  "Questa mattina, riflettendo fra me, pensavo che si potrebbe forse fare un ramo speciale della Guardia d'Onore per i sacerdoti. Gesù mi ha detto:  "No". Mi ha fatto capire che non vuole che i suoi sacerdoti siano soltanto degli adoratori del suo Cuore; Egli vuole formare una milizia che combatta per il trionfo del suo amore. Quelli che faranno parte di questa milizia del cuore di Cristo, s'impegneranno fra l'altro a predicare l'Amore Infinito e la Misericordia, a essere uniti fra di loro per il bene, con un cuor solo e un'anima sola, senza mai frapporsi vicendevolmente ostacoli nelle loro opere".

Nella vita di madre Luisa Margherita tutto è cominciato con questi messaggi che cadono nel momento in cui la Chiesa è scossa dalle teorie moderniste, che giungono in alcuni casi a demolire le stesse verità della fede. In effetti, pur nella semplicità del linguaggio, suor Luisa Margherita portava alla Chiesa un richiamo forte a leggere la storia come opera dell'Amore e un invito specifico ai sacerdoti a rendere visibile l'amore e la misericordia che Dio ha per il mondo.

Nell'ottobre 1902, durante il tempo di meditazione coltivò alcune riflessioni "sulle virtù sacerdotali di Cristo". Ebbe l'ispirazione di annotare questi pensieri. Chiese il permesso alla superiora, che glielo accordò:  "La Madre mi disse di scrivere ed io lo faccio. Se quanto scrivo non servirà a nulla, non ci sarà che da metterlo al fuoco, sarà presto fatto. Ma non è ancora finito. Ho già avuto due volte la tentazione di bruciarlo. Non l'ho fatto, temo di disobbedirle". È questo il primo accenno agli scritti che formeranno il libro Il Sacro Cuore e il Sacerdozio. Il libro incoraggia a realizzare il ministero sacerdotale come un "compito d'amore". Infatti, attraverso la carità pastorale, il sacerdote imita Cristo nella sua donazione e, immergendosi nella storia della sua gente, l'educa ai valori evangelici, soprattutto al comandamento dell'amore e all'impegno della solidarietà.

Quando il libro fu stampato, pochissime persone conoscevano il nome dell'autore. Si credeva che fosse stato scritto dal direttore spirituale del monastero, padre Alfredo Charrier - a lui giungevano da varie parti messaggi di congratulazione - e madre Luisa Margherita, con molta umiltà, mantenne sempre a questo riguardo uno scrupoloso silenzio. Era il messaggio contenuto che a lei interessava, non la sua persona.

Nel dicembre 1903 la superiora diede l'incarico a madre Luisa Margherita di scrivere una lettera a padre Charrier per porgergli gli auguri per il nuovo anno. Essa ubbidì, ma chiese anche l'autorizzazione di potervi accludere un foglietto su cui era scritta una preghiera: 

"O Gesù, Pontefice eterno, divino Sacrificatore, tu che, in uno slancio incomparabile d'amore per gli uomini tuoi fratelli, hai fatto sgorgare dal tuo Sacro Cuore il sacerdozio cristiano, degnati di continuare a versare nei tuoi sacerdoti le onde vivificanti dell'Amore Infinito.
 
Vivi in essi, trasformali in te, rendili per mezzo della tua grazia gli strumenti delle tue misericordie; opera in essi e per essi fa' che, dopo essersi rivestiti di te, per mezzo della fedele imitazione delle tue adorabili virtù, essi facciano in tuo nome e per la forza del tuo Spirito, le opere che hai compiuto tu stesso per la salvezza del mondo. O divin Redentore delle anime, vedi quanto è grande la moltitudine di quelli che dormono ancora nelle tenebre dell'errore; conta il numero di quelle pecorelle infedeli che camminano sull'orlo del precipizio; considera la folla dei poveri, degli affamati, degli ignoranti e dei deboli che gemono nell'abbandono. Ritorna a noi per mezzo dei tuoi sacerdoti; vivi o buon Gesù in essi, opera per essi e passa di nuovo in mezzo al mondo insegnando, perdonando, consolando, sacrificando, riannodando i sacri vincoli dell'amore fra il cuore di Dio e il cuore dell'uomo. Amen
".

Questa preghiera ebbe in breve tempo una diffusione straordinaria. Lo stesso padre Charrier e le varie Visitazioni si impegnarono a diffonderla in molte nazioni. Dal 1905 sino a oggi la preghiera fu continuamente stampata e diffusa nel mondo. È stata tradotta in ventidue lingue. Un vero record di universalità. Un'umilissima origine e un'amplissima diffusione.

Ma che cos'è quest'Opera - che poi prenderà le forme dell'"Alleanza sacerdotale" - di cui madre Luisa Margherita riceve le prime indicazioni e di cui in seguito parlerà tante volte nei suoi scritti? È innanzitutto un'Opera che il Signore stesso realizza attraverso il ministero dei sacerdoti:  "Ho bisogno di loro per compiere la mia Opera!".

Dunque, prima ancora che un'opera fatta con mezzi umani è uno sguardo sul progetto di salvezza che Dio ha sul mondo. Solo in un secondo momento l'Opera è intesa come risposta di amore del sacerdote nello sforzo di riprodurre in sé l'immagine di Cristo e compiere ciò che lui ha detto e ha fatto. Quando parla della parte organizzativa, madre Luisa Margherita la presenta come espressione del suo modo di sentire e di vedere il problema, senza mai assolutizzare quanto propone:  è l'aspetto più debole e più soggetto al mutare dei tempi. Mentre invece insiste su ciò che a lei pare fondamentale:  l'Opera si realizza diffondendo, con la predicazione e le attività, la conoscenza dell'Amore Infinito e la Misericordia.

Vi è, poi, un invito pressante rivolto ai sacerdoti perché cerchino e trovino modi e forme per incontrarsi tra di loro. L'Opera, infatti, ha questa finalità:  incoraggiarli e sostenerli nel cammino di santità, aiutandoli a "unirsi tra di loro", ad "agire con uno stesso spirito" e a "potenziare l'azione per mezzo dell'unione".

I sacerdoti incontrandosi s'impegnano nello studio della persona di Cristo, cercano di conformare la propria vita alle sue virtù sacerdotali e tendono a realizzare una autentica fraternità. Il ritrovarsi insieme è, dunque, non soltanto finalizzato alla preghiera, ma all'"unione e cooperazione nelle opere", cioè lavorare uniti attorno a un progetto pastorale, pensato insieme e realizzato comunitariamente.
 
È perciò d'attualità la raccomandazione che la suora fa ai sacerdoti "ad aiutarsi reciprocamente, senza mai ostacolarsi a vicenda"; a "essere uniti tra loro per il bene, formando un cuor solo e un'anima sola, senza mai frapporsi vicendevolmente degli ostacoli nelle loro opere".
Mai come in questi ultimi decenni troviamo nel Magistero tanta insistenza perché si valorizzino all'interno del presbiterio gli incontri di preghiera, di studio e di programmazione pastorale, come momenti e mezzi privilegiati di formazione permanente. Meraviglia quindi che una suora, molto tempo prima, abbia indicato sentieri e percorsi non ancora aperti.

Il concilio Vaticano ii, nella Presbyterorum Ordinis, ha ribadito con forza questa esigenza:  "L'unione tra i presbiteri e i vescovi è particolarmente necessaria ai nostri giorni. Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza mai unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri sotto la guida del vescovo".

Questa unità è richiesta dalla legge della reciprocità dell'amore:  i sacerdoti riconoscano nel vescovo il loro padre; il vescovo consideri i suoi sacerdoti come figli e amici. Realizzare l'unità è il fine dell'Opera. Qui comprendiamo quanto sia riduttivo equiparare l'Opera a un'associazione, sia pure ampia e diffusa nel mondo. Compito fondamentale dell'Opera è, dunque, aiutare i sacerdoti a crescere nella comunione e nell'unità.
 
Tante pagine del Diario di madre Luisa Margherita possono essere lette, oggi, come profezia di quanto è maturato nella Chiesa dopo il Concilio. Nell'esortazione apostolica Pastores dabo vobis c'è questa sottolineatura:  "La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell'Ordine". È un'autorevole conferma ai messaggi ricevuti da madre Luisa Margherita sulla vita e sul ministero dei sacerdoti.



(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2010)
Caterina63
00giovedì 4 febbraio 2010 20:01
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Come una sentinella
del mattino


di Luis Garza Medina
Vicario generale dei legionari di Cristo


L'Anno sacerdotale che Benedetto XVI ha convocato per i sacerdoti, in commemorazione del 150° anniversario della morte del santo Curato d'Ars, offre l'occasione propizia per domandarsi che cosa sia il sacerdote, come si ponga di fronte alle grandi sfide che l'umanità affronta e quale ruolo giochi nel dramma dell'uomo moderno. Come diceva Giovanni Paolo ii all'inizio del suo pontificato:  "Questo è un tempo meraviglioso per essere prete". Il sacerdote, animato dalla consapevolezza che Cristo è l'unico salvatore dell'uomo e che lui è stato costituito per mezzo del sacramento dell'ordine ministro della redenzione, è chiamato a vivere, nel mondo d'oggi e in mezzo alle sfide che questo presenta per il Vangelo di Cristo, con fiducia e santa audacia. Queste sfide si possono trasformare in un progetto di vita per i sacerdoti che vogliono realizzare la missione di Cristo nella Chiesa di questo nuovo millennio.

Il sacerdote deve essere un uomo di Dio. In quanto sacerdote ha il sigillo del sacramento. Di conseguenza, la sua volontà e le sue facoltà devono essere imbevute dei sentimenti di Cristo (cfr. Filippesi, 2, 5). Se non è saldo in Dio, sarà spazzato via dall'uragano della secolarizzazione. Deve quindi essere uomo di preghiera, uomo che ascolta e medita la Parola per attaccarsi amorevolmente a ciò che Dio vuole da lui; deve celebrare i sacramenti con il fervore e l'unzione propria delle cose sacre di cui si occupa, sapendo che per essere un uomo di Dio deve fare un particolare sforzo e resistere alla vertigine della costante e accelerata attività cui sottopone il mondo moderno.

Deve anche collaborare con la grazia divina perché la sua vita quotidiana rifletta la santità che trasmette con i sacramenti. I sacramenti sono efficaci ex opere a Christo operato, però è evidente che Dio elargisce la sua grazia con più abbondanza attraverso quei sacerdoti che con maggiore pienezza si sono configurati con suo Figlio, sommo ed eterno sacerdote della nuova alleanza.
 
Il sacerdote è un uomo profondamente consapevole che la salvezza viene da Dio e perciò non può concepire che la soluzione del problema dell'uomo stia nei mezzi umani o in lui come persona umana, per quanto preparato e carismatico possa essere. Comprende che deve unire la sua azione e le parole a una profonda vita eucaristica - sia nella celebrazione che nell'adorazione - che rende lui stesso, in un certo senso, eucaristico:  cioè, qualcuno che si fa vittima e oblazione, come sacerdote, per servire Cristo nella missione di salvare le anime.

La sua presenza tra gli uomini, suoi fratelli, deve essere quella d'una sentinella del mattino, un annunciatore delle cose dell'aldilà, un continuo promemoria di Dio per le anime, che incarna l'amore di Dio in questo mondo. L'uomo di Dio è l'unico che può dare senso all'uomo e alle società d'oggi poiché fa possibile l'incontro con il Dio amore. Si racconta una bellissima storia del curato d'Ars che è ricordata anche da una statua:  quando san Giovanni Maria Vianney andò per la prima volta ad Ars, si perse lungo la strada. Chiese a un giovane pastore di guidarlo e questi lo portò fino al villaggio. Il prete gli disse:  "Tu mi hai mostrato la strada per Ars, adesso io ti mostrerò la strada per il Cielo".

Essere uomo di Dio non è incompatibile con l'avere i piedi per terra. Il sacerdote è una persona che non perde la propria oggettività né il realismo. Sa, da un lato, che l'umanità deve sottomettere il cosmo e dominarlo, però dall'altro che ciò cui l'uomo anela definitivamente si trova solo in cielo, meta definitiva e obiettivo del nostro peregrinare su questa terra. Non è la scienza che salva l'uomo, ma Cristo. Il sacerdote non può cedere all'orizzontalismo o al naturalismo, perché smetterebbe d'essere necessario per il mondo e si confonderebbe con un lavoratore o un agente sociale. Non deve mai cadere preda della visione ridotta del suo sacerdozio, per cui questo non sarebbe altro che un servizio o una funzione. Il sacerdote è servitore di Cristo per essere, a partire da Lui, per mezzo di Lui e con Lui, servitore degli uomini.

Nella formazione dell'uomo di Dio gioca un ruolo molto particolare la devozione alla Vergine Maria, come madre, modello di virtù e, soprattutto, come protettrice celeste. La sua relazione con i sacerdoti, ministri di Cristo, deriva dalla relazione tra la divina maternità di Maria e il sacerdozio di Cristo. I sacerdoti sono suoi figli prediletti e nel cuore del sacerdote deve risuonare il consiglio di san Bernardo:  "Nei pericoli, nell'angoscia, nell'incertezza, invoca Maria. Che il suo nome mai abbandoni le tue labbra e il tuo cuore. E per ottenere il sostegno della sua preghiera, non cessare d'imitare l'esempio della sua vita. Seguendola, non ti smarrirai; pregandola, non conoscerai la disperazione, pensando a Lei, non ti sbaglierai. Se Ella ti sostiene, non affonderai; se Ella ti protegge, non avrai timore di nulla; sotto la sua guida non temere la fatica; con la sua protezione raggiungerai il porto".

Il sacerdote, proprio perché è rivolto all'eternità e perché aiuta gli uomini nel loro cammino verso il cielo, deve costruire la carità, poiché è la carità la virtù che in qualche modo anticipa il cielo qui sulla terra.

La carità è innanzitutto carità verso Dio ed è la virtù che concede al sacerdote d'essere un uomo di Dio. Da questa carità scaturisce la carità verso gli altri che ha diversi aspetti. Il primo, quello più fondamentale, è mettere sempre al centro d'ogni azione, d'ogni pensiero e parola, il bene della persona che abbiamo di fronte. Non fa bene alla Chiesa, che alcuni sacerdoti si preoccupino più delle strutture che delle persone con cui hanno a che fare quotidianamente. Ricordo che madre Teresa di Calcutta, una volta, quando le fecero notare che lei non cercava una soluzione per le strutture che provocavano le ingiustizie, chiarì che c'erano già molti che cercavano di migliorarle, mentre lei cercava di far sì che ogni persona tra i più poveri dei poveri fosse curata secondo la sua dignità di figlio di Dio.

Il sacerdote che cerca il bene della persona, cerca di non ridurla a un numero o a una statistica. Non è che le statistiche siano cattive, anzi credo che offrano un aiuto alle sfide pastorali che la Chiesa affronta, però non si possono ridurre le persone a semplici numeri.

Costruire la carità richiede anche di costruire la comunione. La Chiesa è comunione, è, con le parole di san Cipriano, "un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Lo stesso sacerdozio ha una "radicale forma comunitaria" e non può essere esercitato se non nella comunione. La prima dimensione di questa comunione è la comunione gerarchica, la comunione con il Santo Padre, centro visibile dell'unità nella Chiesa, e con il proprio vescovo, pastore della Chiesa particolare.

