Il Magistero dei Pontefici sull'Evangelizzazione

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Caterina63
00sabato 26 novembre 2011 18:41

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Benedetto XIV
Gravissimum supremi

8 settembre 1745


Il ponderoso ministero del Supremo Apostolato, che Ci fu conferito senza merito, richiede soprattutto due elementi: primo condurre ad abbracciare la Santa Religione quei popoli che non l’hanno mai ricevuta o che dopo averla ricevuta, per una misera, infelice sciagura, la perdettero; secondo, che la Religione stessa acquisita venga diligentemente mantenuta in quei luoghi nei quali è conservata integra per Divina Provvidenza. Inoltre, col nome di Religione non intendiamo soltanto quelle verità che necessariamente dobbiamo tenere per fede per giungere a salvezza, ma anche quei principi che si devono manifestare coi fatti per mostrare vita e costumi consentanei alla Religione cristiana e per conseguire, dopo il percorso di questa vita, la beata felicità in cielo.

1. In verità i Romani Pontefici Nostri Predecessori, per rispondere a questo dovere, scelsero in ogni epoca uomini eminenti per pietà e dottrina per diffondere in ogni continente la Fede Cattolica; aderendo ai loro esempi, secondo la pochezza delle nostre forze e le difficoltà dei tempi, Noi abbiamo mantenuto la stessa linea. In secondo luogo i Romani Pontefici misero sempre ogni cura per suscitare la disciplina dei costumi e la santità decaduta in talune Diocesi; non stimavano sufficiente lo zelo del solo Vescovo e la sua attività di organizzatore. Infatti, o inviarono in quelle Diocesi Visitatori Apostolici, o usarono altri rimedi che sembravano più idonei. Anche Noi abbiamo seguito lo stesso pensiero ogni volta che giunsero alle nostre orecchie le lamentele dei fedeli affinché con lo zelo attenuassimo le note negligenze prima di presentarci al Giudice Supremo. Infatti, spesso abbiamo designato Visitatori muniti di autorità pontificia che riconducessero alla pristina disciplina, dove fosse necessario. Demmo molti messaggi a Vescovi particolari, a molti o a tutti per sollecitare il loro zelo; abbiamo preso altri provvedimenti o iniziative, che qui è inutile elencare.

2. Dopo di che, non possiamo nascondere che Noi abbiamo cercato nelle vostre città onesti cittadini, ma abbiamo trovato che parecchi erano smarriti, soprattutto in montagna, separati dalle vostre sedi, e trascorrono una vita lontana da ogni virtù. Essi, se non si allontanano dalla Fede, come speriamo, tuttavia coi costumi corrotti, e con le conseguenze che ne derivano, attirano contro di sé l’ira divina e si affrettano verso la morte senza prima aver mostrato degni frutti di penitenza.

3. Questo richiede soprattutto la vostra e la Nostra diligenza, affinché in così grave situazione non sembriamo oziosi e pigri. Perciò a lungo abbiamo pensato ai rimedi opportuni, e per prima cosa Ci siamo affidati a Dio, padre della luce; poi abbiamo rivolto le Nostre preghiere alla Beata Vergine nel cui giorno natalizio abbiamo redatto questa lettera. Poi abbiamo creduto bene di dover esortare Voi ad eseguire con tenacia, per il bene delle vostre Diocesi, ciò che vi abbiamo sottoposto.

4. In questo tempo Noi stessi, con incarichi più modesti per parecchi anni, abbiamo esercitato l’ufficio di Promotore della Fede, di cui è proprio, previo accurato esame, soppesare virtù e meriti di coloro che sono da annoverare tra i Santi, e in quel tempo per più anni appartenemmo al Segretariato della Sacra Congregazione dei Cardinali interpreti del Concilio di Trento, che in virtù del loro incarico cercano in ogni modo di togliere di mezzo la corruzione che insidia le Diocesi.

Inoltre, avendo conosciuto in quel tempo, per familiare consuetudine, molti Vescovi eminenti per profonda dottrina e per zelo di pietà, e avendo tenuto inoltre, prima del Pontificato, la sede di Ancona ed essendo stato trasferito alla sede di Bologna (la cui Amministrazione abbiamo portato avanti con la Sede pontificia), Ci siamo fermati in essa oltre un decennio. Ammaestrati dalla lunga esperienza, abbiamo capito che a correggere i corrotti costumi, che cominciano a serpeggiare e che già vigoreggiano, o confermati dal tempo occupano troppo largamente le Diocesi, nulla giova di più che implorare l’aiuto e le forze altrui, e cioè indire dovunque le Sacre Missioni, soprattutto in quelle zone che più sono separate dalla Città.

5. I Missionari giustamente sono paragonati all’apostolo Giovanni e ai suoi colleghi che furono chiamati da un’altra imbarcazione per dare una mano a Pietro e ad Andrea, che tribolavano nel mare o perché non potevano, per l’abbondanza del pescato, tirare a secco le reti, come si sa dal Vangelo di Luca, che Maldonato commenta così: "I Pastori della Chiesa, quando da soli non bastano alla carica imposta o solo accettata, devono chiamare altri da cui possano essere aiutati". La stessa cosa, prima di Maldonato, aveva notato Giansenio (Concordanze Evangeliche, cap. 25).

6. Quando facemmo il Promotore della Fede, esaminammo le virtù e le cose prodigiose compiute dai servi di Dio Giovenale Ancina, Vescovo di Saluzzo; Cardinale Roberto Bellarmino, Arcivescovo di Capua; Alessandro, prima Vescovo di Saulo e poi di Pavia, che Noi dichiarammo beato in forma solenne; e infine dai santi Vincenzo de’ Paoli e Giovanni Francesco Regis, che i Papi Nostri Predecessori regolarmente iscrissero nell’albo dei Santi. Pertanto, meditando le egregie imprese di questi uomini eminenti, una gloria incredibile era derivata ai primi tre nell’amministrare la cura delle anime, soprattutto per questa ragione, che posero ogni sforzo perché si facessero le Sacre Missioni nelle loro Diocesi.

I due poi che abbiamo nominati per ultimi furono trovati pieni d’amore verso Dio e verso il prossimo; e soprattutto San Vincenzo de’ Paoli sentì tale carità al punto da istituire la Congregazione dei Missionari ed egli stesso, finché glielo permise la salute, esercitò le stesse Missioni. Anche Giovanni Regis mostrò pubblicamente d’essere divorato dal sacro fuoco della carità con cui non esitò affrontare monti asperrimi e difficili per istruire popolazioni ignare della dottrina e dei costumi cristiani, tutte le volte che lo richiedeva il Vescovo o il suo sostituto.

7. Del pari non ignorate che è nel costume dei Vescovi, in tempi stabiliti, riferire alla Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento sulle proprie Chiese ed esibire chiaramente il loro stato. Pertanto, essendo Noi stessi Segretario, tutte le volte che in una Diocesi si riferiva essere state indette le Missioni per comando della Congregazione stessa o dei Sommi Pontefici, lodammo molto nelle risposte queste decisioni, che si era soliti inviare ai Vescovi, e non dimenticammo di esortarli a proseguire la lodevole iniziativa. Non una sola volta ci fu ordinato di redarguire Vescovi che non chiamarono i pii Missionari per risvegliare nel Popolo la pietà languente come essi stessi riferivano, e per sollecitare la disciplina fra gli Ecclesiastici, e in ambedue i casi per frenare la facilità di peccare congiunta con lo scandalo.

8. È stata stampata la storia delle imprese di Benedetto XIII, benemerito verso di Noi, ornamento della Vostra Nazione e Arcivescovo per molti anni della Chiesa di Benevento. Parimenti è stata stampata la vita del Cardinale Inigo Caracciolo, che occupò la sede di Aversa con grande esempio di virtù, e del Vescovo De Cavalieri, che amministrò la Chiesa di Troia con grande pietà e zelo religioso. Se non li avete mai avuti davanti agli occhi o in seguito vi proporrete questi libri, capirete subito quali grandi frutti vennero loro ed ai popoli loro affidati dalle Missioni che organizzarono nelle rispettive Diocesi. Noi in verità abbiamo letto accuratamente queste storie e con gran piacere abbiamo seguito la divulgazione a stampa di tutto quello che quegli uomini celeberrimi spesso spiegarono a Noi, mentre ancora erano in vita. Infatti Benedetto XIII, quando era Pontefice, sempre usò della nostra opera. Gli altri che ora abbiamo nominato non una volta sola ebbero bisogno di parlare con Noi, e a loro demmo lettere, con le quali fosse facilitata la loro Missione.

9. Da ultimo Noi stessi abbiamo scoperto l’utilità e la necessità delle Sacre Missioni, tutte le volte che le facemmo nella Diocesi di Ancona, nel tempo in cui ci fu affidata, e quando Noi amministrammo di presenza la Chiesa di Bologna. Ed anche ora ci facciamo parte diligente perché le stesse Missioni sono indicate da colui che, secondo le norme, ci sostituì e seguì i consigli da Noi prescritti. Allora vedemmo essere conforme a verità quello che il gesuita Paolo Segneri, oratore, scrittore, famosissimo per le sue Missioni, lasciò scritto: "In tempo di Missioni si possono chiamare tanti predicatori di merito quanti, animati dalle pie esercitazioni, sono infiammati alla confessione; col loro esempio attraggono altri ad esercitare la stessa virtù. Da quelle Missioni deriva un frutto maggiore se il popolo è intervenuto con maggiore frequenza; per questa ragione più aumenta l’intensità del fuoco se nello stesso luogo si ammassano più carboni".

10. Da ultimo si può dire che questo rimedio che si propone di correggere i vizi del popolo non è nuovo, né incerto, né inventato da Noi. È un rimedio antico, adattissimo per curare i mali e forse unico, poiché tanti Vescovi insigni per la loro pietà lo usarono con grande utilità nelle loro Diocesi. Noi stessi lo abbiamo provato tante volte, e anche Voi che senza dubbio avete rieducato il Popolo a Voi affidato con le Sacre Missioni.

11. Ma perché questo rimedio non manchi della sua efficacia, si deve pregare molto Dio perché "non chi pianta è qualcuno, né chi irriga, ma chi fa crescere Dio" (1Cor 3,7). Quindi si devono scegliere Missionari eminenti per dottrina e che istruiscano la gente con cura. Poiché a ragione supponiamo, e lo scriviamo non senza lacrime e tristezza, che molte anime fra quelle che a Noi e a Voi furono affidate, siano precipitate verso la perdizione, dirò, come dicono i Teologi, che esse ignorarono del tutto le cose necessarie per mancanza del mezzo. Si devono chiamare Missionari che dopo aver richiamato il popolo per i peccati e gli scandali, ne mostrino la gravità e la malizia con le loro prediche, e li possano riprendere fortemente. Ci consta per la testimonianza di San Marco, cap. 3, ove Cristo sceglie gli Apostoli per mandarli a predicare (Mc 3,15).

Lo stesso si desume dagli Atti degli Apostoli, c. 6, dove attestano che la predicazione della parola è come peculiare incarico a loro affidato: "Non è giusto che noi abbandoniamo la parola di Dio e serviamo alle mense" (At 6,2). La stessa cosa insegna San Paolo nella Prima ai Corinzi: "Cristo non mi mandò a battezzare, ma ad evangelizzare" (1Cor 1,17), e nell’epistola 2 a Timoteo: "Attesto davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti: per il suo avvento e per il suo regno predica la parola, insisti opportunamente e inopportunamente" (2Tm 4,1-2).

12. Inoltre i Missionari, col metodo della loro vita e con l’esempio, devono infervorare il popolo alla virtù. "In ogni circostanza offri te stesso come esempio di buone opere" dice lo stesso Apostolo a Tito (Tt 2,7). San Luca negli Atti degli Apostoli testimonia che Cristo Signore "cominciò a fare e a insegnare" (At 1,1). Da ultimo è necessario che i Missionari si dedichino completamente a Dio, né nutrano alcun desiderio di vanagloria mentre attendono ad istruire il popolo, o speranza di guadagno, anche modesto. Sappiamo infatti che le Missioni hanno recato gran frutto, quando San Carlo teneva la sede di Milano. Questo accade anche ora per opera e virtù degli Oblati, che egli istituì, e che si chiamano "di Sant’Ambrogio". Infatti, oltre al resto, hanno prescritto questo: di non recare incomodo a nessuno e di non essere spinti da alcuna ragione a prendere alcunché in dono, come si apprende chiaramente dagli Atti della Chiesa Milanese (stampati nel 1599, par. 5, p. 841).

Volgete il pensiero a San Giovanni Crisostomo, che nell’Omelia 46 sopra Matteo dice che tutto il mondo fu portato dagli Apostoli dall’errore alla verità, dalla vecchia superstizione ad abbracciare la verità cristiana, non perché avessero richiamato i morti a nuova vita, ma perché avevano liberato l’anima da ogni passione e dall’avarizia: "Che cosa, infatti, li fa apparire grandi? Il disprezzo del denaro, della gloria, l’esenzione da tutte le preoccupazioni della vita; se non avessero avuto ciò, anche se avessero resuscitato i morti, non solo non avrebbero giovato a nessuno, ma sarebbero stati giudicati degli imbroglioni" (Giovanni Crisostomo, Om. 46 sopra Matteo).

13. La città di Napoli accoglie gran numero di Ecclesiastici, che si raccomandano assai per pietà, dottrina ed esperienza in fatto di Missioni. Sono piene di siffatti uomini le Congregazioni della Sede Arcivescovile di padre Pavone, e di Sacerdoti che prendono il nome da San Gregorio, che si chiamano Pii Operai. Inoltre non mancano abitazioni di Sacerdoti che seguono la Congregazione di San Vincenzo de’ Paoli. La messe è molta e gli operai sono sufficienti, se verranno distribuiti così come lo richiedono l’utilità e la necessità della popolazione.

14. Userete il Nostro Diletto Figlio card. Spinello, Arcivescovo di Napoli, sulla cui responsabilità sarà da farsi ogni cosa; per questa ragione gli inviamo una Nostra Lettera nella quale gli chiediamo di prendere codesta zona e gli diamo facoltà di assumere, in un affare così importante, altri aiutanti o chi provveda per lui, dal momento che non ci sfugge da quali pesanti preoccupazioni sia gravato e quali dolori abbia affrontato e affronti, perché la Vigna del Signore sia convenientemente coltivata. Se alcuno di Voi chiede le Missioni, vada dallo stesso Cardinale, che designerà Sacerdoti adatti come richiederà il bisogno; fisserà il loro numero e assegnerà il tempo, perché vengano portate a termine le Missioni. Infatti egli, saggio com’è, capirà che nel medesimo tempo non si può fare tutto.

15. I Missionari hanno bisogno di facoltà straordinarie, che daremo volentieri attingendo dal tesoro della Chiesa, perché essi compiano felicemente l’importantissima opera. Indicheremo queste facoltà al cardinale Spinello, perché i Missionari, recandosi da lui oppure da altri sostituti, ottengano facilmente quello che più conviene alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime.

16. Comprendiamo le difficoltà che freneranno i Missionari dal recarsi presso i Sanniti e i Calabri. Tuttavia, essendovi in quei luoghi i Padri Domenicani e i Gesuiti, i loro Generali per ordine Nostro raduneranno i Provinciali, affinché scelgano alcuni tra i loro uomini, che colà facciano le Missioni, senza alcun compenso da parte del clero o dei pubblici amministratori, quando faranno le Missioni. I loro nomi saranno comunicati al cardinale Spinello, a cui si rivolgeranno i Vescovi del Sannio e della Calabria, affinché le Missioni si svolgano regolarmente nelle loro Diocesi, come fuor di dubbio confidiamo accadrà nelle altre Diocesi che non sono molto lontane dalla città di Napoli.

17. Ma ci sembrerebbe inutile ogni nota, per l’esimia pietà e religiosità del Carissimo Nostro Figlio in Cristo, Carlo, Re delle Due Sicilie, se non vi ammonissimo a chiedere allo stesso Re di interporre generosamente la sua autorità, se sarà necessario, per fare regolarmente le Missioni. Infatti è noto a Noi per esperienza, né a Voi certamente è nascosto, che nulla già in passato fu a lui proposto nel Regno che non potesse soprattutto servire alla gloria di Dio.

18. Poniamo fine a questa Lettera, perché non sembri un po’ troppo lunga, mettendovi sotto gli occhi l’esempio del Santo Re Giosafat. I Sacerdoti, come ministri, andavano incontro al Re vincitore e "insegnavano al popolo di Giuda avendo il libro della legge del Signore, e percorrevano tutte le città di Giuda ed erudivano il popolo" (2Cr 17,9). Né bastò al Re l’opera dei Sacerdoti, ma egli stesso si recò presso il popolo di Bersabea "fino al monte Efraim e li richiamò al Signore, Dio dei loro padri" (2Cr 19,4), come viene detto al cap. 19.

Stabilite di imitarlo; e non solo mandate i Sacerdoti attraverso le Diocesi, ma voi stessi percorretele tutte le volte che problemi più gravi ve lo permettano. Così il popolo, toccato dalla vostra presenza e dalla vostra virtù, sarà più infervorato ad imboccare la strada del Signore. Se c’è da sopportare qualche incomodo, commuoverete Dio più facilmente a questa condizione, che non vi faccia pagare per la negligenza con cui trascuraste di visitare la Diocesi – restando in Sede – quando era necessario: ciò che sappiamo per certo essere accaduto ad alcuni di voi.

E non mancheranno i provvedimenti della Provvidenza Apostolica a questo male che si trascina nel tempo. Frattanto non tralasceremo di ricordare Voi e il vostro gregge, tutte le volte che celebreremo all’altare.

A Voi e al Popolo affidato alle Vostre cure, impartiamo di cuore la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, l’8 settembre 1745, anno sesto del Nostro Pontificato.


Caterina63
00domenica 27 novembre 2011 09:40

Per riscoprire il Primo Amore


 

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Il Cardinale Tarcisio Bertone

 

invita il CCEE a riaccendere i cuori


 

ROMA, sabato, 26 novembre 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo l’Indirizzo di saluto del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, svolto il 22 novembre a Roma, nella Sala San Pio X, in occasione dell’incontro del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

***

Sono lieto di rivolgere un cordiale saluto a tutti voi all’inizio di questa mattinata. Lo porto soprattutto a nome di Sua Santità, il quale ha ben apprezzato l’iniziativa odierna, come un passo ulteriore nel cammino della nuova evangelizzazione dell’Europa. Saluto e ringrazio in particolare il Cardinale Erdö e Monsignor Fisichella, augurando ogni bene per il prezioso servizio che offrono insieme con i loro validi collaboratori.

(..) Una priorità per il CCEE è stata fin dall’inizio la nuova evangelizzazione, e giustamente la ricorrenza del 40° ha invitato a riprenderla e rinnovarla. Essa sta particolarmente a cuore al Santo Padre Benedetto XVI.

La specificità della nuova evangelizzazione la differenzia dall’attività ordinaria della Chiesa e dalla missione ad gentes. Ai battezzati la cui fede si è spenta e che non sono più praticanti, il Vangelo dev’essere annunciato con nuovo ardore, nuovi metodi e nuove espressioni.

L’aggettivo “nuova” non deve però far pensare che sia inutile la riflessione sul passato, e soprattutto l’inestimabile patrimonio di esperienza della Chiesa. [SM=g1740722] 

Dice il Vangelo: “Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Anche nella nuova evangelizzazione c’è bisogno delle cose antiche e nuove del tesoro. Un proverbio latino dice: “Tempora mutantur et nos mutamur in illis”; perciò dobbiamo estrarre dal tesoro sempre anche cose nuove.

La nuova evangelizzazione avviene in un mondo che cambia. Nei nostri giorni dobbiamo parlare di Dio in un contesto spesso indifferente e talvolta ostile. Lo ha ricordato il Santo Padre nel suo discorso del 15 ottobre scorso in Aula Paolo VI. Ma Egli non ha posto l’accento su questo aspetto negativo, bensì sulla fiducia nella Parola di Dio che – ha detto – “nonostante questa condizione dell’uomo contemporaneo … continua a crescere e a diffondersi” (L’Oss. Rom. 17-18 ottobre 2011, p. 7). E ha portato tre motivazioni: la prima è che “la forza della Parola non dipende anzitutto dalla nostra azione, … ma da Dio”; la seconda è che anche oggi non manca il “terreno buono” che permette al seme della Parola di portare frutto; e la terza è che “l’annuncio del Vangelo è veramente giunto fino ai confini del mondo e, anche in mezzo a indifferenza, incomprensione e persecuzione, molti continuano anche oggi, con coraggio, ad aprire il cuore e la mente per accogliere l’invito di Cristo” (ibid.).

Fiducia in Dio, dunque, e nella sua Parola, insieme con sano realismo, che chiede di riconoscere gli ostacoli, di cercare di smontare i pregiudizi, di preparare quanto meglio possibile il terreno prima di gettare il seme del Vangelo.

Nell’Europa di oggi è sempre più difficile distinguere tra verità, errori e menzogne. Un certo pluralismo non vuole permettere che si distingua tra il bene e il male. Accanto ad una sana laicità è presente un laicismo intollerante. Il principio della non discriminazione spesso viene abusato come arma nel conflitto dei diritti per costruire una dittatura del relativismo che tende ad escludere Dio, la dimensione comunitaria e pubblica della fede o la presenza di simboli religiosi, e che si pone in aperto conflitto con i valori cristiani tradizionali: contro il matrimonio tra un uomo e una donna, contro la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale.

Anche i mezzi di comunicazione sono in rapido mutamento, non soltanto quantitativo, ma anche qualitativo: nuove forme, nuove possibilità non esenti da nuovi pericoli, e nuove sfide in questo campo, una nuova cultura, in cui chiede di essere posto il lievito del Vangelo. Occorre imparare nuovi metodi, fare un’analisi attenta e approfondita per poter mantenere ciò che è buono e rigettare ciò che è cattivo: questo richiede uno sforzo comune.

Dagli anni Sessanta del secolo scorso abbiamo assistito in tutta Europa ad una “evoluzione critica”, e a volte anche drammatica, dell’esperienza religiosa. Da un lato vi è stata quella che potremmo definire una forma pragmatica di “erosione” culturale e sociale dei valori tradizionali. D’altro canto, però, siamo stati anche testimoni di una inedita ricerca personale, a tratti disorientata, della presenza di Dio, specialmente tra i giovani.

Oggi, in particolare, la crisi economica pone in evidenza l’insostenibilità di un mercato totalmente autoreferenziale e, mentre solleva nuove questioni circa la responsabilità e l’etica dei processi finanziari, ripresenta con stringente attualità una domanda fondamentale di senso circa il destino, la dignità e la vocazione spirituale della persona umana.

La Chiesa intende cogliere positivamente questa sfida, offrendo alla società intera nuove vie di incontro e di dialogo a partire dal Vangelo. Pertanto, la nuova evangelizzazione non è solo un “correre ai ripari”, ma una “nuova primavera”; un mezzo per valorizzare i nuovi germogli che spuntano in un bosco antico.

Nel Libro dell’Apocalisse, la lettera indirizzata all’Angelo della Chiesa di Efeso dice: “Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore” (Ap 2,3-4). [SM=g1740722] 

Il cuore dell’evangelizzazione, in ogni epoca, è questo “primo amore”, che prende vita in ogni nuova generazione, riflesso dell’amore immenso che Dio Padre ha dimostrato per noi donandoci il suo Figlio. I primi cristiani, i martiri e gli altri santi di tutti i tempi – anche del nostro tempo - ne sono testimoni autentici.

Lo splendore dell’arte cristiana e la bellezza della riflessione filosofica illuminata dalla fede ne parlano con eloquenza. L’ineffabile evidenza dell’esperienza mistica annuncia questo amore, questa pace e gioia che superano ogni intelligenza e ogni nostra aspettativa.

Quel “primo amore” è, ai nostri giorni, la forza che muove il cuore e i passi di tanti nuovi evangelizzatori: persone, famiglie, comunità, movimenti ecclesiali, come abbiamo constatato anche nell’incontro del 15 ottobre scorso in Vaticano.

Esso è il tesoro antico e sempre nuovo del Vangelo. Perché l’amore di Dio verso di noi non cambia, non muta la sua Fedeltà e non finisce la sua Misericordia. Quella Fedeltà che, quando Dio domanda: “Chi manderò e chi andrà per noi?”, dà la forza di rispondere: “Eccomi, manda me” (Is 6,8). L’amore di Dio chiama ad una comunione di vita che nasce nel seno della comunità e che si realizza al suo servizio. La nuova evangelizzazione è un tentativo continuo di vivere e annunciare questa vita, è un’intelligenza della fede che sa capire e far capire il legame vitale tra le cose antiche e nuove di quel tesoro che è il Vangelo di Cristo.

Cari Fratelli, in occasione del 40° anniversario del CCEE chiediamo per i Vescovi e per tutta la Chiesa in Europa questa saggezza e creativa fedeltà del “padrone di casa, che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).

Grazie e buon lavoro
!

 

Caterina63
00lunedì 13 febbraio 2012 10:34

VIAGGIO APOSTOLICO AD ISTANBUL, EFESO E SMIRNE

SANTA MESSA NELLA CHIESA DI SANT'ANTONIO AD ISTANBUL

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 26 luglio 1967

 

È grande la Nostra consolazione nel trovarCi questa mattina in mezzo alla fervorosa comunità cattolica di questa splendida città, nel cuore del noto quartiere della via di Pera, ove sorgono anche altre benemerite e attive parrocchie, come quella di Santa Maria Draperis, affidata ai Frati Minori, e di San Pietro, curata dai figli di San Domenico. Desideriamo pertanto esprimervi la pienezza dei Nostri sentimenti, in quest’ora di raccoglimento, durante la celebrazione dei santi Misteri: e porgervi il Nostro saluto e il Nostro incoraggiamento, con parole che vorrebbero effondersi in un colloquio più spiegato e diffuso, se gli impegni di questa giornata pienissima, e conclusiva del Nostro viaggio, Ce ne concedessero la pur desiderata opportunità.

Ma una parola vogliamo dirvela, diletti Figli e Figlie, che vi stringete in preghiera attorno all’altare della Nostra Messa. Anzitutto per esprimere il Nostro compiacimento ai buoni Francescani, i Frati Minori Conventuali, che reggono questa parrocchia, e, nella luce irradiante di Sant’Antonio, ne hanno fatto un centro di viva pietà e di culto devoto. La chiesa ha già di per sé un indiscutibile prestigio, per la solennità composta e maestosa delle sue linee architettoniche, che conciliano il raccoglimento e la preghiera: merito delle anime generose, che ne vollero la costruzione con vero sacrificio. Essa era prediletta dal Nostro compianto Predecessore Giovanni XXIII, il quale, quando qui adempiva il servizio della Sede Apostolica in qualità di Delegato Apostolico, amava soffermarsi e non poche volte vi predicò la novena per la festa del Santo titolare. Caro e buono Papa Roncalli, a cui tanto erano gradite le forme anche più umili della popolare devozione, portandovi il fervore della sua grande anima! Il suo ricordo è, anche qui, imperituro. A tali titoli, che raccomandano questo tempio alla Nostra attenzione, aggiungasi il fatto che la devozione al grande Santo portoghese, divenuto italica gloria per il suo glorioso sepolcro nella omonima basilica di Padova, vi è molto sentita, ed essa oltrepassa perfino la cerchia pur ampia della comunità cattolica. E, nel nome di Sant’Antonio, la grande, la genuina, la vigilante carità che non ha confini, qui ha saputo accomunare e affratellare le anime, di ogni provenienza e convinzione. Onore a voi, figli di San Francesco, onore a voi, sacerdoti e religiosi delle altre parrocchie ed istituzioni cattoliche, che curate gli interessi spirituali in questa nobile terra, col decoro dei sacri riti, col fervore genuino che cementa inscindibilmente i cuori, col fascino di sincere e vissute virtù umane e cristiane! Il Signore vi premi, vi assista, e benedica i vostri sforzi.

Ma il Nostro saluto vuole abbracciare altresì tutto il Popolo di Dio, che qui oggi si raccoglie, rappresentanza eletta dei cattolici di questa città e dell’intera Turchia: le Suore operose e silenziose, a cui tanto si deve per il loro prezioso apostolato, per l’assistenza umile e nascosta che prestano a tante necessità, per la testimonianza che danno con la loro semplice presenza nel mondo; e voi tutti, ottimi genitori, giovani generosi e pieni di speranza, fanciulli diletti. Tutti, tutti, vi salutiamo, tutti abbracciamo, e proprio non vorremmo dimenticare nessuno, pregandovi di dire ai vostri cari, tornandovene a casa - specialmente a quelli che sono provati dalla sofferenza - che il Papa li ama, e Si aspetta tanto dalla loro fede.

