Il PADRE NOSTRO nella S.Scrittura

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°Teofilo°
00martedì 8 settembre 2009 22:00
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Consiglia  Messaggio 1 di 18 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 19/06/2003 20.59

OSIAMO DIRE: PADRE



Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di "Padre".

Qualche esempio: Zeus era denominato "padre degli dei e degli uomini".

Nel secondo millennio a.c. troviamo un’invocazione sumerica al Dio Sin: "O Padre, misericordioso e clemente, che hai nelle tue mani la vita del mondo intero, o Padre generatore degli dei e degli uomini...".



NELL’ANTICO TESTAMENTO


Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive era chiamato Padre.

Quindi non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica.


Si rimane meravigliati constatando che nell’Antico Testamento, l’appellativo Padre riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto).

Israele infatti ha imparato a chiamre JHWH "Padre" molto tardi. Quale il motivo?

Occorre pensare che nelle mitologie pagane la paternità di Dio era intesa in senso fisico-materiale. E questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio.

L’uso del termine "padre" poteva suggerire ad Israele concezioni pagane ripudiate sin dall’inizio (Gs 24,23).

Infatti quando Israele inizierà a chiamare Dio "Padre", per la ricchissima simbologia che l’attributo contiene, non lo farà come nei popoli pagani con le loro mitologie che lo designano come progenitore "padre del mondo".

La scrittura userà la simbolica del padre in un primo tempo per sottolineare il dovere dell’obbedienza del figlio-Israele al proprio padre ("Voi siete figli di JHWH, vostro Dio" Dt 14,1), oppure per fondare una prospettiva universalistica delle fede ebraica ("Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio? Ml 2,10).


E’ interessante notare che la grande e tardiva religione monoteistica mussulmana tra i novantanove nomi dati a Dio non contiene quello di "padre". Troppo forte è per loro la concezione di una trascendenza assoluta di Dio per potergli applicare una simbolica che troppo fa riferimento all’esperienza umana.



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.02

II.

 

PADRE NOSTRO CHE STAI NEI CIELI



L’aggettivo "nostro" nel Pater è riferito ovviamente a Dio ("di noi"), non sta ad indicare certamente possesso.


Siamo noi il suo popolo ed egli è il nostro Dio. Si tratta di un’appartetenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’alleanza:

Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).


Ancora: nostro indica la comunità, la Chiesa , la famiglia di Dio nella quale siamo stati generati alla fede mediante il nostro battesimo.

E quando preghiamo l’Orazione del Signore, anche nel silenzio e solitudine della nostra stanza, sempre noi ci dobbiamo sentire inseriti nella grande pregheira della Chiesa: in questo senso non esiste per me cristiano una preghiera mia.


Così il Padre nostro ci fa uscire dal nostro individualismo. E per essere pregato in verità "le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati"(ccc 2792).

E’ la preghiera che deve abbattere ogni frontiera e ostacolo che si frappone agli altri.


E nella Preghiera del Signore ci presentiamo portando tutti coloro per i quali il Figlio ha offerto se stesso: l’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo (CCC 2792).


Pregando così il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiese che tutti siano una cosa sola.


Il Pater, lo possiamo affermare, è la preghiera che ci fa passare dal Tu al Noi.

Constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu:

- il tuo nome

- il tuo regno

- la tua volontà.

Nella seconda parte predomina il noi:

- da a noi il nostro pane quotidiano

- rimetti a noi i nostri debiti

- non indurre noi in tentazione

- libera noi dal male.

Dal Tu del Padre passiamo ad noi scoprendo in tal modo l’altissima nostra dignità. Siamo figli, siamo un unico corpo per il battesimo e l’eucaristia, siamo un’unica famiglia, siamo fratelli e sorelle in Cristo con un legame più forte che quello del sangue (Mt 23,8).


In famiglia pregare insieme il Pater significa riconoscere gli uni di fronte agli altri, in una comune professione di fede, la comune paternità di Dio da cui procede ogni altra paternità. Questo riconoscimento comune è garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole.


In una comunità cristiana (religiosa) significa riconoscere che si è famiglia che trova il suo punto di riferimento non in se stessa, ma nel Padre da cui trae la propria origine e la sua ragione d’essere.

Ci si riconosce così figli di un unico padre e fratelli non tanto per un legame fisico di sangue, ma per una "consaguineità" di fede ancor più profonda. "Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre".

Comunità che si percepisce Corpo di Cristo in cammino verso l’esperienza della comunione.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.04

CHE SEI NEI CIELI


Non indica evidentemente un luogo ma un modo d’essere.

Era questa un’espressione comunissima al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: "Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli".


Quale il significato di questa espressione?

Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inacessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, linfinito.

Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida, costituito da acque trattenute da un’immenso velo costellato di stelle. Nel cielo erano i depositi dell’acqua, della grandine e della neve (cf Gb 37,9; 38,22). Tutta la costruzione del cielo poggiava su solidissime colonne ("Io tengo salde le sue colonne").

Al di sopra di tutto il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12).

Dio comunicava con la terra tramite gli angeli; essi scendevano tramite scale (cf Gn 28,12); in seguito per influsso delle raffigurazioni persiane essi si serviranno di ali.


L’espressione "che sei nei cieli" sta ad indicare dunque la totale trascendenza di Dio, ma non la sua lontananza! Evitando anche la banalizzazione e la proiezione di false immagini di Dio.