Il sacerdote è costruttore di comunione all'interno del presbiterio diocesano. Tutti i sacerdoti di una Chiesa particolare partecipano all'unico sacerdozio di Cristo pastore. E quest'unione sacramentale deve tradursi in relazioni interpersonali piene di carità e di reciproco aiuto. Il sacerdote è chiamato anche ad accogliere con gratitudine e a condurre verso la comunione i diversi carismi presenti nella sua parrocchia o nella diocesi. Il suo cuore sarà aperto alle diverse forme di vita consacrata e ai nuovi movimenti approvati dall'autorità competente. Sono doni dello Spirito per la Chiesa e devono essere accolti senza pregiudizi. In essi molti fedeli trovano cammini specifici di santità cristiana e forme concrete per partecipare all'azione evangelizzatrice della Chiesa.

Il sacerdote costruisce la comunione con tutto il popolo di Dio e non concepisce la Chiesa in forma dialettica, come opposizione tra il ministero ordinato e il sacerdozio battesimale che è proprio di tutti i fedeli. Una delle figure consacrate dal Concilio per rappresentare la Chiesa fu quella del popolo di Dio. In questo popolo che è anche Corpo di Cristo, tutti abbiamo la stessa dignità di figli di Dio e uniti camminiamo verso la meta definitiva, il cielo. E la differenza essenziale, non semplicemente graduale, tra il mistero ordinato e la funzione dei laici non solo non rompe l'unità, ma l'arricchisce.

Nella predicazione e nella vita di Cristo, era palese l'attenzione che egli prestava ai più poveri. L'attenzione per il più bisognoso è qualcosa che deve formare la priorità pastorale del sacerdote. Aiutare a risolvere le necessità delle persone è proprio del cristiano, e molto più del sacerdote. Oggi alla necessità di beni materiali si sono aggiunte molte altre necessità che sono diventate pressanti:  la solitudine della vecchiaia, la depressione e l'abbandono di tante persone nelle grandi città, le diverse assuefazioni molte volte sfruttate da organizzazioni o individui con affanno di lucro, l'infanzia lasciata al suo destino senza alimentazione e senza educazione.

Il sacerdote sta laddove c'è più bisogno di consolazione e di annuncio dei beni eterni, dove stanno i più indifesi. Il sacerdote è colui che porta speranza con la sua parola e con la sua azione perché quelle situazioni di miseria siano alleviate. Nonostante tanto avanzamento tecnologico non sempre le persone hanno la possibilità di ricevere i vantaggi di questo sviluppo e si trovano sole e abbandonate.

Il sacerdote ha anche, in certa misura, responsabilità nella promozione di società giuste. Non compete al sacerdote lavorare nelle strutture politiche, sindacali, economiche; non è chiamato a essere costruttore della città terrena, però nemmeno può dimenticare il mondo in cui vive. Egli può e deve cooperare alla promozione d'una società più giusta e conforme alla volontà di Dio mediante la predicazione dei valori evangelici e la formazione delle coscienze. Questo è il suo apporto specifico. Non è escluso che lui segnali le situazioni ingiuste, però l'amore per i suoi fratelli richiede di andare oltre, più alla radice:  riuscire a cambiare i cuori di coloro che provocano tali situazioni. Non cerca di contrapporre, ma d'unire e ottenere che all'interno di queste situazioni ci sia reciproca comprensione e perdono e responsabilità effettiva di chi può migliorare le cose. Solo così si può costruire una nuova società, poiché, senza cambiare i cuori, i rancori sarebbero un peso che manterrebbe le persone ancorate al passato, senza speranza e sempre preda della violenza distruttrice.

Infine, nella costruzione della carità, il sacerdote deve fare sempre la carità nella verità. Farebbe un pessimo servizio come pastore di anime se per un malinteso concetto di carità abbandonasse la verità. Alle anime bisogna dire la verità, scoprire per esse il suo valore e aiutarle ad amarla; bisogna mostrare tutta la verità che Dio ha rivelato nel Vangelo di Cristo e che il magistero della Chiesa trasmette. Non si può ridurre o cambiare la verità per "fare un bene pastorale". In ogni caso, si può applicare la legge della gradualità, però mai tergiversare sulla verità. Benedetto XVI ribadisce nella sua enciclica Caritas in veritate:  "Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità.

Il sacerdote è un pastore d'anime, che accudisce le sue pecore ed è disposto a dare la vita per loro. Non è da sottovalutare il valore di questa donazione, di questa passione che deve ardere nel cuore d'ogni sacerdote. Lui è come Cristo, che offre la sua vita per loro, ed è mosso dal suo stesso amore per loro. Però oltre a questa donazione che si fa realtà giorno dopo giorno, istruisce le anime con la sana dottrina cattolica. Insegna loro la fede attraverso un'adeguata catechesi, con tutti i mezzi possibili, perché il popolo di Dio ha urgente necessità di conoscere la fede per non lasciarsi trascinare da altre idee pseudoreligiose. Però soprattutto il sacerdote deve essere guida e pastore dei suoi fratelli con uno stile di vita virtuoso, alimentato dalla preghiera e dal contatto con l'eucaristia.

L'attenzione per le anime si concretizza soprattutto nell'amministrare il sacramento della riconciliazione. Il sacerdote è sempre a disposizione dei fedeli per ascoltare le loro confessioni. È lì, nella solitudine del confessionale, che si vive la battaglia più decisiva per l'anima del mondo. È lì che la grazia di Dio tocca profondamente le persone per mezzo dell'umanità del sacerdote.



(©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2010)

Caterina63
00giovedì 4 febbraio 2010 20:21
Il cardinale segretario di Stato celebra la messa per sant'Andrea Corsini

Esempio di pastore
nell'Anno sacerdotale


Nell'Anno sacerdotale, la figura e l'opera di sant'Andrea Corsini (1301-1373) costituiscono un modello per ogni presbitero. In particolare, è esemplare quella sua insistenza nell'indicare alcune caratteristiche che devono possedere quanti annunciano il Vangelo:  essere infiammati dal fuoco dello Spirito, avere passione per Dio e per l'umanità ed essere attenti ai bisogni e alle domande degli uomini del proprio tempo. È quanto ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, nel presiedere la concelebrazione eucaristica, giovedì pomeriggio 4 febbraio, nella cappella corsiniana della basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione della memoria liturgica di sant'Andrea Corsini.

"La sua vicenda spirituale - ha proseguito il porporato - anche nel mondo contemporaneo, profondamente segnato dalla dittatura del relativismo e dall'oblio dei valori autentici, può diventare per i consacrati e per ogni credente un forte stimolo a vivere la misura alta della vita cristiana, nella piena fedeltà al proprio tempo e alla verità del Vangelo".

"Quando - ha detto il cardinale - il 13 ottobre 1349, mentre era provinciale dei carmelitani, fu nominato vescovo di Fiesole da Papa Clemente vi, la fama della sua carità già travalicava Firenze, dove era nato nel palazzo di famiglia, il 30 novembre 1301. Pur nel frastuono di quella spensierata e rissosa città, udì il soffio dello Spirito, che si tradusse in un irresistibile richiamo alla mistica pace del Carmelo. A 15 anni vestì l'abito religioso nel convento del Carmine, mostrando da subito una pietà soccorrevole verso i più bisognosi e, dopo l'ordinazione sacerdotale, venne mandato a completare gli studi nell'università di Parigi. Tornò a Firenze quando già imperversava la terribile peste del 1348, nella quale egli si distinse per carità e coraggio,  ponendosi con eroica dedizione al servizio degli ammalati. Come vescovo  volle risiedere a Fiesole, rinunciando al comodo palazzo fiorentino che era stato sede dei suoi predecessori".

L'esempio del santo vescovo è quanto mai attuale, perché alcuni suoi comportamenti e scelte pastorali sono valide per ogni tempo e ogni luogo. "Manifestò singolare zelo nella predicazione - ha sottolineato il segretario di Stato - nella preghiera, nell'austerità della vita, nella visita alle parrocchie, nella difesa della libertà della Chiesa contro soprusi e ingerenze, come pure nella carità verso gli umili e i diseredati, procurando loro assistenza materiale e spirituale. Speciale cura dedicò ai suoi preti, precorrendo i dettami del Concilio di Trento e stabilendo precise norme circa la preparazione culturale e spirituale dei candidati al presbiterato.

La Santa Sede, poi, gli affidò incarichi delicati e difficili come la missione del 1368 a Bologna per dirimere gravi contese. Morì la sera dell'Epifania  del 1374, dopo una vita spesa interamente nel "portare il lieto annunzio" agli uomini e alle donne del suo tempo con la parola, ma soprattutto con la testimonianza di una vita".

Dopo aver ricordato le parole del brano evangelico di Matteo, dove Gesù invita a non farsi chiamare "rabbi", perché uno solo è il Maestro, il cardinale ha offerto una riflessione su come sant'Andrea Corsini abbia interpretato nella sua vita quelle parole. "Tale programma evangelico - ha evidenziato - egli si è impegnato a tradurlo soprattutto nell'esercizio del suo ministero episcopale. Egli si sforzò di imitare senza riserve l'unico Maestro, facendo dell'amore a Dio e ai fratelli l'obiettivo supremo, perché, attraverso la sua umile persona, Cristo stesso fosse guida e pastore della chiesa a lui affidata. Come pure, egli esercitò nei confronti dei sacerdoti, dei poveri, dei sofferenti e dell'intera Chiesa fiesolana una paternità forte e premurosa, nella consapevolezza che ogni paternità in cielo e in terra trae nome e contenuto soltanto dal Padre celeste".

All'inizio della celebrazione, monsignor Franco Camaldo, cerimoniere pontificio e cappellano della cappella corsiniana, ha rivolto un breve saluto al cardinale, nel quale ha sottolineato come "ci sentiamo parte viva della santa Chiesa cattolica che è sempre attenta ai bisogni dell'uomo in ricerca di pace e di giustizia, e per questo chiediamo a sant'Andrea, operatore di giustizia e di pace, di guidare l'umanità intera sulla via della verità e del Vangelo". Alla celebrazione erano presenti, tra gli altri, membri del capitolo lateranense, prelati e personalità civili e militari.


(©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2010)

                                                           

Caterina63
00mercoledì 24 febbraio 2010 18:36
Interessante sottlineatura da parte del Blog Messainlatino al quale si accede dal titolo:

Mons. Dho: "Ministri o Sacerdoti?"

Il mensile paolino “Vita Pastorale” di Febbraio contiene un Dossier intitolato “Sacerdozio o Ministro Ordinato” in relazione all’Anno Sacerdotale. Mons. Sebastiano Dho, Vescovo di Alba, a cui è affidato l’Editoriale, sviluppa a riguardo alcune considerazioni. Esse non brillano per originalità e, tuttavia, possiedono un certo interesse, essendo referenziali di una certa mentalità difficile a tramontare. Entriamo subito in medias res.

L’intera riflessione è ispirata dalla seguente domanda: «Sacerdozio o ministero ordinato? Oppure sacerdozio e ministero ordinato? Oppure ancora: solo Sacerdozio?». In altre parole Mons. Dho vuole indagare se la realtà del “sacerdozio” sia esclusiva oppure comprensiva oppure antitetica rispetto alla realtà del “ministro ordinato”: la questione non è squisitamente terminologica, bensì di pertinenza teologica, sacramentale ed ecclesiologica.

L’Eccellentissimo afferma preliminarmente che «non si tratta di una questione di primaria importanza», tuttavia in seconda battuta precisa che essa «si pone all’interno del quadro più ampio dell’ecclesiologia che per noi ovviamente non può che essere (almeno lo speriamo!) quella del concilio Vaticano II»: ed ecco scoperte le carte! Poiché l’ultimo concilio ha trattato ampiamente questioni teologiche riguardanti la struttura stessa della Chiesa, non desterebbe alcuno stupore il fatto che un Vescovo, trattando di problematiche pertinenti, vi facesse riferimento; sennonché il riferimento appare qui tutt’altro che neutrale. L’ “ecclesiologia del concilio” è riaffermata in modo difensivo ed esclusivo. “Difensivo”, giacché si presuppone che qualcuno possa minacciarne l’assolutezza; “esclusivo”, poiché è dato per scontato che ogni altro approccio è di per sé insufficiente.

Quest’ attitudine teologica, di fatto possibile e molto praticata, reca in sé, più o meno nascostamente, l’idea che la Chiesa abbia ricevuto una nuova struttura, dunque una nuova essenza, mediante l’operato del Vaticano II; oltre ad essere un’attitudine fortemente dannosa nell’ambito dell’ermeneutica della continuità tanto auspicata da Papa Benedetto XVI, è esplicitamente esclusa dal magistero della Chiesa. La Congregazione della Dottrina della fede, in data 29 giugno 2007 ha infatti precisato che « il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina [la precedente dottrina sulla Chiesa], ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente» (Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa).


Il Vaticano II, continua Mons. Dho, ha «reimpostato con chiarezza e coraggio una successione diversa rispetto a un certo passato, a riguardo dell’appartenenza e compiti all’interno della Chiesa: prima ciò che unisce perché comune a tutti e poi lo specifico proprio delle diverse vocazioni […] Il termine sacerdozio ha per sé un significato generale o comune che va ben specificato: sacerdozio di Cristo […] sacerdozio di tutti i battezzati, compresi (cosa che spesso si dimentica) anche i ministri ordinati […] sacerdozio poi ministeriale che di fatto per motivi vari storici, contingenti nel linguaggio corrente e immaginario collettivo, ha quasi monopolizzato il significato comune fino a far dimenticare l’accezione genuina [corsivo nostro]e quel che è più grave il contenuto teologico ed ecclesiale».

L’Eccellentissimo parte molto bene ricordando che il Sacerdozio originariamente e radicalmente non risiede né nei laici né negli ordinati, bensì in Cristo Signore Sommo ed Eterno Sacerdote. Ciò che ci risulta più difficile comprendere è come possa egli dire che tale termine è stato “monopolizzato” per designare i ministri ordinati perdendo così la propria accezione “genuina” e il proprio contenuto teologico che risiederebbe nel significato comune a tutti i battezzati.

Ma come? Non si era detto che l’accezione genuina del termine è quella che rimanda direttamente al Sacerdozio di Cristo? Perché ora si dice che la snaturalizzazione del termine si è consumata quando esso ha cominciato a designare i ministri ordinati a scapito del significato comune a tutti i battezzati? Non si potrebbe ugualmente dire che designare i battezzati con il termine “sacerdoti” è una snaturalizzazione del termine giacché esso è da attribuirsi originariamente a Cristo?

