Il Giubileo, la questione delle Indulgenze e il frate Savonarola

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Caterina63
00giovedì 15 gennaio 2009 19:34
Storia del Giubileo  1500 Anno Santo e Rinascimento

a cura di Mario Sensi

I Giubilei della seconda metà del secolo XV (1450 con Niccolò V; 1475 con Sisto IV) avevano dovuto fronteggiare due serie di problemi: uno all'esterno del mondo cristiano e l'altro all'interno della Chiesa. All'esterno tutta l'Europa viveva una forte tensione per la pressione del pericolo dell'invasione turca.

All'interno della cristianità si sentiva l'ansia della tanto invocata riforma morale, del clero e in particolare della curia romana in balia, nel tempo del rinascimento, di un nepotismo che nuoceva enormemente al buon nome della Chiesa di Roma
.

Agli entusiasmi per la scoperta della stampa ad opera di Gutenberg e del nuovo mondo ad opera di Cristoforo Colombo, alle tensioni del pericolo turco si aggiunse la crisi di fine secolo decimoquinto creatasi a Firenze tra il frate domenicano Girolamo Savanorala, priore del convento di San Marco, e la curia romana. I Giubilei cristiani da parte loro avevano acquisito, in due secoli di vita, la normalità della scadenza periodica di ogni 25 anni e delle facilitazioni per lucrare l'indulgenza dell'Anno Santo. Paolo II, con la Bolla "Ineffabilis providentia" del 19 aprile 1470, ne aveva infatti agevolato le possibilità sia per i cittadini romani che per quelli venuti da fuori.

A quest'ultimi Sisto IV, nella Bolla "Quemadmodum operosi" del 29 agosto 1473, ridusse anche le visite alle chiese. Il Giubileo si giovò inoltre per la sua diffusione dell'invenzione della stampa ad opera di Gutenberg di Magonza (Johann detto Gensfleisch). Stabilotosi a Strasburgo nel 1434, nel 1440 inventò la tipografia ovvero la stampa a caratteri mobili. Nel 1448 assieme a J.Fust diede alle stampe la celebre Bibbia Latina con 42 linee a pagina. L'invenzione della stampa, messa al servizio dell'Anno Santo, contribuì a portare a Roma tanti pellegrini e naturalmente la moneta. Oltre alle spese previste per un viaggio si aggiunse infatti un'offerta in denaro del pellegrino come una delle condizioni per lucrare l'indulgenza giubilare, questo fu un errore che la Chiesa pagherà, ma viene da chiedersi se questo fu il vero motivo per far scatenare tanto veleno contro la Chiesa dalla Riforma?


 Il binomio, offerta in denaro - indulgenza, stante l'uso imperante del nepotismo papale, innescò poi nel 1500, soprattutto nei paesi germanici, quale caprio espiatorio, una spirale di propaganda anticuriale romana che esplose nella scissione della Chiesa latina di Occidente in protestanti e cattolici e che servì più che altro per affermare trionfalismi politici specialmente in Germania preoccupata dall'avanzata cattolica.

La Chiesa di Roma veniva infatti accusata da più parti espressamente di simonia. Sarà questo l'elemento, a torto o a ragione, di forte presa popolare che sarà sfruttato poi da Martin Lutero nella sua polemica contro le indulgenze nelle sue accorate prediche al popolo incapace di comprendere una politica così complessa qual'era quella di quei secoli. In tale quadro di tensioni si ebbe il Giubileo del 1500. Esso inaugurava un nuovo centenario della storia umana e il papa Alessandro VI, spagnolo della famiglia dei Borgia, eletto l'11 agosto del 1492, lo preparò con grande cura.

Il card. Borgia, grande figura di statista del tempo, noto per la sua abilità diplomatica, forza di carattere e capacità governativa, era succeduto sul trono di Pietro a Innocenzo VIII, il genovese Gian Battista Cibo. L'elezione a papa del card. Borgia venne accolta con molto giubilo e speranza, a Roma come fuori della Città eterna. La sera del 12 agosto ben 800 nobili cittadini organizzarono, in suo onore, una cavalcata verso il Vaticano agitando fiaccole, mentre l'intera città si inondava di luci.

Il 26 agosto egli venne incoronato con sfarzo rinascimentale e salutato come colui che avrebbe portato all'umanità una nuova età . Frattanto Cristoforo Colombo, ch'era salpato da Palos per le Americhe il 3 agosto del medesimo anno, il 12 ottobre del 1492 raggiungeva terra a Guanahani, l'attuale San Salvador. L'anno seguente, il 4 marzo del 1493, Alessandro VI conseguì un grande successo diplomatico in merito alla scoperta del nuovo mondo. Egli mise infatti pace tra la Spagna e il Portogallo con il trattato di Tordesillas.

In esso si tirò sul globo terrestre quella linea immaginaria che andava dall'uno all'atro polo, assegnando le nuove terre, per metà a Ferdinando il cattolico (ad Occidente) e per metà al Portogallo (quelle ad Oriente). Della sua famiglia colpirono i contemporanei soprattutto i suoi due figli, Lucrezia e Cesare. Di Lucrezia, andata sposa in terze nozze ad Alfonso d'Este duca di Ferrara, scrisse Niccolò Cagnolo di Parma: "Essa è di media statura e di figura gentile, ha il viso alquanto lungo, il naso ben profilato, i capelli biondi, gli occhi d'un colore indefinito, la bocca alquanto larga, i denti candidissimi, il collo bianco e svelto, considerevole, ma tuttavia ben proporzionato.

Dall'intera persona traspira sempre un giocondo sorriso". Del fratello Cesare, divenuto duca di Valentinois, scrisse invece un inviato ferrarese: "Cesare è uomo di ingegno grande e insigne e di natura eccellente: ha tutto il fare di un principe...Non ebbe mai inclinazione per lo stato ecclesiastico, però il suo beneficio gli frutta più di 16.000 ducati". La politica di Alessandro VI, fedele alla Spagna e al re di Napoli, si scontrò con il re di Francia Carlo VIII che, nell'intento di conquistare alla Francia il regno di Napoli, il 31 dicembre del 1494 occupò Roma e prese in ostaggio il figlio del papa, Cesare Borgia.
 
I militari francesi diffusero a Roma e in Italia quelle malattie veneree che i medici del tempo chiamarono "morbo celtico o gallico". Il 14 giugno del 1497 venne ucciso suo figlio Giovanni Borgia, duca di Candia, al quale era tanto legato. Michelangelo Buonarroti, per lenire in qualche modo quel dolore del pontefice, scolpì la sua famosa Pietà che si trova in San Pietro in Vaticano. Alessandro VI, oltre alle vicende politiche e a quelle della sua famiglia, dovette affrontare una fatica ancora più dura con il priore di San Marco di Firenze, il domenicano Girolamo Savonarola. Questi poneva ogni suo sforzo per prevenire Firenze dal cadere nel paganesimo umanista.

Sotto tale visione accusava nelle sue prediche, molto ascoltate dalla Firenze del tempo,un pò tutti, in particolare i principi di Firenze e i principi della Chiesa, non escluso il papa, per la sua condotta poco "ortodossa". La città di Firenze era allora divisa da una lotta quotidiana tra i partiti dei Piagnoni (quello del Savonarola), dei Palleschi (il partito dei Medici) e degli Arrabbiati o dei Gaudenti. Alessandro VI, il 21 luglio del 1495, impose al Savonarola di recarsi a Roma per rendere ragione della sua predicazione. Il priore di San Marco addusse motivi di salute per non recarvisi, ma il papa impose all'allora superiore provinciale dei domenicani il suo trasferimento da Firenze. Un'ordinanza che non venne eseguita. Gli si ingiunse allora il divieto di predicare.

La Signoria di Firenze gli commissionò tuttavia la predicazione del quaresimale del 1496. Savonarola lo iniziò il 17 febbraio apostrofando direttamente la Chiesa romana: "Fatti in qua, ribalda Chiesa, fatti in qua ed ascolta quello che il Signore ti dice: Io ti avevo dato le belle vestimenta, e tu ne hai fatto idolo. I vasi desti alla superbia; i sacramenti alla simonia; nella lussuria sei fatta meretrice sfacciata; tu sei peggio che bestia; tu sei un mostro abominevole. Una volta ti vergognavi dei tuoi peccati, ma ora non più"
.

Il 13 maggio del 1497 il papa comminò al Savonarola la scomunica per rifiuto di obbedienza. Il frate la ritenne invalida perché fondata su false accuse e il 19 giugno rispose con la "Lettera a tutti i cristiani e figli diletti di Dio, contro la scomunica surrettizia". Nel Natale del 1497 Savonarola celebrò le tre Messe di rito, e l'11 febbraio del 1498 ricominciò a predicare contro Alessandro VI: "Il papa -egli tuonava- è ferro rotto (=non più strumento nella mano del Signore) e non si è tenuti ad obbedirgli, anatèma a chi comanda contro la carità...Ogni cosa fanno contro la carità, si elegga al più presto il suo Sucessore che la barca di Pietro non può attendere".


A sostegno della verità di quanto diceva il Savonarola s'invocò, da parte del francescano Francesco di Puglia, la prova del fuoco: "Se il Savonarola non arde con me, credetelo un vero profeta", gridò il frate francescano dal pulpito della Chiesa di Santa Croce. La Signoria di Firenze, che ormai voleva disfarsi del frate, acconsentì, ma il papa Alessandro VI disapprovò quella prova e inoltre il Savonarola la rifiutò e il frate Francescano ci rimase male avvertendolo come un rifiuto alla Provvidenza, la sola che avrebbe aiutato a stabilire la verità. A motivo di un tumulto che era scoppiato il frate domenicano venne condotto in prigione.