Ma collocata subito all’inizio dopo la parola Padre essa vuole anzitutto eliminare ogni possibile confusione tra i "padri terreni" e il "Padre" da cui proviene ogni paternità.

Certo l’espressione che "sei nei cieli" unita a "Padre", può generare in noi un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inacessibile.

Tuttavia nella fede cristiana siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio; la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa.

E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende infinitamente.


Il peccato ci ha allontanato "dai cieli", sono essi la "nostra patria". Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2).

La nostra conversione potrebbe essere letta come un ritorno al cielo. E’ un cielo ormai aperto: "si spalancarono i cieli" durante il battesimo di Gesù, e da allora non sono più richiusi all’uomo. In lui cielo e terra sono ormai eternamente riconciliati. Paolo dirà: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6).


La Lettera a Diogneto riporta la stessa riflessione: I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo (5,8).



LA PREGHIERA CRISTIANA


Guardando tre gesti con cui accompagnamo la nostra preghiera cogliamo alcuni elementi della nostra fede, ovvero della nostra relazione con Dio.


Anzitutto vediamo che i cristiani pregano il Pater stando in piedi

I mussulmani invece pregano stesi a terra rivelando la loro sottomissione a Dio. Pregando coì essi sottolineano la sua assoluta trascendenza e lontananza.

Noi preghiamo il Padre nostro stando in piedi. E’ la posizione di Colui che è risorto, è il nostro identificarci con Cristo.

Nel battesimo siamo infatti passati da morte a vita. Gesù ci ha fatto dono del suo stesso Spirito. Cristo risorto così vive in noi (cf Gal 2,20).

Non ci sentiamo poi schiacciati dalla trascendenza di Dio, siamo costituiti nella libertà e nella filiolanza nei suoi confronti.


Preghiamo volgendo lo sguardo in alto, verso il cielo. Luogo della trascendenza di Dio.

Vogliamo vedere le cose con gli occhi di Cristo sempre rivolti al Padre (cf Canone Romano): infatti è in Lui che sta la verità di noi stessi, della realtà che ci circonda e della storia che attraversiamo.

Così diciamo che egli è Padre che è nei cieli, vicino ma nello stesso tempo avvolto nel suo mistero.

Scrive sant’Ambrogio: " O uomo tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono... Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre... che ti ha redento per mezzo del Figlio e di: Padre nostro!... Ma non rivendicare per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perhé ha generato lui solo, noi invece, ci ha creati. Dì anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio" (De Sacram. 5,19).


Si prega con le braccia allargate.

Ed è questo il gesto spontaneo con cui il bambino corre incontro al papà o alla mamma.

E’ pure il gesto indicante una disponibilità incondizionata, come quella di Gesù sulla croce: "Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà"(Ebr 10,5-7)

E’ gesto di invocazione e di intercessione non solo per noi ma per il mondo intero.

Non chiediamo con questo gesto che la volontà del Padre si pieghi alla nostra: al contrario è segno di apertura, disponibilità alla sua volontà; è la consegna di noi stessi.




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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.05

III

 

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

 

Più che trattarsi di domande le prime tre richieste del Padre Nostro esprimono degli auspici, dei desideri, delle attese:

- sia santificato il tuo nome

- venga il tuo regno

- sia fatta la tua volontà

A questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta così: E’ proprio dell’amore pensare innazi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non "ci" nominiamo ma siamo presi dal "desiderio ardente" dall"ansia" stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo (2803).


Il primo di questi desideri è dunque che il santo Nome di Dio sia santificato.

Si tratta per noi di una espressione strana per noi (è sempre stata per lo più intesa come il rispettare il nome di Dio non bestemmiandolo), ma comunissima nel giudaismo.


Troviamo ad esempio nella preghiera quotidiana dello Qaddish:

<DIR> <DIR>

Sia glorificato e santificato

il tuo grande Nome

nel mondo che egli ha creato

secondo la sua volontà


</DIR></DIR>

E nella terza delle Diciotto Benedizioni leggiamo:

<DIR> <DIR>

Tu sei santo e il tuo nome è santo.

Noi santificheremo il tuo nome nel mondo,

come è santificato nell’alto dei cieli.



</DIR></DIR>

NELL’ANTICO TESTAMENTO


Per la cultura semitica il nome non era una semplice designazione convenzionale, esso era intimamente legato alla persona, si identifica con essa.


Dare un nome nuovo significava ad esempio affidare a quella persona una nuova missione, un nuovo modo di essere, implicava un profondo cambiamento e un potere su di lui (cfr il romanzo di Gary Jennings, L’Azteco, in cui il protagonista Mixtli lo scrivano dovrà cambiare nel suo cammino diversi nomi a seconda con i potenti con cui si troverà a che fare).

Ricevere un nome da qualcuno significava riconoscere di essere dipendenti da Lui (cf Gn 17,5; 1,3-10; 2,20: Non ti chiamerai più Abram ma Abraham perché padre di molti popoli io ti costituirò)).

Di conseguenza conoscere il nome significava possedere il segreto intimo della persona, avere un potere su di lui, da qui il suo valore magico.


Israele conosceva il nome santo di Dio che gli era stato rivelato (cf Es 3,14-15; 6,2-3), ma doveva impegnarsi a non ingiuriarlo mai nè impiegare per maledizioni (cf Lv 24,11-15), nè per giuramenti o altro (cf Lv 19,12; Es 20,7).