Certamente Cristo ha partecipato il proprio sacerdozio attraverso quei Sacramenti che conferiscono il Carattere (Battesimo, Cresima, Ordine Sacro); tuttavia sia il battezzato sia l’ordinato partecipano di un Sacerdozio che è loro trasmesso ma che non ha in essi la propria causa od origine. Dunque, perché affannarsi a dire che i ministri ordinati monopolizzano un termine che in vero non è loro proprio a scapito dei laici? Si aggiunga che il Sacerdozio di Cristo ha il proprio significato e il proprio compimento nell’Oblazione della Croce; ora, se i ministri ordinati sono coloro che, agendo in persona Christi, rendono presente in maniera incruenta e sacramentale quell’unico Sacrificio offerto una volta per tutte, partecipando in tal modo al Sacerdozio di Cristo, si potrà ancora insistere nell’affermare che essi “monopolizzano” un titolo che non conviene loro? Non si dirà piuttosto che essi sono assimilati a Cristo Sacerdote in modo più eminente rispetto alla partecipazione battesimale e dunque, ad essi conviene in modo più eminente e più proprio il termine di Sacerdote? La domanda è ovviamente retorica, giacché la Chiesa, attraverso la propria Tradizione e il proprio Magistero, ha già dato risposta.

«Ma c’è di più» prosegue Dho «il sacerdozio ministeriale non ha altro scopo di essere a servizio del sacerdozio comune dei fedeli (compresi, lo ripetiamo, i ministri stessi) affinché possano, in effetti, partecipare ai sacramenti e offrire il vero culto spirituale […] Paradossalmente, ma non troppo, potremmo dire che se è vero che non possono e non debbono mancare i ministri ordinati perché i fedeli laici siano in grado di vivere la fede, è altrettanto vero che se per ipotesi venissero a mancare tutti i fedeli non avrebbe più senso il ministero ordinato! Dunque tutti partecipi dello stesso Sacerdozio di Cristo, ma strettamente e indissolubilmente uniti, “ordinati l’uno all’altro”, per cui il dono specifico (ministero ordinato) ha senso unicamente nel e per il dono comune (sacerdozio)».

Non v’è dubbio che i Sacerdoti debbano spendere la propria vita interamente a servizio delle anime, questo nessuno lo nega. Ma è totalmente vero che l’unico senso del “ministero ordinato” sia servire il “sacerdozio” comune dei battezzati (si badi che le parentesi sono originali)? Non è piuttosto vero che tutto ciò che esiste, esiste radicalmente per Dio? Una visione totalmente ministeriale, dunque funzionale, del Sacerdozio ordinato non ne impoverisce l’essenza fino a dissolverla nel paradosso immaginato dallo stesso Mons. Dho? La Liturgia, essendo riflesso della divina Economia, conosce due movimenti: uno da Dio verso l’uomo, la Santificazione; uno dall’uomo verso Dio, il Culto dell’Altissimo.

Una considerazione del Sacerdozio ordinato che ne sottolinei unilateralmente la funzione ministeriale verso i battezzati, riesce a rendere sufficientemente conto delle esigenze del Culto? Gesù Cristo ha istituito il Sacerdozio cattolico esclusivamente a servizio degli uomini o anche per Sé? Non è forse vero che egli in precedenza ha chiamato a Sé i propri Apostoli e solo successivamente li ha inviati? Se venissero, per ipotesi, a mancare tutti i fedeli, i Sacerdoti continuerebbero ad offrire Culto a Dio (oltre che ad intercedere per se stessi…Dho sembra dimenticarsene, eppure ha affermato per ben due volte che i “ministri ordinati” sono primariamente battezzati!), continuerebbero a ricevere il gemito di tutta la Creazione e a presentarlo a Dio, continuerebbero, come gli Angeli del Cielo, a cantare senza fine: Sanctus, Sanctus, Sanctus!


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due risposte dal Blog:


DANTE PASTORELLI
Qualora scomparissero dalla terra tutti i fedeli, resterebbero tutti gli altri uomini da convertire e a cui amministrare i sacramenti. Ridurre l'umanità ai soli cattolici è già di di per sé un'assurdità. Quindi il sacerdozio come "servizio" agli uomini e mezzo per la loro santificazione e salvezza resterebbe intatto nella sua  necessità.  
Ma facciamo anche una più estrema ipotesi: la scomparsa di tutti gli "altri" uomini. I sacerdoti sarebbero ancora necessari per offrire il Santo Sacrificio latreutico, eucaristico, propiziatorio, impetratorio a favore delle anime del Purgatorio. Mons. Dho non  fa cenno al "secondo regno, dove l'umano spirito si purga". Ma per lui esiste? E' lecito dubitare.  
Altra ed ancor più estrema ipotesi: i sacerdoti ancora viventi per divina rivelazione vengono a conoscenza che tutte le anime del Purgatorio sono già state accolte nel Paradiso: il Sacrificio in tutti i suoi fini sopra indicati sarebbe celebrato a favore degli stessi sacerdoti.  
Infine: rimane un solo sacerdote? Continuerà ad offrire il Sacrificio per sé e per lodare la SS.ma Trinità. Aspetto quest'ultimo non evidenziato dal vescovo e che è il fine ultimo della S. Messa con e senza fedeli.  
 
Insomma il sacerdozio è necessario sino alla fine dei secoli.


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Caterina63
«Sacerdozio o ministero ordinato? Oppure sacerdozio e ministero ordinato? Oppure ancora: solo Sacerdozio?».  
 
................. Cry Cry Cry  
confesso che trovo assai grave che per parlare del Sacerdozio, dopo 2000 anni di storia si stia qui  ancora a porsi queste domande...quasi a farci sospettare che chi è oggi sacerdote non conosca più, appunto, LA PROPRIA IDENTITA'....  
Capisco, si tratta di un articolo, un approfondimento, lecito in sè, ma sbagliato a mio parere nel come è stato affrontato....credo semmai che l'autore avrebbe dovuto chiarire questa identità con meno parole  per non aumentarne la confusione e L'AMBIGUITA'...  
 
Quando qualcuno mi chiede chi è il Sacerdote gli rispondo con san Paolo:  
1Corinzi 4 1 Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio.  
 
ergo Ministro=Sacerdote: ministro per la vocazione, sacerdote(=amministratore) nell'applicazione di questa vocazione e di questo ministero! Infatti Sacerdoti lo siamo anche noi laici per il Battesimo ordunque la differenza di tale sacerdozio sta nel Ministero acquisito mediante una vocazione specifica e particolare che si attua con il Sacramento dell'Ordine Sacro...per il quale solo loro possono diventare "amministartori dei Misteri di Dio"!  
ariergo esso è necessario fino al ritorno di Cristo (come sopra ha evidenziato Dante) per questo Gesù ha promesso l'assistenza nonostante i periodi di siccità e carestia, perchè le porte degli inferi non prevarranno garantendoci comunque sia la loro presenza che è la presenza di Cristo stesso....  
Si sente nostalgia di parole brevi, concise, ma dirette e chiare....supplichiamo i Vescovi di essere più diretti magistralmente e meno opinionisti  
 
Il vostro parlare sia si, si- no, no...il di più non aiuta affatto!


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don Antonio - Napoli
Quando, più di 30 anni fa, affrontai la "Storia delle religioni", alla domanda se esiste il "sacerdozio" nelle altre religioni, la risposta fu: il sacerdozio esiste solo nelle religioni che hanno il "sacrificio". Diversamente no! Quindi... l'Islam non ha sacerdozio, il Buddismo non ha sacerdozio, il cattolicesimo sì! Questo chè la Messa è il Sacrificio di Cristo. E il Sacerdozio non è dato solo per il servizio della comunità. Tant'è vero che la Chiesa, ab immemorabili, consacra sacerdoti anche tra gli eremiti, che non devono "servire" alcuna comunità (nel senso di apostolato spicciolo e diretto). Il sacerdote è, prima di tutto, consacrat per offrire il Sacrificio a Dio!


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 Giulio
Mi piace sempre citare questa poco conosciuta pagina di Papa Paolo VI  
 
Giacché ogni Messa, anche se privatamente celebrata da un sacerdote, non è tuttavia cosa privata, ma azione di Cristo e della Chiesa, la quale nel sacrificio che offre, ha imparato ad offrire sé medesima come sacrificio universale, applicando per la salute del mondo intero l'unica e infinita virtù redentrice del sacrificio della Croce. Poiché ogni Messa celebrata viene offerta non solo per la salvezza di alcuni, ma anche per la salvezza di tutto il mondo. Ne consegue che, se è sommamente conveniente che alla celebrazione della Messa partecipi attivamente gran numero di fedeli, tuttavia non è da riprovarsi, anzi da approvarsi, la Messa celebrata privatamente, secondo le prescrizioni e le tradizioni della santa Chiesa, da un Sacerdote col solo ministro inserviente; perché da tale Messa deriva grande abbondanza di particolari grazie, a vantaggio sia dello stesso sacerdote, sia del popolo fedele e di tutta la Chiesa, anzi di tutto il mondo, grazie che non si possono ottenere in uguale misura mediante la sola Comunione.  

MYSTERIUM FIDEI n.33  


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Caterina63
00lunedì 26 aprile 2010 22:40

il male presente

Emanuel Andrè
Abate O.S.B.
SACERDOZIO E MINISTERO

LIBRO TERZO
Il campo del ministero

CAPITOLO I
DONDE LA NECESSITA DEL MINISTERO ECCLESIASTICO

L'autorità ecclesiastica come l'autorità civile, e, conseguentemente tutta l'economia del santo ministero, hanno la loro ragione di essere dopo la caduta originale.
Se Adamo non fosse caduto, l'umanità fedele a Dio avrebbe goduto di una felicità così grande che avrebbe avuto al di sopra di se stessa soltanto la felicità della vita eterna.
L'uomo sottomesso a Dio avrebbe attinto direttamente la vita dalla grazia; non avrebbe avuto bisogno di una guida per trovare Dio, e con la santa e divina grazia sarebbe andato a Lui senza inciampare e senza venir meno.

Ma l'umanità non è più così; il peccato è entrato nel mondo e ha mutato in un modo sorprendente tutte le condizioni di questa terra. Per difenderci contro gli iniqui, Dio volle che nella società vi fosse l'autorità dei re e per ricondurci al bene e alla vita eterna volle che ci fosse un'autorità ecclesiastica e un ministero ecclesiastico e infine volle che le sue grazie giungessero agli uomini attraverso mezzi proporzionati ai bisogni degli uomini decaduti.

Adamo, dimentico di ciò che doveva a Dio, considerò cosa buona piacere ad Eva, come Eva aveva considerato cosa buona ubbidire a Satana; e Dio volendo che il rimedio rispondesse alla natura della colpa, da parte sua considerò cosa buona che l'uomo fosse assoggettato all'uomo, sottomesso ai sacramenti, sottomesso a un minuzzolo di pane, a una goccia d'acqua.
Cioè Dio umiliò la sua creatura orgogliosa e qui il nostro ministero ha la sua ragione di essere; per essere i ministri della salvezza degli uomini, noi siamo i ministri dell'umiliazione degli uomini.
Quanto queste prospettive devono umiliarci se abbiamo gli occhi per vedere la profondità dell'umana caduta, la vera natura dei rimedi dei quali siamo ministri e, per conseguenza, la vera natura del nostro ministero!
Oh! Non abbiamo certamente nulla per gloriaci dell'autorità che Dio ci ha dato, dal momento che questa autorità è essa stessa una prova sempre parlante, una testimonianza sempre irrevocabile della caduta dell'umanità, della nostra caduta in essa e con essa. Ora che siamo caduti abbiamo il duplice obbligo di rialzarci e di lavorare a rialzare gli altri.

Il primo sta al di sopra delle forze dell'uomo; che diremo dunque, che faremo noi che con questo primo obbligo dobbiamo rispondere anche al secondo?
Siamo dei caduti: è qui, nell'attuale condizione dell'umanità, la ragione del ministero ecclesiastico.

CAPITOLO II
LA NATURA DEL MALE PRESENTE

Il male presente è semplicemente il peccato originale e le sue conseguenze. Qualunque sia il nome col quale si chiama, il male presente non è, non può essere un'altra cosa. Il peccato è entrato nel mondo per mezzo di Adamo; il peccato di Adamo è diventato il peccato dell'intero genere umano: è da quest'unica sorgente, ma fecondissima, troppo feconda, da dove sono venute tutte le sventure delle anime.
Il peccato originale, anche là dov'è stato cassato dal battesimo, ha lasciato la triplice concupiscenza: l'orgoglio, l'avarizia, la voluttà.

La nostra maggior disgrazia sta nel fatto che queste infelici concupiscenze hanno ripreso il sopravvento nei battezzati; e in questo modo vi regnano così potentemente che il battesimo, la cresima e la comunione sembrano aver perduto la loro efficacia sulle anime d'oggi.
Molti cristiani ahimè! sembrano battezzati soltanto per diventare degli apostati; molti sembrano stati cresimati per rinunciare allo Spirito Santo piuttosto che per riceverlo; non ci sono quelli che partecipano all'Eucarestia solo per calpestare più autenticamente il Figlio d'Iddio?
Perciò i rimedi che dovevano salvare si mutano in veleno mortifero: i sacramenti, che sono i canali della grazia, troppo spesso diventano i sigilli del peccato.
In troppi luoghi l'apostasia è lo stato generale delle anime, un'apostasia sovente più stupida che voluta: si vive fuori di Dio, di nostro Signore, dello Spirito Santo, fuori da tutto ciò che è soprannaturale.
E nonostante ciò si è dei battezzati! Quale oltraggio alla grazia divina! Quale oltraggio allo Spirito Santo! Quale ingratitudine verso Dio, verso l'adorabile persona del Salvatore, verso lo Spirito Santo!

CAPITOLO III
COME SI PROPAGA IL MALE PRESENTE

La sorgente del male, l'abbiamo detto, è il peccato originale. Questa sorgente, però, è segretissima, e proprio dal segreto che l'avvolge trae maggior facilità per propagare i suoi veleni.
Il peccato originale è poco conosciuto, e spesso mal conosciuto. Poiché ha gettato le anime nell'ignoranza, sembra impegnarsi a nascondere soprattutto la sua malizia che essenzialmente consiste in due cose: la perdita della giustizia originale e il deterioramento della natura: ma oggi, pur ammettendo la perdita della giustizia originale, si vorrebbe tuttavia non riconoscere che la natura è stata deteriorata.
Questa conoscenza così monca del peccato originale lascia campo libero ad una folla di errori, ed è assolutamente impotente nella salvezza di alcunché, seguendo la massima assai conosciuta: «Bonum ex integra causa: malum ex quocunque defectu ».
Da questo non saper e non voler riconoscere il deterioramento della natura causato dal peccato originale derivano conseguenze funestissime.
La natura diventa orgogliosa di sé stessa nonostante la solenne espressione dell'Apostolo: « Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto » (1 Cor. 4,7) .

La natura, essendosi fatta cieca sul suo male, è portata ad abusare del suo proprio bene. Ne abusa col farsene una arma contro Dio e nello stesso tempo per ferire sé stessa con nuove ferite. Possiede la ragione, la libertà e i sensi e ne abusa. La sua insolente rivolta contro Dio l'imprigiona nel naturalismo; e con uno strascico di inevitabili conseguenze la sua ragione sprofonda nel razionalismo, la sua libertà nel liberalismo e i suoi sensi nella sensualità.
Eppure dopo tutte queste spaventose conquiste nel male, la natura, essendo rimasta insoddisfatta, si volta contro il Salvatore; nega la sua divinità, l'umanità, la grazia, la sua Chiesa, per finire col negare tutto. Poi dice a se stessa come l'antica Babilonia: « Io e nessuno fuori di me » (Is. 48,8).
È vero che il male non è grande in tutte le anime; ma negli stessi credenti le verità sono singolarmente diminuite. Esiste per essi un naturalismo addolcito che non si preoccupa di esser elevato a dogma, ma che si contenta perfettamente di esser accettato come dottrina pratica. C'è un razionali; smo mitigato che non condanna la fede, ma che spesso si riserva il diritto di giudicarla; c'è anche un liberalismo cattolico; e benché non si sia ancora osato di pronunciare il nome di un sensualismo cattolico, si deve tuttavia ammettere che il sensualismo ha già invaso molte anime cattoliche nelle quali la vita sensuale è giunta a soffocare la conoscenza della stessa mortificazione cristiana, senza la quale, però, secondo la testimonianza dell'Apostolo non esiste la vita davanti a Dio: « Poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del vostro corpo, vivrete » (Rm. 8,13) .