Incriminato, venne condannato a morte con altri due domenicani come "eretici, scismatici e denigratori della Santa Sede". Il 23 maggio del 1498, alle ore dieci del mattino, vennero bruciati sulla piazza della Signoria. Il Savonarola aveva 45 anni. Nonostante la sua vicenda con il Savonarola, Alessandro VI preparò con grande cura il Giubileo del 1500.

Già il giovedi santo del 12 aprile 1498 con la Bolla "Consueverunt romani pontifices" confermò la sospensione di tutte le indulgenze plenarie durante il Giubileo. L'anno dopo il 28 marzo del 1499 (giovedi santo) lo indisse solennemente con la Bolla "Inter multiplices", che venne letta dal protonotario apostolico Vito Gambara, il 20 dicembre fissò le modalità per l'acquisto dell'indulgenza (Bolla "inter curas multiplices").

Ai penitenzieri di San Pietro concesse inoltre in  due bolle ("Pastoris aeterni" del 20\12\1499 e "Cum in princicipio" del 4\3\1500) speciali facoltà. In tali bolle vennero fissate, per l'acquisto dell'indulgenza giubilare, le visite alle quattro basiliche in numero di trenta per i cittadini romani e quindici per i forestieri. Per il Giubileo del 1500 Alessandro VI fece riordinare la strada di accesso a San Pietro. Il "Borgo Vecchio" infatti, sostituito dalla nuova "via recta" (quella che da Castel S.Angelo porta alla Basilica Vaticana), venne denominato "Borgo Nuovo".

Egli fece redigere un cerimoniale contenente riti e preghiere che, nelle sue grandi linee, viene ancora osservato: la contemporanea apertura della Porta Santa in in tutte e quattro le basiliche patriarcali (San Pietro, San Paolo, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore). Il papa riservò a sé quella di San Pietro in Vaticano deputando a tre cardinali legati l'apertura delle altre tre Basiliche. L'apertura della Porta Santa costituì la novità dell'anno giubilare del 1500, un gesto che verrà ripetuto in tutti i seguenti anni giubilari.

Per ricavare la Porta Santa venne abolita in San Pietro una bella cappella medievale ornata di mosaici e venne fatto spostare l'altare su cui vi era il tabernacolo del Sudario della Veronica che veniva mostrato ai pellegrini. La Porta Santa, custodita da quattro religiosi, venne lasciata aperta giorno e notte.

Nella Basilica di San Paolo i monaci benedettini, essendo all'oscuro dell'apertura di una Porta Santa, fecero per l'occasione tre aperture sul fianco occidentale della Chiesa. Il cerimoniere pontificio di allora era il tedesco Giovanni Burckard che scrisse un "Diario della Curia romana" o "Liber notarum" (1483-1506). Esso costituisce la principale fonte documentaria del pontificato di Alessandro VI e quindi anche del Giubileo del 1500. L'opera curata dal Celani corriponde al tomo 32, parte I, voll.1-2, di "Rerum Italicarum scriptores".

La preghiera del rito di apertura di tale cerimonia è rimasta la medesima: "Aperite mihi portas iustitiae. Introibo in domum tuam, Domine. Aperite mihi portas, quoniam vobiscum Deus" (Apritemi le porte della giustizia. Entrerò, Signore, nella tua casa. Apritemi le porte, perché Dio è con voi"). 

Alessandro VI, come ogni nobile rinascimentale, amò le arti. Ne fanno fede le splendide sale dipinte da Raffaello dell'appartamento Borgia in Vaticano. La sua politica antifrancese, le vicende della sua famiglia e lo scontro con Girolamo Savonarola gli procurarono tuttavia cattiva fama presso i posteri, in particolare l'insinuazione diffusasi tra la gente che lui avesse comprato dai cardinali anche il seggio di Pietro.

Del Giubileo del 1500, da lui indetto e portato a compimento, non si può tuttavia che dirne bene. Alessandro VI morì di febbre il 18 agosto del 1503.



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Savonarola...già....ma perchè l'hanno mandato sul rogo?
Occorrerebbe effettivamente una macchina del tempo, andare a ritroso, noi, e trovarci in quell'epoca....ma per correttezza ed onestà nei confronti di chi viveva in quell'epoca, dovremmo andarci senza le conoscenze che abbiamo oggi, senza la maturità democratica che abbiamo raggiunto..... oppure rileggere la storia solo da spettatori.....
Difficile comunque porre oggi un giudizio l'errore grave che commettiamo è quello di giudicare con la mentalità di oggi..... Diverso è invece vivere l'oggi VALUTANDO gli errori del passato, senza giudicarli, ma prendendone atto.....
Il Savonarola di fatto è stato riabilitato da moltissimi anni, nella Diocesi di Firenze è ricordato da sempre come "venerabile"....il problema è molto più complesso di quel che appare, difficile da risolvere con un paio di battutine di condanna di tutta la Chiesa, quando ad emanare quella condanna fu un uomo certamente che ricopriva un ruolo determinante: Papa Borgia, Alessandro VI.....e che tuttavia non agì certamente da solo, ma con il sostegno se non proprio la missiva della condanna da parte di una certa classe politica fiorentina che non vedev l'ora di sbarazzarsi del frate troppo prdicatore.....

La condanna del Savonarola fu una condanna GIUSTA  dal punto di vita giuridico di quel tempo, mentre le accuse del Savonarola erano ovviamente poggiate sulla condotta immorale di Alessandro VI PRIMA che diventasse Papa....il quale, quanto all'ortodossia dottrinale, fu un Pontefice impeccabile...

Lo stesso Savonarola, per esempio, non disdegnò di chiedere al Grande Consiglio di Firenze la pena di morte
, quando ci fu il rischio della TIRANNIDE ...
Un caso dunque per molti versi difficile da risolvere e che probabilmente non sarà mai risolto....
A noi restano comunque le tante pagine predicate dal frate Savonarola, molto dottrinali e profondamente evangeliche...[SM=g7831]



FRA’ GIROLAMO SAVONAROLA
, nacque da una famiglia ferrarese il 21 settembre 1452, originaria di Padova, condusse fino all’età di 18 anni circa, studi disparati di medicina, filosofia, musica e disegno. Con Platone e Aristotile studia anche Tommaso D’Aquino. Ben presto si manifesta in lui prepotente tendenza a giudicare le cose del mondo in base ad un giudizio religioso -moralistico che lo rende intransigente nel combattere il male e nel denunciare la corruzione. Nel 1474, per caso, in un viaggio verso Faenza, dopo aver ascoltato la predica di un frate agostiniano, maturò la sua vocazione di darsi alla vita monastica. Nel 1475 lasciata furtivamente Ferrara, si recò a Bologna dove vestì l’abito dell’Ordine Domenicano che, già dai  tempi di Dante, aveva fama di essere l’Ordine più combattivo.

Fra le sue carte i familiari trovarono una canzone: “ DE RUINA MUNDI “, da lui composta nel 1472, in cui tracciava un orribile quadro dei mali del suo tempo. Nello stesso anno in cui entrò in convento scrisse un’altra canzone: “ DE RUINA ECCLESIAE “, in cui affermava che la Chiesa aveva abbandonato Roma dopo che l’ambizione e la concupiscenza degli occhi e della carne avevano contaminato ogni cosa.


Nel 1479 fu mandato all’Università di Ferrara per seguire studi teologici, dopo essere stato a Bologna  maestro dei novizi (domenicani). Nel 1481 o 1482, durante la guerra degli Estensi con Venezia, passò a Firenze, nel convento di San Marco e qui cominciò a predicare. I fiorentini trovavano il suo linguaggio troppo duro e disadorno, il suo accento lombardo troppo spiccato ed il suo gestire troppo violento. La freddezza degli uditori gli fece male, ma riprese fiducia con la nuova lettura del Vecchio e Nuovo Testamento e dell’Apocalisse, in cui dimostrò giusta e necessaria la lotta contro il vizio e la corruzione. Nel 1485-86 andò a San Giminiano a predicare la Quaresima, alla presenza anche di Pico della Mirandola, suo caro amico, e proclamò le sue convinzioni profetiche, la visione di una felicità futura, dopo penitenza generale, una specie di UTOPISMO che poteva sembrare in contrasto con lo spirito terreno dell’UMANESIMO e del RINASCIMENTO.

Nel 1490, richiamato da Lorenzo de Medici, riprese in San Marco la sua predicazione sull’Apocalisse. Ebbe notevole successo al punto che gli fu assegnato il pulpito di S: Maria del Fiore, chiesa molto più grande di San Marco, dalla quale, fino alla sua morte, parlò al popolo fiorentino. La sua oratoria trascinava l’uditorio, che scoppiava in lacrime con lui, che si turbava alle profezie di imminenti, terribili castighi divini. Compose il “TRACTATO DIVOTO E UTILE DELLA UMILTA’” e il “ TRACTATO DELLO AMORE DI JESU’ CRISTO” (1491-92), motivi essenziali della sua predicazione, che riprese più impetuosa nel 1493, dopo che egli aveva ottenuto da Alessandro VI° la separazione della Congregazione toscana dei Domenicani da quella lombarda. Si scagliò contro chi leggeva Aristotele, Virgilio, Ovidio, Cicerone, Dante e Petrarca e non il Vangelo e, soprattutto, contro il clero che non si curava più delle anime.