Nel post esilio il rispetto del Nome giunse a tal punto che solo il Sommo Sacerdote lo poteva pronunciare e una sola volta all’anno, nel Santo dei Santi nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). La qual cosa fece sì che si perdesse l’ esatta pronuncia del sacro Tetragramma JHWH.

Incontrandolo nella lettura della Scrittura doveva essere sempre sostituito da un titolo similare (es Adonai) aggiungendo la formula "Benedetto sia il suo Santo Nome".


Ad un primo livello dunque capiamo che santificare il nome di Dio significa rispettarlo, onorarlo, mai profanarlo, non usarlo in modo magico al fine cioè di voler piegare Dio al proprio servizio (cf Lv 18,21; 20,3).


Il verbo "santificare" equivale a separare, distinguere.

Dio è il "Tre volte Santo" (cf Is 6,1-5), ovvero Colui che è totalemente "Altro" dall’uomo, distinto e separato da lui.

Santificare il nome di Dio ad un secondo livello significa dunque riconoscere che egli è Unico, ineguagliabile, ineffabile nel suo mistero. Ed era in questo senso che il giudaismo interpretava il termine ehad-Uno nello Shemà Israel.


Israele santificava il nome di Dio professando e magnificando la sua azione nella storia, narrando le opere da lui compiute, manifestando lo stupore per il suo agire e rivelarsi. Ed è questo un terzo livello:

<DIR> <DIR>

"Anche lo starniero, che non appartiene ad Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché si sarà sentito parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito" (1Re 8,41-43).


</DIR></DIR>

Quindi il nome di Dio è glorificato-santificato quando si annunziano le sue opere. Israele è chiamato ad essere un inno vivente alla santità-unicità di Dio, popolo nel quale JHWH manifesta la sua gloria:

<DIR> <DIR> "Vedendo ciò che ho fatto in mezzo a loro,

santificheranno il mio nome,

santificheranno il Santo di Giacobbe,

tremeranno di fronte al Dio di Israele" (Is 29,23).

</DIR></DIR>

E’ tutta la storia di Israele che santifica il nome del Signore, e Israele ben conosce questa sua missione. Compito dei padri sarà di narrare ai figlio le grandi opere di JHWH iniziandoli alla santificazione del nome:

<DIR> <DIR> "Grande è il Signore e degno di ogni lode,

la sua grandezza non si può misurare.

Una generazione narra all’altra le sue opere,

annunzia le sue meraviglie.

Diffondono il ricordo della sua bontà immensa" (Sl 145,3-7).


</DIR></DIR>

Ma vi è uncora un quarto livello. Occorre partire dalla considerazione che anche la santificazione del nome fatta nella liturgia splendida del Tempio e nei riti non è sufficiente, e i profeti lo ricorderanno insistentemente; è indispensabile che tutto questo sia accompagnato da una vita "santa" ovvero conforme ai dettami della Torah:

<DIR> <DIR>

"Siate santi, perché io il Signore, Dio vostro, sono santo" (Lv 22,31)

"Osservate i miei comandi, non profanate il mio nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli isrraeliti. Io sono il Signore che vi santifico"</DIR></DIR>

L’ingiustizia, il sopruso, l’idolatria sono profanazioni del nome santissimo di Dio:

<DIR> <DIR>

"Hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; calpestano come polvere della terra la testa dei poveri... e così hanno profanato il mio santo nome" (Am 2,6-7).


</DIR></DIR>

Arriviamo ad un testo fondamentale per entrare in una ancor più profonda comprensione dell’espressione "santificare il nome di Dio". Si tratta di Ez 36,20-38:

<DIR> <DIR>

"Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati. Annunzia alla casa d'Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d'Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore - parola del Signore Dio - quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi.

</DIR></DIR>

Il profeta sta scrivendo al popolo esiliato, ridotto in schiavitù. Tale situazione è letta come conseguenza dell’infedeltà alla Legge. I pagani, un tempo meravigliati per il successo di Israele, ora lo deridono e con esso un Dio che si è dimostrato non più dalla loro parte.

Ma ecco che JHWH non sopporta che il suo Nome a motivo di Israele sia disonorato. Egli dunque prenderà sicuramente posizione al fine di difendere il suo nome. In che modo? Ricostruendo il suo popolo, riportandolo nella terra promessa, soprattutto dando un cuore nuovo ad Israele affinché non si allontani più da lui, santificando così il suo Nome santo davanti a tutti i popoli.


Nel parlare di ciò che Dio compie, la spiritualità giudaica usava la forma passiva (passivo teologico onde evitare il Nome di Dio): "sarete giudicati", "vi sarà dato..." equivale a "Dio vi giudicherà", "Dio vi darà"...

"Sia santificato il tuo nome" lo traduciamo con "O Dio santifica il tuo nome".

Gesù dirà ad esempio: "Padre glorifica il tuo nome" (Gv 12,28).


Non siamo noi anzitutto a glorificare Dio, non ne ha bisogno!

Il suo nome è glorificato nella sua opera di salvezza gratuita nei confronti dell’uomo: il cieco, il paralitico, il peccatore che sperimentano la salvezza se ne tornano "lodando e glorificando Dio".

