Cristianesimo? La vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni
«Perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza. Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come nemico della religione, come “ateismo”».
Il testo della conferenza tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nel corso di un colloquio svoltosi alla Sorbona di Parigi il 27 novembre 1999 sul tema «2000 ans après quoi?»
del cardinale Joseph Ratzinger
Gesù risorto e gli apostoli sul lago di Tiberiade
Al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa alla verità. Questa crisi ha una doppia dimensione: innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se è giusto, in fondo, applicare la nozione di verità alla religione; in altri termini se è dato all’uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine. L’uomo contemporaneo si ritrova molto meglio nella parabola buddista dell’elefante e dei ciechi: una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti agli astanti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: «Un elefante è così».
Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, il didietro, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: «Com’è un elefante?». E, secondo la parte che avevano toccato, rispondevano: «È come un cesto intrecciato…», «è come un vaso…», «è come l’asta di un aratro…», «è come un magazzino…», «è come un pilastro…», «è come un mortaio…», «è come una scopa…». Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: «L’elefante è così», «no, è così», si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re. La disputa tra religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una situazione più favorevole rispetto alle altre, anzi: con la sua pretesa alla verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra conoscenza del divino, caratterizzato da un fanatismo particolarmente insensato, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata nella sua propria esperienza. Questo scetticismo generalizzato nei confronti della pretesa alla verità in materia religiosa è ulteriormente sorretto dalle questioni che la scienza moderna ha sollevato riguardo alle origini e ai contenuti del cristianesimo. La teoria evoluzionistica sembra aver superato la dottrina della creazione, le conoscenze che concernono l’origine dell’uomo sembrano aver superato la dottrina del peccato originale; la critica esegetica relativizza la figura di Gesù e mette punti interrogativi sulla sua coscienza filiale; l’origine della Chiesa in Gesù appare dubbia, e così via. La “fine della metafisica” ha reso problematico il fondamento filosofico del cristianesimo, i metodi storici moderni hanno posto le sue basi storiche in una luce ambigua. Così è facile ridurre i contenuti cristiani a simboli, non attribuire loro nessuna verità maggiore di quella dei miti della storia delle religioni, considerarli come una modalità di esperienza religiosa che dovrebbe collocarsi umilmente a fianco di altre.
In questo senso si può ancora – a quanto pare – continuare a rimanere cristiani; ci si serve sempre delle forme espressive del cristianesimo, la cui pretesa però è radicalmente trasformata: quella verità che era stata per l’uomo una forza obbligante e una promessa affidabile diventa ormai un’espressione culturale della sensibilità religiosa generale, espressione che sarebbe ovvia per noi a causa della nostra origine europea. Il cardinale Joseph Ratzinger
Ernst Troeltsch, all’inizio di questo secolo, ha formulato filosoficamente e teologicamente questo ritirarsi del cristianesimo dalla sua pretesa originariamente universale, che poteva fondarsi solo sulla pretesa alla verità. Egli era arrivato alla convinzione che le culture sono insuperabili e che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è quindi solo il lato del volto di Dio rivolto verso l’Europa. Le «particolari caratteristiche legate alla cultura e alle razze» e «le caratteristiche delle sue grandi formazioni religiose che abbracciano un contesto più ampio» assurgono al rango di ultima istanza: «Chi si azzarderebbe a formulare dei giudizi di valore davvero categorici a proposito? È una cosa che potrebbe fare solo Dio stesso, lui che è all’origine di queste differenze».
Un cieco nato sa che non è nato per essere cieco e di conseguenza non smetterà di interrogarsi sul perché della sua cecità e su come uscirne. Solo in apparenza l’uomo si è rassegnato al verdetto di essere nato cieco davanti a quel che gli appartiene, alla sola realtà che in ultima istanza conta nella nostra vita. Il titanico tentativo di prendere possesso del mondo intero, di trarre dalla nostra vita e per la nostra vita tutto il possibile, mostra, così come le esplosioni di un culto dell’estasi, della trasgressione e della distruzione di sé, che l’uomo non si accontenta di un giudizio così. Perché se non sa da dove viene e perché esiste, non è forse in tutto il suo essere una creatura mancata?
L’addio apparentemente indifferente alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente soddisfazione per non doversi più occupare di tutto questo, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco nato. L’addio alla verità non può mai essere definitivo. continua.....