Qui bisogna sottolineare un fatto capitale sul quale il razionalismo ha singolarmente falsificato le idee delle stesse anime buone. Se si studiassero gli autori che hanno trattato della grazia fino al secolo XV o XVI e si confrontassero con essi gli autori dei tempi moderni, si potrebbe osservare che esiste tra loro una differenza considerevole. In quella si riconosce in tutta la sua potenza la grazia medicinale del Redentore, la gratuità e l'efficacia. Nei moderni, invece, l'efficacia della grazia per lo più è attribuita alla volontà della creatura mentre anticamente la si considerava come un dono della stessa grazia. Riteniamo perciò che gli uomini, anche quelli cristiani, del nostro tempo non sono in grado di leggere il trattato di San Bernardo: «De gratia et libero arbitrio» senza smarrirsi, e, forse, senza scandalizzarsi, L'Abate Rohrbacher non ha forse scritto che San Bernardo non seppe fare distinzione della natura e della grazia? Voi pigmei del secolo XIX, voi avete scritto ciò riguardo San Bernardo, voi avete scritto lo stesso di Sant'Agostino.
I piccoli uomini del tempo presente non hanno ricevuto dalla grazia le percezioni che ricevettero gli antichi, perciò non ritengono di aver tanta necessità di pregare per chiedere, ottenere e conservare la grazia. Che cos'è la preghiera oggi? Dove le anime che pregano? Non è forse vero che la maggior parte dei cristiani che ancora pregano fanno consistere la preghiera nella recita di formule? Oh quanto sono lontani dal cristianesimo di nostro Signore e dei suoi Apostoli che è spirito e vita!

CAPITOLO IV
COME PUÒ ESSERE GUARITO IL MALE PRESENTE

Nostro Signore è l'unico Salvatore degli uomini, perciò fuori di Lui non si trova assolutamente alcun rimedio ai mali che ci affliggono: « In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati » (At. 4,12) .
Se la natura è ammalata del male chiamato naturalismo, per essere guarita deve sottomettersi a Gesù, altrimenti conserverà il proprio male che la perderà senza posa e per sempre.
Bisogna però osservare che la sottomissione necessaria per la guarigione dev'essere totale e affettuosa: è necessario abbandonarsi al medico celeste per ricevere l'intera efficacia dei suoi divini rimedi: ogni riserva nella sottomissione non solo compromette la guarigione, ma spesso la fa diventare impossibile: « Io voglio essere battezzato, disse l'eunuco della regina d'Etiopia ». Si, gli rispose Filippo, se tu credi con tutto il tuo cuore; « si credis ex toto corde tuo » (Atti ,8,37). La salvezza si compie a questa condizione.
La ragione ha il suo male che è il razionalismo. Anch'essa per guarire ha bisogno di sottomettersi, di sottomettersi alla fede. Che cosa di più giusto! La ragione creata si deve tutta intera alla ragione increata, la ragione umana alla ragione divina.

Erra la ragione umana quando ,crede di farsi grande studiandosi di mostrare la sua indipendenza da Dio. Proprio come il figlio prodigo nell'abbandonare la casa paterna.. Che cosa trovò egli lontano da suo padre? L'indigenza e la vergogna. La ragione che si scosta dalla fede non può sognare altro. La sua salvezza sta nella parola del figlio prodigo: « Mi alzerò e andrò da mio padre » (Lc. 15,18) .
Qui bisogna sottolineare un'altra illusione grandemente funesta nella quale sono cadute molte persone sebbene di rispetto. Poiché è necessario che la ragione 'umana cammini clan la fede, queste persone reputarono di far bene diminuendo la fede; cioè attenuarono le divine esigenze della fede e diminuirono i suoi diritti imprescrittibili, con lo scopo, dicevano a se stessi, di farla più facilmente accettabile. Ma perché fare per le anime ciò che non farebbero per i corpi i medici degni di questo nome? Essi conoscono la dose necessaria perché un farmaco faccia guarire e non si lasciano indurre a prescrivere una dose minore col pretesto che sarà più facile a prendersi; sanno bene che a questa condizione noi vi sarebbe guarigione, e non faranno mai questo. Medici delle anime, perché saremo noi sacerdoti meno abili dei medici dei corpi? «I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc. 16,8).

La libertà ha il suo male che è il liberalismo. La libertà è una bellissima e degnissima facoltà dell'anima; il liberalismo è un modo di essere della libertà, ma un modo di essere falso e forzato. Perché la libertà si è data per il bene e per il merito, mentre il liberalismo è una libertà che si compiace fuori del bene e del merito. Come il razionalismo è un abuso della ragione, il liberalismo è un abuso della libertà: abuso che consiste nel fare della libertà stessa la regola della libertà. Ma Dio solo è regola a sé stesso e ogni creatura che vuole imitare Dio in questo non fa che imitare Satana, il primo fra i ribelli. La ragione ha la sua regola nella ragione di Dio che è la fede, e la libertà ha la sua regola nella volontà di Dio che è la carità.
La carità illumina, dirige, sostiene, fortifica la libertà e le fa compiere meravigliosi progressi: perché più l'uomo progredisce nel bene e nel merito, più è libero. Ascoltiamo la grande voce della Chiesa: « Populum tuum, quaesumus Domine, coelesti dono prosequere ut et perfectam libertatem consegui mereatur et ad vitam proficiat sempiternam » (Orazione del lunedì di Pasqua prima della riforma liturgica).
Ciò ci porta a citare nuovamente, per meglio comprenderla e ammirarla, la sublime frase di Sant'Agostino: « Libertas est charitas » (De natura et gratia, lib. I, cap. LXV) .

Se poi ci inoltriamo nello studio del male presente, troviamo il sensualismo, l'amore del benessere materiale, l'amore della soddisfazione dei sensi; l'impulso di Eva verso il frutto che le sembrava bello a vedersi e buono a mangiarsi.
Il rimedio a questo male tanto comune e così profondamente radicato nella natura è la penitenza. Fate penitenza, diceva nostro Signore ed era la prima parola della sua predicazione. La penitenza è così necessaria che un giorno egli disse: « Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo » (Lc. 13,3).
La parola penitenza è diventata poco gradita a intendersi e vi è una specie di pudore, di nuovo genere, a pronunciarla.

Ci si è allontanati dalla strada della penitenza che una specie di sant'uomo spacciò gravemente questa massima: «II digiuno non appartiene più allo spirito della Chiesa; oggi è l'orazione, è l'orazione». Ecco: col pretesto della spiritualità si è giunti a cancellare una buona parte del Vangelo: se poi qualcosa ne ha tratto guadagno, ci si dica che non è il sensualismo?

Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 15:55

il sacerdote deve tendere alla santità

Reginaldo Garrigou-Lagrange o.p.



SACERDOTE CON CRISTO SACERDOTE E VITTIMA

CAPITOLO II
L'UNIONE DEL SACERDOTE CON CRISTO SACERDOTE

Per il suo sacerdozio, qualunque sacerdote deve intimamente unito a Cristo.

Tutti i fedeli, come viatori, son tenuti, ossia obbligati ad osservare sempre meglio il massimo precetto dell’amor di Dio. Tale precetto infatti non si limita ad un nato grado di carità; per esempio a dieci talenti; ma è detto, senza alcuna limitazione: «Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l'anima tua. tutte le tue forze, e con tutto il tuo spirito: e il tuo prossimo come te stesso » (1). E il viatore deve sempre crescere nella carità, perchè si avvicina a Dio con l'aumentare dell'amore, come se facesse dei passi sulla via dell'amore (2).

Tale perfezione di carità è compresa in questo precetto, non come materia, chè non la si può raggiungere subito, ma come fine al quale tutti devono tendere, ognuno nel proprio stato, chi nel matrimonio, chi in religione, come fratello converso o come religiosa, chi come sacerdote (3). Ed il viatore che non volesse progredire nella carità, commetterebbe già un peccato contro il massimo comandamento, che è formulato senza alcuna limitazione. Non tenderebbe più al fine e si comporterebbe come se l’avesse raggiunto, mentre in realtà non vi sarebbe ancora arrivato. Se tutti i fedeli sono tenuti, per quest’obbligo generale fondato sul supremo precetto, a tendere alla perfezione della carità, vale a dire alla perfezione cristiana, perché la carità ci unisce a Dio e dirige tutte le altre virtù, il sacerdote vi è tenuto con un obbligo speciale perchè ha ricevuto una speciale vocazione.

Si insegna comunemente che il sacerdote anche secolare, deve tendere alla perfezione propriamente detta, in forza della sua ordinazione e del suo ministero, anzi gli si richiede una santità maggiore, per la celebrazione della messa e la santificazione delle anime, di quella che non si richieda ad un religioso che non sia anche sacerdote, per esempio ad un converso o ad un monaco.

Ciò viene confermato da tre argomenti :

1) L'ordinazione sacerdotale; —

2) Il ministero riguardante il Corpo sacramentale di Cristo; —

3) Il ministero riguardante il Corpo mistico di Cristo. Questo è di fede almeno secondo il magistero ordinario ed universale della Chiesa espresso nel Pontificale.

1) L'ORDINAZIONE. Vi si fa menzione nel Pontificale romano, a proposito della ordinazione del presbitero: “Il Signore scelse i settantadue per insegnare con la parola e con l'esempio che i ministri della Chiesa devono essere perfetti nella fede e nelle opere ossia radicati nel duplice amore di Dio e del prossimo” (4).
Ciò appare evidente dai requisiti richiesti per accedere alla ordinazione, e dai suoi effetti.

Fra tali requisiti sono necessari lo stato di grazia, l’idoneità, ed una rettitudine di vita maggiore di quella richiesta per entrare nella vita religiosa. A tale proposito S. Tommaso (5): «Gli ordini sacri esigono come condizione preliminare la santità, ma lo stato religioso è una particolare forma di vita adatta a conseguirla». Perciò, secondo la tradizione, si vede che per entrare in religione basta il grado di principiante, ossia la vita purgativa, mentre per l'ordinazione sacerdotale il grado conveniente è quello dei proficienti, vale a dire la vita illuminativi, all’episcopato poi conviene il grado dei perfetti, o la vita vita unitiva (6). Nell'art. 8 S. Tommaso dice: « Per mezzo dell'ordine sacro l'uomo è deputato al ministero più alto, quale è quello di servire allo stesso Cristo nel sacramento dell'altare, e per esso si richiede una santità interiore più grande di quella che si richieda anche per lo stato religioso», per esempio in un fratello converso, in una religiosa o in un novizio professo.

Anche dagli effetti dell’ordinazione risulta chiaro che il sacerdote deve tendere alla perfezione in modo speciale. Infatti nell’ordinazione si riceve il carattere sacerdotale, come incancellabile partecipazione al sacerdozio di Cristo per validamente consacrare ed assolvere. Un santo laico, come S. Benedetto Giovanni Labre avrebbe potuto pronunciare le parole della consacrazione e non produrre la transustanziazione, né dare l'assoluzione; lo stesso accadrebbe ad un angelo e persino alla Beata Vergine Maria (sebbene ella abbia dato qualcosa di più al Verbo: ossia la natura umana ed abbia offerto con Lui una immolazione non incruenta, ma cruenta).

Inoltre nel momento della ordinazione si riceve la grazia sacramentale dell’ordine per esercitare santamente, sempre più santamente le funzioni sacerdotali. Perciò S. Tommaso dice (7): « quelli che sono investiti del divino ministero acquistano una dignità regale e devono essere perfetti nella virtù», come si legge anche nel Pontificale (8). L'ordinazione sacerdotale è certo assai più sublime della professione religiosa. Tale grazia sacramentale è una modalità della grazia abituale e dà diritto a ricevere grazie attuali per celebrare in modo sempre più santo: «Eccoti sacerdote e consacrato per celebrare, bada ora di offrire nel tempo opportuno il sacrificio a Dio con fedeltà e devozione e di mostrarti a tutti irreprensibile. Non hai alleggerito il tuo peso, ma sei ora legato con un vincolo più stretto di disciplina, sei tenuto ad una maggiore perfezione di santità. Il sacerdote deve ornato di tutte le virtù e dare agli altri esempio di vita santa» (9).

2) IL MINISTERO RIGUARDANTE IL CORPO SACRAMENTALE DI CRISTO, mostra anche meglio l'obbligo speciale del sacerdote di tendere alla perfezione. In primo luogo perché il sacerdote celebrando fa le veci di Cristo, è come un altro Cristo. Perciò egli deve unirsi con la mente e con il al sommo sacerdote, che è stato insieme santissima ostia, in modo da essere ministro conscio del suo ufficio e da celebrare degnamente e santamente. Sarebbe ipocrisia, almeno indirettamente volontaria a causa della negligenza, avvicinarsi all'altare senza la ferma volontà di progredire nella carità. È infatti dovere di ogni fedele, di qualsiasi condizione di vita, il progredire nella carità, secondo il massimo comandamento, che è senza, limitazione di sorta «Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore...».

Di questa santità richiesta per la celebrazione messa, o che almeno conviene ad essa in modo assai dente, si parla molto bene nella Imitazione di Cristo (10): «Il sacerdote, rivestito dei sacri paramenti, fa le veci di Cristo per supplicare e pregare Dio umilmente per sé e per tutto il popolo. Porta davanti e dietro il segno della croce, in continuo ricordo della Passione di Cristo. Davanti sulla pianeta, porta la croce per osservare con diligenza gli esempi di Cristo e cercare di seguirli con fervore: è segnato alle spalle con la croce perché sopporti pazientemente per amor di Dio tutte le traversie che gli vengono dagli uomini».