Fu, però, nel 1494 che la  sua predicazione colpì il popolo fiorentino, quando annunciò la venuta di un “Ciro“  che avrebbe punito l’Italia per la sua corruzione. Il vero aspetto della profezia della venuta di questo “CIRO”, nella persona di CARLO VIII°, si vide con la facilità con cui i signori italiani cedevano al nuovo sovrano che proclamava di riformare la chiesa. Poco dopo il re di Francia, giunto in Toscana, otteneva da PIERO DE MEDICI tutte le principali fortezze dello stato: Livorno, Pisa, Pietrasanta, Sarzana, ed il 9 novembre vi fu  la sollevazione di Firenze che abbatté la Signoria Medicea. Il Savonarola fu mandato come ambasciatore da Carlo VIII°, ma non ottenne nulla. Eppure il popolo fiorentino riteneva che egli solo avesse fatto cambiare al sovrano la volontà di restaurare PIERO DE MEDICI e che lo avesse indotto a lasciare, dopo una breve sosta, la città.


Dovendosi riformare la Costituzione, PAOLO ANTONIO SODERINI, che cercava di instaurare un regime sul tipo di quello veneto, ricorse al Savonarola  e, con il suo aiuto, riportò la vittoria. Instaurare, in Firenze, un regime più libero era sempre stato il desiderio del Savonarola, in perfetta armonia con le tendenze repubblicane, conducendo una tenace opposizione alla classe dirigente. Il “regime savonareliano“ rappresentò la rivincita dei ceti che in passato erano stati esclusi dal governo, ceti che univano esigenze democratiche alla riforma del clero.


All’inizio del 1495 il frate riuscì a fare approvare una legge in base alla quale a tutti coloro che fossero stati condannati per delitti contro lo stato fosse concesso di appellarsi al Consiglio Grande. Il credito e la reputazione del Savonarola ne uscirono molto accresciuti. Ma, quando nell’ottobre Piero De Medici fece un altro tentativo di rientrare in Firenze, allora egli propose la pena di morte per chi volesse restaurare la “tirannide“.


Nel maggio del 1496 vi fu un forte contrasto con ALESSANDRO VI° che gli proibì di predicare e lo scomunicò, ma il frate continuò la sua violenta condanna dei vizi del clero, dal pulpito.

Ma i suoi avversari i PALLESCHI o BIGI, seguaci dei Medici, e gli ARRABBIATI, i nobili, fecero di tutto per renderlo ostile al popolo. A poco a poco, i suoi fautori i “ PIAGNONI “ perdettero terreno, lasciando deluso il popolo. Fu arrestato e dopo tre processi venne impiccato e poi arso il 23 maggio 1498.


Passarono molti anni prima che, grazie ad alcuni suoi discepoli, il frate domenicano venisse riabilitato.

Ancora oggi a Firenze, nell’anniversario del martirio sul rogo di FRA’ GIROLAMO SAVONAROLA  vengono sparsi fiori sul luogo in cui morì !...


di
Ercolina Milanesi...


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" Io sempre mi sottoposi al castigo, e quante volte occorra, son qua per sottopormi ora e sempre. Chè io pure son peccatore, il quale grido con quanta ho di voce di far penitenza dei peccati, di emendare i costumi e di tornare alla Fede del nostro Signore Gesù Cristo, mentre mi adopero per riaccendere nel cuore degli uomini la Fede cristiana; e penso di stampare fra poco, che così piace a Dio, l'opera del "Trionfo di Cristo", per corroborare la fede. Da quel  libro apparirà manifestamente se io sia seminatore d'eresie (che mi tolga Iddio!) o non piuttosto fedelissimo alla santa Madre Chiesa della Fede cattolica..."
(P.Procter, il Domenicano Savonarola e la Riforma, Milano 1896, pag.57)
 "Il Trionfo della Croce" è un'opera del Savonarola in quattro libri......(la suggerisco....[SM=g1740717] ) nel Libro quarto, Savonarola a spada tratta difende il primato di Pietro nonostante l'epoca difficile a causa della corruzione. Emerge in questo testo tutta la sua passione per la Chiesa e le accuse che rivolse non al Pontefice, ma all'uomo Borgia.....scrive:
" Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa; e le porte degli inferi non prevarranno contro di lei...Nessuno può dire che questa autorità sia stata data solo a Pietro e non ad altri uomini dopo di lui, avendo Cristo promesso che la sua Chiesa sarebbe durata fino alla fine dei tempi... Essendo dunque i vescovi di Roma successori di Pietro, è cosa manifesta che la Chiesa Romana è guida e maestra di tutte le altre e che tutti i fedeli cristiani si devono raccogliere intorno al Pontefice Romano. Non vi è dubbio alcuno, dunque, che chi si allontana dalla unità e dalla dottrina della Romana Chiesa, si allontana da Cristo stesso "[SM=g1740717]
( Libro Quarto de "Il Trionfo di Cristo", cap.6, pag, 526)
Il papa Alessandro VI non avrebbe mai potuto ricevere una così profonda professione di fede, una sottomissione così assoluta che infatti, qualche tempo dopo il Libro del "trionfo della Croce", sarà scelto come manuale dell'insegnamento della fede Cattolica dalla Congregazione di Propaganda Fide.[SM=g1740722]
Del resto il Libro Secondo, in sedici capitoli Savonarola ripercorre con meticolosità tutta la storia della Chiesa dalle sue origini, per dimostrare l'autenticità della successione apostolica nella Chiesa Cattolica e per dimostrare le verità di fede del suo insegnamento.
Ma Savonarola nasconde un altra passione dalla quale forse gli giunge la potenza della sua predicazione: IL CROCEFISSO![SM=g1740720]

E' affezzionato ai "crocefissi" dipinti dal Beato Angelico (altro domenicano), per il Savonarola la contemplazione del Crocefisso insaguinato E' INDISPENSABILE per l'apprendimento dei Vangeli della Passione durante la contemplazione e la meditazione.
Per il Savonarola, solo la contemplazione verso un Crocefisso creato con amore, può infondere altrettanta passione, istruire la mente e addolcire il cuore del cristiano e, soprattutto, la contemplazione del Crocefisso non può che indurre il cristiano sulla retta via.
Ciò che domina la mente del Savonarola è la "verità del Dio crocifisso per noi!", da qui parte tutta la sua missione.
Davanti al Crocefisso componeva le "Operette spirituali" per la Pasqua, il Venerdi Santo che si adora la Croce,  scriveva:
" O Jesu, quando ti veggo così crocefisso, per me in talmodo percosso, il mio core da me si diparte...O FELIX CULPA...Consolati dunque umana generazione e prendi gaudio con lacrime dolci, senza fine. Consolatevi, justi et santi, perchè oggi appropinquate alla palma e al dolce gran trionfo...."
Per il Savonarola inizia qui una lotta contro i crocifissi d'oro...non nel senso che vietasse l'oro quale materiale da usarsi per comporre un Crocefisso, ma in quanto NON indispensabile per quel tipo di ADORAZIONE AL CROCEFISSO che egli intendeva predicare...

Il Crocifisso che artisticamente INSEGNAVA  Savonarola era di due specie
:

il primo era quello artistico che doveva riprodurre fedelmente IL SANGUE della Passione e dei chiodi, un crocifisso che doveva svelare a chi lo contemplava le parole descritte dai Vangeli, via dunque i crocifissi d'oro e di pietre preziose per questa contemplazione poichè i materiali preziosi non danno quell'immediata visione della Passione;

il secondo
doveva partire da questo ed entrare dentro l'anima per trasformare chi lo avesse contemplato, cioè la conversione: per il Savonarola la vera contemplazione del Crocefisso che non può che portare ad una sola risoluzione: conversione del cuore e pentimento dei propri peccati e il cambiare vita.

Rimprovera la Città di Firenze per lo sfarzo del crocefisso d'oro e dice:
" Non ti ricordi più che io ti feci dipingere crocifissi sanguinosi? "
(21 giugno 1495 "Soipra i Salmi" EN, II, pag.82)[SM=g1740720]
Per il Savonarola è incomprensibile capire la Risurrezione e la stessa Misericordia di Dio se non s'impara a contemplare un Crocifisso, il Crocifisso INSAGUINATO!
La centralità della Persona del Cristo, nell'opera del Savonarola, è punto centrale di tutta la sua personalità: "l'anima e il Crocefisso sono indissolubili o lo si rifiuta o lo siaccoglie e la felicità può solo giungere da un buon vivere, ma senza il Crocifisso nessuna anima può giungere alla perfezione!"
(Libro Terzo, cap.7)

Nelle prediche del Savonarola emerge un punto chiave e fermo: PER MEZZO DELLA CHIESA NOI GIUNGIAMO A CRISTO.[SM=g1740717]

Da questa verità che il frate domenicano sente dentro le midolla, consapevole di esserne un membro fra le tante membra sparse nel mondo, scatta in Savonarola la difesa stessa della Chiesa FERITA A CAUSA DELLA CORRUZIONE PERPRETATA DA PERSONE CORROTTE FACENTI PARTE DI QUELLE MEMBRA CHE PIU' DI ALTRE NON POSSONO PERMETTERSI IL LUSSO DI CONTINUARE A VIVERE PECCAMINOSAMENTE.......da qui egli non risparmia nè preti, nè frati, nè vescovi....nè papi.....nè se stesso!