Sì, diletti Figli e Figlie, è questo il Nostro ricordo, anzi la Nostra parola d’ordine, che vi affidiamo a memoria dell’odierno incontro di anime: Ci aspettiamo tanto dalla vostra fede. Il Nostro viaggio, come abbiamo detto fin dal primo suo annunzio, si compie all’alba dell’Anno della Fede, nella venerazione di luoghi che ben a ragione devono dirsi privilegiati, per i monumenti di fede che racchiudono, e per il significato che rivestono per noi, eredi lontani e, vogliamo sperare, non immeritevoli. Il ricordo dell’Anno della Fede sarà per sempre legato nel cuore - per Noi e per voi - a questo Nostro viaggio di unità e di amore. Ebbene, sappiate sempre mantenere alta la fiamma della fede! [SM=g1740721] Il Concilio Ecumenico, nel ricordare ai laici la loro partecipazione al triplice ufficio, sacerdotale, profetico e regale di Gesù Cristo, li ha istantemente esortati a vivere di fede, esercitando il sacerdozio comune dei fedeli «col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità» (Cost. dogm. Lumen gentium, n. 10) e diffondendo «dovunque la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità» (ibid. n. 11). [SM=g1740722]

Noi siamo certi che voi risponderete a questo appello, rendendo a Gesù quell’amore concreto, che diventa «lode di gloria» (cf. Eph. 1, 6-14) per il Signore, gioia intima per se stessi, luce d’esempio per gli altri. Mantenetevi fedeli con piena adesione dell’intelligenza e dell’affetto, della mente e del cuore; e la grazia del Signore sarà sempre con voi, a confortarvi, a guidarvi, a illuminarvi, a farvi sentire - ve lo diciamo con le parole di San Paolo - non già «stranieri e pellegrini, ma concittadini dei Santi e membri della Casa di Dio, sopraedificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, con lo stesso Cristo Gesù quale pietra angolare, in cui tutta la costruzione, ben compaginata, cresce come tempio santo del Signore» (cf. Eph. 2, 19-21).

È il Nostro augurio, diletti Figli e Figlie, la Nostra preghiera, la Nostra Benedizione.

 

[SM=g1740733] 

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 2 agosto 1967

 

Diletti Figli e Figlie!

Il nostro animo è ancora troppo pieno e commosso delle impressioni riportate dal Nostro recente viaggio a Istanbul (la Bisanzio, anzi la Costantinopoli d’un tempo) e poi a Efeso e a Smirne, perché Noi, ad una settimana di distanza, vi parliamo d’altro che di questo avvenimento, semplice per sé, ma che ha Noi pare molto significativo.

ACCOGLIENZE DEFERENTI E GENTILISSIME DELLE AUTORITÀ CIVILI DELLA TURCHIA

Non vi diciamo nulla della breve, ma intensa cronaca del Nostro itinerario; già la pubblicità giornalistica e radiotelevisiva vi ha dato amplissima illustrazione; e voi ne siete certo già informati.

Dovremmo piuttosto dire dell’accoglienza ufficiale e gentilissima, che ci è stata riservata dalle Autorità civili della Turchia, accoglienza tanto più apprezzabile per il fatto che la Nostra visita coincideva con giornate funestate dal terremoto in alcune località di quella Nazione, alla quale Noi stessi abbiamo voluto tributare l’espressione del Nostro dolore per tale calamità. La Turchia è stata molto cortese e deferente per Noi; e Noi serberemo perciò la più grata memoria del Nostro breve soggiorno in quell’illustre Paese, pieno di bellezze naturali, di storia, di arte, ed ora di vivaci impulsi di moderno sviluppo sociale ed economico. Ma questo aspetto del Nostro viaggio meriterebbe molte considerazioni, piene di drammatiche memorie storiche, ed ora piene invece di stima e di voti per la nuova ed a Noi cara Turchia. Non è questa la sede per tali commenti.

INCONTRO DEGNO DI MEMORIA STORICA NELLA VITA DELLA CHIESA

L’altro tema del Nostro discorso dovrebbe riguardare il Nostro incontro col Patriarca ecumenico Atenagora; incontro da Noi voluto in anticipo su quello ch’egli ha annunciato di procurarCi con una sua prossima visita, affinché davvero non altro stimolo favorisca questo tanto desiderato avvicinamento, se non l’amore; l'amore, di cui parla San Paolo: «Caritate fraternitatis invicem diligentes, honore invicem praevenientes», vogliatevi bene scambievolmente con amore fraterno; prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore (Rom. 12, 10). Ed è sfato incontro bellissimo; degno, sì, di memoria storica nella vita della Chiesa di Dio, se al confronto delle amare controversie del passato, dell’esitante, stagnante e diffidente psicologia reciproca che ne derivò, e delle prospettive, che tale incontro lascia intravedere per il futuro, questo incontro segna un punto nuovo e sublime, successivo e coerente a quello segnato dall’abbraccio di Gerusalemme, nelle relazioni della Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, del quale incontro perciò Noi pensiamo il primo a godere è in cielo Cristo stesso. Ed Egli ci assista!

Ma anche questo tema, solo a volerne dire qualche cosa, Ci porterebbe troppo lontano; e poi Noi pensiamo che in altre occasioni dovremo ancora parlarne.

ONORE ALLA MEMORIA DEI PRIMI CONCILI ECUMENICI [SM=g1740721]

Accenniamo piuttosto, in questa confidenziale conversazione con voi, ad un’altra ragione, che Ci ha indotto ad intraprendere la Nostra rapida escursione; ragione a cui già accennammo in precedenti discorsi, ma meritevole d’essere richiamata per il suo riferimento al nostro recente Concilio, dal quale è sempre preso il Nostro animo e dal quale questi Nostri familiari sermoni settimanali prendono spesso argomento. E la ragione è questa: il desiderio di onorare la memoria dei primi celebri Concili ecumenici, i quali ebbero nel vicino Oriente le sedi che li definiscono: Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451). Non sono questi i soli Concili ecumenici celebrati in Oriente; ma questi quattro Concili furono e rimangono degni di particolare riverenza. Furono essi che diedero alla Chiesa, dopo i primi secoli di vita perseguitata e quasi clandestina, la coscienza della sua compagine costituzionale e unitaria. Furono essi che misero in evidenza e stabilirono in autorità i dogmi fondamentali della nostra fede, sulla SS.ma Trinità, su Gesù Cristo, sulla Madonna; e che perciò diedero al cristianesimo la sua dottrina basilare, impegnando il pensiero umano, come già gli Apostoli avevano fatto, a esplorare il senso, la realtà teologica, la verità rivelata dal Vangelo, e ad offrire al linguaggio religioso le prime espressioni inequivocabili e irreformabili.

ALTISSIMO RIFERIMENTO DI S. GREGORIO MAGNO [SM=g1740721]

È notissimo come i primi quattro Concili ecumenici ebbero anche in Occidente indiscussa e suprema autorità. Fra le altre si suole, a questo proposito, citare le parole del Papa Gregorio Magno (590- 604), il quale, nell’epistola sinodica, da lui inviata ai Patriarchi d’Oriente, non esita ad affermare: Dichiaro di, accettare e di venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, così i quattro concili; «sicut sancti evangelii quattuor libros, sic quattuor concilia suscipere et venerari me fateor» (Ep. 1, 25; P.L. 77, 478; Hefele, 2, 31-33). Motivo questo sul quale il grande Pontefice ritornerà più volte con eguale sentenza.

Ciò fa vedere due cose, ai nostri giorni, meritevoli di considerazione; e cioè fa vedere come una dottrina autorevole e indiscutibile sia derivata, per opera del magistero ecclesiastico, dallo studio e dal culto della sacra Scrittura; e come le definizioni promulgate dai Concili sono rimaste e devono rimanere nel contenuto, ed anche nelle formule che lo esprimono, immutabili. L’Oriente è maestro; c’insegna come il credente è chiamato alla speculazione della verità rivelata cioè alla formulazione d’una teologia che possiamo dire scientifica (cf. Denz. Schön. 3135 ss.); ma altresì è obbligato al riconoscimento del carattere soprannaturale della verità rivelata, il quale non consente di risolverla in termini di pura razionalità naturale, ed esige un testuale rispetto anche alla terminologia con cui essa è stata autorevolmente enunciata (cf. Denz. Schön. [824] [442], 2831 [1658]). L’Oriente ci dà l'esempio di fedeltà al patrimonio dottrinale, e ci ricorda la norma, ch’è pur nostra, spesso oggi da Noi riaffermata nell’insorgenza dei tentativi, tante volte bene intenzionati, ma non sempre riusciti, di esprimere una nuova teologia conforme alla mentalità contemporanea; la norma del Concilio Vaticano primo, che auspica un progresso nella «intelligenza, scienza e sapienza» della dottrina della Chiesa, purché tale dottrina rimanga sempre pari a se stessa (cf. De fide, IV; VINCENZO LERIN., Commonitorium, 28; P.L. 50, 668). [SM=g1740722] [SM=g1740721]

ESORTAZIONE A VENERARE L’ORIENTE CRISTIANO

E all’Oriente, col Nostro viaggio; abbiamo voluto dare assicurazione che la fede nei Concili, celebrati in quella terra benedetta e riconosciuti dalla Chiesa latina come ecumenici, è tuttora la nostra fede; essa costituisce una base molto larga e molto solida per avviare gli studi intesi alla ricomposizione della perfetta comunione cristiana fra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica in quella dottrina univoca e ferma, che il magistero ecclesiastico, guidato dallo Spirito Santo, proclama autentica. Vi esortiamo perciò, Figli carissimi, a venerare anche voi l’Oriente cristiano, a conoscere le questioni religiose e dottrinali che lo riguardano ed a pregare per la loro felice soluzione. Con la Nostra Benedizione Apostolica.

 

Paolo VI



NEL IV CENTENARIO DEL CONCILIO ECUMENICO DI TRENTO

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica 8 marzo 1964

 

 

Venerabili Fratelli e diletti Figli!

Trento! Dobbiamo salutare, presente a questo sacro rito, il pelleginaggio dell’arcidiocesi di Trento: promosso per commemorare anche a Roma, e precisamente in questa Basilica Vaticana, in unione col Papa, il quarto centenario dell’avvenimento che fa celebre nei secoli e nel mondo il nome della nobile alpestre città, sede del grande Concilio ecumenico che appunto da Trento prende il suo nome; e lo salutiamo con paterna letizia sapendolo qua guidato dallo zelante e valente Pastore di quella illustre ed a Noi carissima Chiesa tridentina, accompagnato anche da alte Autorità civili della Regione e della Città, composto da egregi rappresentanti sia del Clero che dei fedeli dei tre gruppi etnici dell’Arcidiocesi stessa, e desideroso di porgere omaggio filiale alla Cattedra di San Pietro e di averne conforto di guida e di benedizione per i giorni presenti e per quelli futuri.

Trento! Tante sono le memorie e le emozioni, che questo nome glorioso e benedetto solleva nel Nostro spirito, che Ce ne dobbiamo, in certo senso, ora difendere, per non esserne piuttosto distratti e sopraffatti, che illuminati ed aiutati a celebrare l’evento a cui dobbiamo questo sacro incontro. Sentiamo quasi aleggiare intorno a Noi l’eco maestosa e profonda dei vostri canti alpini, cari figli delle montagne e delle valli tridentine; si profilano al Nostro sguardo interiore le linee caratteristiche dei vostri immensi paesaggi, vediamo le vostre belle borgate montane con i loro vigilanti campanili; arriva al Nostro ricordo il nome venerato del nostro S. Virgilio, a cui S. Ambrogio, fino a ieri Nostro predecessore, patrono e maestro, fu largo di amicizia e di consiglio; arrivano quelli dei Martiri dell’Anaunia e di San Romedio, e appare nella severa ed elegante sua forma la mole gotico-romanica del vostro bellissimo Duomo, ne vediamo e veneriamo il celebre Crocifisso, mentre silenziosamente, dalle loro tombe, ci vengono incontro personaggi famosi della vostra storia, Cardinali e Vescovi di grande statura, e ci conducono fuori a guardare lontano sullo sfondo la massiccia parete della Paganella, e poi il Castello del Buonconsiglio, che caratterizza il panorama della Città, e più giù, il monumento, pieno di serenità e di dignità, di padre Dante, che tutti invita alla fratellanza nella giustizia.

Ma non questo quadro, dicevamo, adesso Ci deve trattenere e quasi incantare; preferiamo andare in cerca dell’antica Pieve di Santa Maria, e ripensarvi lì riunite e disputanti alcune di quelle congregazioni generali - che poi nel Duomo avranno le loro solenni conclusioni -del grande Concilio di Trento, di quel Concilio del quale voi avete, e Noi stessi, nella persona del Nostro Cardinale Legato il Patriarca di Venezia, abbiamo commemorato l’anniversario della sua felice conclusione. E qui stesso, in questa Basilica, come sapete, il medesimo Cardinale Urbani, ha solennemente e sapientemente rievocato, presenti i Padri del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, la fausta centenaria ricorrenza; così che nulla vi sarebbe da aggiungere a così copiose e significative celebrazioni, se la venuta di cotesto Pellegrinaggio non Ci obbligasse a rinnovarne le gaudiose espressioni e a ricercarne le nuove significative impressioni.

Vi dobbiamo infatti il Nostro ringraziamento ed il Nostro plauso, venerati Fratelli e Figli carissimi, per l’onore, di cui voi circondate la memoria del vostro storico Concilio, per la fedeltà di sentimenti e di costumi, con cui ne prolungate e ne attualizzate la salutare efficacia, e per la felice intenzione, con cui voi collegate spiritualmente la vostra Città a questa Urbe fatidica, il vostro Concilio di Trento a quello che la medesima Chiesa cattolica sta ora celebrando a Roma. Non mai, crediamo, tale collegamento si è fatto più evidente e più vivo.

Meravigliosa visione quella che così voi offrite al Nostro sguardo, la visione della coerenza storica, con cui è tessuta la vita della Chiesa, che da Cristo trae la sua origine e da Pietro la sua successione; l’avvertenza d’un’identica vitalità, che corre nelle vene del Corpo mistico e storico di Cristo, cioè la Chiesa, e che nelle più disparate e remote vicende eguale si manifesta, suggerendo questa meravigliosa osservazione che ci mostra come il corso secolare del tempo, generatore dapprima, divoratore poi dei grandi fenomeni umani, non sappia dare proporzionata ragione del nascere e del vigoreggiare della Chiesa, nè riesca a dissolverla nel suo flusso, tremendamente trasformatore e disgregatore, mentre anzi la trovi, ad ogni svolta della storia, non solo sempre la stessa, ma sempre in via di perfezionamento e quasi di ringiovanimento; e ciò non già, di solito, per l’ausilio temporale di eventi propizi o di fattori esteriori, ma per una sua risorgente capacità di trarre da se stessa, come corpo che si risveglia dal sonno, più fresche e vivaci energie.

Fa meraviglia ad alcuni e reca noia e diffidenza che la Chiesa cattolica rimanga sempre la stessa, e non si pieghi nè all’usura, nè alla moda del tempo; fa meraviglia ad altri ed è motivo di scandalo che la Chiesa cattolica si arricchisca, nella sua lunga meditazione e nella sua fiera difesa del suo primitivo patrimonio dottrinale, di nuovi dogmi e di nuovi ordinamenti, dai quali si vorrebbe alterata e soffocata la sua nativa evangelica semplicità. A noi invece torna di conforto ravvisare nella grande opera del Concilio di Trento, come nella perenne disciplina dottrinale della Chiesa cattolica, ciò che Bossuet diceva, in corrispondenza con un grande pensatore del suo tempo, pur troppo sfavorevolmente prevenuto nei confronti del cattolicesimo: « Bisogna dunque, signore, - scrive il Bossuet -, tener per certo che noi non ammettiamo alcuna nuova rivelazione, e che è la fede espressa dal Concilio di Trento che ogni verità rivelata da Dio è venuta di mano in mano fino a noi; ciò che pure ha dato luogo a quell’espressione, che domina tutto il Concilio, che il dogma ch’esso stabilisce è stato sempre inteso come esso lo espone: «sicut Ecclesia catholica semper intellexit». Secondo questa regola si deve tenere per certo che i Concili ecumenici, quando si pronunciano su qualche verità, non propongono nuovi dogmi, ma non fanno che dichiarare quelli che sono sempre stati creduti, ed esplicarli soltanto in termini più chiari e più precisi » (Oeuvres, Paris, 1846, p. 716, lett. 32, a Leibnitz).

Cotesta commemorazione del vostro Concilio e cotesta presenza nell’aula del Concilio Vaticano Secondo, o carissimi figli dell’arcidiocesi tridentina, ci fanno ripensare, ci fanno rivivere il fatto stupendo, il mistero della fedeltà della Chiesa cattolica a Cristo suo fondatore e suo maestro; e ci recano un conforto, di cui l’ora presente ha particolare bisogno: quello della sicurezza nell’essenza e nella guida della santa Chiesa; quello della certezza che il suo insegnamento è oggi valido, come ieri e come lo sarà domani; quello della fiducia che l’aderenza alla sua dottrina e alla disciplina non isterilisce il pensiero, non lo sequestra dalla comprensione e dalla acquisizione di quanto la cultura moderna produce e possiede, non lo costringe a ripetersi in espressioni puramente formali, ma gli assicura piuttosto un’intima strutturazione logica e vitale, e gli fornisce temi e ragioni per intrecciare con le correnti intellettuali e spirituali del nostro tempo i più leali e fecondi dialoghi, e lo stimola a riversare in espressioni sempre nuove, perchè sempre sincere e vissute, l’inesauribile ricchezza della verità, che la fede ci garantisce nel campo divino e religioso e di riflesso in quello terreno e scientifico.

Conforto formidabile e provvidenziale codesto, che ci fa ricordare l’elogio che il Concilio ecumenico Vaticano primo faceva del Tridentino, aggiungendo all’encomio della sicurezza nell’insegnamento della Chiesa cattolica altri meriti del Tridentino, a cui Ci piace accennare, perchè anche a questi, voi, figli ed eredi della tradizione cattolica della vostra Città, date testimonianza. Lasciateci leggere il brano magnifico della Costituzione dogmatica « Dei Filius » del Vaticano primo, brano che Ci sembra da voi degnamente celebrato. Dice quel solenne documento: « La Provvidenza che il Signore dispiega per il bene della sua Chiesa . . . si è manifestata luminosamente nei grandissimi benefici, che il mondo cristiano ha ricavati dalla celebrazione dei Concili ecumenici, e specialmente dal Concilio di Trento, quantunque esso si sia svolto in templi difficili. Grazie a questo Concilio i dogmi santissimi della religione sono stati definiti con maggior precisione e più ampiamente esposti; gli errori sono stati condannati e fermati; la disciplina ecclesiastica è stata restituita e confermata; l’amore della scienza e della pietà è stato promosso nel clero; sono stati istituiti seminari per formare dei giovani alla santa milizia; si sono restaurati i costumi del popolo cristiano, mediante una più accurata istruzione e una maggiore frequenza ai sacramenti. Inoltre i vincoli, che uniscono i membri della Chiesa al loro capo visibile, sono stati riannodati, e un novello vigore è stato infuso a tutto il corpo mistico di Cristo... »
(Con. Oecum. Decreta, Herder, 1962, p. 780).

Questo elogio che un Concilio fa ad un altro, non è forse riferibile, a vostra lode, anche alla tradizione religiosa e morale di Trento, che veramente può fare suo vanto e suo impegno il motto, onde il suo popolo va fiero: Trento, città cattolica? E vorrebbe essere questo il frutto di cotesta centenaria celebrazione: ricordare, conservare, rivivere lo spirito del grande Concilio.

Voi, diletti figli, dovete tenere acceso questo spirito, come una fiaccola; come uno dei fuochi che voi accendete di notte sui vostri monti e circondate con le vostre canzoni.
Perchè lo spirito del Concilio di Trento è la luce religiosa non solo per il lontano secolo decimosesto, ma lo è altresì per il nostro; perchè lo spirito del Concilio di Trento riaccende e rianima quello del presente Concilio Vaticano, che a quello si collega e da quello prende le mosse per affrontare i vecchi ed i nuovi problemi rimasti allora insoluti, o insorti nel volgere dei tempi nuovi.
E questa derivazione del Concilio, che oggi la Chiesa sta celebrando, da quello commemorato, è più chiara e più viva in una grande e difficile questione, che al Concilio di Trento diede origine, ma che a Trento purtroppo non trovò soluzione: quella della ricomposizione nella medesima fede e nella medesima carità con i cristiani, che la riforma protestante separò da questo centro, da questo cuore dell’unità. La città di Trento era stata scelta per facilitare l’incontro, per fare da ponte, per offrire l’abbraccio della riconciliazione e dell’amicizia.
Trento non ebbe questa gioia e questa gloria. Essa dovrà averne, come Noi, come tutto il mondo cattolico, sempre il desiderio. Essa dovrà assurgere a simbolo di questo desiderio, oggi ancora, oggi più che mai, vivo, implorante, paziente, pregante. Essa dovrà con la fermezza della sua fede cattolica non costituire un confine, ma aprire una porta; non chiudere un dialogo, ma tenerlo aperto; non rinfacciare errori, ma ricercare virtù; non attendere chi da quattro secoli non è venuto, ma andarlo fraternamente a cercare. È ciò che il Concilio nuovo, continuando l’antico, con l’aiuto di Dio, vuol fare; ed è ciò che voi, più di ogni altro, nella Chiesa di Dio, dovete capire, e tuttora, come la Provvidenza suggerirà, assecondare.

È in questa visione del passato e del presente, e in questo presagio del futuro che Noi mandiamo alla insigne e diletta Chiesa Tridentina la Nostra benedizione, che a voi qui presenti, perchè ne siate a tutta la vostra terra latori, di gran cuore impartiamo.

* * * * * * * *

(Ai pellegrini di lingua tedesca dell’arcidiocesi di Trento)

Ein herzliches Grußwort gilt sodann den Pilgern deutscher Sprache aus der Erzdiözese Trient.

Ihr seid nach hier gekommen, um dem Nachfolger des heiligen Petrus zu begegnen. Der Herr selbst nannte ihn den Felsenmann. Der Fels bedeutet Fundament und Stärke. Wo aber Petrus, da ist zugleich die Kirche. So wird euer Besuch hier zugleich zu einer Begegnung mit der Kirche, deren Fundament, deren Kraft und Stütze der Fels Petri ist.

Dieser Kirche gehört ihr an. Ihr gehört ihr mit Stolz an und mit tiefer Treue. Ihr trachtet danach, ganz aus eurem Glauben zu leben. Dafür schenkt die Kirche euch übernatürliche Gnaden, die eure Seele bereichern und ihr eure Seele bereichern und ihr tiefinnern Frieden und damit echte Freude bringen.

Aus diesem Reichtum lebten eure Väter und schenkten der Kirche aus der Zahl ihrer Kinder Priester und Ordensleute. Voll Anerkennung gedenken Wir der zahlreichen Missionare, die aus euren Reihen hervorgegangen sind. Bleibt dieser echt katholischen Haltung treu: Jeder von euch ist mitverantwortlich dafür, dass der Kirche immer neue Priester, Ausspender der Gnaden Christi, er stehen und das katholische Volk reich bleibe an Gnade und übernatürlichem Leben. Dies aber ist nur möglich, wenn ihr in Liebe zueinander steht. Der heilige Paulus ruft uns zu: «Bleibet einander nichts schuldig, es sei denn die gegenseitige Liebe. Denn wer den andern liebt, hat das Gesetz erfüllt (Röm 13, 8). Da, wo die Liebe Christi die Menschen beseelt, da dürft ihr, geliebte Söhne und Töchter, gewiss sein, stehen sie einander in Sanftmut und Geduld gegenüber und ertragen einander in Liebe (Eph 4, 2).

Als Unterpfand dessen und als Zeichen Unseres väterlichen Wohlwollens erteilen Wir euch wie euren Lieben von ganzem Herzen den Apostolischen Segen.

* * * * * *

(Saluto agli Uomini Cattolici di Milano e agli altri fedeli)

Sono presenti al sacro rito altri gruppi di Pellegrini e di Fedeli; a tutti porgiamo il Nostro affettuoso saluto, che oggi si esprime in un augurio di sincera ed intima letizia cristiana. Suggerisce questo augurio non solo la fortunata occasione che Ci fa incontrare davanti al Signore tutti voi, carissimi Figli, ma altresi la parola con cui apersi questa Messa della IV Domenica di Quaresima: «Laetare!» Rallegratevi! La Chiesa offre e promette oggi la sua letizia a quanti seguono il suo austero e saliente itinerario spirituale nella Quaresima, quasi a confortare i nostri passi, così facilmente stanchi ed incerti, nella pratica coraggiosa della vita cristiana. Rallegratevi! è questo appunto l’augurio che Noi pure presentiamo a coloro che assistono e partecipano alla celebrazione di questo santo Sacrificio; a tutti auguriamo che possano sperimentare non solo le difficoltà inerenti alla sequela di Cristo, ma la gioia altresì dello spirito, premio fin d’ora e promessa di piena beatitudine, che il Signore concede a chi gli è veramente fedele.

Un saluto particolare Ci è doveroso ai Membri del Consiglio diocesano dell’Unione degli Uomini di Azione Cattolica di Milano, che sappiamo presenti e che sono venuti per riconfermarci la loro devozione e la loro buona volontà, ben note a Noi per le tante prove che essi Ce ne hanno date negli anni del Nostro ministero pastorale nella Arcidiocesi Ambrosiana. Accogliamo volentieri cotesto nuovo attestato di filiale fedeltà e confortiamo con i Nostri voti i loro propositi di sempre intensa e sagace attività per la causa cattolica, pregandoli insieme di portare a tutti i Soci della loro Unione ed ai loro bravi Assistenti l’assicurazione della Nostra sempre memore e viva affezione.

A tutti poi, alla fine della Santa Messa, daremo di cuore la Nostra Benedizione Apostolica.


 

[SM=g1740722]

 

 

 

Caterina63
00mercoledì 23 maggio 2012 12:01

Senza Liturgia non c'è nuova evangelizzazione

Nell'adorazione di Dio il futuro dell'uomo e il cambiamento del mondo

di Antonio + cardinale Canizares Llovera

 

Nel mese di aprile la rivista spagnola "Palabra" ha pubblicato un numero speciale intitolato "Mappa della nuova evangelizzazione". Tra le firme quella del cardinale Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Pubblichiamo qui di seguito una nostra traduzione del suo articolo.

Osservatore Romano 23.5.2012

http://2.bp.blogspot.com/-Xa06ctIJ97M/Ti_0CtwdhpI/AAAAAAAABhQ/ObmTjL-ddUo/s1600/canizares+xiii.JPG
(il cardinale Canizares distribuisce la Comunione "come il Papa insegna", e qui lo vediamo in una celebrazione con la forma detta Straordinaria)

 

Il permanente mandato missionario del Signore, sempre attuale, lo ascoltiamo oggi in una situazione segnata dalla dimenticanza di Dio o eclissi culturale di Dio, nella quale molti vivono come se Dio non esistesse.

Il momento è pressante e richiede un improrogabile e nuova evangelizzazione, nuova principalmente nel suo ardore; una nuova e urgente evangelizzazione che sarà prima di tutto, annuncio, testimonianza di Dio e del suo Regno, dedizione a Dio, priorità di Dio rivelato da Gesù Cristo, affinché gli uomini si convertano, credano ed entrino e vivano in comunione con Lui.

Questa nuova evangelizzazione non sarà possibile senza la liturgia, e in particolare l’Eucaristia, che è la sua fonte e il suo culmine. Evangelizzazione e liturgia sono inseparabili. Sempre quindi ma, se possibile, ancora di più in questo momento della storia in cui subiamo una profonda crisi del senso di Dio nel mondo e una forte secolarizzazione interna della Chiesa, ravvivare e rafforzare il senso e lo spirito autentico della sacra liturgia nella coscienza e nella vita della Chiesa è qualcosa che urge e incalza più di qualsiasi altra cosa, se vogliamo portare a termine una necessaria e nuova evangelizzazione: è missione e opera prioritaria sempre, e soprattutto oggi.

La Chiesa, le comunità e i fedeli cristiani avranno vigore e vitalità, vivranno una vita santa, saranno testimoni coraggiosi e annunciatori fedeli e instancabili del Vangelo, se vivranno la liturgia e se vivranno di essa, se berranno da questa fonte, se vivranno l’incontro trasformatore con Gesù Cristo che avviene nella liturgia, se vivranno la comunione con Dio che si produce nella liturgia, perché così vivranno di Dio stesso e della sua grazia vivificatrice e trasformatrice, nella quale si radicano la santificazione, la loro forza e la loro stessa vita, la loro capacità e il coraggio evangelizzatore, tutto il loro apporto agli uomini e al futuro dell’umanità.

 

Il futuro dell’uomo è in Dio: il cambiamento decisivo del mondo è in Dio, nella sua adorazione. E lì sta la liturgia. Non è possibile una nuova evangelizzazione, nuova nel suo ardore, che è l’elemento fondamentale al di sopra dei mezzi, dei metodi e del linguaggio, se non si vive nella comunione di vita con Gesù Cristo, nella vita nuova che in Lui, mediante lo Spirito Santo, ci viene data: se non è attraverso la liturgia, e in particolare l’Eucaristia.

La liturgia ci rimanda a Dio; il soggetto principale della liturgia è Dio, il Padre; è Cristo, il figlio del Dio vivente; è lo Spirito Santo, che c’introduce nel mistero di Dio e ci santifica.