3) IL MINISTERO RIGUARDANTE IL CORPO MISTICO DI CRISTO, ossia, il fatto che il sacerdote deve santificare le anime altrui per mezzo della predicazione della parola divina, del ministero della confessione e della direzione, è una nuova conferma di questa dottrina (11).
È necessario mettere in evidenza parecchie CONSEGUENZE (12):

1) il sacerdote deve considerarsi come ordinato soprattutto per offrire il sacrificio della Messa: nella sua vita tale sacrificio è qualcosa di bene più alto dello studio, o delle opere esteriori di apostolato. Lo studio deve essere ordinato ad acquistare una cognizione sempre più profonda del mistero di Cristo, supremo sacerdote, e l'apostolato deve derivare dall'unione del sacerdote con Cristo, sacerdote principale. Anzi la celebrazione della messa è così intimamente congiunta alla perpetua oblazione di Cristo sempre vivente e sacerdote principale, da superare il ministero degli angeli, custodi delle anime, e viene subito dopo la missione unica della Beata Vergine Maria, che diede al Figlio di Dio la natura umana, e offrì con Lui la sua cruenta immolazione sul Calvario.
I teologi si sono chiesti: in qual modo il ministero dell'uomo sacerdote può superare quello degli Angeli che hanno una natura più sublime della nostra? Molti hanno così risposto: L'’aquila, pur essendo di una specie inferiore all'uomo, ha le ali ed una vista più acuta di quella dell'uomo. Come l'aquila supera l'uomo per le ali e la vista, così il sacerdote che celebra ed assolve supera gli angeli. S. Efrem nella sua opera De sacerdotio (13) dice: Supera la ragione e l'intelletto... il dono della sublime dignità sacerdotale. Il sacerdote si trova a suo agio tra gli angeli… Giacchè tratta familiarmente con lo stesso Signore degli angeli, ed ottiene facilmente, quasi per suo diritto, ciò che vuole, non appena lo chieda».
Perciò l'autore della Imitazione dice (14): «Se tu avessi anche la purità degli angeli. e la santità di Giovanni Battista non saresti degno di ricevere, né di amministrare questo sacramento... Grande è questo mistero, grande è la dignità dei sacerdoti, ai quali è concesso ciò non è dato agli angeli!».

2) Praticamente ne consegue: nel momento della consacrazione il celebrante deve unirsi umilmente ed intimamente al Sacerdote principale. Se si abbassa nella più grande umiltà, in modo che apparisca Cristo, allora viene glorificato ed onorato come facente veramente le veci di Cristo. «Egli deve crescere, io essere abbassato (Gv. 3, 30). E come la umanità di Cristo, spogliata della propria personalità, è stata glorificata ed onorata per la sua unione ipostatica con la persona del Verbo, così il celebrante, non consacrando affatto in nome proprio, viene elevato alla gloria più sublime, perché diviene come un altro Cristo. Se l'umanità di Cristo avesse lasciato la persona sona divina del Verbo, e preso quella umana, proprio per questo avrebbe perduto il valore infinito dei suoi meriti: lo stesso avverrebbe per analogia se il celebrante operasse non in nome di Cristo, ma in nome proprio, perderebbe cioè tutta la sua dignità e non consacrerebbe (15). La unione della dignità e della umiltà del sacerdote è espressa dalle parole di S. Paolo nella II ai Cor. (4, 7): Ora noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, onde la sublimità della virtù sia di Dio e non da noi ». E ugualmente tale unione è espressa dalle parole della liturgia : «O Dio, esaltazione degli umili, che innalzasti alla gloria dei santi il beato Francesco da Paola, concedi, ti preghiamo...».
Il sacerdote esercita pienamente il suo sacerdozio solo mediante la consacrazione e la elevazione del Corpo di Cristo e del suo preziosissimo Sangue.
Da ciò risulta evidente che il celebrante deve unirsi sempre più intimamente a Cristo per la fede viva, illuminata dai doni dello Spirito Santo, per la fiducia illimitata, e l'amore ogni giorno più puro e perfetto.


Diversi modi di celebrare la messa.

Bisogna avere sempre presente alla memoria che Cristo è il sacerdote principale nel Sacrificio della Messa, ed il celebrante deve tendere ad una unione attuale e sempre più intima con Lui. Vi sono però dei modi assai diversi di celebrare, ossia: vi è la messa sacrilega, la messa affrettata, la messa esteriormente corretta, ma senza spirito di fede, la messa celebrata degnamente e piamente, e la messa dei santi. Tutto questo mi è stato detto in un breve colloquio, dal fondatore della congregazione della ««Fraternità sacerdotale » e vale la pena di meditarlo.

Nella messa sacrilega il cuore del celebrante è lontano da Dio, lontano da Cristo, sacerdote principale, e questa celebrazione indegna costituisce un peccato gravissimo. Tale messa conserva tuttavia il suo valore infinito da parte della vittima immolata e del principale offerente; perciò in essa è infinito il valore dell'adorazione, riparazione, della impetrazione, del ringraziamento, in virtù dell'atto teandrico del principale offerente che sempre vivente, intercede per noi.
Ma se i fedeli sono a conoscenza dello stato dell’anima di un tale sacerdote, ne deriva uno scandalo enorme, le cui conseguenze non possono essere misurate. « Corruptio optimi pessima »; così viene falsificata la vita sacerdotale; da questo derivano una falsa carità, una falsa prudenza, l'ipocrisia, i falsi consigli, i pessimi esempi. S. Caterina da Siena, in un suo Dialogo parla spesso di tale scandalo, e dice che la Chiesa le è apparsa come una vergine dalle labbra corrose dalla lebbra. Questi sacrilegi esigono riparazione da parte del sacerdote colpevole, e talvolta tale riparazione viene offerta a Dio da sante anime contemplative che soffrono moltissimo per ottenere la conversione dei sacerdoti miseramente caduti.

La messa affrettata, ossia celebrata con la massima rapidità in quindici minuti, e talvolta con una coscienza dubbia, è, a modo suo, già uno scandalo. S. Alfonso de’ Liguori, da vescovo, proibì questo modo di celebrare la messa nella sua diocesi e scrisse su questo argomento.
Tali sacerdoti hanno perduto il giusto senso della gravità e della serietà della loro vita; ciò è avvenuto perchè per essi non è la messa che ha la massima importanza, bensì la vita esteriore, l'attività esterna, lo pseudo apostolato: infatti la loro vita interiore si riduce quasi a nulla, e al loro apostolato manca l'anima.
Quale differenza tra queste messe e quelle di cui parlava S. Giovanni Fisher, martire inglese, quando diceva ai luterani del suo tempo: «La Messa è il sole spirituale, che sorge ogni giorno per diffondere luce e calore in tutte le anime».
Tali messe affrettate sono invece uno scandalo, perchè vi si recitano meccanicamente, senza alcuno spirito di fede, il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus. Non si pronunciano nemmeno materialmente le parole, per la fretta eccessiva. E le preghiere del Messale vengono pronunciate come parole di nessuna importanza, mentre il loro significato è così profondo, che soltanto in cielo lo comprenderemo appieno..

È un miserabile verbalismo, del tutto opposto alla contemplazione. Se vi sono parole che debbono essere dette con consapevolezza e penetrazione contemplativa, sono proprio queste del Messale: Il Kyrie, il Gloria, íl Credo, il Sanctus, e invece vengono recitate macchinalmente, per finire più presto. Similmente si genuflette rapidamente, senza nessun senso di adorazione. Tali messe così affrettate possono fare un gran male a quelli che si avvicinano alla Chiesa cattolica e cercano un vero sacerdote a cui possano aprire la loro coscienza per trovare la verità. Il Signor von Hügel, che scrisse la vita di S. Caterina da Genova dice: «Certi ecclesiastici non hanno senso religioso più delle mie scarpe»..
Dopo tali messe affrettate si sopprime generalmente il ringraziamento o lo si riduce quasi a nulla.

Poi vi sono le messe esteriormente corrette, ma celebrate senza spirito di fede.
Il sacerdote presta sufficiente attenzione al rito esterno, alle rubriche, anzi talvolta è un rubricista, ma celebra come un, funzionario ecclesiastico e non mostra di avere alcun senso religioso. Conosce sì le rubriche e le osserva, ma è evidente che non pensa affatto al valore infinito della messa, né al principale offerente del quale è ministro. Tale celebrante è «un altro Cristo » solo in modo esterno; in forza del carattere che dà validità alla messa, ma non si manifesta in lui una anima sacerdotale: è evidente che fin dal momento della ordinazione non si è avuto in lui un aumento di grazia santificante e di quella sacerdotale. Questa grazia. era un tesoro da far fruttificare, e non si vedono i suoi frutti, invece piuttosto appare la sua sterilità.
E talvolta chi celebra così la messa crede di far bene quello che fa, perchè osserva attentamente le rubriche, ma non aspira a nulla di più alto. Dice il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus, le parole della Consacrazione e della Comunione senza spirito di fede.

Questi sacerdoti, se muoiono in stato di grazia. dopo la morte devono assai soffrire in purgatorio per l’incuria loro, e desiderare delle messe celebrate per essi molto bene a scopo di riparazione.

La messa celebrata degnamente e piamente è invece è quella detta con spirito di fede, confidenza in Dio, amore per Lui e per le anime. Si sente in essa il soffio e l’impulso delle virtù teologali che ispirano la virtù di religione.
Allora il Kyrie eleison è una vera preghiera d'implorazione,
il Gloria in excelsis Deo è adorazione dell'Altissimo;
il Vangelo del giorno è letto con fede profonda; le parole della consacrazione sono proferite in unione attuale con Cristo, principale offerente e con una certa cognizione dell'irradiamento spirituale di tale oblazione ed immolazione sacramentale in tutto il mondo e fino nel purgatorio.
E l'Agnus Dei è detto chiedendo davvero la remissione dei peccati;
il Communio infine è quello che deve essere, ogni giorno sostanzialmente più fervoroso e più fecondo di quello del giorno precedente, per il quotidiano aumento della carità, prodotto dall'Eucaristia.
La distribuzione della comunione ai fedeli non è meccanica, ma è una elargizione ad essi di vita sovrabbondante, perchè posseggano sempre più copiosamente la vita soprannaturale.
Il sacrificio della Messa viene terminato dalla contemplazione semplice e viva del Prologo del Vangelo secondo Giovanni. Poi si fa il ringraziamento particolare, che in alcuni giorni di festa, può prolungarsi come orazione mentale, se vi è tempo. È infatti proprio il momento più propizio per una intima orazione mentale, perchè abbiamo Cristo sacramentalmente presente in noi e l'anima nostra è sotto il suo influsso attuale, purché rimanga nel raccoglimento.

Cosa si deve dire della messa dei santi? Il sacrificio eucaristico celebrato da S. Giovanni Evangelista in presenza della Beata Vergine Maria era una vera continuazione sacramentale del sacrificio della Croce, la cui memoria era vivissima nella mente della Madre di Dio e del suo figlio spirituale. La messa di S. Agostino dopo le ore di contemplazione espressa nel De civitate Dei o nel De Trinitate, doveva essere una unione intima con Cristo sacerdote.
Lo stesso dicasi della messa di S. Domenico, di San Tommaso, di S. Bonaventura, che hanno scritto preghiere di ringraziamento ancora in uso; e di quella di S. Filippo Neri, che era spesso rapito in estasi dopo la consacrazione per l'intensità della sua contemplazione e dell'amore per Gesù sacerdote e vittima.

Molti fedeli che videro celebrare S. Francesco di Sales, ebbero sempre per lui una grandissima venerazione. Il santo curato d'Ars diceva : «Se comprendessimo che cosa è la messa, moriremmo!». «Il sacerdote dovrebbe essere santo per celebrarla degnamente. Quando saremo in cielo, vedremo che cosa è la messa e come l'abbiamo celebrata spesso senza la riverenza, l'adorazione ed il raccoglimento dovuti».
Come è detto nella Imitazione (16) i santi uniscono sempre l'oblazione personale dei loro dolori a quella di Cristo, sacerdote e vittima. Il Padre Carlo de Foucauld, celebrando la messa fra i maomettani in Africa, si offriva per essi, intendendo preparare così la loro futura evangelizzazione.
La messa dei santi è come una prolusione, o un preludio, quasi un inizio del culto eterno, che già viene espresso alla fine del prefazio dalle parole: «Sanctus, Sanctus, Sanctus».

(1) Lc. 10, 27; Deut. 6, 5.
(2) Cfr. S. Tommaso, Somma Teol. II-II, q. 184, a. 3 ad 2.
(3) Cfr. la nostra opera: Les trois áges de la vie intérieure, v. I, pag. 267.
(4) Così si esprime S. Tommaso (IV Sent., disc. 24, q. 2). L’argomento è sviluppato dal Card. Mercier, La vie intérieure, Ret. Sacerdot., 1919, pag. 200, 140-167.
(5) Somma Teol. II-II, q. 189, a. 1 ad 3.
(6) Cfr. II-II, q. 184, aa. 7-8.
(7) IV Sent., disc. 24, q. 2.
(8) Cfr. Somma Teol. suppl., q. 35, a. I ad 2; De Ordine, c. III, q. 63. a. 3.
(9) Cfr. Imitazione di Cristo, I. IV, c. 5.
(10) L. IV, c. 5.
(11) Cfr. Les trois áges de la vie intérieure, v. I, pag. 303.
(12) Cfr. P. S. M. Giraud, Prêtre et hostie, 5 ed., 1924, v. I, pag. 270.
(13) Opere, Anversa, ed. 1619, pag. 19.
(14) L. IV, cap. 5.
(15) Cfr. P. S. M. Giraud, op. cit., v. I, pag. 279.
(16) L. IV, cap. 9.



Caterina63
00venerdì 11 giugno 2010 19:34
l Dialogo sul sacerdozio

Il prete secondo
Giovanni Crisostomo


di Manuel Nin


Nel Dialogo sul sacerdozio, scritto secondo il modello letterario dei dialoghi platonici, Giovanni Crisostomo nel ii libro afferma che il sacerdote è colui che ama Cristo, e questo amore viene chiesto dallo stesso Cristo nella persona di Pietro:  "E qual maggior guadagno, soggiunsi - scrive l'autore - che l'essere venuti a compiere quelle opere che Cristo stesso disse di essere segni dell'amore verso di lui?

E, rivolgendosi al corifeo degli apostoli:  Pietro, dice, mi ami tu? E affermandolo questi soggiunse Cristo:  Pascola le mie pecore". E aggiunge il Crisostomo molto acutamente:  "Dice Cristo infatti:  "Pietro mi ami tu più di costoro? Pascola le mie pecore". Poteva per altro dirgli:  "Se mi ami, pratica il digiuno, il sonno su nuda terra, le vigilie ininterrotte, assumi la difesa degli oppressi, sii come un padre agli orfani e come un marito alle madri loro"; invece, lasciando da parte tutte queste cose, che dice? "Pascola le mie pecore"".

Notiamo qui la centralità del rapporto tra amore a Cristo e servizio e pascolo del gregge. Non che il Crisostomo disprezzi il digiuno, le veglie, il dormire a terra, ma tutto questo è dopo il servizio, il pascolo del gregge.

Il sacerdote, il pastore, poi deve saper curare e guarire le malattie del gregge. Tre cose rammenta l'autore:  che le malattie tra le pecore sono segrete, cioè di solito nascoste e che bisogna che il pastore abbia l'occhio di scoprirle; che il pastore deve aver conto dell'atteggiamento del malato, e rispettarne la libertà, rammentandogli certamente le conseguenze. Lui, il pastore, può applicare rimedi, medicine, lenitivi, ma, aggiunge Giovanni Crisostomo:  "Va bene la facoltà di legare, di interdire l'alimento, di bruciare e tagliare; ma la facoltà di accogliere il rimedio, risiede non in chi porge la medicina, sebbene nell'infermo stesso".