Inoltre egli ha due passioni: Roma e Firenze.....Roma quale Città che ospita la Sede della Chiesa, Firenze quale città con prospettive aperte verso il futuro.....Savonarola fu di fatto il primo cattolico veramente illuminista nel senso puro del termine...
Il "compito della Chiesa" è di invitare tutti gli uomini sul carro trionfale che realizza la Salvezza; tutti coloro che s'incontrano con il Cristo, che ne fanno una diretta esperienza devono inq aulche modo salire su questo carro del Trionfo perchè insieme, dice il Savonarola, costituiscono quella Chiesa testimone in ogni tempo di santi, martiri, Confessori e Dottori.....
Da qui parte, per il frate, la responsabilità della testimonianza di santità che i suoi figli chiamati a quel ruolo di guida, devono assolutamente manifestare, da qui inizia la dura battaglia contro ogni corruzione.....Inutile dire che il primo a farne le spese non potevano essere coloro che posti alla guida della Chiesa dal Cristo, avevano invece in qualche modo tradito tale chiamata e vivevano ora in dissolutezza usando appunto....il buon nome della Chiesa Cattolica...[SM=g7556]
Da buon frate domenicano che era, viveva come l'Ordine insegnava: la povertà e il mendicare. Scatta così in lui la denuncia alle esose ricchezze unite agli sperperi di alti prelati coperti da una parte di clero compiacente e denuncia:
" Ma ora, poichè la Chiesa ha preso lo impero terreno (potere temporale), non mancano li oratori e li poeti li quali descrivano le laudi dè principi e dè prelati assai volte con molte bugie. Appar dunque per queste ragioni, che è da non meravigliarsi se li autori dè Gentili hanno finito con il non scrivere più le laudi di Cristo..."
(Libro Primo, cap.4)

Faccio notare che anche santa Caterina da Siena rimprovera al potere temporale un impedimento alla Pace vera e scrivendo questo a Papa Gregorio, lo invita ad abbandonare tale potere se questi fosse stato di impedimento alla Pace nella Chiesa... Da notare che essi parlano di unità edi pace DENTRO LA CHIESA...poichè è fuori che si deve combattere la Buona Battaglia...con le armi della giustizia, della Fede e della Carità e con l'evangelizazione della sana Dottrina...
Iniziano così le parole dure rivolte alla corruzione imperante fra il clero...e molti prelati....

Per il Savonarola la realtà della centralità della Chiesa è questa:

- CRISTO
- LA CHIESA (il Papa e i vescovi e il clero)
- I CRISTIANI (il popolo in cammino che formano l'unità della chiesa visibile)
Per il Savonarola il compito della Chiesa è " Fundamento della fede e regola della nostra salute con dispenza di Sacramenti", in questo non può esserci corruzzione alcuna essendo tale compito che Cristo stesso compie per mezzo della Chiesa anche "di mezzo fra dè i suoi corrotti!", Essa rappresenta un punto di riferimento per la ragionevolezza dell'uomo in ogni tempo, per quanto gli è proprosto di credere. Non è tanto ciò che l'uomo deve credere e gli è proposto, quanto la argionevolezza di ciò che gli è proposto AFFINCHE' EGLI POSSA CREDERE!

" Noi confessiamo che Dio ha costituito nella sua Chiesa e per mezzo del Successore con tutti i suoi vescovi, nella quale Egli ha speziale cura e amministrazione delle dottrine e di ogni sacramento a vantaggio di ogni cristiano.."

(Libro Terzo, cap. 9)
" Ma la dottrina della Romana Chiesa e delli suoi dottori, in quel che v'appartiene alla fede e al ben vivere del cristiano, e' tutta uniforme, non v'è errore alcuno se non dè fatti escono dalla dottrina e diventano di ordine morale a causa dell'immoralità testè testimoniata....."

(Libro Quarto, cap.6)

Stavo riflettendo sul titolo che un forum evangelico ha dato a questo tema: SAVONAROLA: UN SANTO AL ROGO....

Chi non leggesse dentro al forum forse penserebbe che degli evangelici hanno compreso la santità di questo personaggio.........invece se si legge dentro in sostanza per loro, alla fine dei giochi, Savonarola è santo esclusivamente perchè subì il rogo dopo aver accusato la cattiva condotta morale di papa Alessandro VI (Borgia)....e perchè denunciava una certa classe corrotta del clero....

Ma in questo modo però si finisce con il perdere l'essenza dell'essere SANTI......
Diremmo allora che più che santo Savonarola FU UN MARTIRE? Perchè guardate che i termini : santo e martire....NON vuol dire la stessa cosa....... anche se il finale ovviamente di entrambi conduce poi alla meta che TUTTI ci prefiggiamo e per la quale Cristo ci offrì GRATUITAMENTE in sorte.....

Tutto questo lo deduciamo perchè,leggendo certe difese al Savonarola condannando il Papa...si riscontra che questi evangelici NON conoscono alla fine neppure un rigo di ciò che Savonarola scrisse e predicò......essi associano il suo nome esclusivamente all'accusa d'immoralità di un papa...ma della sua RICCHEZZA E PROFONDITA' SPIRITUALE...della sua catechesi PURAMENTE CATTOLICA....non sanno nulla...non hanno letto nulla.......non vogliono forse saperne nulla, perchè...in fin dei conti è meglio sfruttare il caso Savonarola, esclusivamente per dimostrare il volto di una Chiesa corrotta che manda al rogo i suoi figli....[SM=g7581] ....
Come vi abbiamo dimostrato, la fede del Savonarola era ancorata a quella cattolicità fatta di dottrine, riti sacri e Sacramenti e devozioni (era un domenicano, non dimentichiamolo) le quali egli stesso DIFENDEVA, PREDICAVA, INSEGNAVA......e viveva personalmente.....inutile dire che egli stesso comunque visse un fondamentalismo che tentò di IMPORRE agli altri, e questo atteggiamento fu il suo vero nemico, non il Papa....

La santità dunque di questo frate (che in Firenze è dichiarato venerabile in accordo con la Chiesa) se di santità vogliamo parlare, NON può essere circoscritta alla sua denuncia sull'immoralità di un papa....BENSI' IN CIO' IN CUI CREDEVA, VIVEVA ED INSEGNAVA......
Suggerisco pertanto ai fratelli evangelici (ma anche a molti cattolici che per salvare il Savonarola condannano Papa Alessandro ) di leggersi questo: TRIONFO DELLA CROCE...in quattro volumi.....
Per esempio, al capitolo n. 8 del Terzo Libro, Savonarola spiega ed insegna la "NASCITA VERGINALE DI CRISTO DA MARIA SEMPRE VERGINE" del cui prodigio Savonarola sostiene che "essa non è impossibile, nè irragionevole" giacchè Maria E' IL CAPOLAVORO DI DIO e nulla è impossibile a Lui!

Scrive ancora in questo capitolo il Savonarola:
" Inoltre è stato molto opportuno che Egli nascesse DA UNA VERGINE IMMACOLATA; infatti poichè aveva in cielo un Padre senza corruzione alcuna e senza madre poichè l'Onnipotente Iddio è sempre stato e sempre sarà, ora con un Figlio doveva avere una madre, MA SENZA ALCUNA MACCHIA PER NON ESSERE RICATTABILE DAL DEMONIO e perchè non doveva avere un padre sulla terra...."
Se l'onestà storica di taluni evangelici Pentecostali termina o si riduce a titoli come di slogan pubblicitari, forse non comprendono che essendo già stato riabilitato il Savonarola attraverso i suoi scritti, oggi così facendo, cioè, ignorando ciò che questo frate scriveva, non capiscono che essi stessi RIPORTANO SAVONAROLA SUL ROGO......un rogo più raffinato.....quello dell'oscurantismo nella conoscenza in cui ciò egli credeva e insegnava......
E faccio altresì notare che il Savonarola fu uno dei pochi Domenicani a difendere l'Immacolata quando un san Tommaso d'Aquino, pur non scrivendo alcuna opera sul tema, si mise tra le fila di coloro che NON credevano in questa dottrina....[SM=g7609]
Immagino il fuoco con il quale Savonarola predicava ieri...lo immagino oggi...nel tentativo di spiegare a noi L'ERESIA di oggi, le tante eresie, la distruzione della Messa, la devastazione Liturgica...[SM=g1740730]

Buona meditazione....[SM=g1740721]

Caterina63
00venerdì 16 gennaio 2009 11:43
Detto questo.....sfogliamo il nostro Catechismo...

. Le indulgenze


1471
La dottrina e la pratica delle indulgenze nella Chiesa sono strettamente legate agli effetti del sacramento della Penitenza.


Che
cos'è l'indulgenza?


« L'indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, remissione che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi ». (79)

« L'indulgenza è parziale o plenaria secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati ». (80) « Ogni fedele può acquisire le indulgenze [...] per se stesso o applicarle ai defunti ». (81)


Le pene del peccato


1472
Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la « pena eterna » del peccato. D'altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta « pena temporale » del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall'esterno, bensì come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, così che non sussista più alcuna pena. (82)


1473
Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell'« uomo vecchio » e a rivestire « l'uomo nuovo ». (83)


Nella comunione dei santi


1474
Il cristiano che si sforza di purificarsi del suo peccato e di santificarsi con l'aiuto della grazia di Dio, non si trova solo. « La vita dei singoli figli di Dio in Cristo e per mezzo di Cristo viene congiunta con legame meraviglioso alla vita di tutti gli altri fratelli cristiani nella soprannaturale unità del corpo mistico di Cristo, fin quasi a formare una sola mistica persona ». (84)


1475
Nella comunione dei santi « tra i fedeli, che già hanno raggiunto la patria celeste o che stanno espiando le loro colpe nel purgatorio, o che ancora sono pellegrini sulla terra, esiste certamente un vincolo perenne di carità ed un abbondante scambio di tutti i beni ». (85) In questo ammirabile scambio, la santità dell'uno giova agli altri, ben al di là del danno che il peccato dell'uno ha potuto causare agli altri. In tal modo, il ricorso alla comunione dei santi permette al peccatore contrito di essere in più breve tempo e più efficacemente purificato dalle pene del peccato.