Nel Pater noi chiediamo di poter sperimentare al più presto la sua opera di salvezza in noi, nella Chiesa, nel mondo intero.

Una preghiera già esaudita dalla fedeltà di Dio anche se non ancora realizzata in modo definitivo, ma di cui possiamo già sin d’ora "assaggiare" gli anticipi. E di cui a volte, in momenti difficili, ci augurereremmo di vedere già realizzata pienamente.

Speranza e desiderio ardente presente già nell’antico giudaismo: "Glorificato e santificato sia il suo grande nome nel mondo... E ciò avvenga ai nostri giorni, nel tempo di vita della casa di Israele, in fretta e in tempo prossimo".


A questo punto sorge una domanda: se è Dio che deve santificare il suo santo nome a che serve la nostra preghiera?

La nostra supplica non cambia il cuore di Dio che rimane sempre fedele al suo patto, ma il nostro. Siamo noi che dobbiamo renderci disponibili ad accogliere la sua opera di salvezza. Che il suo nome sia santificato perciò nella nostra vita.




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Consiglia  Messaggio 7 di 18 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.06

IL NOME: MISTERO DELLA PERSONA


In mezzo ad una massa di volti sconosciuti dà gioia il sentirsi chiamare improvvisamente per nome da una voce amica.

Il mio nome risuona come un riconoscimento di me stesso come persona, esso è quella realtà che mi distingue dagli altri e che mi permette di entrare in relazione con l’altro.

Senza un nome io non esisto. Quando incontriamo un bambino gli chiediamo infatti per prima cosa: Come ti chiami?

Il nome è dunque non soltanto quella realtà che mi definisce ma altresì quella realtà che mi pone in relazione con qualcun altro: quando sono chiamato io esisto, io sono interpellato.


Anche Dio ha rivelato al suo popolo il suo nome: JHWH (cf Es 3,14). Non è dunque un’astrazione, un principio anonimo di esistenza.

Ma mentre rivelava il suo nome vi si nascondeva. JHWH significa infatti: "Io sarò". E’ come se avesse detto: Da ciò che farò capirete chi sono.

La rivelazione del suo nome lungi dal compiere la rivelazione diventa un invito pressante alla ricerca, perché Dio non si lascia afferrare: JHWH è Dio ineffabile, indicibili, indescrivibile.


Gesù, che è l’esegesi del Padre (cf Gv 1), ci ha manifestato un altro nome di Dio: il suo essere Padre, il suo essere amore. Con la sua incarnazione, passione e morte ci ha detto chi è Dio.

E’ in Gesù che il Nome del Dio Santo ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore: rivelato da ciò che egli è, dalla sua parola, dal suo sacrificio (CCC 2812).

Il nuovo nome è dunque Amore ("Dio è Amore"). Per santificare il Nome noi dobbiamo unicamente rifugiarci nella croce di Cristo. Nella sua sofferenza e morte (O. Clèment).



INVOCARE IL NOME DEL SIGNORE


Dio ci conosce nome per nome. Di fronte a lui non siamo una massa.

Un nome con il quale Dio ci interpella, intesse un dialogo, una relazione sponsale, paterna, amicale. Quando chiama qualcuno lo fa sempre con il suo nome.


Invocare il nome santo di Dio è rispondere a questa chiamata, e questa invocazione può assumere tantissime sfaccettature:

- un chiamare in causa Dio di fronte al dramma della sopfferenza umana: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34).

- un atto di abbandono e resa nelle sue mani: "Padre nelle tue mani affido il mio spirito" (Lc 23,46)

- un grido di aiuto: "Padre passi da me se possibile questo calice".


Invocare il nome non è pretesa di piegare Dio: è lui il Signore, l’onnipotente, il creatore che chiama le stelle per nome (Is 40,26).



SANTIFICARE IL NOME


E’ Gesù colui che più di ogni altro ha santificato il Nome di Dio.

Nell’Eucaristia memoriale vivo della sua morte e risurrezione, preghiera somma della Chiesa, noi santifichiamo il Nome di Dio. Nella liturgia della parola narriamo le sue meraviglie per noi santificando il suo Nome. La memoria di Dio nella vita ci porta a compiere opere tali da santificare il suo nome. I nostri gesti di amore, di dono, di sacrificio sono occasione di lode al Padre da parte degli uomini (cf Mt 5,16), la nostra vita di fronte agli altri assume il compito di specchio di Dio:

"I serafini, lodando Dio, dicono: Santo, Santo, Santo; appunto le parole "sia santificato il tuo nome" significano che il suo nome sia glorificato. E’ come se dicessimo a Dio: Concedici di vivere in modo così puro e perfetto che tutti, vedendo noi, ti glorifichino. La perfezione del cristiano sta proprio in questo, nell’essere così irremprensibile in tutte le sue azioni, che chiunque lo vede, per esse rende lode a Dio" (s. Giovanni Cris., Om. In Matteo, 19)

In fin dei conti non possiamo santificare il Nome se non lasciandolo entrare nella nostra vita con la sua azione santificante. "Il nome santifica ed è santificato in un medesimo processo" (B. Standaert).

Diceva Nieztche: Mostrami che tu sei redento e io crederò al tuo Redentore.