Afferma che il pastore deve aver più la pazienza e la persuasione che non la forza:  "Soprattutto poi ai cristiani non è permesso di correggere a forza gli errori dei colpevoli. Tali individui debbono essere corretti con la persuasione anziché con la violenza, sono necessari al pastore molto lavoro, molta fortezza e molta tolleranza". Il vescovo di Antiochia insisterà spesso su questa pedagogia necessaria al pastore e nel principio di libertà delle pecore più che dell'imporre; la disciplina deve essere un bisogno, non un peso.

Nel iii libro, che è la parte centrale del testo, troviamo la descrizione della grandezza del sacerdozio cristiano. Esso è sempre un dono di Dio dato per mezzo dello Spirito, e dato a un uomo. Il Crisostomo sottolinea sempre questo equilibrio tra il dono di Dio e la realtà umana, concreta dell'uomo:  "Il sacerdozio si compie sulla terra, ma è nell'ordine delle cose celesti; e con ogni ragione, poiché non un uomo, non un angelo, non un arcangelo, né altra forza creata, ma lo stesso Paraclito ordinò quest'ufficio, ispirando quelli che tuttora stanno nella carne a ideare una funzione propria degli angeli".

In modo speciale per Giovanni questo dono di Dio viene messo in evidenza nella celebrazione dei sacramenti, e parla concretamente della celebrazione dell'eucaristia, del battesimo e del perdono dei peccati. Descrive in modo molto toccante l'abbassamento, la condiscendenza di Dio, sia nel momento dell'epiclesi, quando il sacerdote davanti ai doni prega e invoca lo Spirito che, come il fuoco invocato da Elia sugli animali offerti (cfr. 1 Re 18, 22-30), scende e santifica i doni; sia pure nel momento in cui i fedeli ricevono nella mano i santi doni, li stringono a sé, li portano fino agli occhi.

Il sacerdote è padre per il gregge in quanto è colui che genera i figli nel battesimo; e qui è interessante notare come il dottore della Chiesa sottolinei questa dimensione del vescovo che genera dei figli nel battesimo:  "A loro infatti, a loro fu affidata la generazione spirituale, e il partorire per mezzo del battesimo; per mezzo loro rivestiamo il Cristo, siamo congiunti al Figlio di Dio, e fatti membri di quel beato capo".
 
Il sacerdote infine è colui che perdona i peccati. Nello stesso libro iii, Giovanni Crisostomo fa un elenco dei vizi oppure dei pericoli che possono capitare al sacerdote:  la vanagloria - il più funesto, dirà il Crisostomo - la compiacenza per gli sconvenienti dei propri colleghi e il rammarico per i loro successi, disprezzo dei poveri e l'ossequiosità per i ricchi, la perdita della libertà. Diverse volte ancora nel Dialogo il predicatore insisterà in questo poter agire in tutto con libertà. Il sacerdote, poi, non dovrà dimenticare che i suoi difetti si vedono e vigilare, dice l'autore, che nessuno gli possa dare un colpo mortale.

Il Crisostomo parla più dei vizi che delle virtù dei sacerdoti; comunque ne indica diverse. E, tra le altre, indica la prudenza e soprattutto dice che il sacerdote deve essere intelligente e anche sveglio, cioè saper prevedere e anticipare i problemi, sia degli altri, sia i propri. Quindi, sempre nel libro iii, il santo di Antiochia mette il sacerdote, il pastore, di fronte, in qualche modo al dilemma, tra le virtù ascetiche più preclare e la grandezza di anima che gli è richiesta; in fondo è un paragone, non un'opposizione, tra la vita monastica e la vita pastorale. Giovanni Crisostomo amerà sempre moltissimo la vita monastica e la difenderà e la promuoverà, ma mai la metterà al di sopra della vita pastorale.

Sono due realtà diverse. Giovanni tende a non opporre ma a ben differenziare le virtù del monaco da quelle del vescovo, sbilanciandosi verso una chiara simpatia verso quest'ultimo:  "Noi vediamo che non è per nulla difficile il disprezzo dei cibi, delle bevande e dei soffici letti, specialmente a coloro che menano una vita rustica e furono allevati così fin dalla tenera età, come anche a molti altri quando la disposizione fisica e la consuetudine ha abituato alla asprezza di queste cose. Ma sopportare l'ingiuria, l'insolenza, i dileggi dagli inferiori e i biasimi dai superiori, è molto difficile".

Lungo i libri iv e v, si sottolinea la necessità che il sacerdote sia un buon predicatore. Il dono della parola è importante per colui che pascola una comunità, cioè per colui che la deve difendere contro gli attacchi delle fiere - le eresie - e Giovanni Crisostomo lo presenta come un'arma di cui il pastore deve essere munito. Quest'arma, il dono e l'uso della parola, ha tre punti fondamentali che il santo sottolinea chiaramente:  conoscenza della Sacra scrittura e contatto con essa, e Giovanni cita Paolo:  "La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente" (Colossesi 3, 16); conoscenza della realtà teologica, della fede, della sua Chiesa, ed elenca le diverse eresie che hanno toccato e toccano la Chiesa di Antiochia; finalmente avere una base dialettica, cioè una buona formazione anche oratoria. E il luogo, secondo il Crisostomo, dove queste tre basi vengono messe in pratica è l'omelia, la predicazione.


(©L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
Caterina63
00sabato 26 giugno 2010 12:18

Un Santo "nuovo". Ma che Santo!

*
Oggi, 26 giugno, ricorre la memoria liturgica di San Josemaria Escrivá de Balaguer, (1902-1975), Sacerdote, fondatore dell'Opus Dei.

Egli, al pari di San Pio da Pietrelcina, fu refrattario all'uso del Novus Ordo, e ottenne da Paolo VI una personale dispensa per celebrare secondo il Messale di San Pio V, anche successivamente all'introduzione della riforma liturgica bugniniana. (ne parlammo già QUI ).
Di recente abbiamo assistito ad una positiva evoluzione dell'Opera verso forme di celebrazione "tradizionale" (nostro post QUI)
Da febbraio, inoltre, il Prelato Ordinario dell'Opus Dei, S.E.Rma Mons. Javier Echevarría ha fortemente voluto la celebrazione - per ora solo mensile - della S. Messa tridentina presso la Basilica minore di Sant'Eugenio in Roma ove è una parrocchia retta dall'Opus Dei, si veda QUI).

*
Esprimiamo i nostri voti augurali al Prelato e alla Prelatura tutta, per la loro festa patronale.
*
Sito ufficiale della "Prelatura della Santa Croce e Opus Dei" OpusDei.it
Sito Bollettino dell'Opus Dei Romana.org

Caterina63
00lunedì 12 luglio 2010 08:56

OMELIA SUI VANGELI,  I, XVII  (S. Gregorio Magno)


 10. Siano di esempio agli altri nella compunzione.

Predichiamo agli altri verità inoppugnabili se alle parole segue la testimonianza dei fatti, se noi stessi abbiamo per amore di Dio sentimenti di  compunzione e purifichiamo nel pianto le colpe quotidiane dell’esistenza, che non può trascorrere senza, in qualche modo, contaminarsi. Arriviamo alla vera compunzione riflettendo con impegno sulle imprese dei padri, così da renderci conto di come appare misera, ai nostri occhi, la vita che abbiamo trascorso, se confrontata con la gloria da  essi conseguita.

Allo spirito di compunzione arriviamo anche scrutando  con impegno i precetti del Signore e tentando di progredire per loro  mezzo, come sappiamo che già fecero coloro che veneriamo. Per  questo sta scritto infatti di Mosè: Collocò anche una vasca di bronzo in  cui si purificassero Aronne e i suoi figli entrando nel Santo dei Santi, e  la costruì con gli specchi delle donne che vegliavano alla porta del Tabernacolo. Mosè dunque colloca una vasca di bronzo nella quale i sacerdoti devono purificarsi ed entrare nel Santo dei Santi: la legge  divina ci impone di purificarci nella compunzione, perché le nostre colpe non ci rendano indegni di penetrare gli incontaminati segreti  di Dio.
 
Ha anche un significato il fatto che quella vasca, come è  detto, sia costruita con gli specchi delle donne, che vegliavano senza sosta alla porta dei Tabernacolo, perché questi specchi indicano i divini precetti nei quali le anime sante sempre si guardano, e qualora sussistano in esse delle macchie di peccato, le cancellano. Correggono i pensieri difettosi e, tenendo conto dell’immagine, ricompongono i volti per quel che in essi suona come contrasto: così, riflettendo con impegno ai divini precetti, si rendono facilmente conto di ciò che, di loro, piace o dispiace allo Sposo celeste. Esse, finché si trovano in questa vita, non possono entrare nel tabernacolo eterno.

Tuttavia le donne vegliano alla porta del Tabernacolo, come le anime sante che, anche oppresse dall’infermità della carne, tengono con incessante amore fisso lo sguardo al passaggio nella dimora eterna. Mosè dunque preparò ai sacerdoti la vasca servendosi degli specchi delle donne, e questo significa che la legge di Dio offre il lavacro della  compunzione alle macchie dei nostri peccati, presentando alla nostra
contemplazione i soprannaturali precetti mediante i quali le anime sante piacquero allo Sposo celeste. Se li osserviamo con cura, ci rendiamo conto delle macchie che si trovano nell’intimo della nostra immagine  e siamo spinti alla compunzione, nel dolore della penitenza, così da poterci purificare come nella vasca costruita con gli specchi
delle donne.

18. Dio non abbandona il proprio gregge, nonostante i Pastori negligenti
 
Forse Dio onnipotente abbandona il proprio gregge per la nostra negligenza? No certamente: Egli infatti lo pasce direttamente, come promesso attraverso il profeta, e istruisce i predestinati alla vita con il pungolo dei flagelli e con lo spirito di compunzione. Per il nostro ministero in verità, i fedeli ricevono il santo battesimo, sono benedetti dalle preghiere che noi pronunciamo, e ricevono da Dio lo Spirito santo per l’imposizione delle nostre mani; essi giungono al regno dei cieli, e noi ne siamo deviati a motivo della nostra negligenza. Gli eletti sono ammessi alla patria celeste, purificati dal ministero dei sacerdoti, mentre questi precipitano verso i supplizi dell’inferno a motivo della loro vita riprovevole.

A che cosa dunque paragonerò sacerdoti indegni se non all’acqua del battesimo che, cancella i peccati dei battezzati, li introduce al regno dei cieli, ma poi deve essere posta tra i rifiuti? Temiamo, fratelli, che il nostro ministero incorra in una vicenda simile. Facciamo di tutto ogni giorno per essere purificati dalle nostre colpe, perché non ne resti incatenata la vita, mediante la quale Dio onnipotente purifica ogni giorno gli altri dal male. Riflettiamo senza tregua a ciò che siamo, meditiamo sul nostro ministero e rendiamoci conto delle responsabilità assunte. Rivolgiamo ogni giorno a noi stessi gli interrogativi ai quali dovremo rispondere di fronte al Giudice. Dobbiamo anche aver cura di noi, così da non trascurare il prossimo, in modo che chiunque ci accosti venga condito dal sale della nostra parola.

Quando vediamo qualcuno libero e dissoluto, esortiamolo a riscattare nella condizione coniugale la sua condotta scorretta, per poter sconfiggere con ciò che è lecito i comportamenti difformi dall’onestà. Quando incontriamo una persona  sposata esortiamola ad impegnarsi negli affari del secolo in modo da non staccarsi dall’amore di Dio, e aderire alla volontà del coniuge senza contrastare il Creatore.

Se accostiamo un chierico, sia da  noi ammonito in modo da offrire ai laici un esempio di vita, perché non  si riscontri in lui qualcosa di riprovevole da cui verrebbero motivi di disistima per la nostra religione. Incontrando un monaco, esortiamolo a portare rispetto al proprio abito nel comportamento ,nella parola e nei pensieri, così da staccarsi totalmente da ciò che appartiene al mondo e da offrire al cospetto di Dio, con il comportamento i valori che indica agli uomini col proprio abito.

Se uno ha già raggiunto la santità, sia incitato perché cresca in essa; chi è ancora nel peccato sia esortato a correggersi, in modo che chi accosta in sacerdote possa partire da lui come condito con il sale della sua parola. Riflettete con sollecitudine a tutto questo nel vostro intimo, e attuatelo al cospetto del vostro prossimo, rendendovi, così pronti a presentare a Dio onnipotente i frutti del ministero che vi è stato affidato. A queste mete, di cui si è detto, si arriverà più con la preghiera che con la parola.


Caterina63
00venerdì 20 agosto 2010 23:57
Per testimoniare il Vangelo nel mondo

Il futuro dell'Anno sacerdotale



di Javier Echevarría
Vescovo titolare di Cilibia,
Prelato dell'Opus Dei

L'Anno sacerdotale si è concluso lo scorso 16 giugno. Il periodo trascorso è così breve, che lo si può considerare ancora del tutto attuale. Più che giudicarne il valore conviene, dunque, guardare alle reazioni personali davanti a questo evento proposto dalla Chiesa. Cosa è accaduto? Quale impatto ha prodotto su di noi sacerdoti, convocati dal Romano Pontefice a percorrerlo aiutati dalla figura esemplare del nostro confratello, san Giovanni Maria Vianney?

Sono domande che esigono da ciascuno di noi una risposta personale nell'intimità della propria orazione, davanti a Dio. Non arriveremo a un livello così personale, poiché non può essere questo l'obiettivo di un articolo, ma ci incammineremo su una strada non meno esigente:  ricordare gli obiettivi indicati da Benedetto XVI e poi, traendone le conseguenze, orientare la riflessione verso il futuro.

"Tale anno - scriveva il Papa nella lettera di indizione - vuole contribuire a promuovere l'impegno d'interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi". Citava anche una frase che il curato d'Ars era solito ripetere e che è stata recepita nel Catechismo della Chiesa cattolica:  "Il sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù". Per comprendere se stesso, il sacerdote non deve limitarsi a considerare il proprio lavoro pastorale, ma andare molto oltre, fino a giungere a Cristo, nella cui umanità riverbera tutta la vita trinitaria e nel quale la medesima vita trinitaria si apre agli uomini.

Da questa prospettiva si comprende la profondità di altre parole di san Giovanni Maria Vianney citate dal Romano Pontefice:  il sacerdote "non si capirà bene che in cielo". Soltanto allora, nell'accorgersi del dono infinito e ineffabile del concedersi di Dio all'uomo, il sacerdote assaporerà pienamente la propria realtà. Dio non ha voluto soltanto comunicarsi agli uomini; ha preso la nostra stessa natura in Cristo Gesù; ha istituito la Chiesa e chiamato determinati uomini che, con il sacramento dell'ordine, egli trasforma in suoi ministri e strumenti. L'"audacia" di Dio - ha detto Benedetto XVI nell'omelia per la chiusura dell'Anno sacerdotale - che, "pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua", e ha fiducia in noi fino ad abbandonarsi nelle nostre mani, una tale audacia è "la cosa veramente grande che si nasconde nella parola "sacerdozio"".

Con omelie, lettere e allocuzioni pontificie, con ricorrenze, congressi e giornate di riflessione o preghiera, sono state ripetute in tutto il mondo queste grandi verità, esortando tutti e in particolare i sacerdoti a una nuova, profonda e gioiosa conversione. Infatti, non si può gustare un tale eccesso di amore divino, proprio del sacerdozio, senza sentirsi personalmente impegnati a essere, come diceva spesso san Josemaría Escrivá, "sacerdoti al cento per cento". Cosa comporta tale invito? Rispondere a questa domanda richiederebbe una lunga esposizione sulla teologia e la spiritualità del sacerdozio; tuttavia è utile almeno fermarsi su tre considerazioni fondamentali.