1476
Questi beni spirituali della comunione dei santi sono anche chiamati il tesoro della Chiesa, che non « si deve considerare come la somma di beni materiali, accumulati nel corso dei secoli, ma come l'infinito ed inesauribile valore che le espiazioni e i meriti di Cristo hanno presso il Padre, offerti perché tutta l'umanità sia liberata dal peccato e pervenga alla comunione con il Padre; è lo stesso Cristo Redentore, in cui sono e vivono le soddisfazioni ed i meriti della sua redenzione ». (86)


1477
« Appartiene inoltre a questo tesoro il valore veramente immenso, incommensurabile e sempre nuovo che presso Dio hanno le preghiere e le buone opere della beata Vergine Maria e di tutti i santi, i quali, seguendo le orme di Cristo Signore per grazia sua, hanno santificato la loro vita e condotto a compimento la missione affidata loro dal Padre; in tal modo, realizzando la loro salvezza, hanno anche cooperato alla salvezza dei propri fratelli nell'unità del corpo mistico ». (87)


Ottenere l'indulgenza di Dio mediante la Chiesa


1478
L'indulgenza si ottiene mediante la Chiesa che, in virtù del potere di legare e di sciogliere accordatole da Gesù Cristo, interviene a favore di un cristiano e gli dischiude il tesoro dei meriti di Cristo e dei santi perché ottenga dal Padre delle misericordie la remissione delle pene temporali dovute per i suoi peccati. Così la Chiesa non vuole soltanto venire in aiuto a questo cristiano, ma anche spingerlo a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità. (88)


1479
Poiché i fedeli defunti in via di purificazione sono anch'essi membri della medesima comunione dei santi, noi possiamo aiutarli, tra l'altro, ottenendo per loro indulgenze, in modo tale che siano sgravati dalle pene temporali dovute per i loro peccati.


XI. La celebrazione del sacramento della Penitenza


1480
Come tutti i sacramenti, la Penitenza è un'azione liturgica. Questi sono ordinariamente gli elementi della celebrazione: il saluto e la benedizione del sacerdote; la lettura della Parola di Dio per illuminare la coscienza e suscitare la contrizione, e l'esortazione al pentimento; la confessione che riconosce i peccati e li manifesta al sacerdote; l'imposizione e l'accettazione della penitenza; l'assoluzione da parte del sacerdote; la lode con rendimento di grazie e il congedo con la benedizione da parte del sacerdote.


1481
La liturgia bizantina usa più formule di assoluzione, a carattere deprecativo, le quali mirabilmente esprimono il mistero del perdono: « Il Dio che, attraverso il profeta Natan, ha perdonato a Davide quando confessò i propri peccati, e a Pietro quando pianse amaramente, e alla peccatrice quando versò lacrime sui suoi piedi, e al pubblicano e al prodigo, questo stesso Dio ti perdoni, attraverso me, peccatore, in questa vita e nell'altra, e non ti condanni quando apparirai al suo tremendo tribunale, egli che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen ». (89)


1482
Il sacramento della Penitenza può anche aver luogo nel quadro di una celebrazione comunitaria, nella quale ci si prepara insieme alla confessione e insieme si rende grazie per il perdono ricevuto. In questo caso, la confessione personale dei peccati e l'assoluzione individuale sono inserite in una liturgia della Parola di Dio, con letture e omelia, esame di coscienza condotto in comune, richiesta comunitaria del perdono, preghiera del « Padre nostro » e ringraziamento comune. Tale celebrazione comunitaria esprime più chiaramente il carattere ecclesiale della penitenza. Tuttavia, in qualunque modo venga celebrato, il sacramento della Penitenza è sempre, per sua stessa natura, un'azione liturgica, quindi ecclesiale e pubblica. (90)


1483
In casi di grave necessità si può ricorrere alla celebrazione comunitaria della Riconciliazione con confessione generale e assoluzione generale. Tale grave necessità può presentarsi qualora vi sia un imminente pericolo di morte senza che il sacerdote o i sacerdoti abbiano il tempo sufficiente per ascoltare la confessione di ciascun penitente. La necessità grave può verificarsi anche quando, in considerazione del numero dei penitenti, non vi siano confessori in numero sufficiente per ascoltare debitamente le confessioni dei singoli entro un tempo ragionevole, così che i penitenti, senza loro colpa, rimarrebbero a lungo privati della grazia sacramentale o della santa Comunione. In questo caso i fedeli, perché sia valida l'assoluzione, devono fare il proposito di confessare individualmente i propri peccati gravi a tempo debito. (91) Spetta al Vescovo diocesano giudicare se ricorrano le condizioni richieste per l'assoluzione
generale. (92) Una considerevole affluenza di fedeli in occasione di grandi feste o di pellegrinaggi non costituisce un caso di tale grave necessità. (93)


1484
« La confessione individuale e completa, con la relativa assoluzione, resta l'unico modo ordinario grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la Chiesa, a meno che un'impossibilità fisica o morale non li dispensi da una tale confessione ». (94) Ciò non è senza motivazioni profonde. Cristo agisce in ogni sacramento. Si rivolge personalmente a ciascun peccatore: « Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati » (Mc 2,5); è il medico che si china sui singoli malati che hanno bisogno di lui (95) per guarirli; li rialza e li reintegra nella comunione fraterna. La confessione personale è quindi la forma più significativa della riconciliazione con Dio e con la Chiesa.


In sintesi


1485
La sera di Pasqua, il Signore Gesù si mostrò ai suoi Apostoli e disse loro: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi » (Gv 20,22-23).

1486 Il perdono dei peccati commessi dopo il Battesimo è accordato mediante un sacramento apposito chiamato sacramento della Conversione, della Confessione, della Penitenza o della Riconciliazione.

1487 Colui che pecca ferisce l'onore di Dio e il suo amore, la propria dignità di uomo chiamato ad essere figlio di Dio e la salute spirituale della Chiesa di cui ogni cristiano deve essere una pietra viva.

1488 Agli occhi della fede, nessun male è più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero.

1489 Ritornare alla comunione con Dio dopo averla perduta a causa del peccato, è un movimento nato dalla grazia di Dio ricco di misericordia e sollecito della salvezza degli uomini. Bisogna chiedere questo dono prezioso per sé e per gli altri.

1490 Il cammino di ritorno a Dio, chiamato conversione e pentimento, implica un dolore e una repulsione per i peccati commessi, e il fermo proposito di non peccare più in avvenire. La conversione riguarda dunque il passato e il futuro; essa si nutre della speranza nella misericordia divina.

1491 Il sacramento della Penitenza è costituito dall'insieme dei tre atti compiuti dal penitente e dall'assoluzione da parte del sacerdote. Gli atti del penitente sono: il pentimento, la confessione o manifestazione dei peccati al sacerdote e il proposito di compiere la soddisfazione e le opere di soddisfazione.

1492 Il pentimento (chiamato anche contrizione) deve essere ispirato da motivi dettati dalla fede. Se il pentimento nasce dall'amore di carità verso Dio, lo si dice « perfetto »; se è fondato su altri motivi, lo si chiama « imperfetto ».

1493 Colui che vuole ottenere la riconciliazione con Dio e con la Chiesa deve confessare al sacerdote tutti i peccati gravi che ancora non ha confessato e di cui si ricorda dopo aver accuratamente esaminato la propria coscienza. Sebbene non sia in sé necessaria, la confessione delle colpe veniali è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa.

1494 Il confessore propone al penitente il compimento di certi atti di « soddisfazione » o di « penitenza », al fine di riparare il danno causato dal peccato e ristabilire gli atteggiamenti consoni al discepolo di Cristo.

1495 Soltanto i sacerdoti che hanno ricevuto dall'autorità della Chiesa la facoltà di assolvere possono perdonare i peccati nel nome di Cristo.

1496 Gli effetti spirituali del sacramento della Penitenza sono:

  • la riconciliazione con Dio mediante la quale il penitente ricupera la grazia;
  • la riconciliazione con la Chiesa;
  • la remissione della pena eterna meritata a causa dei peccati mortali;
  • la remissione, almeno in parte, delle pene temporali, conseguenze del peccato;
  • la pace e la serenità della coscienza, e la consolazione spirituale;
  • l'accrescimento delle forze spirituali per il combattimento cristiano.

1497 La confessione individuale e completa dei peccati gravi seguita dall'assoluzione rimane l'unico mezzo ordinario per la riconciliazione con Dio e con la Chiesa.

1498 Mediante le indulgenze i fedeli possono ottenere per se stessi, e anche per le anime del purgatorio, la remissione delle pene temporali, conseguenze dei peccati.

note

(79) Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, Normae, 1: AAS 59 (1967) 21.

(80) Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, Normae, 2: AAS 59 (1967) 21.

(81) CIC canone 994.

(82) Cf Concilio di Trento, Sess. 14a, Canones de sacramento Paenitentiae, canoni 12-13: DS 1712-1713; Id., Sess. 25a, Decretum de purgatorio: DS 1820.

(83) Cf Ef 4,24.

(84) Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, 5: AAS 59 (1967) 11.

(85) Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, 5: AAS 59 (1967) 12.

(86) Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, 5: AAS 59 (1967) 11.

(87) Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, 5: AAS 59 (1967) 11-12.

(88) Cf Paolo VI, Cost. ap. Indulgentiarum doctrina, 8: AAS 59 (1967) 16-17; Concilio di Trento, Sess. 25a, Decretum de indulgentiis: DS 1835.

(89) (Atene 1992)

(90) Cf Concilio Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 26-27: AAS 56 (1964) 107.

(91) Cf CIC canone 962, § 1.

(92) Cf CIC canone 961, § 2.

(93) Cf CIC canone 961, § 1, 2.