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Consiglia  Messaggio 8 di 18 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.07

NEL NOME DI GESU’


Ogni preghiera liturgica è rivolta al Padre nel nome di Gesù nello Spirito Santo. Avviene così una duplice rivelazione:

- la via che Dio ha percorso per arrivare a noi

- la via che dobbiamo percorrere per andare a lui.


E’ Cristo la via per giungere al Padre (cf Gv 14,6 Mostraci la via...).

La nostra preghiera è dunque valida, efficace, se fatta nel suo nome:

Gv 14,13-16; 15,16; 16,23-26


Ed è lo Spirito di Gesù a suscitare in noi la preghiera: il grido di Abbà (cf Rm 8,15-27).


La nostra preghiera raramente si rivolge al Padre (forse sintomo dell’abbandono della tradizione biblica e liturgica). Ci sembra non conveniente "scomodare" il Padre, non si ha familiarità con lui. Anche Cristo spesso è rispedito in cielo, lontano da noi... non ci resta che Maria!

Ma la tradizione biblica ci mostra un Padre tenero e "materno", di cui Gesù è il volto umano. Nel suo Spirito ci rivolgiamo al Padre in tutta fiducia (Ebr 4,14).

Se esasperiamo il ruolo dei santi rischiamo di adombrare questo volto paterno di Dio, ricadendo in una sorta di mitologia diversificata secondo tante "competenze".


NELL’EDUCAZIONE


- Il nome di Dio va sempre abbinato a realtà positive. Non va usato come deterrente o come ricatto. - Ci si abitui a rivolgersi al Padre nella lode e nel rendimento di grazie per i suoi doni.

- Alla luce del suo Nome vengAno letti a grandi fatti della vita.

- Si purifichi continuamente la conoscenza di Dio. Vi è troppa ignoranza in questo campo d essa genera spesso solo puerilità, magismo, paure


 

SCHEDA DI LAVORO

 


1. Alla luce di Ez. 36,20-38 è JHWH che santifica il suo nome in mezzo alle nazioni nonostante il peccato di Israele occasione di denigrazione del suo Nome.

Dio è fedele nonostante il nostro male.

Questo ravviva la nostra fiducia nella sua misericordia. E’ presente nel tuo cammino spirituale, oppure dinanzi al male ci scoraggiamo, o addirittura vi si persevera senza prendere coscienza che esso diviene occasione di non santificazione del nome?

 

2. Il nome di Dio è santificato quando si annunziano le sue opere.

Prova a ripercorrere la tua storia, scoprivi alcune opere di Dio.

Quali sono?

Sono diventate occasione per santificare il suo Nome?

3. Chiedere che il Nome sia santificato significa rendersi disponibile il nostro cuore all’opera che Dio vuole compiere in noi a beneficio della Chiesa e del mondo.

Senti in te questo desiderio e disponibilità?

Cosa fare da parte nostra per rendersi concretamente disponibili?

Quali ostacoli secondo te vengono a frapporsi?

Cosa fare per cercare di abbatterli?

4. Prova a stendere per iscritto un tuo commento e una preghiera che accompagni questa prima invocazione del Padre Nostro.


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Consiglia  Messaggio 9 di 18 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.08

IV

 

VENGA IL TUO REGNO


Il Battista impernia la sua predicazione sulla conversione in vista dell’avvento del Regno:

"Il Regno dei cieli è vicino": Mt 3,2

Gesù riprende questo tema, anzi annuncerà che ormai il regno è giunto:

"Il tempo è compiuto, il Regno die cieli è vicino": Mt 1,15

"Il regno di Dio è in mezzo a voi": Lc 17,21.

Leggendo i vangeli ci accorgiamo di come il Regno di Dio è il centro della sua predicazione di Gesù di Nazaret (122 volte di cui 90 in bocca a Gesù).

Così anche i discepoli sono mandati a predicare il Regno:

Mt 10,7

At 28,31


Ma che cos’è il Regno dei Cieli, o per usare un’altra espressione il "regno di Dio"? I testi non lo dicono. E’ evidente che per gli interlocutori non occorresse spiegarlo talmente era chiaro!



NELL’ANTICO TESTAMENTO


Nelle teogonie dei popoli antichi il mondo nasceva da una lotta tra Dio e il Caos. La regalità di dio veniva dunque stabilita al momento della creazione.

Essa veniva ciclicamente celebrata affinché potesse perpetuarsi. Il mondo infatti era costantemente minacciato dal Caos (ecco allora le celebrazioni rituali del giorno e della notte, dell’inverno e primavera, della morte e della vita... )

Un ruolo fondamentale era dato dalla figura del re: toccava a lui, in quanto rappresentatnte-figlio-luogotenente di dio, assicurare l’ordine da cui scaturiva prosperità, pace, giustizia per i poveri e gli oppressi (cf Is 1,23; Sl 72,7.16).

Ad esempio quando il re babilonese Assurdanipal (669-630 ac) assurge al trono, esso viene celebrato con queste parole:

Governo prospero

anni di equità

Piogge abbondanti,

fiumi in piena...

i vecchi saltano

i fanciulli cantano.

Le fanciulle esultano di gioia,

le donne concepiscono...

Quelli che da anni giacevano ammalati rivivono,

gli affamati sono saziati,

i magri diventano grassi,

gli ignudi sono coperti di abiti.


Israele coltiva la speranza del regno di Dio, ma a differenza di altri popoli non lo proietta come un ritorno ciclico al passato, non è un ritorno alla mitica età dell’oro, esso invece appartiene al futuro dell’alleanza, alle promesse stesse di Dio fatte a Abramo, Isacco e Giacobbe.