Occorre essere coscienti della dignità del sacerdozio, del valore e della ricchezza che tale condizione implica, affinché questa realtà impregni tutta intera la condotta e conferisca autenticità a ogni momento dell'esistenza, con la certezza che, nonostante la nostra piccolezza, Cristo vuole utilizzarci per comunicare al genere umano i frutti della sua opera redentrice.

Il presbitero deve identificarsi con Cristo, avere i suoi stessi sentimenti (cfr. Filippesi, 2, 5) e morire a se stesso affinché egli abiti in noi (cfr. Galati, 2, 20):  sentirsi spinto a essere uomo di eucaristia, a vivere la santa messa con la fede che in ogni celebrazione si perpetua il sacrificio di Cristo, morto e risorto, il quale viene incontro alla sua Chiesa e al sacerdote, per attrarli a sé e condurli con lo Spirito fino all'intimità filiale con Dio Padre.

Questo comporta l'anelito di servire, cum gaudio in Cristo e per Cristo, il proprio gregge, la Chiesa e tutta l'umanità, in modo che nel suo essere, come in quello di Gesù, non trovi posto l'egoismo o l'indifferenza davanti alle necessità degli altri. Ciò implica dedicarsi con impegno, anche se costa, a quanto contribuisce al bene delle anime, con una carità effettiva, nella predicazione della Parola di Dio e nel sacramento della riconciliazione.

L'Anno sacerdotale ci ha situato, nel tempo e dal tempo, davanti all'eterno, davanti a un amore di Dio che non passa, non si interrompe, è sempre giovane e attivo; con la realtà - felice, sorprendente e profondamente vera - che questo amore, visibile in Cristo Gesù, si trasmette attraverso la Chiesa, a ogni cristiano e a ogni sacerdote. L'Anno sacerdotale è destinato, senza dubbio, a produrre molti e svariati frutti nella predicazione, nella catechesi, nella cura della liturgia, nei diversi campi della pastorale e fondamentalmente nel rinnovamento interiore di ogni sacerdote, e anche l'aumento dei seminaristi nelle diocesi. L'audacia di Dio, di cui ha parlato Benedetto XVI, ci convoca tutti "in attesa del nostro "sì"".



(©L'Osservatore Romano - 21 agosto 2010)
Caterina63
00mercoledì 8 settembre 2010 12:16

                         don salvatore


La storia di Don Salvatore Vitale: una vita intera per Gesù Eucaristia

di Don Michele Barone

(novello Curato d'Ars del nostro tempo)

CITTA’ DEL VATICANO -
“Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo». Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati».” (Mt. 26, 26-29).

Questa è la pazzia di Colui che ci ha amato così tanto da dare la sua vita per noi. È la follia dell’Amore. Solo Tu, o Dio, potevi operare “questo misterioso incontro tra la nostra povertà e la tua grandezza: noi Ti offriamo le cose che Tu ci hai dato, e Tu donaci in cambio Te stesso”. In questo modo il popolo di Dio manifesta ed eleva la sua anima grata e la sua offerta al Padre. Così il Servo di Dio don Salvatore Vitale, parroco di Casapesenna (CE) in diocesi di Aversa dal 1933 al 1981 e fondatore dell’Opera: “La Piccola Casetta di Nazareth”, una famiglia di consacrati: sacerdoti, suore e membri laici, chiamati a rivivere le virtù della vita nascosta di Gesù, Maria e Giuseppe nel silenzio di Nazareth, a favore e a sostegno dei bambini e della famiglia, ha saputo manifestare in pieno la follia dell'Amore per Gesù, facendo diventare l’Eucaristia il centro di tutta la sua esistenza, la Sorgente di vita del suo ministero, la Forza nascosta alla quale attingeva segretamente per rimarginare le ferite del suo cuore straziato da tante sofferenze e prove.

L’Eucaristia ha costituito per lui, uno dei due poderosi e incrollabili pilastri, accanto a quello della devozione alla Vergine Immacolata, che lui invocava con il titolo di “Mia Madonna e Mia Salvezza”. Egli sin da giovane sacerdote desiderava ardentemente diventare un “adoratore esemplare di Gesù Eucaristia”, così leggiamo all’interno dei suoi scritti spirituali degli anni 30. E realmente lo è stato! Solo chi ha avuto la grazia di conoscerlo e di vivergli accanto può testimoniare che tale promessa, egli non solo è riuscito a mantenerla con fedeltà e intensità lungo tutto il corso della sua esistenza, ma l’amore che quest’uomo ha saputo provare verso il mistero eucaristico, ha costituito la realtà più nascosta e più intima del suo esistere, il Segreto della sua straordinarietà.

Dice di lui l’attuale superiore generale dell’Opera, il reverendo padre Ciro Isaia, il quale l’ha conosciuto e gli è stato vicino negli ultimi undici anni della sua vita: “Don Salvatore era un Sacerdote innamorato di Gesù Eucaristia, che ha vissuto all’ombra del Tabernacolo. Quando si tocca questo tema si penetra nelle profondità più intime del cuore di don Salvatore e si scopre un cuore che bruciava d’amore per Gesù, e che viveva totalmente per il Suo dolcissimo Signore e Maestro, come egli stesso lo definiva. Il suo posto preferito era accanto al Tabernacolo, era assetato di adorazione. Sia quando usciva che quando rientrava, si soffermava in chiesa per fare una visita al Padrone di casa, così chiamava Gesù Sacramentato.
 
Per lui amare e visitare Gesù di notte è un Paradiso anticipato, così annotava nei suoi scritti spirituali degli anni ‘30. Non andava mai a riposare senza offrire prima, anche se era molto stanco dopo una giornata di intenso lavoro, almeno un’ora di adorazione al suo Gesù”. Ancora sulla spiritualità del fondatore, egli afferma: “Quanto ha amato Gesù Eucaristia don Salvatore! Due cuori che si intendevano alla perfezione. Il suo posto preferito era ai piedi del Tabernacolo. Lunghe veglie notturne, nel sorriso della primavera, nell’afa dell’estate e nel rigido freddo invernale. Sempre là, fedele sentinella d’amore, all’Amico, allo Sposo e al Re del suo cuore: «Mi sento tutto di Gesù» ripeteva sempre.
 
Bussatine nascoste alla porticina dorata, con risposte melodiose di scherzi eucaristici. Patti di luce, scritti con lacrime di dolore, che hanno segnato la vita e le opere del Sacerdote di Gesù e della Mamma di Gesù”. L’amore verso Gesù Eucaristia fece fiorire le sue prime gemme fin da  bambino, quando entrò a far parte dei Paggetti di Gesù Eucaristia, un’associazione di fanciulli della parrocchia di Sant’Antonio in Frattamaggiore (NA), città natia del Servo di Dio, che aveva lo scopo di prestare turni di guardia e di preghiere ai lati del Tabernacolo. A causa di una disavventura partecipò da solo, per la prima volta al banchetto eucaristico all’età di otto anni nella Chiesa dell’Immacolata del suo paese. Accadde infatti che proprio il mattino dell’8 dicembre 1912, la chiave della porta principale di casa Vitale, si ruppe all’interno della serratura, costringendo l'intera famiglia ad attendere l’arrivo del falegname.
 
Ma nulla ostacolò il suo forte desiderio di ricevere la Prima Comunione in quel giorno mariano, infatti pur essendo arrivato in chiesa a celebrazione terminata, gli bastò soltanto nutrirsi del Pane degli Angeli. Negli anni della sua formazione sacerdotale quand'era seminarista, l’amore per l’Eucaristia cresceva e maturava sotto i suoi lucenti e caldi raggi. Giovane ventunenne, intessendo con Gesù dialoghi d’amore che sfociavano in poesie e in profonde riflessioni, annotava questi pensieri: “O Signore, che sarebbe stato di me se non mi fossi cibato delle Tue carni? Dimmelo, caro Gesù. Tu che mi hai dato un cuore che non è mai sazio d’amore. A chi mi sarei io rivolto se non avessi trovato in Te la fonte di ogni mio bene? Per il mio cuore di fuoco, avevo bisogno di questo Cuore che divampasse di fuoco dentro di me. Il mio cuore non voleva essere soggetto a nessuno… era stato annientato da Gesù Eucaristico”.

E Salvatore aveva realmente ascoltato nel suo cuore la voce di Gesù che gli diceva: “Vedi, Io, il Signore del cielo e della terra, mi sono fatto umilissimo e vivo nell’Ostia consacrata una vita silenziosa e di immenso amore! L’amore vero non è ciarliero e tu devi amare il prossimo tuo come te stesso, sacrificandoti per esso, consumandoti per il suo bene. Ogni superbia deve cadere davanti al Tabernacolo. Ogni ira deve smorzarsi davanti alla Mia prigione. Ogni impurità deve mondarsi prima che si entri nella Mia abitazione. Io non sopporto un cuore freddo, un cuore che porti odio, che sia imbrattato di fango”. L’appello del Signore venne accolto dal giovane seminarista e così corrisposto: “Il mio cuore ha sentito la voce di Gesù, dunque o Padre vivo d’amore per Te, sono Tuo, e sarò Tuo, fino a che Tu darai a me la quotidiana manna: Gesù Eucaristico! Oh! Se il mondo per un giorno solo vivesse la poesia eterna dell’Ostia bianca, il sole non risplenderebbe più sulle sciagure umane, ma sulla gioia infinita e sull’amore divino ed umano”. Diventato sacerdote, don Salvatore non soltanto continuerà ad adorare la Santissima Eucaristia, ma quotidianamente lui stesso consacrerà quel pane e quel vino nella celebrazione eucaristica, che diventerà per lui, il centro di tutta la giornata.

A riguardo riporto un'altra testimonianza di don Raimondo Pasquariello, membro dell’Opera e attuale parroco di Francolise (CE) diocesi di Teano-Calvi, il quale racconta con quale amore e solennità, don Salvatore si identificava con l’Agnello immolato: “All’età di 21 anni, ormai maggiorenne, ritrovai le lacrime dell’infanzia perché don Salvatore, durante la Santa Messa, piangeva molto e faceva piangere; era impossibile allora non partecipare al dono delle lacrime, era impossibile non fargli compagnia all’Altare! Ho sempre pensato che le lacrime non si improvvisano, né si fingono, e ancora oggi penso che non possono venir fuori da un cuore duro e insensibile all’altrui dolore. Mi si domanda perché don Salvatore piangesse all’Altare? Lui era appeso alla Croce di Gesù a buttar sangue e lacrime per la salvezza degli uomini, così San Pio da Pietrelcina confidò ai Frati del Convento di S. Giovanni Rotondo, e molto probabilmente a don Salvatore che conobbe e gli parlò, donandogli alcuni saggi consigli per la crescita della sua Opera.

Era appeso con Gesù alla Croce, partecipava intensamente, impegnando totalmente il suo cuore innamorato alla Passione acerba del Redentore, perciò piangeva e faceva piangere e al momento della consacrazione del vino, ripeteva sottovoce: Gesù, sangue per sangue. Non è possibile comprendere don Salvatore, se non si sottolinea con forza il suo austero, dolce, tenero ed esigente innamoramento, che sempre aveva stretto Gesù a don Salvatore e don Salvatore a Gesù. Durante la S. Messa, l’innamorato di Gesù non avrebbe mai detto basta all’Eucaristia. La sua Messa era lo spettacolo vivo di una Fede senza limiti, dell’arte antica dei santi, era un pulpito di cocente tenerezza per quel Gesù che dalla nascita l’aveva scelto e voluto Sacerdote”. A riguardo riporto la profezia di suor Maria Giuseppina di Gesù Crocifisso dei Ponti Rossi, beatificata il 1° giugno 2008 dall'Arcivescovo di Napoli, il Cardinale Crescenzio Sepe, la quale disse a mamma Angelina Celso quand'era in sua attesa: “Tuo figlio diventerà sacerdote, sarà fondatore di un’Opera, entrerà nella schiera dei Santi, ma su questa terra non sarà compreso”.

Quante composizioni eucaristiche sono scaturite dal conservatorio del suo cuore, così lo definiva il luogo da dove aveva imparato l’arte della musica, essendo egli autodidatta, ma grande compositore di canti liturgici e di innumerevoli opere, che col passare degli anni verranno eseguite in numerosi cattedrali e teatri italiani. Giovane sacerdote, nel 1932 musicò l’Ora di adorazione, un poemetto in onore di Gesù Sacramentato. Qualche anno più tardi, nel 1935, per volontà del Vescovo di Aversa, Monsignor Carmine Cesarano, fu celebrato nella sua diocesi il primo Congresso Eucaristico. In tale occasione don Salvatore musicò l’inno del Congresso composto dallo stesso Arcivescovo.

Nel 1950 in occasione del II Congresso Eucaristico diocesano, dal suo cuore sacerdotale scaturì un altro inno a Gesù Sacramentato, questa volta non solo la musica, ma anche i versi che aprivono questo bellissimo inno con queste parole: “O Cristo, Re Eucaristico, dei nostri mali Tu sei il vincitore”. Nel 1961 tradusse in italiano il Pange lingua di San Tommaso d’Aquino e gli Inni Eucaristici della Liturgia delle Ore, esortando così i fedeli a far visita al Santissimo Sacramento: “Visitiamo spesso Gesù Sacramentato soprattutto nelle ore di silenzio e nelle ore di abbandono! Gesù vuole essere visitato come Padre, come Maestro, come Amico, come Salvatore, come Redentore, come Prigioniero d’amore, come Poverello che aspetta l’elemosina del tuo povero cuore, l’elemosina del tuo Amore! Dentro la porticina della Custodia c’è Gesù di carne, vivente e palpitante, operante e sofferente”.

Rivolgendosi poi confidenzialmente alla Madonna, che mai egli separava dal Figlio, svela i suoi sentimenti e le sue intenzioni: “Mia buona e cara Mamma di Gesù, Vi offro e dedico questo piccolo libretto eucaristico, che contiene tutta la teologia della Chiesa Cattolica sull’Amore e sulla presenza reale di Gesù Eucaristia, che la mente angelica di S. Tommaso d’Aquino ha saputo tradurre in versi solenni, per meglio cantare le lodi al Signore in terra, come gli Angeli le cantano lassù nei Cieli dinanzi al Trono dell’Agnello! Mia buona e cara Mamma di Gesù, ho voluto anch’io lavorare e cantare in versi in lingua italiana, per meglio inneggiare a Gesù Eucaristia, e meglio far conoscere alle anime sitibonde di Amore Divino, la necessità di adorare Gesù Eucaristia, amare l’Amore di Gesù Eucaristia, conoscere l’Amore di Gesù Eucaristia, servire l’Amore di Gesù Eucaristia, godere l’Amore di Gesù Eucaristia, lodare l’Amore di Gesù Eucaristia, glorificare l’Amore di Gesù Eucaristia!”.

Alcuni anni più tardi, nel 1966, don Salvatore pubblicò 30 poesie, tutte in onore di Gesù Sacramentato dal titolo: Liriche eucaristiche.