Liturgia significa, innanzitutto, presenza e azione di Dio, riconoscere al centro di tutto Dio, dal quale ci viene ogni bene, lasciare che Dio agisca e operi la sua salvezza e ci santifichi. La liturgia proclama, annuncia, rende presente la verità di Dio, Dio stesso, l’amore di Dio fino all’estremo, l’opera della redenzione e della riconciliazione che Dio attua e che trasforma, rinnova e ricrea l’uomo rendendolo partecipe della sua stessa vita; è presenza di Dio, del suo Regno, che invita a una vita nuova, che rende possibile e realtà effettiva questa vita nuova che porta Dio-con-noi.

Non si possono separare né contrapporre evangelizzazione e liturgia; l’una non è possibile senza l’altra.

La liturgia è l’evangelizzazione nella sua espressione massima, poiché l’annuncio e la testimonianza del Vangelo di Dio diventano realtà presente in mezzo a noi e ci viene data la possibilità di entrare e di prendere parte a questo Vangelo vivo. Come compresero bene tutto ciò che è la liturgia, l’Eucaristia, i cristiani dei primi secoli, e come lo capirono bene gli imperatori di Roma nel condurli al martirio a causa dell’Eucaristia! Lì, in essa, era tutto. Perciò in questo momento è tanto necessario che contribuiamo a entrare nella liturgia, nell’Eucaristia, a conoscere e a capire la liturgia, l’Eucaristia, a promuovere la formazione liturgica e, al di sopra di tutto, a far sì che si celebri bene e si partecipi a questa celebrazione come indica la Chiesa.

 

D’altra parte, la Chiesa, per sua natura, deriva dalla sua missione di glorificare Dio, e pertanto è irrevocabilmente legata alla liturgia, la cui sostanza sono la reverenza e l’adorazione di Dio, il Dio che è presente e agisce nella Chiesa. L’evangelizzazione deve parlare di Dio e rendergli testimonianza, per glorificarlo. Una certa crisi che ha potuto colpire in modo importante la liturgia e la stessa Chiesa dagli anni successivi al concilio fino a oggi, si deve al fatto che spesso al centro non ci sono Dio e la sua adorazione, la gloria di Dio, bensì gli uomini e la loro capacità di fare. Nella storia recente indubbiamente la costituzione Sacrosanctum concilium sulla liturgia può non essere stata compresa da tutti sulla base di questo primato di Dio e della sua gloria, dell’adorazione, ma come opera nostra, vedendo addirittura quest’ultima come contrapposta alla liturgia e all’azione sacramentale. Tuttavia, quanto più la “facciamo” nostra per noi stessi, quanto più si contrappone all’evangelizzazione e la si separa da essa, tanto più si sarà perduto l’essenziale. Così, senza la liturgia e senza il primato di Dio in essa, i fedeli e le comunità cristiane s’inaridiranno, s’indeboliranno e languiranno, diventeranno incapaci di evangelizzare con rinnovato ardore e vigore.

In definitiva, se vogliamo una Chiesa evangelizzatrice, presente nel mondo, rinnovandola e trasformandola conformemente al volere di Dio, come indica in modo emblematico la Gaudium et spes nell’esigere una nuova evangelizzazione, è necessario che prima di tutto, e al di sopra di tutto, sia la Chiesa a vivere di quanto implica la Sacrosanctum concilium, ossia della liturgia nella sua verità, il cui culmine è l’Eucaristia. Perciò, la nuova evangelizzazione si farà se, allo stesso tempo e inseparabilmente, si promuoverà e ravviverà un nuovo impulso liturgico in grado di far rivivere fedelmente la vera eredità del concilio Vaticano II.

Abbiamo bisogno, un enorme bisogno, di questo nuovo impulso. Così la pensa Benedetto XVI, un uomo tanto provvidenziale dei nostri giorni, tanto profondamente impegnato, come pochi altri, a dare impulso a una nuova evangelizzazione e a rendere possibile un’umanità nuova fatta di uomini nuovi, una nuova cultura e un mondo nuovo degni dell’uomo — creatura di Dio — testimone, oltre che a una speranza “grande”. Questo Papa sta chiaramente facendo della liturgia uno dei tratti più ricchi e forieri di speranza del suo pontificato.

Caterina63
00domenica 17 giugno 2012 16:02
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insegnamenti del Venerabile Pio XII


- Urgenti doveri

Ciò nondimeno, le conseguenze della guerra vi mettono sempre di fronte a numerosi e gravi doveri. Noi pensiamo soprattutto alla protezione della fanciullezza abbandonata, al risanamento delle profonde ferite inflitte specialmente alla santità del matrimonio, alla fedeltà coniugale; al qual proposito ripetiamo qui ciò che, or è un anno, ricordammo intorno alla questione del divorzio, che cioè il matrimonio fra battezzati validamente contratto e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà sulla terra, nemmeno dalla Suprema Autorità ecclesiastica. A questi urgenti doveri si aggiunge l'altro, non meno grave, di ravvivare il senso del diritto e della giustizia in tutta la vita sociale e di promuovere sempre più le opere di carità cristiana.

- Sollecitudine verso coloro che vivono lontani dalla Chiesa

Solleciti delle presenti condizioni della vita cristiana in Roma, vi esortiamo ancora una volta a non restringere, come pastori di anime, il vostro zelo a coloro che già da sé prendono parte alla vita della Chiesa, ma ad andare in traccia, con non minor ardore, dei traviati che vivono lontani da lei. Essi sono, come sapete, esposti a grave pericolo; non però irrimediabilmente perduti. Molti, forse i più, possono ancora essere guadagnati e richiamati sul retto sentiero. Tutto sta a prender contatto con loro. Ciò che essi attendono dal sacerdote, è il disinteresse e il senso di giustizia. Né l'uno né l'altro vi fanno difetto, diletti figli, a voi che li attingete ogni mattina dal Cuore stesso del Redentore. Fate dunque dell'accostare coloro che si sono alienati dalla Chiesa, del vivere insieme con gli affaticati e gli oppressi, lo scopo dominante dei vostri pensieri, il segreto e come l'anima della vostra operosità sacerdotale e apostolica.


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La predicazione della fede

Il tema assegnato alla predicazione quaresimale di quest'anno è la prima parte del Simbolo Apostolico. Del « Credo » Noi abbiamo parlato già negli anni passati. Oggi vorremmo dire qualche breve parola sulla predicazione stessa della fede.

Che essa rappresenti una vera necessità, non abbiamo bisogno di dimostrarlo. Voi stessi ben conoscete quanto profonda sia la ignoranza religiosa, come molteplici e spesso grossolani siano gli errori e gli equivoci sulle verità più elementari della fede, e ciò non soltanto in mezzo al semplice popolo, ma altresì fra coloro che si lusingano di essere « intellettuali ». Questi ultimi si mostrano esigenti anche per ciò che riguarda la forma: occorre quindi che l'insegnamento religioso, parlato o scritto, sia presentato in uno stile agile e chiaro; altrimenti a che giova dire o scrivere le migliori cose, se non si riesce a farsi leggere od ascoltare?

La vera eloquenza

Le buone letture religiose sono in aumento. Senza dubbio non è alla portata di tutti il praticare lodevolmente un'attività letteraria, che richiede capacità e attitudine speciale; ma da ogni sacerdote, da ogni pastore di anime, da ognuno di voi, si attende una parola accurata e degna. E ciascuno di voi può realmente darla. Infatti non è tanto questione di arte, di facondia, di abilità oratoria, quanto piuttosto di intima convinzione personale. Quando S. Paolo negava di predicare con artifizio e ricercatezza, ciò ch'egli respingeva erano appunto gli ornamenti superflui, le sottigliezze vane, le ampollosità, le frasi d'effetto, tutta la farragine che disdice alla dignità e alla maestà del pergamo. Ma la forza dello Spirito, che era in lui, che dava alla sua parola potenza ed efficacia (cfr. 1 Cor. 2, 1-4), metteva in valore tutti i doni della sua ricca natura. Paolo, mosso dallo Spirito, restava pur sempre lui stesso. Da una tale unione dello Spirito e della natura nasceva la sua incomparabile, inimitabile eloquenza. In una misura modesta, anche la più modesta che si possa supporre, ogni predicatore partecipa di questa eloquenza, purché, assistito dallo Spirito Santo, rimanga tuttavia lui stesso, e purché, grazie all'uso che egli fa dei doni della sua natura, la parola sgorghi dalle sue labbra con un calore, un colorito, un suono suo proprio, che danno alla verità, identica in tutti, una forma personale e spontanea.

Il santo Curato d'Ars non aveva certo il genio naturale di un Segneri o di un Bossuet, ma la convinzione viva, chiara, profonda; da cui era animato, vibrava nella sua parola, brillava nei suoi occhi, suggeriva alla sua fantasia e alla sua sensibilità idee, immagini, paragoni giusti, appropriati, deliziosi, che avrebbero rapito un San Francesco di Sales. Tali predicatori conquistano veramente il loro uditorio. Chi è pieno di Cristo, non troverà difficile di guadagnare altri a Cristo.

Noi Ci auguriamo che la nobile brama di conquistare gli uomini per darli a Cristo non sia per voi l'origine di una altrettanto facile quanto funesta illusione. Grande sarebbe infatti l'errore del pastore delle anime, che dedicasse tutta la sua attenzione e tutti i suoi sforzi ai grandi discorsi per circostanze solenni, piuttosto che alle sue prediche domenicali e ai suoi catechismi settimanali; che si contentasse di affidare ai suoi vicari questa parte, la più umile, ma non sempre la più facile, del suo ministero. Prendete come esempio quei Paesi, ove il catechismo in chiesa e nella scuola è considerato uno dei più onorifici uffici del sacerdote, ove il parroco riserva a se stesso, dopo una seria preparazione, il privilegio d'insegnarlo in persona la domenica a giovani e ad anziani nella chiesa piena di popolo.

Oggetto della predicazione della fede

L'oggetto della predicazione della fede è la dottrina cattolica, vale a dire, la rivelazione con tutte le verità che essa contiene, con tutti i fondamenti e le nozioni che presuppone, con tutte le conseguenze che essa porta per la condotta morale dell'uomo, di fronte a se stesso, nella vita domestica e sociale, nella vita pubblica, anche politica. Religione e morale nella loro stretta unione costituiscono un tutto indivisibile; e l'ordine morale, i comandamenti di Dio valgono egualmente per tutti i campi dell'attività umana, senza eccezione alcuna; fin dove questi giungono, si estende anche la missione della Chiesa, e perciò anche la parola del sacerdote, il suo insegnamento, le sue ammonizioni, i suoi consigli ai fedeli affidati alle sue cure. La Chiesa cattolica non si lascerà mai chiudere nelle quattro mura del tempio. La separazione fra la religione e la vita, fra la Chiesa e il mondo è contraria alla idea cristiana e cattolica.

Diritti e doveri del sacerdote nelle questioni
riguardanti la vita pubblica

Concludiamo con alcune proposizioni più precise e concrete :

1°) È un diritto, e al tempo stesso un dovere essenziale della Chiesa di istruire i fedeli, con la parola e con gli scritti, dal pulpito o nelle altre forme consuete, intorno a tutto ciò che concerne la fede e i costumi, ovvero che è inconciliabile con la sua propria dottrina, e quindi inammissibile per i cattolici, sia che si tratti di sistemi filosofici o religiosi, o degli scopi che si propongono i loro fautori, o delle loro concezioni morali riguardanti la vita così dei singoli come della comunità.

2° L'esercizio del diritto di voto è un atto di grave responsabilità morale, per lo meno quando si tratta di eleggere coloro che sono chiamati a dare al Paese la sua costituzione e le sue leggi, quelle in particolare che toccano, per esempio, la santificazione delle feste, il matrimonio, la famiglia, la scuola, il regolamento secondo giustizia ed equità delle molteplici condizioni sociali. Spetta perciò alla Chiesa di spiegare ai fedeli i doveri morali, che da quel diritto elettorale derivano.

3°) L'articolo 43 del Concordato del 1929 vieta agli ecclesiastici in Italia « d'iscriversi e militare in qualsiasi partito politico ». La Chiesa intende di far rispettare fedelmente questa disposizione, pronta anche a reprimere e a punire eventuali infrazioni di tale obbligo da parte di singoli ecclesiastici, e non pensa in alcun modo, dal canto suo, d'ingerirsi in questioni meramente politiche, nelle quali lascia ai cattolici, in quanto tali, piena libertà di opinione e di azione. Ma, d'altra parte, non può rinunziare al diritto suaccennato, né potrebbe ammettere che lo Stato giudichi unilateralmente il sacerdote nell'esercizio del suo mini stero, applicando anche sanzioni punitive, né in ogni caso che lo deferisca al magistrato penale senza intesa con l'Autorità ecclesiastica, come prescrive l'articolo 8 del Concordato medesimo.

4°) Il sacerdote cattolico non può essere semplicemente equiparato ai pubblici ufficiali o agli investiti di un pubblico potere o funzione civile o militare. Questi sono impiegati o rappresentanti dello Stato, da cui, salva sempre la legge divina, dipendono e del quale curano i legittimi interessi; lo Stato perciò può emanare disposizioni attinenti alla loro condotta anche nelle questioni della politica. Il sacerdote invece è ministro della Chiesa ed ha una missione che, come abbiamo già accennato, si estende a tutta la cerchia dei doveri religiosi e morali dei fedeli, e nell'adempimento della quale egli stesso può essere quindi obbligato a dare, sotto quell'aspetto, consigli o istruzioni riguardanti anche la vita pubblica. Ora è evidente che gli eventuali abusi di una tale missione non possono essere per se stessi lasciati al giudizio dei poteri civili, esponendo inoltre i pastori delle anime ad impedimenti e a molestie provocate da gruppi non bene affetti verso la Chiesa, sotto il facile pretesto di voler separare il clero dalla politica. Non si dimentichi che appunto con l'appiglio di voler combattere il cosiddetto « cattolicismo politico », il nazionalsocialismo, il quale in realtà non mirava che a distruggere la Chiesa, mosse contro di questa tutto quell'apparato di persecuzioni, di vessazioni, di spionaggio poliziesco, contro cui ebbero a difendersi e a lottare coraggiosamente, anche dal pergamo, uomini di Chiesa, il cui eroismo è oggi ammirato da tutto il mondo.

« Nella chiesa — dicevamo Noi stessi l' 11 luglio 1937 nel discorso inaugurale per il nuovo tempio di S. Teresa di Lisieux — Dio detta ai fedeli della nuova alleanza i precetti della sua santa legge. Dall'alto della cattedra, che si eleva nelle più maestose cattedrali o nella più umile chiesa di villaggio, la legge di Dio è predicata senza interruzione né debolezze. Dal pergamo riccamente scolpito, come dai poveri pulpiti tarlati, la stessa dottrina e la stessa legge risuonano attraverso i secoli, come attraverso i monti e gli oceani. Insieme con la Verità, la Giustizia vi si manifesta con la imperiosa legge del triplice dovere verso Dio, verso il prossimo, verso noi stessi, con la chiara e serena condanna di tutte le violenze inique, come di tutte le viltà criminali. Dall'alto di tutti i pulpiti di una potente Nazione, che cattivi reggitori vorrebbero trascinare nella idolatria della razza — proseguivamo con evidente allusione alla Germania nazionalsocialista di allora — la protesta indignata di un Pontefice ottuagenario è scesa improvvisa come la voce del Sinai, per ricordare i diritti imprescrittibili del Dio personale, del Verbo incarnato e del sacro Magistero di cui egli, il Sommo Pontefice, ha ricevuto il deposito. Sì, Iddio parla per la bocca dei suoi ministri e dei suoi rappresentanti » (cfr. Osservatore Rom. 12-13 luglio 1937, n. 160 [23.440], pag. 3).

Quanto a voi, diletti figli, quale miglior augurio potremmo indirizzarvi, terminando, di quello che faceva a se stesso l'Apostolo delle Genti, quando si raccomandava alle preghiere dei fedeli di Efeso: che vi sia concesso di predicare con tutta franchezza il mistero del Vangelo, e possiate con letizia e libertà parlare, come si conviene agli ambasciatori di Cristo (cfr. Eph. 6, I9-20)? E affinché la carità del divino Maestro empia i vostri cuori per il più gran bene naturale e soprannaturale dei Nostri diletti diocesani, a voi e a questi impartiamo con tutta l'effusione del Nostro animo paterno l'Apostolica Benedizione.


(ai Parroci mercoledì 16 marzo 1946)
Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VIII,
 Ottavo anno di Pontificato, 2 marzo 1946 - 1° marzo 1947, pp. 13-21






Caterina63
00giovedì 21 giugno 2012 20:41
[SM=g1740733]
Nella Lettera Apostolica in forma Motu Proprio "Porta Fidei" il santo Padre, Benedetto XVI, ha così ricordato un altro Anno della Fede realizzato da Paolo VI nel 1967:

"Il mio venerato Predecessore il Servo di Dio Paolo VI ne indisse uno simile nel 1967, per fare memoria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo nel diciannovesimo centenario della loro testimonianza suprema . Lo pensò come un momento solenne perché in tutta la Chiesa vi fosse "un'autentica e sincera professione della medesima fede"; egli, inoltre, volle che questa venisse confermata in maniera "individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca".
Pensava che in tal modo la Chiesa intera potesse riprendere "esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla". I grandi sconvolgimenti che si verificarono in quell’Anno, resero ancora più evidente la necessità di una simile celebrazione. Essa si concluse con la Professione di fede del Popolo di Dio, per attestare quanto i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato.
Per alcuni aspetti, il mio venerato Predecessore vide questo Anno come una "conseguenza ed esigenza postconciliare", ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione. Ho ritenuto che far iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari..."

Ecco che, con questi sentimenti, vogliamo riproporvi quelle parole solenni pronunciate dalla viva voce del servo di Dio Paolo VI attraverso due video: il primo con l'Omelia che Paolo VI pronunciò quel giorno e che ben spiega il perchè non solo dell'Anno della Fede ma anche della Solenne Professione di Fede, e questa la potremmo udire anche dalla viva voce del Pontefice e leggerla per meditarla attentamente, nel secondo video.
In questo modo desideriamo offrire a tutti l'opportunità di ben prepararci al nuovo Anno della Fede che il santo Padre Benedetto XVI ha indetto per il prossimo ottobre 2012.

www.gloria.tv/?media=302989


Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org


[SM=g1740720]


[SM=g1740738]


Solenne Professione di Fede 1967 di Paolo VI testo audio (2)

Nella Lettera Apostolica in forma Motu Proprio "Porta Fidei" il santo Padre, Benedetto XVI, ha così ricordato un altro Anno della Fede realizzato da Paolo VI nel 1967:
"Per alcuni aspetti, il mio venerato Predecessore vide questo Anno come una "conseguenza ed esigenza postconciliare", ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione. ..."

Ecco che, con questi sentimenti, vogliamo riproporvi quelle parole solenni pronunciate dalla viva voce del servo di Dio Paolo VI attraverso due video: il primo con l'Omelia che Paolo VI pronunciò quel giorno e che ben spiega il perchè dell'Anno della Fede, qui il primo video già proposto:
www.gloria.tv/?media=302989

Ora vogliamo proporvi la Solenne Professione di Fede, udirla dalla viva voce di Paolo VI e leggerla per meditarla profondamente.
www.gloria.tv/?media=303956

In questo modo desideriamo offrire a tutti l'opportunità di ben prepararci al nuovo Anno della Fede che il santo Padre Benedetto XVI ha indetto per il prossimo ottobre 2012.


Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org






[SM=g1740738]

Caterina63
00martedì 7 agosto 2012 11:14

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 3 luglio 2005

 

Alcuni giorni or sono ho avuto la gioia di presentare il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Da diversi anni si avvertiva il bisogno di un catechismo breve, che riassumesse in maniera semplice ma completa tutti gli elementi essenziali della dottrina cattolica. La Provvidenza divina ha fatto sì che tale progetto si realizzasse nel giorno stesso in cui è stata introdotta la causa di beatificazione dell’amato Giovanni Paolo II, che ad esso ha dato un impulso determinante. Mentre di ciò rendo grazie al Signore, vorrei, cari fratelli e sorelle, ancora una volta sottolineare l’importanza di questo utile e pratico strumento per l’annuncio di Cristo e del suo vangelo di salvezza.

Nel Compendio, in un ideale dialogo tra maestro e discepolo, viene sintetizzata la più ampia esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica contenuta nel Catechismo pubblicato dal mio venerato Predecessore nel 1992. Il Compendio riprende le quattro parti ben legate tra loro, consentendo di cogliere la straordinaria unità del mistero di Dio, del suo disegno salvifico per l’intera umanità, della centralità di Gesù, l’Unigenito Figlio di Dio fatto uomo nel seno della Vergine Maria, morto e risorto per noi. Presente ed operante nella sua Chiesa particolarmente nei Sacramenti, Cristo è la sorgente della nostra fede, il modello d’ogni credente e il Maestro della nostra preghiera.

Cari fratelli e sorelle, quanto è necessario che, in quest’inizio del terzo millennio, l’intera comunità cristiana proclami, insegni e testimoni integralmente le verità della fede, della dottrina e della morale cattolica in maniera unanime e concorde! All’auspicato rinnovamento della catechesi e dell’evangelizzazione possa contribuire anche il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché tutti i cristiani - ragazzi, giovani ed adulti, famiglie e comunità -, docili all’azione dello Spirito Santo, diventino in ogni ambiente catechisti ed evangelizzatori, aiutando gli altri ad incontrare Cristo. Lo chiediamo con fiducia alla Vergine Madre di Dio, Stella dell’evangelizzazione.



[SM=g1740733]


Caterina63
00mercoledì 8 agosto 2012 13:56

EXEUNTE IAM ANNO 

LETTERA ENCICLICA 
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

 

Sul declinare dell’anno in cui, per singolare dono e beneficio di Dio, abbiamo celebrato sani e salvi il cinquantesimo anniversario di sacerdozio, l’animo Nostro naturalmente ripercorre col pensiero i mesi trascorsi, e nel ricordo di tutto questo tempo grandemente si diletta.

E n’ha ben donde: infatti un avvenimento che Ci riguardava solo personalmente, e che non era né grande per se stesso, né meraviglioso per la novità, suscitò tuttavia negli animi un insolito entusiasmo, venendo celebrato con tante e così luminose manifestazioni di esultanza e di congratulazione che non si poteva desiderare di più.

La qual cosa certamente Ci tornò sommamente gradita ed amabile: ma ciò che soprattutto in essa apprezziamo è il significato delle dimostrazioni e la costanza nella fede apertamente professata. La concorde acclamazione, con la quale venimmo salutati da ogni parte, diceva chiaro ed aperto che da tutte le regioni le menti e i cuori sono rivolti al Vicario di Gesù Cristo; che, fra tanti mali dai quali siamo oppressi, gli uomini rivolgono fiduciosi gli sguardi alla Sede Apostolica, come ad una perenne e incontaminata fonte di salvezza; e che dovunque vige il nome cattolico, si rispetta e si venera, com’è doveroso, con ardente amore e somma concordia la Chiesa Romana, madre e maestra di tutte le Chiese.

Per queste ragioni nei trascorsi mesi più d’una volta levammo gli occhi al cielo, ringraziando Iddio ottimo ed immortale, che Ci aveva benignamente concesso una lunga vita e quel conforto delle Nostre pene, che più sopra abbiamo ricordato. Nello stesso tempo, appena Ci si offerse l’occasione, dichiarammo a chi di dovere la Nostra riconoscenza. Ora poi la chiusura dell’anno e del giubileo C’invita a rinnovare la memoria del beneficio ricevuto; e Ci torna molto gradito che la Chiesa tutta si unisca con Noi nel rinnovare il ringraziamento a Dio. Il Nostro cuore contemporaneamente domanda che attestiamo pubblicamente – e lo facciamo con la presente lettera – che come Ci furono di non lieve lenimento alle cure e ai travagli Nostri le molte prove di ossequio, di urbanità e di amore ricevute, così pure ne vivranno perenni in Noi la memoria e la riconoscenza.

[SM=g1740733] Ma un più grave e santo dovere ancora Ci rimane.
In questo trasporto di animi, esultanti nel rendere con inusitato ardore riverenza e onore al Romano Pontefice, Noi ravvisiamo la potenza e la volontà di Colui che suole spesso, e che solo può, trarre da minime cose il principio di grandi beni. Sembra infatti che il provvidentissimo Iddio abbia voluto, in mezzo a tanto traviamento d’idee, ravvivare la fede e offrirci insieme l’opportunità di richiamare il popolo cristiano all’amore di una vita migliore.

Pertanto non resta che metter mano all’opera, affinché il seguito corrisponda al felice inizio, e attivarsi al massimo affinché i disegni di Dio vengano compresi ed attuati. Allora finalmente l’ossequio verso la Sede Apostolica sarà pieno e perfetto in ogni sua parte, quando, associato all’ornamento delle virtù cristiane, valga a condurre gli uomini alla salvezza: risultato che è il solo desiderabile e duraturo in eterno.

Dall’alto del ministero apostolico, in cui la bontà di Dio Ci ha collocati, prendemmo spesso il patrocinio della verità, e Ci studiammo di esporre principalmente quei punti della dottrina che Ci sembravano più adatti alla necessità, e più proficui al pubblico bene, affinché, conosciuta la verità, ognuno, vegliando e cautelandosi, fuggisse il soffio nefasto degli errori. Ora poi, quale padre amantissimo verso i suoi figliuoli, Noi vogliamo parlare a tutti i cristiani e con familiare discorso esortare ognuno di loro a intraprendere un tenore di vita cristiana. Infatti, per ben meritare il nome di cristiano, oltre alla professione della fede occorre l’esercizio delle virtù cristiane, dalle quali non solo dipende l’eterna salvezza dell’anima, ma anche la vera prosperità sociale e la tranquillità del consorzio civile. [SM=g1740721]

Se si esamina lo svolgersi della vita, non vi è chi non veda quanto i costumi pubblici e privati siano discrepanti dai precetti evangelici. Si adatta troppo bene alla nostra età quella sentenza dell’Apostolo Giovanni: "Tutto ciò che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita" (1Gv 2,16). I più, infatti, dimenticando il principio per cui nacquero ed il fine a cui sono chiamati, fissano tutti i loro pensieri e le loro sollecitudini nei vani e caduchi beni della terra; violentando la natura e scompigliando l’ordine stabilito, si rendono volontariamente schiavi di quelle cose che l’uomo dovrebbe, secondo ragione, dominare.

È poi naturale che con l’amore degli agi e dei piaceri si accoppi la cupidigia delle cose idonee a comprarli. Di qui quella sfrenata avidità di denaro che rende ciechi quanti invase, e corre tutto fuoco e a briglia sciolta a scapricciarsi, senza distinguere spesso il giusto dall’ingiusto, e non di rado con ributtante insulto alla miseria altrui. E così moltissimi, la cui vita nuota nell’oro, vantano a parole una fratellanza col popolo, che poi nell’intimo del cuore superbamente disprezzano. Allo stesso modo l’animo preso dalla superbia tenta di scuotere il giogo di ogni legge, calpesta ogni autorità, chiama libertà l’egoismo. "Come il puledro dell’onagro, ritiene di essere nato libero" (Gb 11,12).

Gl’incentivi del vizio e i fatali allettamenti al peccato avanzano: intendiamo dire le licenziose ed empie rappresentazioni teatrali; i libri e i giornali scritti per fare apparire onesto il vizio e sfatare la virtù; le stesse arti, già inventate per le comodità della vita e l’onesto sollievo dell’animo, sono utilizzate quale esca per infiammare le passioni umane. Né possiamo spingere lo sguardo nel futuro senza tremare, vedendo i novelli germi dei mali che vengono di continuo deposti e accumulati in seno alla adolescente generazione. Vi è noto l’andamento delle pubbliche scuole: in esse non si dà luogo all’autorità ecclesiastica; e proprio nel tempo in cui sarebbe sommamente necessario informare con la più solerte cura gli animi ancor giovani alla pratica dei doveri cristiani, tacciono il più delle volte gl’insegnamenti della religione. Gli adolescenti poi vanno incontro ad un pericolo maggiore, qual è una viziata dottrina; la quale sovente è tale che, più che ad istruire con la nozione del vero, serve ad infatuare la gioventù con i sofismi dell’errore.

Infatti nell’insegnamento delle scienze, moltissimi, trascurata la fede divina, amano filosofare col solo magistero della ragione; per cui, rimossi il solido fondamento e lo smagliante lume della fede, sono incerti in molte cose, e non distinguono il vero. Tale è il credere che quanto è nel mondo, tutto sia materiale; che gli uomini e gli animali abbiano identità d’origine e di natura; né mancano taluni che stanno in forse se vi sia, o no, un sommo artefice del mondo e dominatore delle cose, Iddio; ovvero errano grandemente, a mo’ dei pagani, intorno alla sua natura. Donde è necessario che vengano alterati anche il concetto e la forma della virtù, del diritto e del dovere. E così mentre essi boriosamente vantano grandemente la supremazia della ragione e magnificano oltre misura l’acume dell’ingegno, scontano con l’ignoranza d’importantissime verità la pena dovuta alla loro superbia. Col pervertimento delle idee, si infiltra fin nelle vene e nel midollo delle ossa la corruzione dei costumi, e questa in tale gente non può venire sanata che con grandissima difficoltà: poiché da un lato i falsi principi alterano il giudizio dell’onestà, e dall’altro manca la luce della fede cristiana, che è principio e fondamento di ogni giustizia.