Questa convinzione di fede nasce anche dall’esperienza derivante dalla delusione a cui Israele soggiace passando da un re all’altro. La monarchia è screditata inesorabilmente. Nasce l’attesa che re e pastore d’Israele sia JHWH stesso (cf Gr 22,1-4; Ez 34). Alla fin fine ci si rende conto che il regno verrà solo se JHWH stesso "pascolerà" il suo popolo.

Nonostante tutte le prove e persecuzioni Israele non mancherà mai di questa speranza (tuttora). Ne fanno testo tante preghiere salmiche in cui si celebra il trionfo di JHWH e l’instaurarsi del suo Regno:

"Il Signore è re, tremino i popoli...

Re potente che ami la giustizia" (Sl 99,1.4)

"Acclamate come vostro re il Signore...

Egli viene a giudicare la terra,

giudicherà il mondo con giustizia

e i popoli con rettitudine" (Sl 98,6.9).


Equivalente sarà l’immagine della venuta finale del Signore, del giorno di JHWH, in cui egli farà definitivamente giustizia e porterà salvezza (cf Is,35,4; Gl 2,1; Gl 3,1-5; Sof 1,14).

Altra immagine equivalente sarà la riunificazione di tutti i popoli sotto l’unica signoria di Dio, ed essa avverrà sul monte santo di Sion (Alla fine dei gioni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, ad esso affluiranno tutte le genti... Is 66,19-21; Mic 4,1-7).



NEL NUOVO TESTAMENTO


Nel II sec. A.C. si attesta una forte attesa del regno di Dio testimoniata dalla fioritura della letteratura apocalittica, tutta permeata dalla speranza della sua vicinanza.

Un avvento, ci dicono, che non sarà privo di drammaticità. Daniele 7 descrive la progressiva distruzione ed annientamento dei grandi imperi terreni. Non avverrà il passaggio dunque senza dolore: calamità, guerra, morti e pestilenze. Come se il mondo ripiombasse nel caos primigenio in attesa di una nuova creazione. Sono i dolori del parto, preludono alla nascita di una nuova vita.


Gesù annuncia il regno, ovvero intende affermare che è giunta l’ora del suo avvento; le speranze stanno per essere realizzate.

Ma di che Regno parla di Gesù? Come lo intende?

Non si identifica con l’interpretazione politica e nazionalistica, ma d’altro lato non da adito ad una interpretazione puramente spirituale ed interiore che fa riferimento solo alla coscienza del singolo.

La sua parola pur non facendo politica risulta sovversiva nei confronti di tutte le strutture di peccato, mentre egli rifiuta di schierarsi dalla parte di chi lo vorrebbe attirare su di un campo politico (cf Gv 6,14s).

Gesù pone dei gesti concreti, visibili, dei segni direbbe Giovanni, che annunciano un ordine nuovo:

Lc 7,22 in rif. a Is 61,1-2


Tra tutte le immagini usate da Gesù per parlare del Regno, una gli è particolarmente cara: è la gioia del banchetto al quale tutti sono invitati iniziando proprio dagli ultimi, malati e peccatori (cf Lc 14,21).

Gesù userà anche le immagini del grano e la zizzania (Mt 13,24), del granello di senape ( Mt 13,31), del lievito (mt 13,33), del tesoro nascosto e la perla preziosa (Mt 13,44), della rete ricolma di pesci (mt 13,47).


Gesù talvolta afferma la presenza in atto del regno, altre volte lo annuncia prossimo. E’ importante questa sottolineatura che suggerisce il già e il non ancora del regno come inteso da Gesù nell’invocazione del Pater.

Con l’incarnazione infatti il Regno è già entrato in questo mondo, ma come un "granello di senape" (cf Mt 13,31s). E’ piccolo, insignificante, nascosto, ma possiede già in sé tutte le sue potenzialità future, è destinato a svilupparsi incredibilmente fino al suo compimento alla fine dei tempi.

Questo Regno in germe deve ora ancora lottare contro le forze di morte presenti nel mondo, che saranno definitivamente sconfitte alla fine quando la zizzania sarà raccolta e bruciata.

Quando il regno sarà completato? Dice Paolo: quando Cristo "consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto a nulla ogni potenza nemica... e aver posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte... e Dio sarà tutto in tutti" (1Cor 15,24-28).

Dunque il regno è presente già sin d’ora, ma la sua piena manifestazione è nel futuro.


La Chiesa non è il Regno di Dio già attuato, essa è comunità di credenti chiamata a porre i segni del Regno lungo la storia, vocazione ad essere sacramento del regno in questo mondo (cf Mc 16,15-18).

°Teofilo°
00martedì 8 settembre 2009 22:04
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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.09

VENGA IL TUO REGNO


Il discepolo di Gesù è invitato dalla preghiera del Pater ad invocare l’avvento del Regno.

Ed è questa una preghiera che ha sempre accompagnato la comunità cristiana che accanto all’invocazione del Pater, pregava dicendo: Marana thà. "E’ il grido dello Spirito e della Sposa: Vieni Signore Gesù" (CCC 2817). Venga il tuo Regno!