A suggello di questa rassegna eucaristica, come non ricordare quella dal titolo: Ostia Bianca, che lega insieme "una spiritualità trinitaria" a lui tanto cara, l’Eucaristia, la Madonna e il Sacerdote: “E’ bianca, è bianca l’Ostia che Ti nasconde, o Gesù buono! E Tu più bianco ancora! Tu sei Gesù: candor di vita eterna! E bianca fu la Mamma che al mondo Ti portò! E la colomba bianca nel seno della Vergine, bianca e pura, nel seno Ti formò! E fu farina bianca, che l’uomo scelse, che pan ti panizzò! Più bianco ancor, più bianco, Tu vuoi che sia colui che in terra porta il nome Tuo, o Gesù; colui che il Pan celeste bianco all’alma bianca dona: ogni giorno”. Accanto a queste opere eucaristiche, come non menzionare la pietra miliare che esprime tutta la sua stessa vita, totalmente donata, spesa e vissuta per Gesù Eucaristia: “Tutto per il Cuore Eucaristico di Gesù! Tutto col Cuore Eucaristico di Gesù! Tutto nel Cuore Eucaristico di Gesù!”; capolavoro che trova la sua massima espressione nei Colloqui Eucaristici, scritti davanti al Tabernacolo tra gli anni ‘36 e ‘37 e raccolti in due preziosi quaderni manoscritti.

Sono preghiere scaturite dal suo cuore di padre, chiamato a dirigere le anime, un cuore che confidenzialmente si rivolge a Gesù, aprendosi come un fiore ai raggi del sole, svelando tutto di sé: le sue ansie, le sue gioie, le sue preoccupazioni, i suoi progetti e i propri battiti. Ai piedi del Santissimo, questo sacerdote immergeva la sua anima nell’amore infinito del suo Signore, come la goccia si inabissa nell’oceano.

Ai piedi del Tabernacolo egli deponeva sinceramente tutte le proprie miserie, implorando il suo perdono, come il pubblicano al tempio confessando: “O mio dolcissimo Signore e Maestro, in questa notte in cui rivelasti a Santa Maria Margherita tutti i tesori del Tuo amabilissimo Cuore, degnati di accogliere la mia umile e fervida preghiera, per riparare gli oltraggi commessi da me stesso dinanzi al Tuo Sacramento d’Amore! O Cuore Eucaristico del mio Gesù, come potrò sollevare gli occhi a Te, se Tu stesso non mi farai comprendere che mi hai non solo perdonato, ma che mi hai richiuso nel Tuo Cuore? O mio dolcissimo Signore e Maestro, Tu solo comprendi l’agonia dell’anima mia, che è stretta da una morsa di ferro rovente, che la brucia inesorabilmente e la consuma lentamente! O mio dolcissimo Signore e Maestro, questo ferro rovente che mi brucia e mi attanaglia in una morsa atroce, è il pensiero di averti offeso anche quando credevo di onorarti, e di trovare la tua bontà e la Tua misericordia! […]. O mio dolcissimo Maestro, non so esprimerti il mio strazio, se non rivolgendoti questa umile preghiera: O Signore buono, ricordati di me, anch’io per quanto indegno e peccatore sono una tua creatura, redenta dal tuo sangue preziosissimo, e anch’io ho diritto alla tua bontà e alla tua misericordia! O mio Gesù, anche se io avessi commesso un peccato nuovo, giammai commesso dall’uomo, da Adamo fino ad oggi, avrei sempre diritto alla tua bontà e alla tua misericordia”.

Ai piedi del Tabernacolo confidava le sue più segrete e lancinanti sofferenze, legate alla difficile situazione che trovò a Casapesenna, ma anche ai dubbi che affioravano sulla sua missione, trovando unicamente in Gesù consolazione e forza: “L’anima mia, o dolcissimo Maestro, è nella più profonda amarezza. Il corpo mio è stanco e ammalato! Sono annoiato da questa vita zingaresca! È una vita disordinata! Senza casa, senza comodità, senza indipendenza e senza libertà! Per amor Tuo e per amore delle anime, mi sono ridotto a vivere come un profugo. Volevo essere missionario e in questo mi hai esaudito. O Buon Gesù, dammi forza di sopportare pazientemente tutti i disagi e le privazioni di questo sistema di vita, che mi sfibra e mi annoia”. Solo Gesù, comprendeva fino in fondo il dolore di questa creatura, tanto più sofferente, perché abbandonata a se stessa, e solo Lui gli poteva dare la forza per proseguire il cammino.

Continua ancora nei suoi Colloqui Eucaristici del 1937: “E mi consola, o buon Maestro un solo pensiero: ci sei Tu che guardi e vedi ogni cosa! E guardi e vedi le mie miserie, guardi e vedi le mie buone intenzioni di amarti e di farti amare! O dolcissimo Maestro, sono qui dinanzi a Te unicamente attratto dall’amore e sorretto dall’amore! Sono moralmente e fisicamente ammalato! […] Ora, o dolcissimo Maestro, incomincio a comprendere che cosa voglia dire: incomprensione, derisione, contraddizione e preoccupazione. Ora incomincio a comprendere come tutte queste cose, sopportate soavemente per Tuo amore, fanno belle e sante le anime nostre. Ora comprendo che Don Bosco, fu veramente santo, avendo sopportato in silenzio una ingiusta persecuzione dei suoi confratelli! E questa è la più terribile e la più amara. O Signore, dammi la forza, la forza, la forza!”.

Ai piedi del Tabernacolo egli chiedeva fiduciosamente la luce, la forza e le virtù necessarie per amare le anime: “Signore ti prego pertanto a volermi dare, verso tutte le anime affidate alla mia direzione: la dolcezza, la pazienza e la serenità, anche quando mi fanno intimamente soffrire; anche quando mi costano sangue, e soprattutto il sacrificio dell’onore e della reputazione; anche quando per salvare le loro anime mi espongo alla maldicenza e alla calunnia più nera”. Ai piedi del Tabernacolo, la sua anima innamorata di Gesù Eucaristia imparava notte dopo notte, a cercarlo, a conoscerlo, a gustarne la dolce e indispensabile compagnia, come annotava in questa pagina: “Domani, 11 giugno 1937, si compiono 10 anni dalla mia sacra ordinazione sacerdotale.

Quante grazie! Quante fatiche! Quante responsabilità! Ho fatto tutto il bene che dovevo fare? Ho espletato tutti i miei doveri? Dopo 10 anni, o  dolcissimo  Maestro ho imparato a stare ogni notte alla Tua divina presenza; ho imparato a pensarti, a guardarti, a interrogarti? Ho imparato a bussare al Tuo cuore, a conoscere i Tuoi battiti, a distinguere la Tua voce?". E ancora, unendo Gesù a Maria affermava: “Dopo 10 anni, [sic!] la devozione a Maria SS. Ausiliatrice. Quale sarà lo sviluppo di questa devozione così bella e così cara? La Madonna deve operare gli stessi prodigi che operava e opera a Valdocco. Dopo 10 anni, o Gesù dolcissimo, sono nate nel tuo cuore e dal tuo cuore alimentate e perfezionate, le Figlie di Don Bosco, ossia le Missionarie della Parrocchia! È questa una dolce realtà!". Si potrebbe pensare a questo punto che questa cascata eucaristica di don Salvatore sull’Eucaristia, sia stata così infervorata solo negli anni iniziali della sua giovinezza e del suo apostolato? E che poi preso dalla stanchezza, della vita faticosa e dura, tutto sia andato man mano assottigliandosi? NO! L’amore verso l’Eucaristia, non è mai venuto meno, mai si è indebolito o incrinato, anzi è cresciuto col tempo tra tante avversità.
 
Nell’occasione del suo venticinquesimo di ordinazione sacerdotale, don Salvatore rivolgendo un appello ai suoi fedeli di Casapesenna, al fine di sostenerlo anche economicamente nei suoi progetti parrocchiali e nell’Opera di carità, non dimenticava di elevare i loro animi con questi pensieri, manifestando candidamente e poeticamente la sua fede filiale a questo mistero: “Solo Gesù, ha registrato sul suo divino e infallibile Cuore, tutti i palpiti insonni di un cuore sacerdotale vegliante sul suo Cuore, nelle lunghe e gelide notti invernali, al chiarore di due candele accese per amore, e consumatesi per luce d’amore. Amare e visitare Gesù di notte è un Paradiso anticipato.

Nel silenzio della notte fonda e tenebrosa, aprire la Custodia illuminata dalla calda luce di due candele e gridare a Gesù:  «Maestro, dammi il tuo Amore» è la vita del Paradiso, che vive per amore in questa valle di lacrime e di sospiri, di pene, di sofferenze e di martiri. E Gesù, così ardentemente chiamato risponde sempre! La sua voce è chiara, è limpida, è squillante, è sonora, è come lo scroscio di un’acqua cristallina che, attraverso una roccia screpolata col ritmo cadenzato dì una mirabile melodia, si precipita in un vaso d’argento, e canta una canzone d’amore, accompagnata dal tintinnio di piccole campanelle d’oro, tintinnate da invisibili e beate schiere angeliche. È suggestione o realtà? È realtà! L’anima che parla a Gesù nell’Eucaristia, sa di parlare a Gesù vivente, a Gesù presente, a Gesù che sente. Gesù dall’Eucaristia guarda, vede e sente una sua creatura che lo invoca, e gli chiede il suo Amore, e perciò Gesù non può e non deve restare in silenzio. Gesù è Dio, e Dio parla alle sue creature! Gesù è fratello, e Gesù parla e risponde al suo fratello, che nel cuore della notte quando tutto è silenzio e tenebra, sente il bisogno di visitarlo e di interrogarlo. Gesù è amico, e Gesù conosce i doveri dell’amicizia, e sa rispondere alle prove di amore di un amico sincero e affettuoso. Gesù è prigioniero d’Amore, che soffre per la salvezza delle anime, e sa rispondere alle domande affannose di un povero sofferente d’amore”.

Divenuto anche fondatore dell’Opera religiosa, don Salvatore trasmise ai suoi figli spirituali, tale amore verso il mistero eucaristico. Il giovane professore Maurizio Granara, originario della Sardegna e proveniente da Torino, diventato poi sacerdote dell’Opera e attuale parroco di Lago di Patria (NA), ricorda un episodio, che esalta non solo l’amore di don Salvatore verso Gesù Eucaristia, ma anche la delicatezza che aveva verso le persone: “Una sera, dimenticai di restituirgli la chiave della sua cameretta, dove mi aveva mandato a prendere certi documenti. Quella distrazione, fu per lui un’occasione per fermarsi in adorazione davanti al Tabernacolo tutta la notte.

Non volle disturbare minimamente il mio sonno. Solo la mattina, alle ore 7.00 circa, mi chiese gentilmente la sua chiave. Niente lo turbava. Questa testimonianza valse per me, più che un lungo discorso”. Don Bruno Bellomo, originario di Roma e sacerdote dell’Opera, ha voluto focalizzare un altro aspetto della sua spiritualità eucaristica: “Al mattino ci si stringeva attorno all’altare per partecipare alla celebrazione eucaristica, che costituiva il momento culminante della preghiera e della offerta. La realtà sacramentale non annullava la persona, l’ambiente, la vita della comunità, ma si comprendeva nelle parole e nei gesti, come tutto veniva assunto e trasfigurato, come la luce del Tabor per gli Apostoli scelti da Gesù. La sofferenza, il bruciore vivo delle piaghe alle gambe, come le frequenti contrarietà, le preoccupazioni della parrocchia e dell’Opera, sembravano un motivo di gioiosa sofferenza, che esplodeva in offerta e scambio sacrificale. Al momento della elevazione del calice, appena consacrato si sentiva sommessamente, ma chiaramente scandire: «Sangue per sangue».

L’Eucaristia fonte e apice della vita cristiana era anche la fonte dello spirito della comunità”. L’affermazione “Colui che ha compiuto tutto il Vangelo”, che si vede affissa sulla sua tomba, collocata alle spalle dell’altare maggiore, ai piedi del Tabernacolo nella chiesa parrocchiale di S. Croce di Casapesenna (CE), dove il suo popolo l’ha voluto tumulare per esaudire un suo esplicito desiderio: “Vorrei riposare per sempre ai piedi di Gesù Eucaristia”, non dovrebbe più apparirci strana ed esagerata.

Don Salvatore ogni giorno unendosi a Gesù attraverso il sacrificio eucaristico, si è offerto al Padre, lasciandosi inchiodare sulla croce della sua vita e della sua missione, obbedendo così docilmente alla sua volontà divina.

Ogni notte, dopo un’intensa giornata di lavoro, donata a servizio del suo popolo e dopo aver sfamato i suoi bambini, raccogliendo le ultime sue forze come Gesù, si ritirava tutto solo sul monte del suo altare per pregare in intimità con il suo Signore, il quale gli faceva sentire i battiti del suo amore costellati da scherzi eucaristici provenienti dal Tabernacolo, trascorrendo così autentiche ore di Paradiso.


            

Caterina63
00mercoledì 13 ottobre 2010 13:27

Don Vilmar Pavesi, un prete tradizionale


Ormai anche in Italia operano vari preti legati alla liturgia tradizionale. Uno dei più conosciuti è Don Vilmar Pavesi, giovane prete sempre con l'abito talare. E' nato nella Repubblica Federale del Brasile nel 1970 in una famiglia di origini lombarde.

Quando ha sentito la chiamata del Signore al sacerdozio, è entrato nel seminario della diocesi di Anapolis, allora guidata da Mons. Manoel Pestana Filho, un vescovo davvero zelante che saggiamente si era circondato di sacerdoti altrettanto zelanti come Don Ingo Döllinger, i Canonici Regolari della Santa Croce, i Francescani dell'Immacolata ed altri sacerdoti di buona dottrina, vaccinati contro la pestilenziale Teologia della Liberazione.

Nel 2001 Don Pavesi è stato ordinato sacerdote da parte di Mons. Wolfgang Haas, il pio vescovo che guida la diocesi di Vaduz nel Principato del Liechtenstein. Dal 2005 vive a Verona, dove ha ottenuto l'incarico di collaboratore del rettore della chiesa di Santa Toscana, nella quale celebra ogni giorno la Messa tridentina. E' molto disponibile ad ascoltare le confessioni e a dirigere spiritualmente i fedeli. Qualcuno che si è confessato da lui ha riportato pubblicamente l'ottima impressione avutane.

Sui principi morali è fermo, ma sempre caritatevole e paterno. Nutre una grande devozione per Sant'Alfonso Maria de Liguori, del quale apprezza tantissimo i suoi scritti spirituali che istillano amore verso Dio e zelo per la salvezza delle anime. Per comprendere la tempra spirituale di Don Vilmar Pavesi è sufficiente raccontare un episodio. In una domenica del 2007, i preti che ordinariamente celebrano nelle feste di precetto la liturgia antica nella Chiesa dei Santi Vittore e Carlo a Genova, erano impossibilitati ad officiare la Messa per i fedeli tradizionali.

Don Vilmar Pavesi, da Verona è andato fino a Genova per celebrare la venerabile Messa di San Pio V, con grande gioia dei fedeli. Solo un prete ricco di carità fraterna ed appassionato al Santo Sacrificio avrebbe compiuto un viaggio così lungo per la Messa tridentina.

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