Per queste ragioni vediamo ogni giorno in qualche modo coi nostri occhi da quanti mali sia travagliata la società umana. Il veleno delle dottrine rapidamente invase la vita pubblica e privata: il razionalismo, il materialismo, e l’ateismo partorirono il socialismo, il comunismo, il nichilismo: atre e funeste pestilenze, le quali dovevano logicamente e inevitabilmente scaturire da quei principi. In verità, se si può rigettare impunemente la religione cattolica, la cui divina origine è chiara per segni tanto evidenti, perché non si dovrebbero respingere le altre forme di culto, che certamente mancano di tali prove di credibilità? Se l’anima non è per sua natura distinta dal corpo, e per conseguenza, se nella morte del corpo nessuna speranza ci resta di un’eternità beata, perché dovremo noi sobbarcarlo a fatiche e a travagli al fine di sottomettere il talento alla ragione? Il sommo bene dell’uomo sarà riposto nel godimento degli agi e dei piaceri della vita. E poiché non v’è alcuno che per istinto e impulso di natura non tenda alla felicità, a buon diritto ognuno spoglierebbe gli altri, secondo le sue possibilità, per procacciarsi con le cose altrui il godimento della felicità. Né vi sarebbe potere al mondo che avesse così poderosi freni da imbrigliare le impetuose passioni; conseguentemente ove venga ripudiata la somma ed eterna legge di Dio, è inevitabile che il vigore delle leggi s’infranga, e ogni autorità si svigorisca. Ne consegue necessariamente che la società civile si sconvolga fin dal profondo, e che i singoli membri siano spinti a perpetua lotta dalla loro insaziabile cupidigia, affannandosi gli uni a raggiungere gli agognati beni, e gli altri a conservarli.

Tale è certamente la tendenza dell’età nostra. Tuttavia vi è di che consolarci alla vista dei mali presenti, e sollevare l’animo a liete speranze per l’avvenire. Infatti "Dio creò tutte le cose perché esistessero, e fece sanabili le nazioni di tutto l’orbe" (Sap 1,14). Ma come questo mondo non può essere conservato se non dalla volontà e dalla provvidenza di Colui che l’ha creato, così pure gli uomini non possono essere risanati che dalla sola virtù di Colui che li ha redenti.

Infatti Gesù Cristo a prezzo del suo sangue riscattò una volta sola il genere umano, ma perenne e perpetua è l’efficacia di tanta opera e di sì gran beneficio: "e non c’è salvezza fuori di Lui" (At 4,12). Pertanto quanti si affaticano per estinguere, a forza di leggi, la crescente fiamma delle passioni popolari, essi si affaticano sì per la giustizia, ma si debbono anche persuadere che con nessuno o con scarsissimo risultato consumeranno la fatica, ove persistano a ripudiare la forza del vangelo e a non volere la cooperazione della Chiesa. La guarigione dei mali è riposta in questo che, mutato indirizzo, gl’individui e la società ritornino a Gesù Cristo e al retto cammino della vita cristiana.

Ora la sostanza e il perno della vita cristiana consistono nel non assecondare i corrotti costumi del secolo, ma nell’osteggiarli con virile fermezza. Questo ci insegnano le parole e i fatti, le leggi e le istituzioni, la vita e la morte di Gesù, "autore e perfezionatore della fede". Dunque, per quanto il guasto della natura e dei costumi ci attiri altrove, lontano dalla meta, occorre che noi corriamo "alla tenzone che ci aspetta", agguerriti e pronti con quel coraggio e con quelle armi con le quali Egli, "propostosi il gaudio, sostenne la croce" (Eb 12,1-2).

Gli uomini vedano pertanto e comprendano quanto sia lontano dalla professione della fede cristiana il seguire – come si fa oggi – ogni sorta di piaceri e rifuggire le fatiche, compagne della virtù e nulla rifiutare a se stesso di quanto piacevolmente e delicatamente alletta i sensi. " Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso coi vizi e le concupiscenze la propria carne" (Gal 5,24): dal che si rileva che non sono di Cristo coloro i quali non si esercitano né si abituano a patire, disprezzando le mollezze e la voluttà. L’uomo, mercé l’infinita bontà di Dio, fu restituito alla speranza dei beni immortali dai quali era precipitato; ma non può conseguirli, se non cercando di calcare le orme di Cristo, meditandone gli esempi, conformando a Lui il cuore e i costumi. Pertanto non è consiglio, ma dovere, né solamente per quelli che abbracciarono un genere di vita più perfetto, ma per tutti, "il portare nel corpo la mortificazione della carne" (2Cor 4,10). Come potrebbe altrimenti rimanere salda la stessa legge di natura, la quale comanda all’uomo di vivere virtuosamente? Infatti col santo battesimo si cancella la colpa che si contrasse nascendo, ma non per questo vengono recisi i rei germogli innestati dal peccato. Quella parte dell’uomo che è irragionevole, ancorché non possa nuocere a chi, mercé la grazia di Cristo, si oppone virilmente, tuttavia contrasta con il regno della ragione, turba la pace dell’animo e tirannicamente trascina la volontà lontano dalla virtù con tanta forza che, senza una lotta quotidiana, non possiamo né fuggire il vizio né compiere i nostri doveri. "Il santo Concilio riconosce e dichiara che nei battezzati rimane la concupiscenza, o stimolo, che, lasciata all’uomo per la battaglia, non può nuocere a chi non si arrende, ma anzi la respinge virilmente con la grazia di Gesù Cristo; chi debitamente combatterà, verrà coronato" . In questa battaglia vi è un grado di forza a cui non perviene che una virtù eccellente, cioè quella di coloro i quali, combattendo i moti contrari alla ragione, si avvantaggiarono a tal punto che sembrano condurre in terra una vita quasi celeste.

Per quanto sia di pochi una così rilevante perfezione, tuttavia, come la stessa antica filosofia insegnava, nessuno deve lasciare senza freno le proprie passioni, soprattutto coloro che utilizzando ogni giorno le cose terrene sono più esposti ai pericoli del vizio, a meno che qualcuno non pensi stoltamente che deve essere minore la vigilanza dove è più imminente il pericolo, o abbiano meno bisogno della medicina coloro che sono più gravemente ammalati. Quanto poi alla fatica che viene sostenuta in tale lotta, essa viene compensata, oltre che dai beni celesti e immortali, anche da altri grandi vantaggi, il primo dei quali è che, riordinati gli appetiti dell’uomo, moltissimo si rende alla natura della sua dignità primitiva. Infatti, con questa legge e con quest’ordine l’uomo venne creato affinché l’anima dominasse il corpo, e la cupidigia fosse governata dalla ragione e dal buon senso: da ciò deriva che il non darsi in preda alle tiranniche passioni sia la più sublime e desiderabile libertà.

Inoltre, senza quella disposizione di animo, non si vede che cosa ci si possa aspettare di bene nella stessa società umana. Potrà, per ventura, essere propenso a beneficare gli altri chi è abituato a prendere norma e misura di quanto deve fare, o fuggire, dall’amore di se stesso? Nessuno, che non sappia dominare se medesimo, e disprezzare per amore della virtù tutte le cose umane, può mai essere né magnanimo, né benefico, né misericordioso, né disinteressato.

Non taceremo nemmeno che gli uomini – come è deciso dalla volontà divina – non possono raggiungere la salvezza senza fatica e senza pena. Infatti, se Dio concedette all’uomo la liberazione dalla colpa e il perdono dei peccati, glieli accordò con questa legge: che il suo Unigenito ne portasse la giusta e dovuta pena. E Gesù Cristo, pur potendo per altre vie soddisfare alla giustizia divina, volle piuttosto soddisfarla a prezzo di sommi tormenti, col dono della vita. E ai discepoli e seguaci impose questa legge suggellata col suo sangue: che la loro vita fosse una continua battaglia coi vizi dei costumi e dei tempi. Che cosa formò invitti gli Apostoli nell’addottrinare con la verità il mondo, e rinvigorì innumerevoli martiri nel dare testimonianza alla fede cristiana con la prova suprema del sangue, se non la disposizione dell’animo ossequiente senza timore a detta legge? Non scelsero di andare per altra via quanti ebbero a cuore di vivere cristianamente e di procacciare con la virtù il proprio bene; né per altra dobbiamo incamminarci noi, se vogliamo provvedere alla nostra e alla comune salvezza.

Pertanto, in mezzo a questa spudorata e dominante licenza, è necessario che ciascuno virilmente si difenda dagli allettamenti della lussuria; e poiché è tanto sfrontata l’ostentazione che si suol fare di una vita agiata ed opulenta, è anche necessario premunire l’animo contro il fascino del lusso e delle ricchezze, affinché il cuore, desiderando quelle cose che si dicono beni ma che non possono sfamarlo e sono fugaci, non venga a perdere un tesoro immarcescibile in cielo. Da ultimo, è altresì da deplorare che massime ed esempi dannosi abbiano avuto tanta forza da effeminare gli animi a tal punto che moltissimi oggi arrossiscono del nome e della vita cristiana, il che è proprio o di una profonda corruzione, o di una grande insipienza. Entrambe detestabili, entrambe tali che non può capitare all’uomo un male peggiore. Infatti, quale scampo rimarrebbe agli uomini, o in che cosa appoggerebbero essi la loro speranza, se tralasciassero di gloriarsi del nome di Gesù Cristo e ricusassero di comportarsi a viso aperto e con fermezza secondo i precetti evangelici? È comune lamento che la nostra età è infeconda di uomini forti. Si richiamino in vigore i costumi cristiani, e con ciò saranno restituite fermezza e costanza alle umane capacità.

Ma a tanta grandezza e varietà di doveri la virtù dell’uomo non può bastare da sola. Quindi conviene che, come si domanda a Dio il pane quotidiano per alimento del corpo, così pure da Lui s’implorino la forza e il vigore per l’anima, affinché questa si consolidi nella pratica della virtù. Per cui, quella comune legge e condizione della vita, che dicemmo consistere in un perpetuo combattimento, va sempre congiunta con la necessità della preghiera, poiché, come con verità e grazia dice Agostino, la pia orazione trascende gli spazi del mondo e fa scendere dal cielo la misericordia divina. Contro gli assalti delle torbide passioni e contro le insidie del demonio dobbiamo, per non essere irretiti dalle sue frodi, chiedere i conforti e gli aiuti celesti, secondo il divino oracolo: "Pregate per non cadere in tentazione" (Mt 26,41). Quanto maggiormente ne abbiamo bisogno, se in più vogliamo procurare la salvezza agli altri! Cristo Signore, l’Unigenito Figlio di Dio, fonte d’ogni grazia e virtù, ci comandò con le parole quanto per primo ci dimostrò con l’esempio, "trascorrendo le notti nella preghiera a Dio" (Lc 6,12), e vicino al sacrificio "pregava più intensamente" (Lc 22,43).

Per la verità assai meno sarebbe da temere la fragilità della natura, né i costumi si pervertirebbero nell’ozio e nell’infingardaggine, se questo divino precetto non fosse così spesso per negligenza o per stanchezza trascurato. Infatti Dio è placabile con la preghiera; Egli vuole beneficiare gli uomini, e ha chiaramente promesso che a larga mano darà dovizia di grazie a chi gliene chiederà. Ché anzi Egli stesso ci invita, e quasi ci provoca con amorevolissime parole: "Io vi dico, chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi verrà aperto" (Lc 11,9). E affinché non temiamo di pregarlo con fiducia e familiarità, tempera la sua divina maestà con l’immagine e la somiglianza di un tenerissimo padre a cui nulla è più caro dell’amore dei figli: "Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano?" (Mt 7,11).

Chi avrà meditato queste cose, non si meraviglierà se a Giovanni Crisostomo la preghiera sembra tanto efficace da reputarla paragonabile alla stessa potenza di Dio. Infatti, nello stesso modo in cui Dio con una parola creò l’universo, l’uomo con la preghiera ottiene da Lui ciò che vuole. Niente è più efficace per ottenere grazie, quanto le buone orazioni, poiché esse contengono quei motivi dai quali Iddio si lascia più facilmente placare e intenerire. Nell’orazione noi storniamo l’animo dalle cose terrene e, attratti col pensiero nella contemplazione del solo Dio, abbiamo coscienza dell’umana debolezza: pertanto riposiamo nella bontà e nell’amplesso di nostro Padre, e cerchiamo rifugio nella potenza del Creatore. Noi ci presentiamo con insistenza all’Autore di tutti i beni, come per mostrargli l’anima nostra inferma, le forze fiacche e la nostra indigenza; pieni di speranza imploriamo tutela e soccorso da Colui che solo può somministrare il rimedio alle nostre infermità e offrire conforto alla nostra miseria e alla nostra debolezza. Grazie a questa umile e modesta disposizione d’animo, necessaria da parte del credente, meravigliosamente Iddio si piega a clemenza; perché, come resiste ai superbi, "così dà grazia agli umili" (1Pt 5,5).

Sia dunque sacra a tutti la pratica dell’orazione: preghino la mente, l’anima, la voce, e concordi il vivere con il pregare; affinché la nostra vita, mercé l’osservanza delle leggi divine, appaia un continuo volo dell’anima a Dio.

Come tutte le altre virtù, così anche questa di cui parliamo venne generata e sorretta dalla fede divina. Infatti Dio è Colui che ci dà a intendere quali siano i veri e desiderabili beni; e ci fa conoscere la sua infinita bontà e i meriti di Gesù Redentore. Ma niente vien meglio in aiuto ad alimentare e crescere la fede quanto la pia pratica dell’orazione. Appare chiaro quanto sia stringente il bisogno di tale virtù, che in molti è rilassata e in altri addirittura spenta. Infatti da essa deve specialmente attendersi non solo la correzione dei costumi privati, ma anche la norma per giudicare di quelle cose, il cui conflitto non lascia gli Stati tranquilli e sicuri. Se il popolo è tormentato da una sete ardente di libertà, se dappertutto scoppiano minacciosi i fremiti dei proletari, se la snaturata ingordigia dei più ricchi non dice mai basta, e se vi sono altri sconci di tal fatta, a questo certamente non si può recare, come altra volta più diffusamente dimostrammo, un rimedio migliore e più sicuro della fede cristiana.

Qui cade in proposito rivolgere il pensiero e la parola a voi tutti, che Dio elesse a suoi cooperatori nell’amministrazione dei misteri e investì del suo divino potere. Ove si ricerchino le cause della privata e pubblica salute, non v’ha dubbio che, sia per il bene, sia per il male, influiscono assai la vita e i costumi degli ecclesiastici.

Si ricordino dunque di essere da Cristo chiamati "luce del mondo"; poiché "come la luce che irraggia tutto l’orbe, conviene che splenda l’anima del sacerdote" . Si ricerca nel sacerdote un lume non comune della dottrina, dato che è suo compito infondere negli altri la sapienza, estirpare gli errori, essere guida del popolo per gli sdrucciolevoli e incerti sentieri della vita. La dottrina poi vuole innanzi tutto avere per compagna l’innocenza della vita; massime perché nella riforma degli uomini si ottiene più con gli esempi che con la parola: "Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone" (Mt 5,16). Questa sentenza divina significa che nei sacerdoti la perfezione e la raffinatezza della loro virtù devono essere tali da servire da specchio a chi li osserva. "Nulla meglio ammaestra gli altri nella pietà e nel culto di Dio, come la vita e l’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero, poiché, essendo essi esposti agli sguardi in luogo più alto e sovrastante le cose del mondo, tutti si specchiano in loro, e da loro prendono il modello da imitare" . Per la qual cosa se tutti gli uomini debbono accuratamente guardarsi di cadere nei pericoli dei vizi, e di non correre con smodato amore dietro le cose caduche, appare ben chiaro con quanta più ragione debbano fare ciò con ogni scrupolosa cura e con costanza i sacerdoti.

Ma non è sufficiente non servire alle passioni: la santità del loro sublime grado domanda in più che si abituino a padroneggiare virilmente se stessi e a sottomettere a Cristo tutte le forze dell’anima, specialmente l’intelletto e la volontà, che sulle altre dominano. "Tu che ti prepari ad abbandonare tutto, ricordati che tra le cose da lasciare vi è l’amore di te stesso, anzi, sopra tutto rinnega te stesso" . Quando essi abbiano sciolto e liberato da ogni cupidigia il cuore, allora finalmente concepiranno un alacre e generoso zelo per l’altrui salute, senza neppure provvedere abbastanza alla propria: "Un solo guadagno, un solo vanto, una sola gioia essi debbono cercare nei loro fedeli, ed è di studiarsi di preparare in essi un popolo perfetto. A questo fine tutti debbono adoperarsi, mortificando anche la carne e il cuore, e non badando a fatiche e pene, a fame e sete, a freddo e nudità" .

Codesta impavida e sempre desta virtù, che si prodiga per il bene del prossimo in ardue imprese, viene mirabilmente alimentata e rinvigorita dalla frequente contemplazione delle cose celesti, e quanto più ad essa si dedicheranno, tanto meglio comprenderanno la grandezza e la santità del ministero sacerdotale. Comprenderanno quanto sia deplorevole cosa che tanti, redenti da Gesù Cristo, piombino nell’eterna rovina: con la meditazione dell’essere divino ecciteranno maggiormente se stessi e gli altri all’amore di Dio.

Ecco la via sicurissima della salvezza pubblica. Però bisogna stare molto attenti che nessuno si abbatta per la grandezza delle difficoltà o disperi della guarigione per la permanenza dei mali. L’imparziale ed immutabile giustizia di Dio riserba il premio alle buone opere, la pena alle malvagie: ma quanto alle nazioni, che non possono propagarsi oltre la cerchia del tempo, conviene che esse abbiano la loro retribuzione su questa terra. Non è cosa nuova, è vero, che prosperi successi allietino una nazione peccatrice, e ciò per giusta disposizione di Dio, il quale, non essendovi popolo al mondo che sia privo di ogni onestà, con siffatti premi talora ricompensa le lodevoli azioni; come successe al popolo romano secondo Agostino. Nondimeno è legge stabilita che il più delle volte alla prospera fortuna giovi il pubblico culto della virtù, massime di quella che è madre di tutte le altre, cioè la giustizia. "La giustizia solleva, il peccato deprime e immiserisce i popoli" (Pr 14,34). Non vale qui rivolgere l’attenzione alla trionfante ingiustizia, né ricercare se vi siano regni i quali, correndo prospera la cosa pubblica e secondo i loro desideri, covino tuttavia nelle intime viscere il germe dei mali. Questo solo vogliamo che s’intenda, e di questi esempi è ricca la storia: doversi presto o tardi pagare il fio delle ingiustizie, e tanto più severamente quanto furono più durevoli i misfatti.

Quanto a Noi, Ci è di gran conforto la sentenza dell’Apostolo Paolo: "Tutte le cose sono vostre; voi siete di Cristo; Cristo è di Dio" (1Cor 3,22-23). Il che significa che per arcana disposizione della provvidenza divina il corso delle cose mortali viene retto e governato in modo che quanto succede agli uomini è subordinato alla gloria di Dio, e parimenti portano alla salvezza le opere di coloro che seguono Gesù Cristo sinceramente e di cuore.

Di questi è madre e nutrice, guida e custode la Chiesa, la quale, come con intima e immutabile carità è unita a Cristo, suo Sposo, così si associa con Lui nelle lotte e partecipa della vittoria. Non siamo dunque né possiamo essere inquieti per la causa della Chiesa: ma temiamo vivamente per la salvezza di moltissimi, i quali, voltate superbamente le spalle alla Chiesa, errando per vie diverse, precipitano nella dannazione, e Ci angosciamo altresì per quegli Stati che siamo costretti a vedere lontani da Dio, e con stupida sicurezza addormentati sull’orlo del precipizio. "Niente può stare a fronte della Chiesa... Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati... lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata" .

Né soltanto non è mai superata, ma conserva intera quella virtù riformatrice della natura, principio di salute ch’ella perennemente attinge e deriva da Dio: resta immutabile pur nel mutare dei tempi. Se già divinamente rigenerò il mondo invecchiato nei vizi e perduto nelle superstizioni, perché non potrà richiamarlo, traviato, sul retto sentiero? Tacciano una buona volta i sospetti e gli odii: e la Chiesa, tolti di mezzo gli ostacoli, sia ovunque padrona dei propri diritti, poiché ad essa spetta conservare e diffondere i benefici procurati da Gesù Cristo. Allora si potrà conoscere, attraverso l’esperienza, fin dove giunga il potere illuminante del Vangelo, e quanto possa la virtù di Cristo redentore.

Questo stesso anno prossimo a finire ha mostrato, come dicemmo all’inizio, non pochi indizi che la fede torna a rivivere nei cuori. Voglia Dio che questa piccola scintilla cresca in gran fiamma, la quale, distrutte le radici dei vizi, sgombri sollecitamente la via al rinnovamento dei costumi e ad opere salutari.

Noi, preposti al governo della mistica nave della Chiesa in tempi così burrascosi, fissiamo la mente e il cuore nel divino Pilota che siede invisibile a poppa, governandone il timone.

Tu vedi, o Signore, come da ogni parte erompano impetuosi i venti ed il mare si arruffi, levando altissimi flutti. Deh, Tu che solo lo puoi, comanda ai venti e al mare. Rendi all’umana famiglia la vera pace, che il mondo non può dare, e la tranquillità dell’ordine.

Cioè gli uomini, mercé la tua grazia e il tuo impulso, facciano ritorno all’ordine dovuto, restaurando nei loro cuori la necessaria pietà verso Dio, la giustizia e la carità verso il prossimo e la temperanza verso se stessi, con pieno dominio della ragione sull’ingordigia. Venga il tuo regno; e quelli stessi che lontano da Te si affaticano invano nella ricerca della verità e della salute, intendano che è indispensabile che a Te si assoggettino e Ti servano. Sono connaturate nelle tue leggi la giustizia e una soavità paterna: e Tu stesso spontaneamente ci doni, mercé la tua grazia, la possibilità di osservarle. La vita dell’uomo sulla terra è combattimento, ma Tu stesso "sei spettatore della battaglia, aiuti l’uomo a vincere, se è scorato lo rinfranchi, e se è vincitore lo coroni" .

Con l’animo sollevato da queste considerazioni verso una lieta e salda speranza, Noi amorosamente nel Signore impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo cattolico l’Apostolica Benedizione, auspice dei celesti doni e testimone della Nostra benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù dell’anno 1888, undecimo del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII

Caterina63
00sabato 25 agosto 2012 19:44

[SM=g1740720] «Il beato Giovanni Wang non ha che sedici anni…


…è quasi un fanciullo, si diverte e giuoca nel cortile della sua prigione; allo stupore del suo superiore, risponde meravigliato egli stesso: “Padre, perché? Se ci uccideranno, non andremo forse in Paradiso?”».
Un discorso di Pio XII del 1946 pronunciato in occasione della beatificazione di ventinove dei 120 martiri cinesi canonizzati il 1° ottobre



Riceverete la virtù dello Spirito Santo, che verrà sopra di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e nella Samaria e sino all’estremità del mondo» (At 1, 8).
Queste parole del divino Maestro ai suoi apostoli erano dirette ad esprimere il carattere universale del suo regno; ma il senso cristiano comprese altresì, come per istinto, di quale testimonianza in modo particolare il Redentore parlasse; intese cioè che la testimonianza per eccellenza era quella del sangue, fino al sacrificio della vita, in omaggio alla «parola di verità» (
Ef 1, 13).

Da allora la Chiesa, suggellando il suffragio del senso cristiano, ha, in spirito di profondo e religioso rispetto, riservato a questa testimonianza del sangue il nome di «martirio». Ma anche da allora la Chiesa ha applicato quelle parole, rivolte da Cristo direttamente agli apostoli, a quanti gli rendono la medesima testimonianza. Questa doveva ben presto estendersi a tutti i tempi e a tutti i luoghi sulla faccia della terra; testimonianza universale, continua, permanente; varia per la molteplicità delle sue forme, come per la diversità dei testimoni; e l’apostolo Giovanni (
Ap 7, 9. 14) vide nel cielo una innumerevole schiera di eletti, di tutte le tribù e di tutte le nazioni, venuti dalla grande tribolazione, dopo aver lavato le loro stole nel sangue dell’Agnello, componendo coi loro svariati colori la bellezza del manto della Sposa di Cristo, la santa Chiesa.

Pio XII e la prima pagina dell’Osservatore Romano del 28 novembre 1946, dove apparve il discorso pronunciato dal Papa durante l’udienza del giorno precedente, mercoledì 27

Pio XII e la prima pagina dell’Osservatore Romano del 28 novembre 1946, dove apparve il discorso pronunciato dal Papa durante l’udienza del giorno precedente, mercoledì 27

Perché dunque si parla tanto spesso dell’era dei martiri, della terra del martirio, quasi non si riconoscesse che questa testimonianza e questi testimoni sono di tutti i tempi e di tutti i luoghi?
Gli è perché, quantunque permanente, continua, universale, formante la trama di tutti gli annali della Chiesa, la storia del martirio offre nondimeno a vicenda, sulle plaghe più distanti, punti più luminosi, focolari più vasti e più intensi: Roma e l’Oriente, l’Italia e la Francia, la Spagna e la Germania, l’Inghilterra e l’America, l’Africa e le Indie, la Polonia e l’Ungheria, il Giappone e la Cina, hanno rischiarato successivamente il mondo col loro sfolgorante splendore, per «illuminare quelli che giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte e per guidare i loro passi nei sentieri della pace» (
Lc 1, 79).

Il principio del nostro secolo e la terra di Cina segnano uno dei momenti più fulgidi nella storia del martirio. Raramente è apparsa così ricca la varietà mirabile dell’esercito dei martiri: Te Martyrum candidatus laudat exercitus.
Tutta la superficie di quel vasto impero fu imporporata del sangue dei testimoni di Cristo: religiosi e religiose, missionari venuti da lontane regioni e sacerdoti indigeni, uomini e donne, vecchi, giovani e fanciulli, dei ceti più elevati come dei più umili.


Oggi la grande famiglia di san Francesco è al posto d’onore coi ventinove dei suoi figli, delle sue figlie, dei suoi terziari, dei suoi discepoli, dei suoi collaboratori. La storia del martirio negli annali francescani è di una ampiezza e di una bellezza meravigliose, così antica come la storia dell’inclito Ordine, così giovane com’è esso stesso.

Alla testa di quei ventinove eroi procedono tre vescovi, venerandi per età, per saggezza e per diuturno lavoro apostolico: li seguono cinque religiosi, di cui quattro sacerdoti e un fratello laico; cinque giovani seminaristi, tutti terziari di san Francesco; e nove fedeli servi, di cui sei appartenenti egualmente al Terz’Ordine. Un mirabile gruppo di sette religiose Francescane Missionarie di Maria spicca in candida veste in mezzo a loro.
Essi provengono da nazioni e Paesi diversi: otto dall’Italia, cinque dalla Francia, una dal Belgio, una dall’Olanda; quattordici sono figli della Cina, che per la salvezza della loro amata patria si lasciano immolare dai loro compatrioti. Il capo di questa trionfante milizia, il beato vescovo Gregorio Grassi, ha sessantasette anni, la beata Maria della Pace ne ha soltanto venticinque e il beato Giovanni Wang non ne ha che sedici; è quasi un fanciullo, si diverte e giuoca nel cortile della sua prigione; allo stupore del suo superiore, risponde meravigliato egli stesso: «Padre, perché? Se ci uccideranno, non andremo forse in Paradiso?».
Come è diverso questo piccolo seminarista dalla dolorosa beata Maria di San Giusto, di cui tutta la vita fu una lotta eroica contro la ribellione dell’amor proprio e le tempeste interiori! Mentre altri crescevano in una pietà tranquilla e timida, il beato Teodorico Balat era nella sua fanciullezza un bricconcello che il suo curato dovette più di una volta correggere severamente.

Tutti e tutte sono pronti al martirio. La superiora, beata Maria Ermellina di Gesù, e la beata Maria Amandina pregavano ambedue il Signore di «dar forza ai martiri, ma non di risparmiare il martirio». E come multiforme apparisce questa grazia dello Spirito nelle anime! Ciò che aveva attratto la beata Maria Adolfina alla vita religiosa, era «il desiderio di soffrire per nostro Signore». La beata Maria Chiara partì per la Cina con entusiasmo.
A chi le parlava di un lungo sacrificio e di una lenta immolazione nel servizio dei lebbrosi, rispose: «Preferisco andare in Cina e farmi uccidere per Gesù».
Il futuro vicario apostolico Antonino Fantosati, ancora giovane religioso, ha un tutt’altro carattere; egli dichiara con ingenua franchezza che non se la sentirebbe molto di andare a farsi trucidare da quei bravi cinesi, ma, poiché il suo superiore lo desiderava, vi si recherebbe prontamente. Difatti andò e fu martirizzato come i suoi confratelli.
Diverso è anche il portamento di quel padre di famiglia, servo avventizio dei missionari, che volle essere unito a loro, dacché li seppe in pericolo, e corse dritto alla prigione, lasciando i suoi figlioletti alle cure della Provvidenza divina.