Queste invocazioni sottolineano il fatto che la venuta del regno è gratuita, è puro dono, indipendente dalla volontà dell’uomo. Esso si può ricevere, ereditare (cf Mc 10,17), accogliere (Mc 10,15); attendere (Lc 2,25).


Da parte nostra ci sarà dunque solo un’attesa passiva? Si tratta di stare a braccia conserte come in stazione attendendo il treno?

Pregando le parole "Venga il tuo Regno" siamo portati a chiedere di entrare nella volontà di Dio, nell’ottica del suo Regno, imparando a scorgere din d’ora, nella nostra storia, i suoi germi di presenza.

La preghiera, se è autentica, costringe ad aprire il nostro cuore all’accoglienza di questi germi del regno e a porre a nostra volta dei segni concreti della sua presenza. Se il regno è pace, giustizia, amore, verità e vita questo significa che cercherò sin d’ora di incastonare in questa storia così sbilenca, contraddittoria, segnata dal male e dalla morte gesti nuovi di giustizia, di verità, di vita, di amore. Sono questi doni che ci rimandano all’azione presente dello Spirito nella Chiesa e nel mondo. Non per nulla antiche traduzioni dicevano in luogo di "venga il tuo regno" le parole "Il tuo santo spirito venga su di noi e ci purifichi". Lo Spirito è sempre più immediato inizio del regno che viene nella storia. (Massimo il Confessore -IV sec. - leggeva la sequenza Padre-Nome-regno come un movimento trinitario).

Si domanda una presenza maggiore della ricchezza di Cristo tra gli uomini, nella loro vita, nelle loro strutture, nel mondo in cui essi abitano (U.Vanni



UN RE CROCIFISSO


La struttura delle fiabe rappresenta una drammatizzazione della vita, con le sue prove, le sue lotte, i suoi conflitti. Il fine è sempre lieto: "Vissero tutti felici e contenti". I cattivi sono inesorabilmente castigati. Il bene trionfa sempre: è solo questione di tempo e di pazienza. I ruoli sono sempre ben definiti: i cattivi sono proprio cattivi, e i buoni unicamente buoni.

Per i bambini le fiabe sono importanti: svolgono il ruolo di iniziazione al mistero della vita e della morte.

Ma gli anni passano, i bambini non sono più tali, la fiaba della vita si sfalda a volte lentamente ma inesorabilmente. Ci si rende conto che non esistono bacchette magiche o talismani che risolvono i problemi. La vita si presenta carica di contraddittorietà: i ruoli sono sempre meno definiti, il bene spesso sembra non trionfare mai, tutto sembra avvolto da un velo che prennauncia un’inesorabile morte senza speranza.


La regalità di Cristo sulla croce si staglia sulla storia in tutta questa contraddittorietà e assurdità. Non vi è un lieto fine nella sua vita terrena: l’innocente è stato ucciso, in quel giorno "fu sparso sangue innocente" (Dan). Sono i "buoni", gli osservanti della Torah che hanno ucciso Gesù. E la sua morte non è quella dell’eroe: nella sua umanità Gesù sente tutto il dramma, lo quarcio nella sua carne, del passo, della pasqua, che si appresta ad affrontare ("e il suo sudore cominciò a cadere a terra come gocce di sangue").


Nel Vangelo di Giovanni troviamo una sezione dedicata al regno, ed essa è destinata alla Chiesa affinché non cada in nessun equivoco riguardo ad esso..

Siamo infatti proprio nel racconto della Passione. Dinanzi a Pilato Gesù non nasconde la sua regalità: "Io sono re", ma afferma nel medesimo tempo l’essenziale diversità della sua regalità da quelle di questo mondo "Il mio regno non è di questo mondo" (cf Gv 18,36).

Egli sarà un re coronato di spine e rivestito del mantello regale di porpora. Inchiodato sulla croce come su un trono, e presentato al mondo intero (le tre lingue) come il "re dei giudei" (19,20).

Ed è qui che il vangelo proclama al mondo la regalità del Signore Gesù che dona la vita liberamente e per amore: "li amò sino alla fine" (13,1).

Dove sta la gloria, la "santificazione del Nome di Dio nella passione e morte del Figlio?


Gesù muore per il Regno che ha annunciato e che non vede. Come Abramo che morì con la promessa di Dio di una terra e di una numerosa discendenza: ma muore possedendo solo una tomba, e un figlio.

E’ sicuramente un re che si muove su di una linea opposto ai re di questo mondo (cf la lavanda dei piedi: Gv 13,18-36).


Egli ha posto i germi del regno nella storia, ha posto anzitutto se stesso. Come Risorto egli continua la sua presenza in mezzo a noi e attraverso noi. I segni del regno dunque ci sono, ma sta a noi il saperli riconoscere. Spetta ancora a noi collaborare affinché essi siano posti lungo i solchi della storia, nella certa speranza che al di là di ogni pretesa immediata di riuscita e realizzazione.

Cero questi segni rimarranno poveri, deboli, spesso perseguitati. Ma qui risulta fondamentale la fede nella fedeltà del Padre che non verrà meno alla promessa di cieli e terra nuova.


Così la Chiesa e il cristiano imparano ad attendere fiduciosi la venuta del regno del Padre.

Non lo vogliamo però identificare subito e solo con il "paradiso", perché allora si domnaderebbe come san Paolo di essere subito sciolti dai legacci di questo mondo. Anche se "in effetti si tratta principalmente della venuta finale del regno di Dio come il ritorno di Cristo" (CCC 2818).