(94) Rito della Penitenza, Premesse, 31 (Libreria Editrice Vaticana 1974) p. 30.

(95) Cf Mc 2,17.

Caterina63
00venerdì 16 gennaio 2009 11:48
Che cosa significa l’indulgenza?[SM=g1740717]

di Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI[SM=g7831]

Il testo è tratto dal volume J.Ratzinger, Immagini di speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, pagg.71-79, dove porta il titolo: “Porziuncola. Che cosa significa indulgenza”. I neretti è voluto, per facilitare la lettura on-line, e pertanto non appartengono al testo originale.
Se si arriva ad Assisi provenendo da sud, sulla pianura che si estende davanti alla città si incontra dapprima la maestosa basilica di Santa Maria degli Angeli, dei secoli XVI e XVII, con una facciata classicistica del secolo scorso. Per dire la verità, essa mi lascia piuttosto freddo; è difficile cogliere qualcosa della semplicità e dell'umiltà di san Francesco in questo edificio che si presenta con tanta magnificenza esteriore.

 
Quel che cerchiamo, lo troviamo però al centro della basilica: una cappella medievale in cui degli antichi affreschi ci raccontano episodi della storia della salvezza e della vita di san Francesco, che proprio in questo luogo visse importanti esperienze. In quello spazio basso e poco illuminato possiamo percepire qualcosa del raccoglimento e della commozione che vengono dalla fede dei secoli, che qui ha trovato un luogo di riparo e di orientamento. Al tempo di san Francesco il territorio circostante era coperto di boschi, paludoso e disabitato.


Nel terzo anno dalla sua conversione Francesco si imbatté in questa piccola chiesa, ormai del tutto cadente, che apparteneva all'abbazia benedettina del monte Subasio. Come aveva già fatto in precedenza con le due chiese di San Damiano e di San Pietro, restaurate con le sue mani, Francesco si mise al lavoro anche qui, nella chiesetta della Porziuncola dedicata a Santa Maria degli Angeli, in cui egli venerava la Madre di ogni bontà. Lo stato di abbandono in cui si trovavano tutte queste piccole chiese dovette parergli un triste segno della condizione della Chiesa stessa; egli ancora non sapeva che, restaurando quegli edifici, si stava preparando a rinnovare la Chiesa vivente.

 
Ma proprio in questa cappella gli si fece incontro la chiamata definitiva, che diede alla sua missione la sua vera forma e permise la nascita dell'ordine dei Frati Minori, che peraltro all'inizio non fu affatto pensato come ordine religioso, ma come un movimento di evangelizzazione che doveva raccogliere di nuovo il popolo di Dio per il ritorno del Signore.


A Francesco accadde quello che nel terzo secolo era già accaduto a sant'Antonio d'Egitto: udì durante una celebrazione liturgica il vangelo della chiamata dei dodici da parte del Signore, che affidava loro il compito di annunciare il regno di Dio e di mettersi in cammino a questo scopo, senza averi e senza sicurezze mondane.

 
Inizialmente Francesco non aveva compreso del tutto quel testo; se lo fece quindi spiegare dal sacerdote e a quel punto gli fu chiaro che quello era anche il suo compito. Depose le sue calzature, tenne solo una tunica e si accinse ad annunciare il regno di Dio e la penitenza. Attorno a lui si raccolsero a poco a poco dei compagni che, come i dodici, cominciarono a loro volta ad andare di luogo in luogo e ad annunciare il vangelo che per loro, come per Francesco, significava gioia per quel nuovo inizio, gioia per il cambiamento che si era prodotto nelle loro vite, per il coraggio della penitenza.


La Porziuncola era divenuta per Francesco il luogo dove finalmente aveva compreso il vangelo, perché non lo accostava più a teorie e glosse esplicative, ma voleva viverlo alla lettera. Si era infatti accorto che non si trattava di parole del passato, ma di un appello che si rivolgeva direttamente ed esplicitamente a lui come persona.


Per questo sempre alla Porziuncola consegnò a santa Chiara l'abito religioso, dando così inizio al ramo religioso femminile del suo Ordine, chiamato a dare un sostegno interiore al compito evangelico mediante la preghiera.


Per questo, quando si sentì prossimo alla morte, volle essere trasportato proprio in quel luogo.


Porziuncola significa piccola porzione, piccolo pezzo di terra. Francesco non volle mai che essa diventasse di proprietà dei suoi frati, preferì che i benedettini la concedessero loro in uso; e proprio in quel modo, come qualcosa che non era di proprietà, doveva esprimere la vera proprietà e l'autentica novità del suo movimento.

 
Per esso doveva valere la parola del salmo 16, che nell' Antico Testamento esprimeva il particolare destino della tribù sacerdotale di Levi, cui non apparteneva nessuna terra, perché la sua unica terra era Dio stesso: «Tu, o Signore, sei mia parte e mia eredità - sì, della mia eredità mi sono compiaciuto».


La Porziuncola - lo abbiamo visto - è anzitutto un luogo, ma grazie a Francesco d' Assisi è divenuto una realtà dello spirito e della fede, che proprio qui si fa sensibile e diventa un luogo concreto in cui possiamo entrare, ma grazie al quale possiamo anche accedere alla storia della fede e alla sua forza sempre efficace.


Che poi la Porziuncola non ci ricordi solo grandi storie di conversione del passato, non rappresenti solo una semplice idea, ma riesca ancora ad accostarci al legame vivente di penitenza e di grazia, ciò dipende dal cosiddetto perdono d' Assisi, che più propriamente dovremmo chiamare perdono della Porziuncola.

 
Qual è il suo vero significato? Secondo una tradizione che sicuramente risale almeno alla fine del secolo XIII, Francesco nel luglio del 1216 avrebbe fatto visita nella vicina Perugia al papa Onorio III, subito dopo la sua elezione, e gli avrebbe sottoposto una richiesta inusuale: chiese al pontefice di concedere l'indulgenza plenaria per tutta la loro vita precedente a tutti coloro che si fossero recati nella chiesetta della Porziuncola, confessandosi e facendo penitenza dei propri peccati.


Il cristiano di oggi si chiederà che cosa possa significare un tale perdono, dal momento che presupponeva comunque penitenza personale e confessione. Per comprenderlo dobbiamo tener presente che a quel tempo, malgrado tanti cambiamenti, continuavano a valere gli elementi essenziali della disciplina penitenziale dell'antica Chiesa. Tra questi vi era
la convinzione che, dopo il battesimo, il perdono non potesse essere concesso semplicemente con l'atto dell'assoluzione, ma - come già in precedenza nella preparazione al battesimo - che esigesse un cambiamento reale di vita, una rimozione interiore del male.

 
L'atto sacramentale doveva legarsi a un atto esistenziale, a un lavoro profondo e reale sulla propria colpa, che veniva appunto chiamato penitenza. Perdono non significa che questo processo esistenziale diventa superfluo, ma che riceve un senso, che viene fatto proprio.


Al tempo di san Francesco come forma principale di penitenza imposta dalla Chiesa, in stretto rapporto con il perdono dei peccati, era invalso l'uso di intraprendere un grande pellegrinaggio, a Santiago, a Roma e, soprattutto a Gerusalemme. Il lungo, pericoloso e difficile viaggio a Gerusalemme poteva davvero diventare per molti pellegrini un viaggio interiore; tuttavia un aspetto molto concreto era anche il fatto che in Terra Santa le offerte che esso portava con sé erano divenute la fonte più importante per il mantenimento della Chiesa locale. In proposito non si dovrebbe storcere troppo facilmente il naso: in tal modo la penitenza acquistava anche una valenza sociale.


Se dunque - come vuole la tradizione - Francesco aveva avanzato la richiesta che tutto questo potesse essere ottenuto con la visita orante al santo luogo della Porziuncola, ciò era legato davvero a qualcosa di nuovo: una indulgenza, che doveva cambiare l'intera prassi penitenziale. Si può senz'altro comprendere che i cardinali fossero scontenti della concessione di questo privilegio da parte del papa e temessero per il sostentamento economico della Terra Santa, tanto che il perdono della Porziuncola fu inizialmente ridotto a un solo giorno all'anno, quello della dedicazione della Chiesa, il 2 agosto.


A questo punto, però, ci si domanda se il papa potesse far questo così semplicemente. Può un papa dispensare da un processo esistenziale, quale era quello previsto dalla grande prassi penitenziale della Chiesa? Ovviamente, no. Quel che è un' esigenza interiore dell'esistenza umana, non può essere reso superfluo mediante un atto giuridico. Ma non si trattava affatto di questo. Francesco, che aveva scoperto i poveri e la povertà, nella sua richiesta era spinto dalla sollecitudine per quelle persone a cui mancavano i mezzi o le forze per un pellegrinaggio in Terra Santa; coloro che non potevano dare nulla, se non la loro fede, la loro preghiera, la loro disponibilità a vivere secondo il vangelo la propria condizione di povertà.

 
In questo senso l'indulgenza della Porziuncola è la penitenza di coloro che sono tribolati, che la vita stessa carica già di una penitenza sufficiente. Senza dubbio a ciò si legava anche un 'interiorizzazione del concetto stesso di penitenza, sebbene non mancasse certamente la necessaria espressione sensibile dal momento che implicava comunque il pellegrinaggio al semplice e umile luogo della Porziuncola, che allo stesso tempo doveva essere anche un incontro con la radicalità del vangelo, come Francesco l'aveva appresa proprio in quel posto.