Potremmo continuare a lungo la rassegna dei contrasti che distinguono le figure dei martiri, anche restringendoli a questi ventinove, elevati testé agli onori degli altari.

Per qual motivo dunque mettiamo in rilievo tali differenze, se non per far risaltare anche meglio i lineamenti comuni, grazie ai quali tutti si rassomigliano incomparabilmente più di quanto si diversifichino per le loro originarie sembianze?
Per tutti la grazia del martirio, questa forma sopra ogni altra eccellente della grazia della perseveranza finale, è generalmente, da parte di Dio, il coronamento di tutta una serie di grazie scaglionate nel corso della vita; come, da parte dell’uomo, la testimonianza del sangue è, d’ordinario, la gemma terminale di una lunga catena di corrispondenze alla grazia. Mostrerebbe quindi di non conoscere che in modo assai superficiale il senso del martirio chi troppo facilmente lo attribuisse a qualche circostanza fortuita o a qualche colpo di folgore sulla via di Damasco.
Una simile illusione suppone che s’ignorino, da un lato, il lungo e segreto cammino dell’azione divina nell’anima e nel cuore degli eletti, dall’altro, la successione degli atti generosi che, durante una vita in cui non sono forse mancate le ombre, segna arcanamente l’itinerario per il quale recenti convertiti, peccatori penitenti, si trovano inopinatamente trasformati in eroici confessori di Cristo.

Questa serie di grazie, mediante le quali Dio conduce i suoi eletti verso il martirio, è spesso accompagnata da una preparazione, in cui il carattere naturale, la nascita; le condizioni di vita, l’educazione nella famiglia hanno la loro parte. In fondo al cuore del ragazzo irrequieto, come del giovanetto timido o della delicata fanciulla, arde la fiamma di un puro amore di Dio e delle anime, la brama generosa – vivace o calma – di vincersi, di dominare tutti i capricci della natura.

Poco importa che i particolari prosaici della computisteria curvino per lunghe giornate sugli austeri registri la fronte della beata Maria Ermellina e apparentemente isteriliscano nell’allineamento delle colonne di cifre lo zelo apostolico che la divora; o che la beata Maria di Santa Natalia, la contadina robusta, lieta di andare ad impiegare in rudi lavori la forza delle sue braccia, non giunga in Cina che per trovarvi, in luogo delle belle fatiche a cui aspira, l’apostolato della continua sofferenza.
Ma sotto i morsi del dolore ella si diceva felice, perché, esclamava, «quando si soffre, il cuore si distacca dalla terra», e fra le torture largamente inflittele da una terapia che non apportava alcun sollievo al suo male, faceva il suo tirocinio per il martirio. Altri lo fanno in maniera diversa; ma è ben raro che esso manchi del tutto.

La maggior parte di loro hanno iniziato questa formazione alla sofferenza, questa preparazione al martirio nella scuola di genitori cristiani; l’hanno proseguita nella vita religiosa o almeno in stretto contatto con questa; il che avvenne per i cinesi non meno che per gli europei. Tutti hanno vissuto in un’aura veramente francescana di semplicità, di generosità, di rinunzia e di costante mortificazione, nella perfetta letizia del patriarca di Assisi; i seminaristi, ed anche i servi, sono animati dal suo spirito, i più divenuti membri della sua grande famiglia con la loro appartenenza al Terz’Ordine.

Che dire di quelle sante religiose, formate al sacrificio e all’amore nell’Istituto di Maria della Passione? Questo non aveva ancora venticinque anni di vita; era al principio del suo sviluppo che doveva essere magnifico; un immenso campo di lavoro si presentava già al suo zelo; aveva bisogno di religiose in gran numero e di straordinario valore; ed ecco che in un sol colpo sette vittime si offrono al cielo, e quali vittime! vittime che promettevano per la Chiesa di Cristo una mirabile messe.

Gli è che esse avevano conosciuto la grande fecondità dell’immolazione, l’invincibile autorità della testimonianza del sangue. E l’avevano compresa a loro modo, dotto o ingenuo, anche quei martiri indigeni, e specialmente quegli adolescenti, dinanzi ai quali la vita apostolica apriva le più larghe e favorevoli previsioni.

Spighe cariche di speranza, sembravano dover essere le primizie del clero della loro cara patria. Le spighe sono state falciate; il loro sangue ha bagnato il suolo ma, seme di cristiani ha fecondato la terra. Ed ecco che questo clero, il quale umanamente avrebbe dovuto soccombere nelle persecuzioni e nei cataclismi, che si sono succeduti da più di quarant’anni, ha germogliato e fiorito, ha fruttificato; ecco che ha veduto di recente costituita in Cina la gerarchia episcopale; ecco che nel suo grembo brilla, quasi riflesso del sangue dei martiri, la porpora di un principe della Chiesa, accolto trionfalmente da tutto il suo popolo.

Unito al sangue di Cristo, il sangue dei martiri grida verso il cielo più altamente che il sangue di Abele, sale al cospetto del Signore come incenso di soave odore per far discendere sull’immenso suolo cinese e sulla terra intiera le grazie del Padre dei lumi e delle misericordie, in auspicio delle quali impartiamo di gran cuore a voi tutti, diletti figli e figlie, la nostra paterna apostolica benedizione.



[SM=g1740733]
Caterina63
00sabato 25 agosto 2012 22:56

Missionario, cioè padre


La lettera apostolica Maximum illud di Benedetto XV è considerata la magna charta dell’attività missionaria in epoca contemporanea. Fu sollecitata anche dalla situazione dei cattolici in Cina agli inizi del secolo XX


di Lorenzo Cappelletti


Benedetto XV

Benedetto XV

La lettera apostolica Maximum illud del 30 novembre 1919 non è certo un documento sconosciuto né dimenticato, almeno in ambito ecclesiastico. Dagli studiosi del settore è riconosciuta come la magna charta dell’attività missionaria in epoca contemporanea. Si dimentica semmai di chiedersi perché autore di un documento di profilo così alto sia stato un Papa di profilo ritenuto così basso.

A cominciare dalla stessa autocoscienza che aveva di sé Benedetto XV (al secolo Giacomo della Chiesa). Nonostante l’edulcorazione che se ne fa, infatti, nel recente Il Papa sconosciuto di John F. Pollard, va ritenuta autentica la testimonianza del conte Carlo Sforza, secondo il quale "della Chiesa stesso ammetteva di non sapere nulla di questioni teologiche" (p. 23). Di Benedetto XV, pertanto, si parla solo in relazione agli avvenimenti bellici e postbellici della Grande guerra. E si ricorda in genere poco più della qualificazione di quella guerra "comme un massacre inutile". Fatto comunque che basterebbe da solo a tramandarne la memoria, perché fu lui personalmente, nella nota in francese del 1� agosto 1917, a volere quella espressione. Ma la statura di questo Pontefice si manifesta anche altrimenti. Se ne deve apprezzare innanzitutto la capacità di valorizzare e di rispettare gli altri — magari proprio perché non aveva una stima troppo alta di se stesso — e la preveggenza.

Fu infatti il talent scout dei futuri Pio XI (che aveva a sua volta al seguito come giovanissimo segretario Giovanni Battista Montini), Pio XII e Giovanni XXIII, che scelse per missioni difficili in Polonia, in Germania e in Bulgaria, e fu il precursore di tanti successivi loro atteggiamenti: non solo di fronte alla guerra, in quanto volle mantenere una assoluta imparzialità fra le nazioni belligeranti, ma anche di fronte all’Oriente, cristiano e non, come anche di fronte alla realtà ecclesiale e politica italiana, di cui guardò con favore una più moderna impostazione. Non nova sed noviter, scriveva nella sua enciclica programmatica Ad beatissimi Apostolorum Principis del 1� novembre 1914.
Esempio di questa capacità di valorizzazione e di preveggenza, che nella Chiesa non è altro che fedeltà alla Tradizione (nella medesima prima enciclica ribadiva come legge assoluta nelle cose di fede quella espressa nell’adagio dei Padri: nihil innovetur nisi quod traditum est), è la lettera apostolica sulla propagazione in tutto il mondo della fede cattolica Maximum illud.

Origine cinese della Maximum illud
Andiamo a vedere come nasce la lettera. Infatti comprendere un documento del Magistero — benché non si riduca a comprenderne la genesi storica, perché il valore delle affermazioni in esso contenute va al di là delle circostanze che lo hanno determinato e di colui o di coloro che ne sono stati magari gli estensori materiali — a volte non può prescindere da circostanze e persone che ne sono storicamente all’origine. Ciò vale in modo speciale per la Maximum illud, perché nel suo testo permangono espressioni contenute in una serie di note inviate a Propaganda Fide negli anni precedenti da alcuni missionari in Cina.
In esse si rilevava sostanzialmente che interessi di carattere nazionalistico favorivano in Cina la percezione della Chiesa come realtà paracoloniale asservita a interessi di potenze straniere e anche all’avidità di singoli.
Le note determinarono una consultazione dei vicari apostolici residenti in Cina, nel rispondere alla quale il vicario di Canton monsignor de Guébriant, fra gli altri, oltre a confermare le osservazioni fatte nelle note e a mettere l’accento sulle responsabilità dei responsabili, sollecitava una lettera da Roma. Nelle sue intenzioni essa doveva essere rivolta solo ai vescovi della Cina e invece finì per diventare, sulla base delle sue osservazioni e di quelle dei missionari, la lettera apostolica Maximum illud. Che uscì all’indomani della fine della guerra, quando la preoccupazione per le missioni estere toccava il suo zenit. L’Inghilterra, infatti, per motivi nazionalistici, era in procinto di cacciare i missionari di origine tedesca da tutte le sue colonie e la Cina, seguendo quel cattivo esempio, stava per fare altrettanto.


Assecondare il dono dello Spirito Santo
Prima di ripercorrere il contenuto della lettera, c’è innanzitutto da osservare che la Maximum illud contiene solo citazioni della Sacra Scrittura, mentre manca in essa qualunque citazione del precedente Magistero. Il motivo di questa inusuale impostazione può essere stato contingente, cioè la particolare genesi che il documento aveva avuto, ovvero corrispondenze, che non potevano essere citate, di semplici missionari, ma il risultato è una freschezza che altri documenti pontifici non hanno. Chiunque, anche oggi (a condizione solo di una traduzione accettabile), può leggere, capire e trarre qualche immediato beneficio dalla Maximum illud, benché essa sia destinata di per sé solo alle autorità missionarie. Risultato inverso, paradossalmente, conoscono tanti documenti recenti destinati a tutti i fedeli.

Potremmo dire che la tradizione da cui essa scaturisce, oltreché dalle citazioni della Sacra Scrittura, è data in apertura solo attraverso un fitto elenco di nomi dei santi missionari più cari alla memoria dei fedeli dei vari luoghi.
"Santorale" che è seguito da altre parole introduttive, il che non vuol dire superflue: "Con viva gioia e gratitudine vediamo che, in più parti della cristianità, cresce sempre più la sollecitudine di persone buone, mossa dallo Spirito Santo, nel promuovere e sviluppare le missioni estere. E appunto per assecondare tale sollecitudine e darle impulso, come è nostro dovere e ardente desiderio, dopo aver implorato con molte preghiere la luce e l’aiuto del Signore, vi inviamo questa lettera, venerabili fratelli". Così il tema missionario appare determinato anzitutto dall’assecondare il dono dello Spirito Santo e non dall’urgenza di arruolare o di arringare militanti. Troppo recente era nel Papa il ricordo di arruolati, compresi tanti sacerdoti, destinati solo a un’"orrenda carneficina", come l’aveva chiamata.


Il corpo della lettera
Il corpo della lettera può essere suddiviso in tre parti. Nella prima il Papa tratta della responsabilità di chi presiede alle missioni. La seconda dà le linee guida più urgenti ai missionari impegnati sul campo. La terza definisce quale possa essere l’aiuto all’azione missionaria da parte di tutti i fedeli.

1. Porre l’accento sulla responsabilità dei responsabili, chiamati a essere veri padri, si potrebbe considerare scontato per un papa, cioè per chi per definizione dovrebbe essere padre. In realtà si tratta di una sottolineatura tradizionale, ma Benedetto XV la fa sua in modo particolare. Tanto che Alberto Monticone nel tracciare il profilo di questo pontificato per il volume XXII/1 del Fliche-Martin parla per esso di "primato della paternità" (p. 158). Fin dal suo primo appello, il Papa, nel motivare lo sgomento che all’atto dell’elezione lo aveva preso di fronte all’Europa devastata, scrisse: "Dal buon pastore Gesù Cristo, di cui siamo rappresentanti nel governo della Chiesa, abbiamo [in dote] proprio questo, di abbracciare con viscere di carità paterna tutti quanti i suoi agnelli e le sue pecore" (esortazione Ubi primum dell’8 settembre 1914). Naturalmente la Maximum illud non si sottrae a questo primato: "Tutti quelli che in qualsiasi modo lavorano in questa vigna del Signore occorre che sappiano per esperienza [experimento cognoscant oportet] e che realmente avvertano che a presiedere la missione c’è un padre, vigile, diligente, pieno di carità, che con passione abbraccia tutti e tutto, che si rallegra coi suoi nelle circostanze liete e ne condivide il dolore nelle avverse, che asseconda e favorisce i tentativi e le iniziative lodevoli, che insomma considera come suo proprio tutto ciò che riguarda chi gli sta sottoposto". Anche l’esortazione a che si sviluppi un clero indigeno nei Paesi di missione, lungi da scaturire da ragioni ideologiche o, ciò che è lo stesso, nazionalistiche (secondo un uguale e contrario nazionalismo in favore dei Paesi di missione), è lo specchio di una sollecitudine paterna e lungimirante che il Papa cerca di trasmettere ai responsabili.

Questa apertura della lettera dedicata alla responsabilità paterna di chi guida, benché dettata da ragioni contingenti proprie delle missioni estere, risulta particolarmente attuale nella situazione odierna che, tante volte si ripete, è di nuova evangelizzazione. Infatti il richiamo a una missionarietà permanente rischia solo di schiacciare i semplici fedeli, se qualcuno non li aiuta con paterna carità a portare il peso della vita quotidiana, ambito della missione cristiana. "Vi auguro di essere padri e madri" ha ripetuto negli ultimi tempi don Giussani.

Padre Leone Nani, missionario in Cina, conferisce il battesimo ad un gruppo di bambini

Padre Leone Nani, missionario in Cina, conferisce il battesimo ad un gruppo di bambini

2. Nella seconda parte, da cui è tratto il brano che pubblichiamo, la lettera mette in guardia il missionario da due pericoli. Innanzitutto si dice che non è una civiltà terrena che si è chiamati a propagare, ma una cittadinanza celeste. Come il missionario conosce per esperienza se il responsabile è padre, così "gli uomini per quanto barbari e selvaggi capiscono piuttosto bene che cosa cerchi per sé e cosa chieda loro il missionario, e col fiuto riconoscono con grande sagacia [sagacissimeque odorando perspiciunt] se egli desideri qualcos’altro che non sia il loro bene spirituale". Soprattutto se una popolazione, benché barbara e selvaggia, fosse "indotta a credere che la religione cristiana sia qualcosa che appartiene a una qualche nazione straniera, abbracciando la quale religione uno sembra mettersi sotto la tutela e il potere di un altro Paese e sottrarsi alla legge del proprio". È a questo punto che il Papa fa riferimento per contrasto al "missionario cattolico degno di questo nome", perché cattolico è il "ministro di quella religione che, abbracciando tutti gli uomini che adorano Dio in spirito e verità, non è straniera ad alcuna nazione".

La seconda avvertenza, fatta appoggiandosi sulla citazione di 1Tm 6,8 ("Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci"), è simile alla prima: non si deve cercare di acquisire altro che anime.

I documenti di Benedetto XV sono ricchi di riferimenti alle due lettere a Timoteo. Già nell’enciclica programmatica Ad beatissimi Apostolorum Principis, sempre dalla 1Tm traeva la spiegazione sintetica dei mali di cui soffre l’umana società: "L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" (6,10). Solo che qui alla citazione paolina faceva seguito una interessante disamina di taglio agostiniano sul desiderio della felicità: "Quando si è fatto penetrare negli animi l’errore esiziale che l’uomo non deve sperare di essere felice nella vita eterna, ma che quaggiù, quaggiù può essere felice col godere delle ricchezze, degli onori, dei piaceri di questa vita, non c’è da meravigliarsi che gli uomini, naturalmente fatti per la felicità [atura factos ad beatitatem], con la stessa forza con cui sono trascinati all’acquisto di questi beni respingeranno qualunque cosa che ritardi o impedisca tale acquisizione".

3. L’aiuto che può venire alle missioni da parte dei fedeli, innanzitutto attraverso la preghiera, costituisce il contenuto della terza parte. Tale aiuto è un dovere di carità e di gratitudine al Signore: ""Il Signore comandò a ciascuno di darsi pensiero del prossimo suo" (Eccli 17,12); e questo dovere è tanto più stretto quanto maggiore è la necessità in cui versa il prossimo. Ma quali uomini hanno bisogno del nostro aiuto fraterno più di coloro che non hanno la fede? Infatti, ignorando Dio, sono in balìa di passioni cieche e sfrenate e soffrono la più dura schiavitù sotto il demonio. Perciò tutti quelli che, secondo le loro possibilità, contribuiranno a illuminarli, specialmente aiutando l’opera dei missionari, compiranno un dovere importante e dimostreranno, in modo assai accetto al Signore, la loro gratitudine per il dono della fede".

Avviandosi a concludere la lettera, il Papa avverte le parole del Signore a Pietro "Duc in altum", "Prendi il largo" come rivolte a sé: "Quasi che il Signore ci esortasse, come fece quella volta con Pietro dicendogli "Prendi il largo", quanto ci sentiamo spinti dall’ardore di una carità paterna a portare gli uomini tanti quanti sono al Suo abbraccio!".

Molte volte si fa riferimento a questo invito del Signore. Non bisogna dimenticare però che si parte fiduciosi per la pesca solo quando si fiuta, in chi ripete letteralmente quelle parole, un riverbero della Sua infinita carità.

Missionario di Cristo, non della propria nazione


Un brano della Maximum ilud


Nostra traduzione


Sarebbe certo deplorevole se vi fossero dei missionari così dimentichi della propria dignità da pensare più alla loro patria terrena che a quella celeste; e fossero preoccupati più del dovuto di dilatarne la potenza e di estenderne anzitutto la gloria.
«Sarebbe certo deplorevole se vi fossero dei missionari così dimentichi della propria dignità da pensare più alla loro patria terrena che a quella celeste; e fossero preoccupati più del dovuto di dilatarne la potenza e di estenderne anzitutto la gloria. Sarebbe questa la più triste piaga dell’apostolato che paralizzerebbe nei banditori del Vangelo ogni zelo per le anime e ne diminuirebbe l’autorità presso la gente.
Infatti gli uomini per quanto barbari e selvaggi capiscono piuttosto bene che cosa cerchi per sé e cosa chieda loro il missionario, e col fiuto riconoscono con grande sagacia se egli desideri qualcos’altro che non sia il loro bene spirituale. Poniamo che egli per certi versi non sia libero da propositi terreni e che non si comporti sempre da uomo apostolico, ma sembri adoprarsi anche per gli interessi della sua patria: tutta la sua opera risulterà subito sospetta per la popolazione, che facilmente sarà indotta a credere che la religione cristiana sia qualcosa che appartiene a una qualche nazione straniera, abbracciando la quale religione uno sembra mettersi sotto la tutela e il potere di un altro Paese e sottrarsi alla legge del proprio.


Davvero ci recano grande dispiacere quelle riviste missionarie diffuse in questi ultimi anni che manifestano non tanto il desiderio di dilatare il regno di Dio quanto di allargare l’influenza del proprio Paese: e ci meravigliamo che non ci si preoccupi di come queste cose allontanino l’animo dei pagani dalla santa religione. Non agisce così il missionario cattolico degno di questo nome: egli al contrario, tenendo sempre a mente che è un inviato non della propria nazione ma di Cristo, si comporta in modo che tutti lo riconoscano senza possibilità di dubbio come ministro di quella religione che, abbracciando tutti gli uomini che adorano Dio in spirito e verità, non è straniera ad alcuna nazione e “in cui non c’è né greco né giudeo, né circoncisione né incirconcisione, né barbaro né scita, né schiavo né libero: ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).

A un’altra cosa deve fare molta attenzione il missionario: a non voler acquisire che anime. Ma su questo non c’è bisogno di dire molto. Infatti chi fosse avido di guadagno come potrà pensare unicamente alla gloria divina, come dovrebbe, e essere pronto a dare ogni cosa, finanche la vita, per promuoverla conducendo altri alla salvezza? Si aggiunga che in tal modo costui verrebbe a perdere molta della sua autorità presso gli infedeli specialmente se, come è facile che accada, il desiderio del guadagno fosse già diventato vizio di avarizia; infatti non c’è niente di più spregevole di fronte agli uomini né di più indegno di fronte al regno Dio dell’abietta avarizia.
Il buon propagatore del Vangelo seguirà anche in questo con grande zelo l’Apostolo delle genti che non solo esortò così Timoteo: “Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci” (1Tm 6,8), ma tenne in così gran conto un atteggiamento disinteressato che, pur dentro un’attività incessante, si procacciava il necessario col lavoro delle sue mani».



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Caterina63
00giovedì 18 ottobre 2012 15:01

I cento anni del Catechismo di san Pio X

san Pio X

Il 18 ottobre del 1912 il santo Papa approvò la nuova edizione del Catechismo della dottrina cattolica, prescritta a tutta la provincia ecclesiastica di Roma


di Giuseppe Adernò

ROMA, giovedì, 18 ottobre 2012 (ZENIT.org) - Sono trascorsi cento anni dalla pubblicazione del primo catechismo che porta il nome di San Pio X, formidabile impresa editoriale, straordinario sussidio contro l’ignoranza religiosa, strumento di educazione e di dottrina che ha accompagnato per i sentieri della fede intere generazioni , attuale anche oggi, in riposta al sempre dilagante relativismo che spadroneggia in ogni dove, lasciando mano libera al “fai da te” anche nei confronti della religione.

Era il 18 ottobre del 1912 quando il santo Papa Pio X (1813-1914) approvò la nuova edizione del Catechismo della dottrina cattolica, prescritta a tutta la provincia ecclesiastica di Roma, scrivendo: «Fin dai primordi del nostro Pontificato rivolgemmo la massima cura all’istruzione religiosa del popolo cristiano e in particolare dei fanciulli, persuasi che gran parte dei mali che affliggono la Chiesa provengono dall’ignoranza della sua dottrina e delle sue leggi».

In un’intervista al settimanale “30 Giorni” nel 2003, l’allora cardinale Ratzinger, oggi Benedetto XVI ha dichiarato che: «La fede come tale è sempre identica. Quindi anche il Catechismo di san Pio X conserva sempre il suo valore. (…) questo non esclude che ci possano essere persone o gruppi di persone che si sentano più a loro agio col Catechismo di san Pio X. che può essere considerato una perfetta sintesi della dottrina cattolica che il Santo Padre Pio X fece realizzare, rielaborando un testo che egli, aveva già scritto, quando era Vescovo di Mantova.

Da catechista e da giovane parroco aveva ben compreso la ragione e l’importanza dell’insegnamento della dottrina: la prima pietra per edificare la dimora cristiana di ciascuna anima. Se la dimora non ha fondamenta la Fede diventa puro sentimento religioso e le scelte di vita sono spesso slegate dai principi della Chiesa, operando senza regole e senza punti fermi di riferimento.

Nella nota introduttiva del “catechismo minimo” si legge inoltre che “i genitori e i padroni (datori di lavoro) sono obbligati a procurare che i loro figli o dipendenti imparino la Dottrina cristiana e se trascurano tale obbligo si rendono colpevoli davanti a Dio”

Il senso di obbligo ed il connesso “rendersi colpevoli davanti a Dio” manifesta chiaramente la ferma volontà nel portare avanti un progetto di educazione cristiana che non doveva escludere nessuno e che per i poveri e gli operai costituiva la prima occasione di incontro con la fede e con la formazione religiosa, capace di dare senso e risposta alla propria vita

L’imponente lavoro venne realizzato con l’ausilio di una Commissione per assicurare, con espressioni linguistiche appropriate, la facilità di comprensione, nonostante la profonda consistenza dei concetti espressi. Il metodo adottato fu quello della formulazione di singole domande brevi con relative risposte incisive ed essenziali

Nel 1930 fu elaborata inoltre un’edizione ridotta, indirizzata ai bambini e ai ragazzi che conteneva un numero inferiore di domande e risposte che nei corsi di catechismo venivano fatte imparare proprio a memoria con l’obiettivo che rimanesse impressa la dottrina, senza dubbi o confusioni di sorta. Questa architettura sintetica, chiara ed immediata, ha prodotto eccellenti risultati nelle generazioni di italiani che a questa scuola si sono formati.

Dopo il Concilio Vaticano II, il Catechismo di san Pio X cadde generalmente in disuso e a partire dagli anni Settanta fu progressivamente abbandonato.

Il Catechismo di san Pio X potrà avere anche in futuro degli amici “si legge nell’articolo del cardinale Ratzinger (2003) e nell’Anno della fede che celebra il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticani II e il ventennale del Catechismo della Chiesa cattolica non si può dimenticare il primo centenario del Catechismo di San Pio X, libro “mastro” e guida del catechista che, come scriveva il beato Giacomo Alberione, fondatore della Compagnia di San Paolo, dovrebbe possedere le seguenti abilità e competenze: “essere pio, istruito, esemplare; conoscere bene ciò che deve insegnare e possedere delle qualità nel il modo d’insegnare; saper organizzare la sua classe e le classi di catechismo, luogo di studio e di apprendimento, ma soprattutto deve amare le anime e non risparmiare nulla per esse (…) operando così un grande bene tra la gioventù e gli adulti, nonostante tutte le accresciute difficoltà di oggi, che sono realmente tante e gravi».

“Per i suoi effetti benefici sui bambini e su tutti i cattolici, il valore storico e culturale del Catechismo di San Pio X non è quantificabile e come tutti i capolavori che la Chiesa dona ai suoi figli, non conosce né crepe, né stagioni, ha scritto Cristina Siccardi, ed in questo Anno della fede ritorna di grande attualità il messaggio del Catechismo di San Pio X per meglio comprendere la fede in Dio che è “l’Essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra” e per vivere secondo Dio dobbiamo “credere le verità rivelate da Lui e osservare i suoi comandamenti, con l’aiuto della sua grazia che si ottiene mediante i sacramenti e l’orazione”

Sono queste le formule di risposta alle domande guida del Catechismo e sono sempre attuali in ogni tempo, essenziali, sintetiche e vere.

A tutti noi il compito di ripassarle, esercitando la memoria e per le nuove generazioni occorrerà forse una nuova metodologia telematica ed elettronica per far apprendere tali principi basilari. Ben vengano i nuovi metodi e gli strumenti tecnologici, purché resti sempre salda la “dottrina”.




Ricordiamo anche il Compendio del Catechismo aggiornato da papa Benedetto XVI


Caterina63
00venerdì 30 novembre 2012 20:47

Una sola ragione possono avere gli uomini per non obbedire...

 


 
[SM=g1740733]  Premessa
Papa Leone XIII nell'enciclica DIUTURNUM del 29 giugno 1881 insegna che: "una sola ragione possono avere gli uomini di non obbedire, se cioè si pretende da essi qualsiasi cosa che contraddica chiaramente al diritto divino e naturale, poiché ogni cosa, nella quale si viola la legge di natura e la volontà di Dio, è ugualmente iniquità sia il comandarla che l'eseguirla...NB: quando Sua Emminenza parla di principi è inteso sia civili sia ecclesiastici...

 
Leggiamo insieme quest' enciclica:
 
 
 
 


DIUTURNUM ILLUD 
LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

 
Quella lunga e nefandissima guerra mossa alla divina autorità della Chiesa ha condotto al punto cui essa tendeva, vale a dire al comune pericolo della umana società e specialmente del civile principato, sul quale in gran parte poggia la pubblica salvezza.
Ciò che è accaduto in questo nostro tempo lo evidenzia in modo particolare. Infatti, oggi le passioni popolari rifiutano più audacemente che mai qualsiasi autorità di comando, ed è tanta dovunque la licenza, sono tanto frequenti le sedizioni e i tumulti, che coloro i quali reggono la cosa pubblica non solo si vedono spesso negata l’obbedienza, ma non vedono abbastanza tutelata la loro stessa incolumità personale. Da lungo tempo infatti si è operato in modo che essi venissero in dispregio e in odio alla moltitudine; ed all’erompere delle fiamme del concepito livore molte volte in breve spazio di tempo la vita dei principi, o con occulte insidie o con aperti assassinii, è stata esposta a morte. Fu presa testé d’orrore tutta Europa alla nefanda uccisione di un potentissimo Imperatore, e mentre sono ancora attoniti gli animi per l’enormità di tale misfatto, uomini perduti non hanno ritegno di lanciare pubblicamente minacce ed intimidazioni agli altri principi d’Europa.

Questi pericoli dei comuni interessi che Ci sono dinanzi agli occhi, Ci mettono gravemente in pensiero, in quanto vediamo quasi continuamente minacciate la sicurezza dei principi e la tranquillità dei regni, unitamente alla salute dei popoli. Tuttavia, però, la divina virtù della religione cristiana ha fornito alla cosa pubblica solidi fondamenti di stabilità e di ordine, non appena penetrò nei costumi e nelle istituzioni civili. Non piccolo né ultimo frutto di tale virtù è l’equo e sapiente temperamento dei diritti e dei doveri nei principi e nei popoli. Infatti, nei precetti e negli esempi di Cristo Signore è meravigliosa la virtù di moderare nel dovere tanto quelli che obbediscono quanto quelli che comandano, e di mantenere fra loro quel naturale accordo, quasi un’armonia di volontà, da cui nasce il tranquillo e imperturbato corso delle pubbliche cose. Pertanto, essendo Noi, per concessione di Dio, preposti a reggere la Chiesa cattolica, custode ed interprete delle dottrine di Cristo, giudichiamo essere dovere della Nostra autorità, Venerabili Fratelli, ricordare pubblicamente ciò che esige da ciascuno in questo genere di cose la verità cattolica; dal che emergerà anche per quale via ed in quale modo si debba in tanto pauroso stato di cose provvedere alla pubblica salute.

Quantunque l’uomo, spinto da una certa superbia e arroganza cerchi spesso di spezzare i freni del comando, tuttavia non arrivò mai a potere non obbedire a nessuno. Infatti, in qualunque società e comunità umana è necessario che alcuni comandino, affinché la società, priva del principio o del capo che la regge, non si sfasci e non sia impedita di conseguire quel fine per il quale si formò e si costituì. Però se non si poté arrivare ad eliminare il potere dal seno della società civile, furono certo adoperate tutte le arti per togliere ad esso forza e sminuirne la maestà, e ciò principalmente nel secolo XVI, quando una funesta novità di opinioni infatuò moltissimi. Da quel tempo, la moltitudine non solo volle dare a se stessa una libertà più ampia, che fosse di uguaglianza, ma sembrò anche voler foggiare a proprio talento l’origine e la costituzione della società civile.
Anzi, moltissimi dei tempi nostri, camminando sulle orme di coloro che nel secolo passato si diedero il nome di filosofi, dicono che ogni potere viene dal popolo: per cui coloro che esercitano questo potere non lo esercitano come proprio, ma come dato a loro dal popolo, e altresì alla condizione che dalla volontà dello stesso popolo, da cui il potere fu dato, possa venire revocato. Da costoro però dissentono i cattolici, i quali fanno derivare da Dio il diritto di comandare come da naturale e necessario principio.

Importa però notare qui che coloro i quali saranno preposti alla pubblica cosa, in talune circostanze possono venire eletti per volontà e deliberazione della moltitudine , senza che a ciò sia contraria o ripugni la dottrina cattolica. Con tale scelta tuttavia si designa il principe, ma non si conferiscono i diritti del principato: non si dà l’imperio, ma si stabilisce da chi deve essere amministrato. Né qui si fa questione dei modi del pubblico reggimento, poiché non vi è alcuna ragione perché la Chiesa non approvi il principato d’uno o di molti, purché esso sia giusto e rivolto al comune vantaggio. Pertanto, salva la giustizia, non s’impedisce ai popoli di procurarsi quel genere di reggimento che meglio convenga alla loro indole, o alle istituzioni ed ai costumi dei loro maggiori.

Del resto, per quel che riguarda la potestà di comandare, la Chiesa rettamente insegna che essa proviene da Dio; infatti essa trova apertamente attestato ciò nelle sacre Lettere e nei monumenti della cristiana antichità, né inoltre si può escogitare alcuna altra dottrina che sia più conveniente alla ragione e più consentanea alla salute dei principi e dei popoli.
Infatti i libri del Vecchio Testamento in molti luoghi chiarissimamente confermano che in Dio è la fonte della umana potestà. "Per me i re regnano..., per me i principi comandano e i potenti amministrano la giustizia" (Pr 8,15-16). E altrove: "Date ascolto, voi che reggete le nazioni... poiché da Dio vi è data la potestà e dall’Altissimo la virtù" (Sap 6,3-4). Il che è contenuto anche nel libro dell’Ecclesiastico: "A ciascuna gente Iddio prepose il reggitore" (Sir 17,14). Nondimeno queste cose che gli uomini avevano appreso da Dio, a poco a poco le disimpararono per la pagana superstizione.
Questa, come corruppe le vere specie delle cose e moltissime nozioni, così corruppe anche la forma genuina e la bellezza del principato. Poi, quando risplendette il Vangelo cristiano, la vanità cedette alla verità, e nuovamente cominciò a brillare quel nobilissimo e divino principio da cui emana ogni autorità. Al Governatore romano, il quale credeva di avere ed ostentava la potestà di assolvere e di condannare, Cristo Signore rispose: "Non avresti alcuna potestà contro di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto" (Gv 19,11).

Sant’Agostino, spiegando questo passo, "Impariamo, scrive, ciò che egli disse, e ciò che insegnò anche per bocca dell’Apostolo, che non esiste potestà se non da Dio" . Infatti la incorrotta voce degli Apostoli fu sempre come un’immagine della dottrina e dei precetti di Gesù Cristo. Ai Romani, sudditi di principi pagani, Paolo propone questa sublime e gravissima sentenza: "Non esiste potestà se non da Dio", e da tale principio conclude: "Il principe è ministro di Dio" (Rm 13,1.4).

I Padri della Chiesa professarono e si sforzarono di diffondere tale dottrina, alla quale erano stati educati. "Non attribuiamo, dice Sant’Agostino, la potestà di dare regno ed impero se non al vero Dio" . In linea con lo stesso pensiero, San Giovanni Crisostomo dice: "Che vi siano i principati e che alcuni comandino ed altri siano soggetti, e che tutto non vada a caso e in disordine... dico essere opera della divina sapienza" . Questo stesso concetto attestò San Gregorio Magno dicendo: "Confessiamo che la potestà agl’imperatori ed ai re è data dal cielo" .

Anzi, i santi Dottori presero ad illustrare questi stessi precetti anche col lume naturale della ragione, affinché anche a quelli che hanno per guida la sola ragione, essi apparissero del tutto retti e veri. In verità la natura, o meglio l’Autore della natura, Dio, impone agli uomini di vivere in società; il che è luminosamente dimostrato e dalla facoltà di conversare, che è la più grande conciliatrice della società, e da moltissime innate tendenze dell’anima e dalla necessità di molte e grandi cose, che gli uomini solitari non possono conseguire, e che uniti ed associati agli altri conseguono. Ora poi non può né esistere né concepirsi una società, in cui qualcuno non temperi le volontà dei singoli, in modo da formare di tutte una cosa sola, e rettamente le diriga al bene comune. Dunque Dio volle che nella civile società vi fossero coloro che comandassero alla moltitudine. Ed è inoltre assai importante che coloro dalla cui autorità la cosa pubblica è amministrata possano obbligare i cittadini ad obbedire, e che il non obbedire sia peccato per questi.

Nessun uomo però ha in sé o da sé di che potere, con siffatti vincoli di comando, legare la libera volontà degli altri. Soltanto a Dio, creatore e legislatore di tutte le cose, appartiene questo potere: e quelli che lo esercitano lo debbono esercitare come trasmesso loro da Dio. "Uno solo è il legislatore e il giudice che può perdere e liberare" (Gc 4,12). Il che si avvera ugualmente in ogni genere di potere. Quello che è nei sacerdoti è tanto noto che viene da Dio, che questi presso tutti i popoli sono ritenuti e chiamati ministri di Dio. Similmente la potestà dei padri di famiglia reca espressa in sé una certa effigie e forma dell’autorità di Dio "da cui ogni paternità prende nome in cielo e in terra" (Ef 3,15). In tal modo i diversi generi di potestà hanno tra loro mirabili somiglianze, in quanto qualsivoglia forma di comando e di autorità trae origine dall’unico e stesso autore e signore che è Dio.

Coloro i quali pretendono che la società civile sia nata dal libero consenso degli uomini, derivando dallo stesso fonte l’origine della stessa potestà, dicono che ciascun uomo cedette una parte del suo diritto, e volontariamente tutti si diedero in potere di colui nel quale fosse accumulata la somma dei loro diritti. Ma è grande errore non vedere ciò che è manifesto, cioè che gli uomini non essendo una razza selvatica, indipendentemente dalla loro stessa libera volontà sono portati dalla natura alla socievole comunanza; inoltre, il patto di cui si parla è manifestamente fantastico e fittizio e non vale a dare alla potestà politica tanta forza, dignità e stabilità quanta ne richiedono la tutela della pubblica cosa e i comuni vantaggi dei cittadini. Il principato avrà tutte queste qualità e tutti questi presidi soltanto se si comprenderà che esso deriva dall’augusto e santissimo fonte che è Dio.

Non si può trovare nessuna affermazione che sia non solo più vera, ma anche più vantaggiosa. Infatti, la potestà dei reggitori civili, essendo quasi una comunicazione della potestà divina, acquista di continuo, per questo stesso motivo, una dignità maggiore della umana: non già quella empia e grandemente assurda cercata un tempo dagli imperatori pagani, che si arrogavano onori divini, ma quella vera e solida, avuta quasi per dono e beneficio divino. Per cui sarà necessario che i cittadini siano soggetti ed obbedienti ai principi come a Dio, non tanto per timore delle pene quanto per ossequio alla maestà, non già per motivo di adulazione, ma per coscienza di dovere. Con che l’impero starà molto più stabilmente collocato nel suo grado. Infatti i cittadini, sentendo la forza di questo dovere, debbono necessariamente aborrire dalla nequizia e dall’arroganza, persuasi, come debbono essere, che chi resiste alla potestà politica, resiste alla volontà divina; che chi rifiuta onore ai principi, lo rifiuta a Dio stesso.

In questa dottrina l’Apostolo Paolo erudì specialmente i Romani, ai quali sulla riverenza che si deve ai principi scrisse con tanta autorità e tanto peso da non potersi concepire nulla di più grave. "Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, poiché non c’è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna... Perciò è necessario stare sottomessi non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza" (Rm 13,1.2.5). Consentanea a questa è la preclara sentenza del Principe degli Apostoli Pietro: "State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni, perché questa a la volontà di Dio" (1Pt 2,13-15).
 
Una sola ragione possono avere gli uomini per non obbedire: qualora cioè si pretenda da essi qualche cosa che ripugni apertamente al diritto naturale e divino, in quanto ogni volta in cui si vìola la legge di natura e la volontà di Dio è ugualmente iniquo tanto comandare ciò, quanto eseguirlo.
Se a qualcuno dunque avvenga di trovarsi costretto a scegliere fra queste due cose, vale a dire se disprezzare i comandi di Dio o quelli dei principi, sappia che si deve obbedire a Gesù Cristo, il quale comandò di rendere "a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio" (Mt 22,21) e sull’esempio degli Apostoli deve coraggiosamente rispondere: "È doveroso obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (At 5,29).
Né tuttavia coloro che in tal modo si comportano sono da accusare di aver mancato all’obbedienza, poiché se il volere dei principi ripugna al volere e alle leggi di Dio, essi stessi eccedono la misura della loro potestà e pervertono la giustizia: né in tal caso può valere la loro autorità, la quale è nulla quando non vi è giustizia.
 
Perché poi nella potestà si mantenga la giustizia, importa grandemente che coloro i quali amministrano le città... 
intendano che il potere di governare non è dato per il loro privato vantaggio, e che l’amministrazione della cosa pubblica si deve condurre a favore di quelli che sono affidati ad essa, non già di coloro a cui essa è affidata. I principi prendano esempio da Dio ottimo massimo, dal quale è concessa ad essi l’autorità; proponendo a se stessi, nell’amministrare la cosa pubblica, l’immagine di Lui, presiedano al popolo con equità e fede: anche nell’usare quella paterna severità che è necessaria, adoperino la carità. Per questo motivo nelle sacre carte essi sono ammoniti di dovere un giorno rendere conto al Re dei re ed al Signore dei dominatori; se avranno mancato al loro dovere, non potranno in alcun modo sfuggire alla severità di Dio.
"L’Altissimo interrogherà le opere vostre e scruterà i pensieri, poiché essendo voi ministri del suo regno, non giudicaste rettamente... spaventosamente e presto egli vi apparirà, poiché un giudizio durissimo sarà fatto a quelli che comandano... Infatti Dio non risparmierà la persona di alcuno, né avrà timore della grandezza di chicchessia, giacché il piccolo e il grande sono opera sua ed egli ha ugualmente cura di tutti. Ai più forti è riservato un tormento più forte" (Sap 6,4-8).


Se questi precetti tutelano la cosa pubblica, vengono eliminati tutti i motivi e i desideri di sedizioni; saranno posti al sicuro l’onore e l’incolumità dei principi, la quiete e la salute delle città. Si provvede ottimamente anche alla dignità dei cittadini, ai quali nell’obbedienza stessa è dato conservare quel decoro che è consentaneo al grado dell’uomo. Infatti essi comprendono che innanzi al giudizio di Dio non esiste né lo schiavo, né il libero, e che il Signore è uno solo per tutti, ricco "verso tutti quelli che lo invocano" (Rm 10,12), e che quindi essi sono soggetti ed obbediscono ai Principi, perché questi portano in certo modo l’immagine di Dio, "servendo il quale si regna".

La Chiesa poi ai adoperò sempre affinché questa forma cristiana della civile potestà non solo entrasse nelle menti, ma anche fosse espressa nella vita pubblica e nei costumi dei popoli. Finché al governo della cosa pubblica sedettero gl’imperatori pagani, i quali erano impediti dalla superstizione di elevarsi a questa forma d’impero che abbiamo delineato, la Chiesa cercò d’instillarla nelle menti dei popoli, i quali appena ricevevano le istituzioni cristiane dovevano tosto informare ad esse la loro vita.

Perciò i pastori delle anime, rinnovando gli esempi dell’Apostolo Paolo, con somma cura e diligenza usarono comandare ai popoli "di essere sottomessi e di obbedire ai magistrati e alle autorità" (Tt 3,1), e similmente di pregare Dio per tutti gli uomini, ma specialmente "per i re, e per tutti coloro che stanno al potere: questa è una cosa gradita al cospetto di Dio, nostro Salvatore" (Rm 2,1-3).
A questo proposito gli antichi cristiani ci lasciarono chiarissimi documenti. Essi, sebbene fossero ingiustamente e crudelissimamente perseguitati dagli imperatori pagani, tuttavia non cessarono mai di essere loro obbedienti e sottomessi, in modo che sembravano gareggiare gli uni in crudeltà, gli altri in ossequio.

Questa modestia degli antichi cristiani, questa certa volontà di obbedire era talmente nota, che non poteva essere messa in dubbio da nessuna calunnia e malizia dei nemici. Per la qual cosa, coloro che pubblicamente dovevano perorare presso gl’imperatori in favore del nome cristiano, adoperavano specialmente questo argomento per dimostrare essere ingiusto che le leggi perseguitassero i cristiani, i quali, come tutti sapevano, vivevano nella scrupolosa osservanza delle leggi.

Così Atenagora coraggiosamente diceva a Marco Aurelio Antonino ed a suo figlio Lucio Aurelio Commodo: "Voi lasciate che noi, che non facciamo nulla di male, anzi... ci comportiamo più piamente e più giustamente di ogni altro, sia verso Dio, sia verso il vostro impero, siamo perseguitati, spogliati, scacciati" . Parimenti Tertulliano lodava apertamente i cristiani come i migliori e più sicuri amici dell’Impero: "Il Cristiano non è nemico di alcuno, neanche dell’Imperatore, che sa essere stato costituito dal suo Dio: quindi è necessario che lo ami, lo riverisca, lo onori e lo voglia salvo, con tutto il romano impero" . Né si faceva scrupolo di affermare che entro i confini dell’impero tanto più scemava il numero dei nemici, quanto più cresceva quello dei cristiani. "Ora avete pochi nemici dato il grande numero di cristiani; infatti avete quasi tutti cittadini cristiani in quasi tutte le città" . Della stessa cosa si ha anche una preclara testimonianza nella Epistola a Diogneto, la quale conferma che i cristiani in quel tempo non solo erano soliti obbedire alle leggi, ma in ogni specie di dovere facevano più e con più perfezione di quanto dalle leggi stesse erano obbligati. "I cristiani obbediscono alle leggi che sono sancite, e col loro genere di vita superano le stesse leggi".

Diversamente però andavano le cose quando dagli editti degl’Imperatori e dei Pretori veniva loro minacciosamente imposto di apostatare dalla fede cristiana o di mancare in qualsiasi altro modo al loro dovere. In tali casi essi vollero certamente piuttosto dispiacere agli uomini che a Dio.
Ma anche in queste circostanze era tanto lontana da loro l’idea di fare alcunché di sedizioso o di disprezzare la maestà imperiale, che si limitavano ad una sola cosa, cioè a confessare di essere cristiani e di non volere in alcun modo tradire la loro fede.
Del resto non macchinavano alcuna resistenza, ma placidamente ed allegramente si portavano al cavalletto del carnefice in modo che la grandezza dei tormenti era inferiore alla grandezza del loro animo. Né diversamente in quegli stessi tempi la forza delle dottrine cristiane fu efficace nella milizia. Infatti era costume del soldato cristiano di accoppiare una somma fortezza con un sommo amore della disciplina militare, ed aggiungere all’altezza del coraggio una fedeltà incrollabile verso il principe.
Per contro, se si pretendeva da lui qualche cosa che non fosse onesta, come violare i diritti di Dio, o rivolgere il ferro contro gl’innocenti discepoli di Cristo, allora egli rifiutava di eseguire l’ordine e preferiva abbandonare la milizia e morire per la religione, piuttosto che resistere con sedizioni e tumulti alla pubblica autorità.

Dopo che gli Stati ebbero principi cristiani, la Chiesa insistette maggiormente nell’affermare e nel predicare quanto fosse inviolabile l’autorità dei governanti; dal che doveva avvenire che ai popoli, quando pensavano al principato, veniva alla mente una specie di maestà sacra che li spingeva a nutrire verso i principi maggiore riverenza ed amore. E perciò sapientemente provvide, affinché i re fossero solennemente consacrati, come per comando di Dio era stabilito nell’Antico Testamento.

Quando poi la società civile, come suscitata dalle rovine dell’impero romano, risorse alla speranza della cristiana grandezza, i Pontefici Romani, istituito il sacro impero, consacrarono in modo singolare il potere politico. Una nobiltà grandissima si aggiunse con ciò al principato; né è da porsi in dubbio che questa pratica avrebbe sempre grandemente giovato alla società religiosa e civile se i principi ed i popoli avessero sempre avuto mire uniformi a quelle della Chiesa.
E infatti le cose rimasero tranquille ed abbastanza prospere, finché fra i due poteri durò una concorde amicizia. Se i popoli, tumultuando, peccavano, la Chiesa, pronta conciliatrice di tranquillità, richiamava tutti al dovere, e frenava le violente cupidigie, in parte con la dolcezza, in parte con l’autorità. Similmente, se nel governo peccavano i principi, allora essa andava dinanzi ai medesimi, e ricordando loro i diritti, le necessità, i giusti desideri dei popoli, li persuadeva alla equità, alla clemenza, alla benignità. In tal modo, spesse volte furono rimossi i pericoli di tumulti e di guerre civili.

Al contrario, le dottrine inventate dai moderni circa la potestà politica recano già grandi calamità agli uomini, ed è da temere che apportino per l’avvenire mali estremi. Infatti, il non volere che il diritto di comandare derivi da Dio, altro non è che volere strappare dal potere politico il migliore splendore e privarlo delle sue forze maggiori. Quando poi lo fanno dipendere dall’arbitrio della moltitudine, asseriscono in primo luogo una fallace opinione, e in secondo luogo pongono il principato su un fondamento troppo leggero ed instabile.

Conseguentemente, le passioni popolari, aizzate e stimolate da siffatte opinioni, insorgeranno più audacemente, e con grande rovina per la cosa pubblica trascenderanno in ciechi tumulti ed aperte sedizioni. Infatti, dopo la cosiddetta Riforma, i cui promotori e capi combatterono radicalmente con nuove dottrine la potestà sacra e civile, repentini tumulti ed audacissime ribellioni seguirono specialmente in Germania, e ciò con tanta deflagrazione di guerra civile e con tanta strage, che pareva non ci fosse alcun luogo immune da tumulti insanguinati. Da quella eresia ebbero origine nel secolo passato la falsa filosofia, quel diritto che chiamano nuovo, la sovranità popolare e quella trasmodante licenza che moltissimi ritengono la sola libertà.

Da ciò si è arrivati alle finitime pesti che sono il Comunismo, il Socialismo, il Nichilismo, orrendi mali e quasi sterminio della società civile. Eppure molti si sforzano grandemente di diffondere la violenza di tanti mali, e con il pretesto di alleviare la moltitudine suscitano grandi incendi e rovine. Queste cose che ora ricordiamo non sono né ignote né molto lontane.

Quello, poi, che è anche più grave, è dato dal fatto che i principi non hanno rimedi efficaci, in mezzo a tanti pericoli, per ristabilire la pubblica disciplina e per pacificare gli animi. Si muniscono dell’autorità delle leggi e credono di potere con la severità delle pene, contenere coloro che turbano l’ordine pubblico. Sta bene, tuttavia è necessario considerare seriamente che nessuna pena sarà mai sufficiente per potere, essa sola, conservare gli Stati. Infatti, il timore, come lucidamente insegna San Tommaso, "è debole fondamento, poiché coloro che sono sottomessi per timore, se si presenta un’occasione nella quale possono sperare l’impunità, insorgono contro i capi tanto più aspramente quanto più erano tenuti a freno controvoglia dal solo timore".
Inoltre, "a causa dell’eccessivo timore molti cadono nella disperazione, e la disperazione spinge a tutti i più temerari attentati" . Quanto ciò sia vero, abbiamo sufficientemente provato con l’esperienza. Pertanto è necessario trovare una più alta ed efficace ragione di obbedire e stabilire assolutamente che non può essere fruttuosa la stessa severità delle leggi, se gli uomini non sono spinti dal dovere e mossi dal timore salutare di Dio. Ciò poi può essere soprattutto ottenuto dalla religione, la quale con la sua forza influisce sugli animi, e piega le stesse volontà degli uomini affinché obbediscano ai reggitori non soltanto con l’ossequio, ma altresì con la benevolenza e con la carità, che sono in ogni società umana la migliore custode della incolumità.

Per la qual cosa è da ritenere che i Romani Pontefici abbiano ottimamente provveduto ai comuni vantaggi, perché continuamente si preoccuparono di abbattere i superbi ed irrequieti spiriti dei Novatori, e spessissimo ammonirono quanto questi siano pericolosi anche alla società civile. A questo proposito è degno di essere ricordato il pensiero di Clemente VII espresso a Ferdinando Re di Boemia e di Ungheria: "In questa causa della fede sono racchiuse anche la dignità e l’utilità tua e quella degli altri principi, in quanto essa non può venire sradicata senza trascinare con sé la rovina delle cose vostre; il che chiarissimamente in alcuni codesti luoghi si è veduto".

Nella stessa materia risplendettero la somma provvidenza e la fortezza dei Nostri Predecessori, specialmente di Clemente XI, Benedetto XIV, Leone XII, i quali – quando serpeggiava nei tempi successivi la peste delle prave dottrine, e l’arroganza delle sette andava crescendo – si adoperarono con la loro autorità a chiudere loro l’accesso. Noi stessi abbiamo parecchie volte denunciato quanti gravi pericoli sovrastino, e nel tempo stesso abbiamo indicato quale sia la maniera migliore per allontanarli.
Ai principi ed agli altri reggitori della cosa pubblica offrimmo il presidio della religione
, ed esortammo i popoli a servirsi abbondantemente della larghezza dei sommi beni forniti dalla Chiesa.

Ora Noi cerchiamo che i principi intendano l’importanza e la necessità di questo presidio, loro nuovamente offerto, e del quale nessuno è più valido; caldamente li esortiamo nel Signore affinché tutelino la religione e, ciò che interessa anche allo Stato, lascino che la Chiesa goda di quella libertà di cui senza ingiuria e senza comune detrimento non può essere privata. La Chiesa di Cristo non può certamente essere né sospetta ai principi, né invisa ai popoli. Essa invita i principi a seguire la giustizia, e a non deviare giammai dal dovere, ma nello stesso tempo rafforza, e con molti mezzi aiuta, la loro autorità. Essa riconosce le cose che si riferiscono all’ordine civile, e dichiara che appartengono alla potestà e al supremo imperio dello stesso. Nelle cose il cui giudizio, sebbene per diversa ragione, appartiene alla sacra ed alla civile potestà, la Chiesa vuole che esista fra ambedue la concordia, mercé la quale si evitino all’una ed all’altra funesti dissidii. Per ciò che riguarda i popoli, la Chiesa è nata per la salute di tutti gli uomini: essa li amò sempre come una madre.

È essa, certamente, che con la sua carità infuse negli animi la mansuetudine, la mitezza dei costumi, l’equità delle leggi; giammai nemica della onesta libertà, detestò sempre il dominio della tirannia. Sant’Agostino espresse chiarissimamente con poche parole tale benemerita condotta propria della Chiesa: "Essa insegna che i re debbono provvedere ai popoli, e che tutti i popoli debbono essere soggetti ai re, dimostrando in un certo qual modo che tutto non può essere dato a tutti, ma che a tutti è dovuta la carità e a nessuno l’ingiuria" .

Per queste ragioni, Venerabili Fratelli, l’opera vostra sarà molto utile e certamente salutare, se porrete con Noi il vostro impegno e tutti i mezzi che, con la grazia di Dio, sono in vostro potere per scongiurare pericoli e danni alla società umana.

Procurate e provvedete, affinché tutte quelle cose che sono insegnate dalla Chiesa cattolica circa la potestà e il dovere di obbedire, siano a tutti presenti e diligentemente praticate nella vita. Dalla vostra autorità e dal vostro magistero i popoli siano spesso ammoniti a fuggire le sette proibite, a detestare le congiure ed a schivare qualsiasi sedizione; essi intendano che l’obbedienza di coloro i quali, in ossequio a Dio, obbediscono ai principi, è generosa obbedienza ed "ossequio ragionevole".
Poiché però è Dio "che dà la salute ai re" (Sal 144,11) e concede ai popoli di vivere "nella bellezza della pace, nei tabernacoli della fiducia e nel riposo opulento" (Is 32,18), è necessario pregare e supplicare Lui, affinché pieghi le menti di tutti alla onestà ed alla verità, plachi le ire, e restituisca alla terra la tanto sospirata pace e la tranquillità.

Perché poi più ferma sia la speranza di impetrare ciò, adoperiamo l’intercessione e la salutare difesa di Maria Vergine gran Madre di Dio, aiuto dei cristiani, tutela del genere umano; di San Giuseppe, suo castissimo Sposo, sul cui patrocinio moltissimo confida la Chiesa universale; di Pietro e Paolo, Principi degli Apostoli, custodi e vindici del nome cristiano.

Frattanto, auspice dei doni divini, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero ed al popolo affidato alle vostre cure, impartiamo affettuosissimamente nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1881, anno quarto del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII
 
 1881 - Libreria Editrice Vaticana


Caterina63
00sabato 1 dicembre 2012 10:30
conPietro



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PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DEL PAPA PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

Città del Vaticano, 14 dicembre 2012 (VIS). Questa mattina presso la Sala Stampa della Santa Sede si è tenuta la conferenza stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre per la XLVI Giornata Mondiale della Pace che si celebra il 1° gennaio, sul tema quest'anno: "Beati gli operatori di pace". Alla conferenza stampa sono intervenuti il Cardinale Peter K.A. Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ed il Monsignor Mario Toso, Segretario del medesimo Pontificio Consiglio.

Il Cardinale ha rilevato, come primo punto, "la concretezza del Messaggio". "L'espressione evangelica del titolo può far pensare ad un Messaggio di carattere piuttosto spirituale, per così dire, teorico. Invece l'argomentazione del Papa è estremamente aderente alla realtà. Constata un fatto, l'esistenza, in mezzo a conflitti, tensioni e violenze, dell'esistenza di molteplici operatori di pace; nella spiegazione della beatitudine evangelica sottolinea come si tratti di una promessa che è certezza, in quanto proviene da Dio, non legata al futuro, ma che già si realizza in questa vita; indica chiaramente cosa devono fare gli operatori di pace: promuovere la vita in pienezza, nella sua integralità, quindi in tutte le dimensioni della persona umana; richiama l'attenzione sui problemi più urgenti, la retta visione del matrimonio, il diritto all'obiezione di coscienza, la libertà religiosa (...), la questione del lavoro e della disoccupazione, la crisi alimentare, la crisi finanziaria, il ruolo della famiglia nell'educazione".