È innegabile che all'idea di indulgenza che proprio qui gradatamente assunse il suo carattere specifico, si legava anche il pericolo di abusi, come la storia ci ha insegnato in termini sufficientemente drammatici. Ma se alla fine si conserva solo il ricordo degli abusi, allora si è caduti in una perdita di memoria e in un atteggiamento di superficialità, con cui si danneggia soprattutto se stessi. Come sempre, infatti, ciò che è grande e puro è più difficile da vedere di ciò che è rozzo e meschino.


Ora non posso certo spiegare tutto il complesso intreccio di esperienze e di conoscenze che si è sviluppato a partire dall'evento della Porziuncola. Voglio solo cercare di tracciare le linee più importanti. Dopo la concessione di questa particolare indulgenza si arrivò ben presto a un passo ulteriore.

 
Proprio le persone umili e di fede semplice finirono per chiedersi: perché solo per me stesso? Non posso forse comunicare anche ad altri quel che mi è stato dato in ambito spirituale, come avviene in ambito materiale? Il pensiero si rivolgeva soprattutto alle povere anime, a coloro che nella vita erano stati loro vicini, che li avevano preceduti nell'altro mondo e il cui destino non poteva essere loro indifferente. Si sapeva degli errori e delle debolezze delle persone che erano state care o dalle quali si erano forse ricevuti anche dei dispiaceri. Perché non ci si poteva preoccupare di loro? Perché non cercare di fare loro del bene anche al di là della tomba, di accorrere in loro aiuto, laddove possibile, nel difficile viaggio delle anime?


Qui si fa evidente un sentimento antico dell'umanità, che ha trovato molteplici espressioni nei culti degli antenati e dei morti lungo tutta la storia dell'umanità. La fede cristiana non ha affatto negato valore a tutto ciò, ma ha cercato di purificare questo sentimento e di farlo emergere nel suo senso più autentico. «Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore», dice Paolo (Rm 14,8). Questo significa: il vero limite non è più la morte, ma l'appartenere o il non appartenere al Signore. Se gli apparteniamo, allora siamo vicini gli uni agli altri per mezzo di lui e in lui.


Per questo - era la conseguenza logica - c'è un amore che va al di là dei limiti della morte. Così, a chi chiedeva se qualcosa della forza donata dal perdono potesse essere comunicato anche all'aldilà, veniva risposto di sì, con la formula per modum suffragii - per mezzo della preghiera. La preghiera per i defunti, da sempre appartenente alla Chiesa, guadagnava così una particolare intensità. E questa promessa fu proprio ciò che fece dell'indulgenza un grande invito alla preghiera, al di là di tutti gli abusi e di tutti gli equivoci.


Qui devo aggiungere che nel corso del tempo l'indulgenza in un primo momento riservata solo al luogo della Porziuncola, fu poi estesa prima a tutte le chiese francescane e, infine, a tutte le chiese parrocchiali per il 2 agosto. Nei ricordi della mia giovinezza il giorno del perdono d'Assisi è rimasto come un giorno di grande interiorità, come un giorno in cui si ricevevano i sacramenti in un clima di raccoglimento personale, come un giorno di preghiera. Nella piazza antistante la nostra chiesa parrocchiale in quel giorno regnava un silenzio particolarmente solenne. Entravano e uscivano in continuazione persone dalla chiesa. Si sentiva che il cristianesimo è grazia e che questa si dischiude nella preghiera.


Indipendentemente da ogni teoria sull'indulgenza, era quello un giorno di fede e di silenziosa speranza, di una preghiera che si sapeva certamente esaudita e che valeva soprattutto per i defunti.


Nel corso del tempo, tuttavia, a tutto questo si aggiunse un'altra idea, che oggi può apparirci alquanto estranea, ma che, peraltro, contiene un'importante verità. Quanto più l'indulgenza veniva intesa come un porsi a sostegno degli altri, tanto più si faceva strada un altro concetto, che dava un fondamento teologico a questa nuova forma e, nel contempo, la avviava verso sviluppi ulteriori. La preghiera indirizzata all'altro mondo implicava necessariamente l'idea della comunione dei santi e della comunicazione dei beni spirituali.


A questo punto vi chiederete ancora una volta: ma che cosa significa tutto questo? non si tratta forse di un insensato mercantilismo religioso? La domanda si fa più acuta se si tiene conto che si parlava proprio di tesoro della Chiesa, che consisteva nei meriti accumulati dai santi. Che cosa si intendeva dire? Non è forse vero che ognuno deve rispondere personalmente di se stesso? Che significato possono avere per me le buone opere compiute da un altro? Sono queste le domande che ci poniamo, perché, malgrado tutti gli ideali socialisti, continuiamo a vivere del meschino e ristretto individualismo dell'epoca moderna. In realtà, però, nessun uomo è chiuso in se stesso. Ciascuno di noi vive in rapporto con gli altri e dipende dagli altri, non solo dal punto di vista materiale, ma anche da quello spirituale, culturale e morale.


Cerchiamo di esemplificare questo concetto cominciando dal suo versante negativo. Vi sono persone che non distruggono solo se stesse, ma portano alla rovina anche gli altri, lasciando dietro di sé forze di distruzione che spingono verso il negativo intere generazioni. Se pensiamo ai grandi seduttori del nostro secolo, sappiamo quanto ciò sia reale. La negazione di uno diventa una malattia contagiosa, che coinvolge anche gli altri.


Ma, grazie a Dio, ciò non vale solo per il negativo. Vi sono persone che lasciano dietro di sé una sorta di sovrappiù d'amore, di dolore sofferto e vissuto fino in fondo, di letizia, sincerità e verità, che prende anche gli altri, li accompagna e li sostiene. Esiste davvero qualcosa come la sostituzione vicaria nel più profondo dell'esistenza. Tutto il mistero di Cristo poggia proprio su questo.


Ora si può dire: bene, è così. Ma allora basta il sovrappiù dell'amore di Cristo, non c'è bisogno d'altro. Lui solo libera e redime, tutto il resto sarebbe presunzione, come se noi dovessimo aggiungere qualcosa all'infinità del suo amore con la nostra finitudine. È vero, ma non è vero del tutto. Infatti la grandezza dell'amore di Cristo è tale che non ci lascia nella condizione di chi riceve passivamente, ma ci coinvolge fino in fondo nella sua opera e nella sua passione. Lo afferma un celebre passo della lettera ai Colossesi: «Compio nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo, per il suo corpo» (Col 1,24).


Ma vorrei far riferimento anche a un altro passo neotestamentario, in cui mi pare che questa verità sia espressa in modo meraviglioso. L'Apocalisse di san Giovanni parla della sposa, la Chiesa, in cui è raffigurata l'umanità salvata. Mentre la meretrice Babilonia appare vestita di abiti e ornamenti lussuosi e appariscenti, la sposa indossa solo una semplice veste di lino bianco, sia pure di quel bisso puro e splendente che è particolarmente prezioso. In proposito il testo osserva: «Questa veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8). Nella vita dei santi viene tessuto questo radioso bisso bianco, che è l'abito dell'eternità.


Usciamo dalla metafora: nell'ambito spirituale tutto appartiene a tutti. Non c'è nessuna proprietà privata. Il bene di un altro diventa il mio e il mio diventa suo. Tutto viene da Cristo, ma poiché noi gli apparteniamo, anche ciò che è nostro diventa suo ed è investito di forza salvifica. È questo ciò che si intende con le espressioni «tesoro della Chiesa» o «meriti» dei santi.


Chiedere l'indulgenza significa entrare in questa comunione di beni spirituali e mettersi a propria volta a sua disposizione. La svolta nell'idea di penitenza, che ha avuto inizio alla Porziuncola, ha conseguentemente portato a questo punto: anche spiritualmente nessuno vive per se stesso. E solo allora la preoccupazione per la salvezza della propria anima si libera dall'ansia e dall'egoismo, proprio perché diventa preoccupazione per la salvezza degli altri.


Così la Porziuncola e l'indulgenza che da lì ha avuto origine diventa un compito, un invito a mettere la salvezza degli altri al di sopra della mia e, proprio in questo modo, a trovare anche me stesso. Si tratta di non chiedere più: sarò salvato? ma: che cosa vuole Dio da me perché altri siano salvati?


L'indulgenza rinvia alla comunione dei santi, al mistero della sostituzione vicaria, alla preghiera come via per diventare una cosa sola con Cristo e con il suo volere. Egli ci invita a partecipare alla tessitura dell'abito bianco della nuova umanità, che proprio nella sua semplicità è la vera bellezza.


L’indulgenza in fondo è un po' come la chiesa della Porziuncola: come bisogna percorrere gli spazi piuttosto freddi ed estranei del grande edificio per trovare al suo centro l'umile chiesetta che tocca il nostro cuore, così occorre attraversare il complesso intreccio della storia e delle idee teologiche per giungere a ciò che è davvero semplice: alla preghiera, con cui ci lasciamo cadere nella comunione dei santi, per cooperare con essi alla vittoria del bene sull'apparente onnipotenza del male, sapendo che alla fine tutto è grazia.

           
Caterina63
00lunedì 11 gennaio 2010 09:40
 

E Alessandro VI rimase ortodosso tra gli eretici

Un’indagine sui libri riguardanti Rodrigo mostra il carattere pretestuoso della maldicenza sul pontefice

N
essuno più di papa Alessandro VI (Rodrigo Bor­gia) ha incarnato lo stato deplorevole in cui ver­sava la Chiesa del Rinascimento, quando la di­sciplina dei preti era tragicamente trascurata; e gli affa­ri politici e bellici assorbivano l’impegno di papi che do­vevano reggere lo Stato della Chiesa.