In un secondo punto il Cardinale Turkson ha sottolineato la "positività del Messaggio" che "oltre ad aprire alla speranza, riflette l'amore alla vita e alla vita in pienezza, per cui accanto ai temi della difesa della vita, il Papa mette in luce quelli legati alla giustizia, necessari per una vita degna, in pienezza, cioè nella quale tutti abbiano la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità".

Un terzo punto è "l'aspetto educativo-pedagogico del Messaggio. "È questo un aspetto che sta sempre a cuore alla Chiesa la quale ha fra i suoi compiti quello di 'formare le coscienze'. Sotto questo aspetto, forte è il richiamo del Pontefice alla responsabilità della varie istanze educative chiamate a formare classi dirigenti adeguate e studiare modelli economici e finanziari nuovi. Ciò è necessario per superare la fase particolarmente grave che sta vivendo il mondo globalizzato, una fase di profonda cristi spirituale e morale in cui sanguinosi sono ancora i conflitti e le molteplici minacce di pace".

"Il Messaggio di Benedetto XVI - ha affermato Monsignor Toso - è invito ad essere operatori di pace a trecentosessanta gradi, tutelando ed implementando tutti i diritti e doveri dell'uomo e delle comunità".

"Sintomatico di questo modo di sentire e di vedere del Pontefice - ha continuato Monsignor Toso - è il passaggio in cui egli, in un contesto di recessione economica - provocata anche dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007 -, polemizzando con le ideologia del liberismo radicale e della tecnocrazia secondo le quali sarebbe possibile lo sviluppo senza il progresso sociale e democratico, invita a non erodere i diritti sociali, tra i quali soprattutto il diritto al lavoro. Questo è un diritto fondamentale, non marginale. Senza la difesa e la promozione dei diritti sociali - lo insegnavano già liberali, comunisti, socialisti e cattolici nel secolo scorso - non si realizzano adeguatamente i diritti civili e politici. La stessa democrazia sostanziale, sociale e partecipativa sarebbe messa a repentaglio".

In breve, il Messaggio è per la crescita di una famiglia umana che non sia divisa tra gruppi e popoli a favore della vita e gruppi e popoli che militano, invece, per la pace, senza tuttavia un'uguale 'passione' per la difesa della vita umana, dal suo sbocciare al suo tramonto", ha concluso il Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace".



MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA CELEBRAZIONE DELLA

XLVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 

1° GENNAIO 2013

 

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

 

1. Ogni anno nuovo porta con sé l’attesa di un mondo migliore. In tale prospettiva, prego Dio, Padre dell’umanità, di concederci la concordia e la pace, perché possano compiersi per tutti le aspirazioni di una vita felice e prospera.

A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, che ha consentito di rafforzare la missione della Chiesa nel mondo, rincuora constatare che i cristiani, quale Popolo di Dio in comunione con Lui e in cammino tra gli uomini, si impegnano nella storia condividendo gioie e speranze, tristezze ed angosce [1], annunciando la salvezza di Cristo e promuovendo la pace per tutti.

In effetti, i nostri tempi, contrassegnati dalla globalizzazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, nonché da sanguinosi conflitti ancora in atto e da minacce di guerra, reclamano un rinnovato e corale impegno nella ricerca del bene comune, dello sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo.

Allarmano i focolai di tensione e di contrapposizione causati da crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri, dal prevalere di una mentalità egoistica e individualista espressa anche da un capitalismo finanziario sregolato. Oltre a svariate forme di terrorismo e di criminalità internazionale, sono pericolosi per la pace quei fondamentalismi e quei fanatismi che stravolgono la vera natura della religione, chiamata a favorire la comunione e la riconciliazione tra gli uomini.

E tuttavia, le molteplici opere di pace, di cui è ricco il mondo, testimoniano l’innata vocazione dell’umanità alla pace. In ogni persona il desiderio di pace è aspirazione essenziale e coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena, felice e ben realizzata. In altri termini, il desiderio di pace corrisponde ad un principio morale fondamentale, ossia, al dovere-diritto di uno sviluppo integrale, sociale, comunitario, e ciò fa parte del disegno di Dio sull’uomo. L’uomo è fatto per la pace che è dono di Dio.

Tutto ciò mi ha suggerito di ispirarmi per questo Messaggio alle parole di Gesù Cristo: « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5,9).

La beatitudine evangelica

2. Le beatitudini, proclamate da Gesù (cfr Mt 5,3-12 e Lc 6,20-23), sono promesse. Nella tradizione biblica, infatti, quello della beatitudine è un genere letterario che porta sempre con sé una buona notizia, ossia un vangelo, che culmina in una promessa. Quindi, le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità. La beatitudine consiste, piuttosto, nell’adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore. Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse appaiono spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà. Ebbene, Gesù dichiara ad essi che non solo nell’altra vita, ma già in questa scopriranno di essere fi gli di Dio, e che da sempre e per sempre Dio è del tutto solidale con loro. Comprenderanno che non sono soli, perché Egli è dalla parte di coloro che s’impegnano per la verità, la giustizia e l’amore. Gesù, rivelazione dell’amore del Padre, non esita ad offrirsi nel sacrificio di se stesso. Quando si accoglie Gesù Cristo, Uomo-Dio, si vive l’esperienza gioiosa di un dono immenso: la condivisione della vita stessa di Dio, cioè la vita della grazia, pegno di un’esistenza pienamente beata. Gesù Cristo, in particolare, ci dona la pace vera che nasce dall’incontro fiducioso dell’uomo con Dio.

La beatitudine di Gesù dice che la pace è dono messianico e opera umana ad un tempo. In effetti, la pace presuppone un umanesimo aperto alla trascendenza. È frutto del dono reciproco, di un mutuo arricchimento, grazie al dono che scaturisce da Dio e permette di vivere con gli altri e per gli altri. L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione. È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere o di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza. Precondizione della pace è lo smantellamento della dittatura del relativismo e dell’assunto di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo. La pace è costruzione della convivenza in termini razionali e morali, poggiando su un fondamento la cui misura non è creata dall’uomo, bensì da Dio. « Il Signore darà potenza al suo popolo, benedirà il suo popolo con la pace », ricorda il Salmo 29 (v. 11).

La pace: dono di Dio e opera dell’uomo

3. La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. Comporta principalmente, come scrisse il beato Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris, di cui tra pochi mesi ricorrerà il cinquantesimo anniversario, la costruzione di una convivenza fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore e sulla giustizia [2]. La negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace. Senza la verità sull’uomo, iscritta dal Creatore nel suo cuore, la libertà e l’amore sviliscono, la giustizia perde il fondamento del suo esercizio.

Per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla dimensione trascendente e il colloquio costante con Dio, Padre misericordioso, mediante il quale si implora la redenzione conquistataci dal suo Figlio Unigenito. Così l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoismo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste.

La realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana. Essa si struttura, come ha insegnato l’Enciclica Pacem in terris, mediante relazioni interpersonali ed istituzioni sorrette ed animate da un « noi » comunitario, implicante un ordine morale, interno ed esterno, ove si riconoscono sinceramente, secondo verità e giustizia, i reciproci diritti e i vicendevoli doveri. La pace è ordine vivificato ed integrato dall’amore, così da sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, fare partecipi gli altri dei propri beni e rendere sempre più diffusa nel mondo la comunione dei valori spirituali. È ordine realizzato nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di persone, che per la loro stessa natura razionale, assumono la responsabilità del proprio operare [3].

La pace non è un sogno, non è un’utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all’edificazione di un mondo nuovo. Infatti, Dio stesso, mediante l’incarnazione del Figlio e la redenzione da Lui operata, è entrato nella storia facendo sorgere una nuova creazione e una nuova alleanza tra Dio e l’uomo (cfr Ger 31,31-34), dandoci la possibilità di avere « un cuore nuovo » e « uno spirito nuovo » (cfr Ez 36,26).

Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18). L’operatore di pace, secondo la beatitudine di Gesù, è colui che ricerca il bene dell’altro, il bene pieno dell’anima e del corpo, oggi e domani.

Da questo insegnamento si può evincere che ogni persona e ogni comunità – religiosa, civile, educativa e culturale –, è chiamata ad operare la pace. La pace è principalmente realizzazione del bene comune delle varie società, primarie ed intermedie, nazionali, internazionali e in quella mondiale. Proprio per questo si può ritenere che le vie di attuazione del bene comune siano anche le vie da percorrere per ottenere la pace.

Operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità

4. Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita.

Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.

Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.

Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.

Perciò, è anche un’importante cooperazione alla pace che gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia.

Tra i diritti umani basilari, anche per la vita pacifica dei popoli, vi è quello dei singoli e delle comunità alla libertà religiosa. In questo momento storico, diventa sempre più importante che tale diritto sia promosso non solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di: ad esempio, di testimoniare la propria religione, di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, strutturati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri. Purtroppo, anche in Paesi di antica tradizione cristiana si stanno moltiplicando gli episodi di intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo e di coloro che semplicemente indossano i segni identitari della propria religione.

L’operatore di pace deve anche tener presente che, presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali. Ora, va considerato che questi diritti e doveri sono fondamentali per la piena realizzazione di altri, a cominciare da quelli civili e politici.

Tra i diritti e i doveri sociali oggi maggiormente minacciati vi è il diritto al lavoro. Ciò è dovuto al fatto che sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari. A tale proposito, ribadisco che la dignità dell’uomo, nonché le ragioni economiche, sociali e politiche, esigono che si continui « a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti » [4]. In vista della realizzazione di questo ambizioso obiettivo è precondizione una rinnovata considerazione del lavoro, basata su principi etici e valori spirituali, che ne irrobustisca la concezione come bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società. A un tale bene corrispondono un dovere e un diritto che esigono coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti.

Costruire il bene della pace mediante un nuovo modello di sviluppo e di economia

5. Da più parti viene riconosciuto che oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo, come anche un nuovo sguardo sull’economia. Sia uno sviluppo integrale, solidale e sostenibile, sia il bene comune esigono una corretta scala di beni-valori, che è possibile strutturare avendo Dio come riferimento ultimo. Non è sufficiente avere a disposizione molti mezzi e molte opportunità di scelta, pur apprezzabili. Tanto i molteplici beni funzionali allo sviluppo, quanto le opportunità di scelta devono essere usati secondo la prospettiva di una vita buona, di una condotta retta che riconosca il primato della dimensione spirituale e l’appello alla realizzazione del bene comune. In caso contrario, essi perdono la loro giusta valenza, finendo per assurgere a nuovi idoli.

Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica – che ha per effetto una crescita delle disuguaglianze – sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico. Quello prevalso negli ultimi decenni postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività. In un’altra prospettiva, invece, il vero e duraturo successo lo si ottiene con il dono di sé, delle proprie capacità intellettuali, della propria intraprendenza, poiché lo sviluppo economico vivibile, cioè autenticamente umano, ha bisogno del principio di gratuità come espressione di fraternità e della logica del dono [5]. Concretamente, nell’attività economica l’operatore di pace si configura come colui che instaura con i collaboratori e i colleghi, con i committenti e gli utenti, rapporti di lealtà e di reciprocità. Egli esercita l’attività economica per il bene comune, vive il suo impegno come qualcosa che va al di là del proprio interesse, a beneficio delle generazioni presenti e future. Si trova così a lavorare non solo per sé, ma anche per dare agli altri un futuro e un lavoro dignitoso.

Nell’ambito economico, sono richieste, specialmente da parte degli Stati, politiche di sviluppo industriale ed agricolo che abbiano cura del progresso sociale e dell’universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico. È poi fondamentale ed imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri. La sollecitudine dei molteplici operatori di pace deve inoltre volgersi – con maggior risolutezza rispetto a quanto si è fatto sino ad oggi – a considerare la crisi alimentare, ben più grave di quella finanziaria. Il tema della sicurezza degli approvvigionamenti alimentari è tornato ad essere centrale nell’agenda politica internazionale, a causa di crisi connesse, tra l’altro, alle oscillazioni repentine dei prezzi delle materie prime agricole, a comportamenti irresponsabili da parte di taluni operatori economici e a un insufficiente controllo da parte dei Governi e della Comunità internazionale. Per fronteggiare tale crisi, gli operatori di pace sono chiamati a operare insieme in spirito di solidarietà, dal livello locale a quello internazionale, con l’obiettivo di mettere gli agricoltori, in particolare nelle piccole realtà rurali, in condizione di poter svolgere la loro attività in modo dignitoso e sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico.

Educazione per una cultura di pace: il ruolo della famiglia e delle istituzioni

6. Desidero ribadire con forza che i molteplici operatori di pace sono chiamati a coltivare la passione per il bene comune della famiglia e per la giustizia sociale, nonché l’impegno di una valida educazione sociale.

Nessuno può ignorare o sottovalutare il ruolo decisivo della famiglia, cellula base della società dal punto di vista demografico, etico, pedagogico, economico e politico. Essa ha una naturale vocazione a promuovere la vita: accompagna le persone nella loro crescita e le sollecita al mutuo potenziamento mediante la cura vicendevole. In specie, la famiglia cristiana reca in sé il germinale progetto dell’educazione delle persone secondo la misura dell’amore divino. La famiglia è uno dei soggetti sociali indispensabili nella realizzazione di una cultura della pace. Bisogna tutelare il diritto dei genitori e il loro ruolo primario nell’educazione dei figli, in primo luogo nell’ambito morale e religioso. Nella famiglia nascono e crescono gli operatori di pace, i futuri promotori di una cultura della vita e dell’amore [6].

In questo immenso compito di educazione alla pace sono coinvolte in particolare le comunità religiose. La Chiesa si sente partecipe di una così grande responsabilità attraverso la nuova evangelizzazione, che ha come suoi cardini la conversione alla verità e all’amore di Cristo e, di conseguenza, la rinascita spirituale e morale delle persone e delle società. L’incontro con Gesù Cristo plasma gli operatori di pace impegnandoli alla comunione e al superamento dell’ingiustizia.

Una missione speciale nei confronti della pace è ricoperta dalle istituzioni culturali, scolastiche ed universitarie. Da queste è richiesto un notevole contributo non solo alla formazione di nuove generazioni di leader, ma anche al rinnovamento delle istituzioni pubbliche, nazionali e internazionali. Esse possono anche contribuire ad una riflessione scientifica che radichi le attività economiche e finanziarie in un solido fondamento antropologico ed etico. Il mondo attuale, in particolare quello politico, necessita del supporto di un nuovo pensiero, di una nuova sintesi culturale, per superare tecnicismi ed armonizzare le molteplici tendenze politiche in vista del bene comune. Esso, considerato come insieme di relazioni interpersonali ed istituzionali positive, a servizio della crescita integrale degli individui e dei gruppi, è alla base di ogni vera educazione alla pace.

Una pedagogia dell’operatore di pace

7. Emerge, in conclusione, la necessità di proporre e promuovere una pedagogia della pace. Essa richiede una ricca vita interiore, chiari e validi riferimenti morali, atteggiamenti e stili di vita appropriati. Difatti, le opere di pace concorrono a realizzare il bene comune e creano l’interesse per la pace, educando ad essa. Pensieri, parole e gesti di pace creano una mentalità e una cultura della pace, un’atmosfera di rispetto, di onestà e di cordialità. Bisogna, allora, insegnare agli uomini ad amarsi e a educarsi alla pace, e a vivere con benevolenza, più che con semplice tolleranza. Incoraggiamento fondamentale è quello di « dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare » [7], in modo che gli sbagli e le offese possano essere riconosciuti in verità per avanzare insieme verso la riconciliazione. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono. Il male, infatti, si vince col bene, e la giustizia va ricercataimitando Dio Padre che ama tutti i suoi fi gli (cfr Mt 5,21-48). È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Occorre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano, a quella falsa pace che rende le coscienze sempre più insensibili, che porta verso il ripiegamento su se stessi, verso un’esistenza atrofizzata vissuta nell’indifferenza. Al contrario, la pedagogia della pace implica azione, compassione, solidarietà, coraggio e perseveranza.

Gesù incarna l’insieme di questi atteggiamenti nella sua esistenza, fi no al dono totale di sé, fino a « perdere la vita » (cfr Mt 10,39; Lc 17,33; Gv 12,25). Egli promette ai suoi discepoli che, prima o poi, faranno la straordinaria scoperta di cui abbiamo parlato inizialmente, e cioè che nel mondo c’è Dio, il Dio di Gesù, pienamente solidale con gli uomini. In questo contesto, vorrei ricordare la preghiera con cui si chiede a Dio di renderci strumenti della sua pace, per portare il suo amore ove è odio, il suo perdono ove è offesa, la vera fede ove è dubbio. Da parte nostra, insieme al beato Giovanni XXIII, chiediamo a Dio che illumini i responsabili dei popoli, affinché accanto alla sollecitudine per il giusto benessere dei loro cittadini garantiscano e difendano il prezioso dono della pace; accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, a rafforzare i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri e a perdonare coloro che hanno recato ingiurie, così che in virtù della sua azione, tutti i popoli della terra si affratellino e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace [8].

Con questa invocazione, auspico che tutti possano essere veri operatori e costruttori di pace, in modo che la città dell’uomo cresca in fraterna concordia, nella prosperità e nella pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2012

 

BENEDICTUS PP XVI

  


[1] Cfr CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 1.

[2] Cfr Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 265-266.

[3] Cfr ibid.: AAS 55 (1963), 266.

[4] BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666-667.

[5] Cfr ibid., 34 e 36: AAS 101 (2009), 668-670 e 671-672.

[6] Cfr GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1994 (8 dicembre 1993): AAS 86 (1994), 156-162.

[7] BENEDETTO XVI, Discorso in occasione dell’Incontro con i membri del Governo, delle istituzioni della Repubblica, con il corpo diplomatico, i capi religiosi e rappresentanze del mondo della cultura, Baabda-Libano (15 settembre 2012): L’Osservatore Romano, 16 settembre 2012, p. 7.

[8] Cfr Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 304.

Caterina63
00sabato 29 dicembre 2012 00:21

Attualità e verità delle parole di Pio XII su Chiesa e Stato

 
Dal Radiomessaggio natalizio di Pio XII del 1944: parole chiare, principi certamente non 'datati'...

[...] Una sana democrazia, fondata sugl'immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo.
L'assolutismo di Stato (da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non si tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è illimitata, e che di fronte ad essa — anche quando dà libero corso alle sue mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, — non è ammesso alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.
Un uomo compreso da rette idee intorno allo Stato e all'autorità e al potere di cui è rivestito, in quanto custode dell'ordine sociale, non penserà mai di offendere la maestà della legge positiva nell'ambito della sua naturale competenza. Ma questa maestà del diritto positivo umano allora soltanto è inappellabile, se si conforma — o almeno non si oppone — all'ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo. Essa non può sussistere, se non in quanto rispetta il fondamento, sul quale si appoggia la persona umana, non meno che lo Stato e il pubblico potere. È questo il criterio fondamentale di ogni sana forma di governo, compresa la democrazia; criterio col quale deve essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare.

Se l'avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale nel suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa, messaggera della parola del Redentore e continuatrice della sua missione di salvezza. Essa infatti insegna e difende le verità, comunica le forze soprannaturali della grazia, per attuare l'ordine stabilito da Dio degli esseri e dei fini, ultimo fondamento e norma direttiva di ogni democrazia.
[...]
Con la sua stessa esistenza la Chiesa si erge di fronte al mondo, faro splendente che ricorda costantemente quest'ordine divino. La sua storia riflette chiaramente la sua missione provvidenziale. Le lotte che, costretta dall'abuso della forza, ha dovuto sostenere per la difesa della libertà ricevuta da Dio, furono, al tempo stesso, lotte per la vera libertà dell'uomo.
 
La Chiesa ha la missione di annunziare al mondo, bramoso di migliori e più perfette forme di democrazia, il messaggio più alto e più necessario che possa esservi : la dignità dell'uomo, la vocazione alla figliolanza di Dio. È il potente grido che dalla culla di Betlemme risuona fino agli estremi confini della terra agli orecchi degli uomini, in un tempo in cui questa dignità è più dolorosamente abbassata.
 
Il mistero del Santo Natale proclama questa inviolabile dignità umana con un vigore e con un'autorità inappellabile, che trascende infinitamente quella, cui potrebbero giungere tutte le possibili dichiarazioni dei diritti dell'uomo. Natale, la grande festa del Figlio di Dio apparso nella carne, la festa in cui il cielo si china verso la terra con una ineffabile grazia e benevolenza, anche il giorno in cui la cristianità e la umanità, dinanzi al Presepe, nella contemplazione della « benignitas et humanitas Salvatoris nostri Dei », divengono più intimamente consapevoli della stretta unità che Iddio ha stabilita tra di loro. La culla del Salvatore del mondo, del Restauratore della dignità umana in tutta la sua pienezza, è il punto contrassegnato dalla alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà. Là al povero mondo, lacerato dalle discordie, diviso dagli egoismi, avvelenato dagli odi, verrà concessa la luce, restituito l'amore e sarà dato d'incamminarsi, in cordiale armonia, verso lo scopo comune, per trovare finalmente la guarigione delle sue ferite nella pace di Cristo.




Dilaga la piaga degli anticoncezionali

 
Non solo molti semplici fedeli laici, ma persino molti teologi e sacerdoti osano affermare che l'uso degli anticoncezionali è lecito. Eppure il Magistero Pontificio insegna che gli anticoncezionali non possono essere mai usati (nemmeno tra marito e moglie), poiché sono intrinsecamente immorali.
 
Ecco quello che insegna il Sommo Pontefice Pio XI nella splendida Enciclica "Casti connubii" sul matrimonio cristiano:

Ma per venire ormai, Venerabili Fratelli, a trattare dei singoli punti che si oppongono ai diversi beni del matrimonio, il primo riguarda la prole, che molti osano chiamare molesto peso del connubio e affermano doversi studiosamente evitare dai coniugi, non già con l’onesta continenza, permessa anche nel matrimonio, quando l’uno e l’altro coniuge vi consentano, ma viziando l’atto naturale. E questa delittuosa licenza alcuni si arrogano perché, aborrendo dalle cure della prole, bramano soltanto soddisfare le loro voglie, senza alcun onere; altri allegano a propria scusa la incapacità di osservare la continenza, e la impossibilità di ammettere la prole a cagione delle difficoltà proprie, o di quelle della madre, o di quelle economiche della famiglia.
 
Senonché, non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta.
 
Quindi non meraviglia se la Maestà divina, come attestano le stesse Sacre Scritture, abbia in sommo odio tale delitto nefando, e l’abbia talvolta castigato con la pena di morte, come ricorda Sant’Agostino: « Perché illecitamente e disonestamente si sta anche con la legittima sposa, quando si impedisce il frutto della prole. Così operava Onan, figlio di Giuda, e per tal motivo Dio lo tolse di vita ».
 
Pertanto, essendovi alcuni che, abbandonando manifestamente la cristiana dottrina, insegnata fin dalle origini, né mai modificata, hanno ai giorni nostri, in questa materia, preteso pubblicamente proclamarne un’altra, la Chiesa Cattolica, cui lo stesso Dio affidò il mandato di insegnare e difendere la purità e la onestà dei costumi, considerando l’esistenza di tanta corruttela di costumi, al fine di preservare la castità del consorzio nuziale da tanta turpitudine, proclama altamente, per mezzo della Nostra parola, in segno della sua divina missione, e nuovamente sentenzia che qualsivoglia uso del matrimonio, in cui per la umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e che coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave.
 
Perciò, come vuole la suprema autorità Nostra e la cura commessaCi della salute di tutte le anime, ammoniamo i sacerdoti che sono impegnati ad ascoltare le confessioni e gli altri tutti che hanno cura d’anime, che non lascino errare i fedeli loro affidati, in un punto tanto grave della legge di Dio, e molto più che custodiscano se stessi immuni da queste perniciose dottrine, e ad esse, in qualsiasi maniera, non si rendano conniventi. Se qualche confessore o pastore delle anime, che Dio non lo permetta, inducesse egli stesso in simili errori i fedeli a lui commessi, o, se non altro, ve li confermasse, sia con approvarli, sia colpevolmente tacendo, sappia di dovere rendere severo conto a Dio, Giudice Supremo, del tradito suo ufficio, e stimi a sé rivolte le parole di Cristo: « Sono ciechi, e guide di ciechi: e se il cieco al cieco fa da guida, l’uno e l’altro cadranno nella fossa ».

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Caterina63
00sabato 12 gennaio 2013 23:18

Proponiamo ai nostri lettori la traduzione di un articolo scritto oramai un quarto di secolo fa dal sacerdote cattolico Brian Harrison riguardo al tema della libertà religiosa. Crediamo mantenga sostanzialmente intatta la sua utilità ancor oggi.
Articolo originale in inglese: Brian W. Harrison, “Pius IX, Vatican II and Religious Liberty” in “Living Tradition” n. 9 del gennaio 1987 (testo originale qui: http://www.rtforum.org/lt/lt9.html#II)

Pio IX, il Vaticano II e la libertà religiosa

di Brian W. Harrison

Parte prima.
Nell’ultimo anno o due, la questione della libertà religiosa, così veentemente dibattuta più di vent’anni fa tra i vescovi e i periti al Concilio Vaticano II, ha nuovamente fatto parlare di se. Abbastanza sorprendentemente, abbiamo visto padre Charles Curran uscirsene al fianco addirittura dell’arcivescovo Marcel Lefebvre (almeno per quanto riguarda uno degli aspetti della questione). Questi due dissidenti, siti ad estremità differenti delle tendenze cattoliche, hanno unito le forze – per una volta – coll’obiettivo di sostenere che la Dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa Dignitatis Humanæ è irriconciliabile con la dottrina cattolica pre-conciliare. Questo presunto conflitto soddisfa padre Curran (poiché egli pensa che esso fornisca un precedente per le sue proposte di “revisioni” della morale cattolica), mentre scandalizza l’arcivescovo (che lo vede come una ragione per rigettare il Vaticano II).

Da dove nasce la difficoltà? Sarebbe necessario un intero libro per trattare adeguatamente la questione, ma tra le affermazioni dottrinali pre-conciliari del Magistero che sarebbero incompatibili coll’insegnamento del Vaticano II, la più comunemente citata è probabilmente quella relativa all’insegnamento molto energico di papa Pio IX, che si trova nell’enciclica Quanta Cura (1864), riguardante i doveri delle autorità civili contro i “violatori della religione cattolica”. Il Pontefice infatti condanna come opinione “malvagia” il parere – che anzi “comanda” sia “da tutti i figli della Chiesa Cattolica assolutamente tenuto (omnino haberi) come riprovato, biasimato e condannato”(1) – per il quale, nella “miglior” condizione della società, tali persone [i violatori sopracitati, ndt] non debbano essere penalizzate dal governo a meno che non mettano in pericolo la “pace pubblica” (pax publica)(2). Il Papa insegna che i governi possono e dovrebbero essere più restrittivi di così verso la propaganda non-cattolica.

Il beato Pio IX, autore dell’enciclica Quanta Cura (1864)

Per comprendere con precisione cosa Pio IX aveva in mente in questo passo, dobbiamo essere al corrente del contesto storico dell’enciclica. Quanta Cura fu in larga parte una riaffermazione di ciò che Gregorio XVI aveva detto trent’anni prima nell’enciclica Mirari Vos (1832). Il principale obiettivo, in quel caso, era stato il giornalista-filosofo francese H. F. del Lamennais, il cui quotidiano L’Avenir aveva chiesto che lo Stato garantisse, come se fosse una questione di principio universale, la libertà di diffusione dell’errore, che si ammetteva sarebbe stata virtualmente illimitata (on laisse a l’erreur la faculté illimitée de se produire (3) [si lascia all'errore la possibilità illimitata di prodursi, di accadere, ndt]). Lo Stato, secondo L’Avenir, doveva essere totalmente laico e poteva limitare la propaganda di qualsiasi tipo “solo in ordine ad interessi materiali” (ne … que dans l’ordre des interêts matériels)(4). Doveva essere garantita totale libertà di propaganda, cosicché

Il potere costituzionale possiede solo il diritto e il dovere di reprimere i crimini e le altre offese che attentino materialmente a queste libertà (qui attenteraient matériellement à ces libertés) o ad altri diritti civili o politici dei cittadini. (5)

In altri termini, Lamennais non concedeva che lo Stato potesse riconoscere in alcun modo efficace l’esistenza di Dio o una natura spirituale e trascendente dell’uomo – ancor meno l’unica verità della fede cattolica o dei valori morali cristiani. Veniva richiesta “separazione totale” di Chiesa e Stato (anche in paesi prevalentemente cattolici)(6) insieme coll’abolizione di tutti i concordati tra i governi e la Santa Sede (7). In questo sistema, i criteri “materialistici” apertamente richiesti dallo Stato avrebbero permesso a quest’ultimo di esercitare la censura o la coercizione solo per prevenire l’incitamento a rivolte, alla sedizione o alla rivoluzione oppure per evitare danni fisici o molestie a persone o proprietà. In altri termini, per preservare “la pace pubblica”.
Lamennais fu condannato e alla fine lasciò la Chiesa, ma la sua influenza rimase forte, specialmente in Francia, e Pio IX alla fine si sentì costretto a rinnovare la condanna fatta dal suo predecessore. E’ chiaramente lo stesso estremo liberismo che Quanta Cura ha in mente: quel tipo di liberismo il quale richiede che

i cittadini abbiano il diritto ad ogni tipo di libertà, a non essere limitati da alcuna legge, sia ecclesiastica che civile, così che essi possano essere in grado di manifestare apertamente apertamente e pubblicamente le loro idee, a voce, attraverso la stampa o con qualsiasi altro mezzo. (8)

Questo contesto storico è essenziale per comprendere accuratamente cosa Gregorio XVI e Pio IX avessero in mente quando condannarono la “libertà di coscienza e di culto”. Certo, i concordati che essi e i loro successori siglarono con nazioni come la Spagna ed alcuni Paesi latino-americani erano molto più restrittivi verso le altre religioni di quelli che la Santa Sede la Santa Sede sembrerebbe oggi disposta a permettere (9); ma ciò che le prime encicliche condannavano come incompatibile con la dottrina cattolica (cioè con la legge divina) era quella visione totalmente permissiva e la visione laicista dello Stato, la quale era di moda, ieri come oggi, presso alcuni intellettuali cattolici (fu il diritto pubblico preconciliare della Chiesa, non la dottrina preconciliare, a ritenere che, nei paesi a maggioranza cattolica, la propaganda non cattolica potesse essere vista, in quanto tale, come una minaccia al bene comune e quindi limitata per legge)(10).

Fine prima sezione – continua

Note:
(1) Denzinger-Schönmetzer 2896.
(2) Quanta Cura, 3. Il testo latino è tratto da p. Gasparri (ed.), Codicis Iuris Canonici Fontes, vol. II, roma, Typis Polyglottis Vaticanis, 1924, p. 995. In due recenti articoli, p. William G. Most ha citato brani da una traduzione non accurata di Quanta Cura, la quale – in questo passaggio del testo – attribuiva erroneamente l’espressione “ordine pubblico” a Pio IX. Cfr. gli articoli di p. Most, “Religious Liberty: What the Texts Demand” [Libertà religiosa: cosa richiedono i testi, ndt], Faith & Reason, vol. IX, n. 3, Autunno 1983, pp. 201, 206 e “Vatican II on Religion and the State” [Il Vaticano II riguardo alla religione e allo Stato, ndt], The Wanderer, 23 ottobre 1986, p. 4. Quest’erronea traduzione crea senza ragione difficoltà al cattolico che desidera difendere il Vaticano II dall’accusa di aver contraddetto la dottrina precedente, poiché il Vaticano II insegna in realtà molto chiaramente che un “giusto ordine pubblico” (iustus ordo publicus) è il solo criterio ammissibile per limitare la libertà religiosa (cfr. Dignitatis Humanæ 2, 3 e 7)
(3) L’Avenir, citato in Dictionnaire de Théologie Catholique [Dizionario di Teologia Cattolica, ndt], vol. IX, parte I, Parigi, Librairie Letouzey et Ané, 1926, sotto la voce “Libéralisme Catholique” [Liberalismo cattolico, ndt], colonna 536.
(4) Ibid., colonna 550.
(5) Ibid.
(6) Ibid., colonna 539.
(7) Ibid., colonna 541.
(8) Quanta Cura, 3, loc. cit. (il corsivo è mio)
(9) Il concordato del 1953 tra Santa Sede e Spagna, per esempio, riconosce l’articolo 6 di quella che sarà poi la Costituzione spagnola, il quale proibisce manifestazioni pubbliche di qualsiasi religione non cattolica. Cfr. Acta Apostolicæ Sedis, vol. 45 (1953), pp. 651-52.
(10) Vedi, per esempio, il classico manuale preconciliare sul diritto pubblico della Chiesa di p. F. M. Cappello, Summa Iuris Publici Ecclesiastici, Roma, Università Gregoriana Editrice, 1936 (IV edizione), p. 369.

[traduzione, immagini e relative didascalie sono nostre]


La teologia cattolica che ha accolto dopo il Concilio senza grandi discussioni l’esegesi moderna, ignorando la sua chiave ermeneutica, non ha potuto rispondere alle grandi questioni che stavano nascendo e così è nata la crisi [...] (Joseph card. Ratzinger, dall’intervento al Sinodo dei Vescovi del 1990)

L’allora card. Ratzinger



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Caterina63
00sabato 12 gennaio 2013 23:22

Prima sezione qui. Articolo originale in inglese: Brian W. Harrison, “Pius IX, Vatican II and Religious Liberty” in “Living Tradition” n. 9 del gennaio 1987 (testo originale qui: http://www.rtforum.org/lt/lt9.html#II)


Ora, l’insegnamento del Vaticano II non è così liberale come quello di Lamennais e dei suoi seguaci. Pertanto, non rientra nella condanna stabilita dalle encicliche del XIX secolo, che erano rivolte esattamente a quei personaggi. In realtà Dignitatis Humanæ, lontana dal contraddire papa Pio IX, esplicitamente ripete l’insegnamento di quest’ultimo che la “pubblica pace” non è il solo criterio al quale i governi possono appellarsi per restringere dimostrazioni o propaganda di tipo religioso (o anti-religioso). Secondo l’articolo 7 della Dichiarazione conciliare, la “pubblica pace” è solo uno dei tre criteri che lo Stato può invocare per tale scopo. Gli altri due sono la “necessaria protezione della pubblica moralità” e “l’effettiva protezione dei diritti di tutti i cittadini” (e la “pacifica risoluzione dei conflitti di diritti”). Grazie ad un intervento del giovane Arcivescovo Karol Wojtyla, a questo paragrafo fu aggiunta un’affermazione la quale insisteva che questi limiti debbano essere decisi ed imposti in base all’ “ordine morale oggettivo”. Ed è naturalmente la Chiesa Cattolica l’unica interprete di cosa sia oggettivamente morale o immorale.

In quest’immagine si nota – in seconda finale, secondo da destra – mons. Karol Wojtyla (poi Papa), che diede un contributo di non poco conto a Dignitatis Humanae

Dunque il Concilio suggeriva che idealmente i governi dovrebbero riconoscere il ruolo unico della Chiesa Cattolica riguardo a questi aspetti? Sì. Infatti, non solo l’articolo 1 della Dichiarazione conciliare riafferma “l’insegnamento cattolico tradizionale” sui “doveri morali” delle “società” (non solo degli individui) verso la vera religione, ma il relatore ufficiale dello schema sulla libertà religiosa, il vescovo Emil de Smedt, spiegò ai Padri riuniti in Concilio che quel primo articolo doveva essere certamente inteso come riaffermazione del dovere dell’ “autorità pubblica” verso la Chiesa Cattolica quale vera religione. Egli sottolineò che il precedente progetto di schema era stato rivisto proprio per far sì che il documento si esprimesse più chiaramente in continuità con gli insegnamenti dei Papi del XIX secolo (fino a quel momento e fino a quando non furono apportate allo schema altre revisioni dell’ultimo minuto, ogni qualvolta le bozze precedenti erano state sottoposte al giudizio dei Padri conciliari la persistente critica conservatrice – e, possiamo aggiungere, la potenza dello Spirito Santo – aveva ripetutamente impedito di raggiungere un solido consenso di voti positivi)(11). Vale la pena di citare il commento ufficiale del vescovo de Smedt (che, a quanto ne so, non è mai stato pubblicato prima in inglese): lo ritengo di vitale importanza. Durante la 164° congregazione generale del Concilio (19 novembre 1965) egli diede la seguente spiegazione:

Alcuni Padri affermano che la Dichiarazione non esprime in maniera sufficientemente chiara come la nostra dottrina non si opponga ai documenti ecclesiastici emessi sino al tempo del Sommo Pontefice Leone XIII. Come abbiamo detto nella scorsa relatio, questa è una questione adatta ad essere più chiaramente illuminata da futuri studi teologici e storici. Per quanto riguarda la sostanza del problema, il punto che dovrebbe essere fatto è che, mentre i documenti papali sino a Leone XIII insistevano più sul dovere morale delle pubbliche autorità verso la vera religione, i recenti Sommi Pontefici, pur mantenendo questa dottrina, la integrarono evidenziando un altro dovere delle stesse autorità, vale a dire quello di osservare le esigenze della dignità della persona umana in campo religioso in quanto elemento necessario del bene comune. Il testo che avete davanti oggi richiama più chiaramente (vedi nn. 1 e 3) i doveri della pubblica autorità verso la vera religione (officia potestatis publicæ erga veram religionem); con ciò è evidente che questa parte della dottrina non è stata trascurata. Tuttavia, l’oggetto particolare della nostra Dichiarazione è di chiarire la seconda parte della dottrina dei recenti Sommi Pontefici – quello che ha a che fare coi diritti e i doveri che nascono dalla riflessione sulla dignità della persona umana. (12)

Fine seconda sezione – continua

Note:
(11) Per esempio, quando – il 17 ottobre 1965 – fu votata la penultima bozza, ci furono 65 voti contrari e 534 voti favorevoli ma con riserva, per quanto riguarda i primi cinque articoli dello schema sulla libertà religiosa. Questa significava che circa tre Padri conciliari su dieci – una minoranza significativa – erano ancora più o meno a disagio riguardo alla sezione fondamentale del documento (cfr. Acta Synodalia S. Conc. Vat. II., vol. IV, parte VI, p. 724). Il mese successivo, dopo aver ascoltato la spiegazione del vescovo de Smedt riguardo allo schema rivisto, fu richiesto ai Padri di votare di nuovo – questa volta solamente con un netto “sì” o “no”. Il risultato fu che l’89% votò a favore e l’11% contro. Quando divenne chiaro che Paolo VI stava per approvare quel progetto di schema, l’opposizione scese nel voto formale conclusivo a 70 vescovi (circa il 3%)(a dire il vero, dopo che il Papa ebbe firmato lo schema, credo che solo l’arcivescovo Lefebvre abbia rifiutato di apporre ad esso la sua firma [in realtà, anche mons. Lefebvre firmò lo schema, ndt]).
(12) Acta Synodalia, op. cit., p. 719.

[traduzione, immagini e relative didascalie sono di Continuitas]


Prima sezione qui. Seconda sezione qui. Articolo originale in inglese: Brian W. Harrison, “Pius IX, Vatican II and Religious Liberty” in “Living Tradition” n. 9 del gennaio 1987 (testo originale qui: http://www.rtforum.org/lt/lt9.html#II)

Ed ecco le due ultime frasi dell’articolo 1 di Dignitatis Humanæ, nelle quali abbiamo evidenziato le parole aggiunte al momento della revisione finale dello schema alla quale faceva riferimento il vescovo del Smedt:

E poiché la libertà religiosa, che gli esseri umani esigono nell’adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo. Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della società.

L’aggiunta all’articolo 3 menzionata dal vescovo de Smedt si trova nell’ultima frase di quella sezione dello schema e chiarisce come i governi non dovrebbero essere meramente “neutrali” o “agnostici” riguardo al valore dell’attività religiosa. Al contrario, a motivo del carattere “trascendente” di quest’ultima, essi hanno il dovere di “riconoscere e favorire la vita religiosa dei cittadini.”
Alla luce di queste aggiunte, che certamente non furono desiderati dai periti liberali come p. John Courtney Murray, il commento di Murray nell’edizione Abbott dei documenti conciliari deve essere considerato come equivoco, sia da un punto di vista esegetico che dottrinale. Egli vi afferma:

La Chiesa non avanza la pretesa di essere riconosciuta come “religione di Stato”, come se fosse una questione di diritto o di legge naturale. (13)

Dobbiamo distinguere due proposizioni:

(a) La legge divina esige che la comunità civile in quanto tale riconosca esplicitamente la Chiesa Cattolica come “religione di Stato”, in un una Costituzione scritta o in un codice di legge;
(b) La legge divina richiede alla comunità civile in quanto tale di dare almeno un riconoscimento de facto della Chiesa Cattolica come vera religione e di rispecchiare questo riconoscimento nelle proprie leggi e decisioni comuni.

Né il Vaticano II né l’insegnamento magisteriale pre-conciliare hanno insistito sulla proposizione (a) di cui sopra poiché costituzioni scritte e documenti legali sono solamente una forma storicamente determinata di “riconoscimento”. La legge divina si preoccupa di ciò che è vero sempre e dovunque; e nei secoli passati (o teoricamente anche oggi) una società meno moderna, meno sviluppata o molto piccola può non avere affatto leggi scritte o Costituzione. (Come il Codice di Diritto Canonico della Chiesa riconosce nei canoni 27 e 28, la consuetudine – specialmente se antica o di lunga tradizione – è una forma di legge alquanto rispettabile) Il Vaticano II si astenne deliberatamente dal pronunciare giudizi sulla questione se la Chiesa Cattolica debba essere riconosciuta costituzionalmente come “religione di Stato”: l’articolo 6 fa una breve e molto generica affermazione che, se ad una religione (cattolica o non cattolica) viene dato speciale riconoscimento “nella costituzione di uno Stato” (in iuridica civitatis ordinatione), allora – in aggiunta a ciò – la libertà religiosa degli altri deve essere rispettata.

Al centro, mons. de Smedt, relatore conciliare ufficiale dello schema sulla libertà religiosa

Tuttavia, la proposizione b) di cui sopra viene egualmente riaffermata nell’insegnamento dell’articolo 1 riguardo alle “società” (un termine generico che copre molte realtà, dalla più semplice tribù nomade ad una moderna superpotenza) che hanno un dovere morale verso la vera religione – un dovere esposto con maggior pienezza nell’insegnamento “tradizionale” dei precedenti Pontefici, che il Concilio afferma di voler lasciare “intatto”. Nei confronti delle società, come dei singoli, Dio Onnipotente è fondamentalmente più interessato a che che cosa effettivamente facciamo rispetto alle promesse o garanzie che possiamo fare su carta; e, come la storia ampiamente conferma, le nazioni prive di un riconoscimento costituzionale e legale della Chiesa, nella pratica si sono talvolta mostrate più favorevoli verso i principi cattolici rispetto ad altre nazioni dove il cattolicesimo è descritto sulla carta come “religione di Stato” (Irlanda e Filippine sono senza dubbio rimarchevoli esempi in tal senso). Questa immutabile dottrina cattolica riguardante il dovere delle società in quanto tali verso le vera religione non nega che l’adempimento di questo dovere sociale sia spesso politicamente difficoltoso o addirittura impossibile, poiché si hanno società con pluralità di religione come pure non credenti. Ancora più evidente è ovviamente il caso in cui qualche altra religione – o anche l’ateismo – siano saldamente “instaurate”.

Fine terza sezione – continua

Note:
(13) Nota 53, p. 693, in W.M. Abbot (ed.), The Documents of Vatican II [I documenti del Vaticano II, ndt].




[SM=g1740771]




Caterina63
00sabato 12 gennaio 2013 23:27

Prima sezione qui. Seconda sezione qui. Terza sezione qui. Articolo originale in inglese: Brian W. Harrison, “Pius IX, Vatican II and Religious Liberty” in “Living Tradition” n. 9 del gennaio 1987 (testo originale qui: http://www.rtforum.org/lt/lt9.html#II)

Parte seconda.
Torniamo alla questioni dei limiti legali alla libertà religiosa. Come abbiamo visto, il Vaticano II insegna che i governi possono e devono limitare l’attività svolta in nome della libertà religiosa non solamente quando la “pubblica pace” è in pericolo, ma anche quando la pubblica moralità o qualsiasi altro diritto dei cittadini siano compromessi da questa attività. “Tutti questi sono elementi – afferma il Concilio – che costituiscono la parte fondamentale del bene comune (partem boni communis fundamentalem constituunt) e sono compresi sotto il nome di ordine pubblico.” (14) Questi “altri diritti” dei cittadini non sono definiti in modo esaustivo, ma il Concilio stesso dà alcuni esempi. Ogni tipo di propaganda religiosa – specialmente verso il povero e il privo d’istruzione – che anche “sembri avere il tono” (sapere videatur) di essere “coercitiva, disonesta o indegna” deve “sempre” essere evitata. (15) Poi, in un altro “inasprimento” dell’ultimo minuto del documento, fu aggiunta l’affermazione che una tale propaganda è “lesione del diritto altrui” (16) Quest’aggiunta chiarisce che i governi possono giustamente proibire questo tipo di attività coercitiva, disonesta o indegna come reato contro l’ordine pubblico, in base a quanto definito nell’articolo 7.

Dovrebbe oramai essere chiaro che Dignitatis Humanæ – questo presunto precedente di radicale cambiamento dottrinale che p. Curran trova così incoraggiante (e l’arcivescovo Lefebvre così allarmante) – esce alquanto indenne dai fulmini scagliati da Pio Nono contro il liberalismo di Lammenais. Infatti, i governi, agendo in linea col Vaticano II, possono punire una gamma molto significativa di “violazioni della religione cattolica”, al di là dei tipi di propaganda che possono disturbare o mettere in pericolo la “pubblica pace”.
La propaganda atea e anti-religiosa, per esempio, può difficilmente fare appello al Vaticano II per cercare di giustificare un proprio “diritto” alla protezione legale. Ciò che la Dichiarazione intende proteggere sono “gli atti religiosi, con i quali in forma privata e pubblica gli esseri umani si dirigono a Dio secondo le proprie convinzioni” (17). Ciò chiaramente non include gli atti di irreligione, con i quali gli uomini dirigono se stessi e gli altri lontani da Dio.

A sin., Paolo VI, primo firmatario di Dignitatis Humanae

Secondo il Vaticano II, può essere legalmente proibito non solo il materiale pornografico, ma anche ciò che mons. John McCarthy ha giustamente definito “pornologia”, in quanto mina la “moralità pubblica” (“Pornologia” significa letteratura che, sebbene possa non essere direttamente violenta o erotica e possa pretendere di essere seria e scientifica, nondimeno intende persuadere le persone di potersi legittimamente impegnare in alcuni tipi di attività sessuale che, in realtà, sono contrarie all’ “ordine morale oggettivo”).
Qualcuno potrebbe obiettare che il Concilio non avrebbe voluto che i governi lasciassero la Chiesa cattolica quale arbitro di ciò che è (o non è) in accordo con questo “ordine morale oggettivo”, poiché il Concilio afferma che, nel decidere quali limiti debbano essere imposti, i governi dovrebbero evitare “la scorretta pratica del favoritismo” (per usare la traduzione data nell’edizione Flannery). Tuttavia, a parte il fatto che sarebbe impossibile per un Concilio della Chiesa Cattolica insinuare che qualche autorità diversa dalla Chiesa stessa possa essere un giudice migliore di ciò che è “oggettivamente” giusto o sbagliato, il testo latino non supporta la possibile allusione del Flannery, che cioè il sostenere una parte sia, in quanto tale, qualcosa di necessariamente scorretto. Il testo dice solamente che, nel decidere quale tipo di attività proibire o permettere,i governi devono evitare “di favorire in maniera scorretta una delle parti” (uni parti inique favendo). (18) Tre anni dopo divenne chiaro che il principale firmatario di Dignitatis Humanæ, Paolo VI, non intendeva l’insegnamento della Dichiarazione nel senso che fosse “scorretto” favorire il “lato” cattolica (o ciò che è comunemente vista come la “parte cattolica”). La maggior parte delle persone non sono a conoscenza che nel 1968 l’enciclica Humanæ Vitæ non solo riaffermò l’immoralità della contraccezione come attività privata, ma anche esortò “I governanti… (a) non tollerare alcuna legislazione” che permetta la distribuzione dei contraccettivi. (19) Il suo appello trovò orecchie ricettive in Irlanda, almeno fino ad un anno o due fa.

Fine quarta sezione – continua

Note:
(14) Dignitatis Humanæ, 7.

(15) Ibid., 4.
(16) Ibid.
(17) Ibid., 3.
(18) Ibid., 7.
(19) Humanæ Vitæ, 23.

Pio IX, il Vaticano II e la libertà religiosa – sezione quinta

Prima sezione qui. Seconda sezione qui. Terza sezione qui. Quarta sezione qui. Articolo originale in inglese: Brian W. Harrison, “Pius IX, Vatican II and Religious Liberty” in “Living Tradition” n. 9 del gennaio 1987 (testo originale qui: http://www.rtforum.org/lt/lt9.html#II)

Le forme più virulente di protestantesimo e altri tipi di propaganda contro la Chiesa Cattolica potrebbero certamente essere legalmente vietate in accordo con le censure del Vaticano II verso le forme “disoneste” e “indegne” di sostenere la religione. Come abbiamo visto, secondo il Concilio la propaganda religiosa non dovrebbe nemmeno “sembrare di favorire” tali difetti. Ma alcune espressioni correnti di fondamentalismo trasudano attivamente “disonestà” e “indegnità”! I libri di fumetti anti-cattolici di Jack Chick, per esempio, contengono almeno una parodia della dottrina cattolica in ogni pagina. Essi accusano inoltre i gesuiti di lavare il cervello ai possibili convertiti al protestantesimo mantenendoli contemporaneamente chiusi in celle imbottite; mentre, ci vien detto, l’Azione Cattolica manda ragazze attraenti nei seminari protestanti e nelle loro congregazioni parrocchiali, stimolate dalle promesse di generose mitigazioni della loro pena in Purgatorio per ogni pastore o seminarista che riescano a sedurre e corrompere!
Anche la blasfemia è ovviamente una forma “indegna” di espressione “religiosa”. Ancora nel 1985 papa Giovanni Paolo II si è allineato con Gregorio XVI e Pio IX chiedendo di agire contro questa forma particolare di “violazione della religione cattolica”: egli ha protestato contro la proiezione pubblica a Roma del famigerato film “Ave Maria” [“Je vous salue, Marie”, ndt], anche se né lui né nessun altro ha cercato di sostenere che si trattasse di una minaccia alla “pace pubblica”.

I Padri del Vaticano II

Riassumiamo. Con il Vaticano II, la dottrina cattolica – o legge divina – rimane come è sempre stata verso le società e le autorità pubbliche di queste ultime sono moralmente obbligate ad agire, legiferare e governare in accordo coi principi della vera religione (anche il decreto conciliare sull’apostolato dei laici riafferma quest’insegnamento nel proprio articolo 13, il quale afferma che i cattolici dovrebbero “sforzarsi di permeare uno spirito cristiano nella mentalità, nei costumi, nelle leggi e nelle strutture” delle loro comunità). Questa stessa immutabile legge divina comporta il diritto e il dovere delle autorità pubbliche di sanzionare coloro che attaccano la vera religione nella misura in cui lo richiede il bene comune.

Fine quinta sezione – continua


Prima sezione qui. Seconda sezione qui. Terza sezione qui. Quarta sezione qui. Quinta sezione qui. Articolo originale in inglese: Brian W. Harrison, “Pius IX, Vatican II and Religious Liberty” in “Living Tradition” n. 9 del gennaio 1987 (testo originale qui: http://www.rtforum.org/lt/lt9.html#II)

Ma in quale misura, esattamente, il bene comune richiede tali misure coercitive? Ciò può variare molto, a seconda delle circostanze storiche, sociali e politiche; e l’infallibilità della Chiesa non si estende a questo campo, che non riguarda principi fondamentali, ma le decisioni sui mezzi proporzionati per raggiungere un determinato fine. Il diritto pubblico pre-conciliare della Chiesa applicava i suddetti principi dottrinali stabilendo che, nei paesi prevalentemente cattolici, tutte le attività religiose non cattoliche pubbliche dovessero essere considerate, in quanto tali, un pericolo per il bene comune e quindi meritevoli di proibizione legale.
Il Vaticano II, tuttavia, evidenziando un altro aspetto della legge divina – cioè il diritto naturale di tutti gli uomini ad essere lasciati liberi (entro debiti limiti) di praticare la proprio religione senza interferenza umana – ha in effetti modificato sostanzialmente questa precedente legge ecclesiastica (non si tratta di dottrina). Allo stesso modo, la Chiesa ha spesso cambiato molti altri aspetti della propria precedente legislazione o disciplina, qualora non sembrasse ancora opportuna o apparisse dar luogo, nella pratica, ad ingiustizie (20). A partire dal Vaticano II, in particolar modo quando inteso alle luce di come la Santa Sede ha applicato la dichiarazione conciliare, la nuova legge stabilisce che, anche nei paesi a maggior prevalenza cattolica, il diritto all’immunità dall’interferenza del governo concesso almeno ai gruppi più moderati e onestamente non cattolici, ha la precedenza rispetto al diritto dei cattolici a non essere “indotti in tentazione” verso peccati contro la loro fede, a seguito della pubblica diffusione dell’eresia o dell’apostasia (21). Quest’immunità, secondo il concilio, è in se stessa un aspetto del bene comune – se si intende questo termine nel senso più ampio. Per quanto riguarda la restrizione civile, poi, la Chiesa ora interpreta e applica la legge divina meno severamente di prima: in materia di religione, il bene comune ora permette e richiede misure coercitive solo le sue caratteristiche fondamentali sono messe in pericolo – caratteristiche che sono indicate assieme in Dignitatis Humanæ, 7 col termine di “ordine pubblico”. In altre parole, anche nei paesi fortemente cattolici la pubblica diffusione di idee o pratiche non cattoliche non dovrebbe ora (secondo il Vaticano II) essere considerata una pubblica minaccia al bene comune semplicemente perché sono non-cattoliche. Piuttosto, per meritare una simile classificazione esse dovrebbe solitamente essere di quel tipo di propaganda anti-cattolica che aggredisce o minaccia (a causa del proprio contenuto o dei propri metodi) quelle norme di verità, onestà, responsabilità civica, morale sessuale e rispetto delle altre persone che possono essere validamente sostenuti e stabiliti su basi esclusivamente umane e razionali, senza fare appello all’autorità soprannaturale della rivelazione divina.

Il beato Pio IX: il suo insegnamento rimane estremamente importante

In breve, tutti i cattolici che amano e onorano il magistero della Chiesa possono rincuorarsi. Non dobbiamo accontentarci con la posizione non troppo rassicurante per la quale non sia provato che il Vaticano II abbia contraddetto l’enciclica Quanta Cura di papa Pio IX. Una volta che abbiamo letto con la dovuta cura i documenti pertinenti nell’originale latino, con una corretta comprensione storica di cosa essi volessero dire con la scelta di certe espressioni e tenendo a mente la cruciale distinzione tra la dottrina della Chiesa da un lato e il suo mutevole diritto pubblico dall’altro, solo un verdetto è possibile: il Concilio è “da dichiararsi innocente” riguardo a quell’accusa.

Fine sesta sezione – fine dell’articolo

Note:
(20) Il vescovo de Smedt fece notare ciò ai Padri conciliari, menzionando a titolo d’esempio e come precedente il fatto che papa Benedetto XIV, nel 1745, aveva esplicitamente ripudiato la disciplina medievale la quale non aveva sempre rispettato le libertà personali e aveva talvolta permesso indebite pressioni o coercizioni sulle persone, riguardo all’abbracciare il sacerdozio o la vita religiosa. Cfr. Acta Synodalia, vol. IV, parte V, p. 101.
(21) Qualcuno potrebbe obiettare che, approvando la recente revisione del Concordato con la repubblica italiana – la quale non riconosce più il Cattolicesimo come “religione di Stato” – la Santa Sede adotti implicitamente la posizione per la quale la separazione costituzionale tra Chiesa e Stato è ora il modello preferito o ideale anche nei i paesi cattolici. Questa deduzione sembra abbastanza ingiustificata. La decisione della Santa Sede nel caso specifico – ovviamente prudenziale, pratica e non infallibile – deve essere vista alla luce del fatto che l’Italia è ora de facto una società abbastanza pluralistica, dato che comprende non solo gruppi minoritari di protestanti, testimoni di Geova e musulmani, ma anche un gran numero di persone senza alcun reale impegno religioso (l’Italia ha il più grande partito comunista di tutte le nazioni occidentali). Il cardinal Casaroli, cioè il maggior artefice (dal lato vaticano) della revisione del Concordato, senza dubbio aveva in mente l’insegnamento del Vaticano II contenuto in Gaudium et Spes, 76, il quale osserva che la Chiesa “non pone la sua speranza nei privilegi accordatigli dall’autorità civile” e che essa è pronta a “rinunciare all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero un nuovo approccio.” Tuttavia, è abbastanza chiaro che la Santa Sede non sta suggerendo che ciò che essa ritiene migliore nel caso dell’Italia sia necessariamente la miglior soluzione costituzionale per tutti gli altri paesi. Al contrario, il concordato post-conciliare del Vaticano con la Colombia (1973) – probabilmente la nazione più solidamente cattolica nell’America Latina – continua a dare alla Chiesa un riconoscimento costituzionale molto più positivo. In realtà, esso riflette in misura non piccola l’insegnamento ribadito da Dignitatis Humanæ riguardo al “dovere morale” delle “società” verso la vera religione. L’articolo 1 del nuovo concordato colombiano dice: “Lo Stato, per riguardo al tradizionale sentimento cattolico della nazione colombiana, considera la religione cattolica e romana come un elemento fondamentale del bene comune e dello sviluppo integrale della comunità nazionale”.

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