Quando salì al soglio di Pietro, Rodrigo – prima cardi­nale rispettato – divenne personaggio criticatissimo. Dopo la sua morte fu additato dai protestanti come e­sempio della corruzione di Roma « Grande Babilonia » . Nei secoli, al castello d’accuse (fondate o infondate), si aggiunsero colpe più esecrabili, dall’incontinenza ses­suale alla simonia, al nepotismo, per arrivare all’ince­sto con la figlia Lucrezia, agli omicidi politici e alle tor­ture inflitte. Nel romanzo popolare, Rodrigo Borgia e i suoi figli divennero la quintessenza del Rinascimento i­taliano lussurioso e venefico.

Appare come villain per­fetto in tanti B- movie e fumetti neri, sino al recente ro­manzetto

L’apprendista di Venezia di Newmark Elle (e­dito da Longanesi: da segnalare la quantità imbaraz­zante di svarioni storici) dove tesse trame, fa sparire van­geli gnostici, brucia eretici, ordina omicidi e, per regge­re tanto attivismo, divora… « bistecche di leone » .

Insomma, Alessandro VI primeggia per presenza sceni­ca e golosa propensione alla nefandezza. Ma è questa la vera immagine di Rodrigo o dobbiamo pensare che di lui si sia impadronita una « leggenda nera » che ha ac­centuato i tratti negativi portandoli all’assurdo? Proba­bilmente sì, come ci convince la lettura di un esame ra­gionato della storiografia dedicata al Borgia, La leg­genda nera di papa Borgia ( Fede & Cultura, pp. 256 € 20,00) di Lorenzo Pingiot­ti.

Se gli storici hanno aspor­tato strati di nero al ritrat­to di questo personaggio non è per obbligato revi­sionismo ma per la forza intrinseca dei documenti. Alessandro VI non fu un modello di virtù e non fe­ce onore all’altissima di­gnità cui fu chiamato, ma nemmeno fu un mostro folle. Nel conclave del 1492 dal quale uscì vitto­rioso non compaiono se­gni di simonia. La sua ele­zione fu una sorpresa, de­rivò da calcoli diplomatici estemporanei ma urtò a­spettative di stati potenti come la Francia. Cosicché, voci di « acquisto » della di­gnità pontificale furono insinuate da subito, comin­ciando da Francesco Guicciardini, politicamente av­verso al partito catalano del Borgia. E tuttavia – argo­menta Pingiotti – tale accusa appare oggi infondata al­l’esame dei documenti.

 E il nepotismo?
Quello ci fu, eccome. Ma nell’intricatis­simo Quattrocento era pratica comune.
Gli eletti prefe­rivano circondarsi di persone fidate, meglio se vincola­te da legami di sangue. Di questa pratica non fu certo Alessandro VI l’inventore. I catalani Borgia insidiavano le grandi famiglie baronali romane degli Orsini, Colon­na, Savelli e Caetani, e questi contrattaccarono produ­cendo libelli, calunnie, comprendenti omicidi e orge li­cenziose. Ebbe tre figli dall’amante da cardinale, giac­ché il cardinalato era da molti considerato una carica amministrativa che poteva essere accolta con il sem­plice diaconato e non vincolava al celibato.

A tali ambi­guità avrebbe posto fine il Concilio di Trento, che però nel 1492 era ancora in
mente Dei.
Se nessuno storico crede più alla calunnia del rapporto incestuoso con Lu­crezia, anche il suo presunto ricorso al veleno per risol­vere controversie politiche appare una leggenda. Dun­que, alla conta dei fatti, Alessandro VI fu più principe che pastore e non è certo una novità. Piuttosto, va notato un altro aspetto, questo misterioso: in papi come lui, che vissero in tempi nei quali dignità vescovili venivano u­sate come merce di scambio, meraviglia la capacità di tenere diritto il timone dell’ortodossia, di non cedere mai all’eresia diffusissima.

(Mario Iannaccone, Avvenire 7/1/2010 p. 30)

Caterina63
00lunedì 15 luglio 2013 21:18

La verità sui Borgia al di là della leggenda nera

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Tornano i Borgia in televisione, ma è soltanto la riproposizione della leggenda nera, priva di ogni evidenza storica e degli aspetti decisamente positivi del pontificato di Alessandro VI.



In onda su La7 la serie è quella creata da Neil Jordan e si concentra su quel che vuole la vulgata: corruzione, minacce, omicidi e veleni. Lo stesso Jordan tuttavia ha riconosciuto che «i Borgia furono vittime di cattiva pubblicità, storia raccontata a posteriori proprio dai seguaci del cardinale della Rovere. Li dipinsero peggiori di quel che furono. Certo non erano santi. Ma uomini e donne della loro epoca». Dunque le falsità trasmesse non sono per ignoranza storica, ma per semplice ideologia anticattolica.

Un duro articolo è arrivato da Franco Cardini, ordinario di storia presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Sum), il quale ha spiegato che fu Elisabetta I, figlia di Enrico VIII (fondatore dell’anglicanesimo) ad «inventare in un sol colpo due ”Leggende nere” destinate a durare nel tempo: quella contro la Spagna cattolica rea di ogni infamia e quella contro il papato eterno nemico di qualunque verità e libertà. I protestanti hanno bruciato molte più streghe dei cattolici ma ancora oggi nelle nostre scuole si continua a insegnare che uniche e responsabili di quei massacri furono la Chiesa e l’Inquisizione».

Il prof. Cardini parla di “polpettone televisivo”: «sangue e sesso nel XV-XVI secolo: che volete di più? Con i soliti luoghi comuni, in parte puramente calunniosi, in parte spezzoni di verità cronistica montati alla rinfusa e cuciti insieme per squadernarci davanti una storia vista dal buco della serratura, tutta vizio prepotenza e intrighi, in cui non ci si cura affatto di situare quel che si narra nel contesto degli eventi e nel quadro socio culturale del tempo». Le vicende del papato di Alessandro (Rodrigo Borgia) e della morte di Lucrezia sono state criticate a lungo (giustamente o meno), i protestanti vollero usarli come esempio della corruzione di Roma, aggiungendo le fantasie più perverse contro Alessandro VI: incontinenza sessuale, simonia, incesto con la figlia Lucrezia, omicidi politici e torture inflitte.

Papa Borgia non fu certo un modello di virtù e non fece onore all’altissima dignità cui fu chiamato, ma nemmeno fu quello che viene detto di lui. Era incline alla lussuria, ma anche molto devoto alla Madonna, alla preghiera, quando i reali spagnoli decisero il primo pogrom della storia, lui non fece mancare agli esuli ebrei ospitalità. La sua elezione urtò le aspettative della potente Francia e da subito vennero fatte circolare maldicenze (simonia ecc.), cominciando da Francesco Guicciardini, politicamente avverso al partito catalano del Borgia. Il nepotismo fu presente, ma nel Quattrocento era pratica comune, ci si preferiva circondare di persone fidate. I catalani Borgia, spiega Mario Iannacone recensendo il volume La leggenda nera di Papa Borgia (Fede&Cultura 2009) di Lorenzo Pingiotti, insidiavano le grandi famiglie baronali romane degli Orsini, Colonna, Savelli e Caetani, e questi contrattaccarono producendo libelli, calunnie, comprendenti omicidi e orge licenziose.

Nessuno storico, in ogni caso, sostiene più le accuse di incesto e ricorso al veleno per risolvere controversie politiche. Alessandro VI fu più principe che pastore e non è certo una novità, tuttavia gli va riconosciuta una lungimiranza teologica e disciplinare. Lo ribadisce il prof. Cardini, citando una bella pubblicazione scientifica dell’Istituto storico italiano per il Medioevo. Eppure, si lamenta, «nel polpettone televisivo scompare qualunque altro aspetto. Papa Borgia fu un uomo del suo tempo ma anche un papa straordinario: avviò la riforma degli ordini religiosi, mostrando di aver compreso i mali della Chiesa del tempo (quelli che avrebbero condotto alla rivolta di Lutero); sistemò la contesa ispano-portoghese dopo la scoperta del Nuovo Mondo, imponendosi per una versione equilibrata del problema».

Alessandro VI, ha proseguito Cardini, «fu uno statista accorto che, riordinando l’amministrazione, le finanze e l’istituzione dello Stato della Chiesa e ponendo fine a molti abusi, dette da competente un energico impulso agli studi di diritto canonico, necessario per il riordino della gerarchia; fu paziente perfino dinanzi agli attacchi di Gerolamo Savonarola, che infatti fu vittima degli odii delle fazioni fiorentine più e prima che della sua volontà».

Nella fiction non si parla nemmeno della seconda parte della vita di Lucrezia, intensa e ricca spiritualmente, con diverse «prove di generosità e di autentica pietas religiosa che sono state sottolineate da un’altra studiosa, Gabriella Zarri. Infatti Lucrezia morì nella fede, terziaria francescana e amica dei poveri». Qui la descrizione della vera morte di Lucrezia. Nella serie televisiva, conclude Cardini, «tutto viene macinato e sepolto nella valanga di luoghi comuni e calunnie, che per giunta — c’è da giurarci — saranno salutate come oro colato da un branco di teledipendenti. Dal semplice punto di vista storico, la fiction è un colabrodo di errori e di sciocchezze» (l’elenco di errori è presente anche su Wikipedia).

Lo storico Mario Dal Bello ha recentemente pubblicato il saggio divulgativo “I Borgia. La leggenda nera“ (Città Nuova 2012), il quale ha spiegato che la leggenda nera nasce perché «i primi a raccontare la vicenda dei Borgia furono essenzialmente i loro denigratori; perché a Lucrezia, colta (parla il latino) bionda e bella piaceva la vita mondana; perché a mettere in giro la peggiore delle maldicenze su di lei fu il suo primo marito, Giovanni Sforza».

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