Il regno è già qui, è dentro la storia. Ed è questa la "lieta notizia": è giunto a voi il regno di Dio (Lc 11,20).

E’ necessario avere occhi di fede e di sapienza per riconoscerlo in mezzo alla zizzania; occorre disponibilità per apreire il cuore alla sua venuta già sin d’ora pregustandone il suo sapore.

Sapienza per imparare ad accoglierne con fiducia i ritmi, i tempi, le modalità così spesso diversi dai nostri (cf Mt 13,47-50 il grano e la zizzania).

Nessuno lo possiede o lo possederà in pienezza. Nessuno può dire "eccolo qui o eccolo là". Esso è un tesoro nascosto (cf Mt 13,44), rivelato ai piccoli ("Ti benedico o Padre....").

Per ora il regno è lievito, è sale, è luce (cf Mt 13,33; 5,13-14).

L’umile e fiduciosa attesa del dono ci aiuta ad evitare ogni forma di fanatismo che porterebbe ad identificare in modo ottuso e meschino noi stessi, i nostri progetti e realizzazioni con il Regno stesso di Dio, rischio che la Chiesa in certe epoca ha più di una volta vissuto.

"Che il regno non sia di questo mondo ci libera così dalle utopie totalitarie (da cui la cristianità non si è sempre preservata). Ma che esso affiori già nella pace, nella bellezza, nella tenerezza della liturgia e della contemplazione, ci libera dalle delusioni e dalle amarezze che ci rendono cinici e crudeli" (O. Clement, Anacronache).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.10

V

 

SIA FATTA LA TUA VOLONTA’




DUE INTERPRETAZIONI


Vi è una prima interpretazione immediata e problematica di questa richiesta.

Essa richiama il concetto di rassegnazione, di passività di fronte a ciò che nella vita vi è di sofferenza inevitabile.

Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: "Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza".


Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?


Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc)).


Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.


Ma evidentemente queste due interpretazioni appaiono se non erronee certamente molto limitate.

Prendiamo anzitutto in esame l’etimologia della parola "volontà" - in greco Thelema. Essa è traduzione di due termini ebraici: hapetz - ratzah. Vi è una sorpresa: entrambi le radici non significano "comandare - imporre - ordinare", ma "compiacersi - provare gioia - desiderare ardentemente".

Ad esempio: "insegnami Signore a fare la tua volontà" andrebbe tradotto: "insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci", "ciò che ti da gioia", "ciò che desideri ardentemente da me".


La differenza semantica dunque è notevole. L’aspetto morale passa decisamente in secondo piano (Il re Ciro farà la mia volontà (Is 44,28), non nel senso che obbedirà alla legge ma nel senso che compirà ciò che il Signore desidera). Inoltre non appare il concetto di sottomissione passiva a qualcosa di ineluttabile già deciso per me.

Al primo posto è messo il progetto di Dio, il disegno di salvezza che lui ha per il suo popolo, perché è questo il primo desiderio di JHWH.



QUALE NUOVO(?) SIGNIFICATO?


Se ora applichiamo questa lettura all’espressione che ritroviamo nel Pater - sia fatta la tua volontà

- essa assume una precisa colorazione forse diversa da come l’abbiamo intesa finora.

Anzitutto ci domandiamo:

- in che cosa consiste il progetto di benevolenza di Dio, il suo compiacimento, il suo desiderio ardente?

- come egli intende realizzarlo?


Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.


Alla seconda citiamo la Lumen gentium 9:

Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo... Si scelse quindi il popolo israelita.


Volontà di Dio è la salvezza di tutti, indistintamente (La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l’esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce). Lo strumento attraverso il quale farla giungere è la scelta di un popolo: Israele è "servo", è "luce delle nazioni" (Is 42,6; 49,6). Certo è una scelta che appare assurda al mondo (cf Is 53,2-3.10). Israele è piccolo, povero, perseguitato.

La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie - oracolo del Signore - quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28)


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.11

GESU’ PIENO ADEMPIMENTO DELLA VOLONTA’ DEL PADRE


Gesù in tutta la sua esistenza si inserisce in questa "volontà" del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre.

Gesù è ben cosciente che la sua missione è compiere la volontà del Padre:

Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,38-39).

Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34)

Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30)


Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv 19,30).


Il Catechismo commenta: E’ in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù entrando nel mondo, ha detto: "Ecco io vengo... per fare, o Dio la tua volontà" (Ebr 10,7; Sal 40,7). Solo Gesù può affermare: "Io faccio sempre le cose che gli sono gradite" (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli consente totalmente alla Volontà del Padre: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!" (Lc 22,42). Ecco perché Gesù "ha dato se stesso per i nostri peccati ... secondo la volontà di Dio" (Gal 1,4). "E’ appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di gesù Cristo" (Eb 10,10).

LA VOLONTA’ DEL PADRE NEL CRISTIANO


Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: "Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre" (O. Clèment).


Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).


Il cristiano sà che questa richiesta sarà sicuramente esaudita nonostante tutto. Gli errori umani, il peccato, non impediranno la sua realizzazione.

La preghiera in questo senso non cambia Dio, ma colui che prega.

Quando preghiamo chiedendo che si compia la volontà del Padre noi ci disponiamo a renderci aperti con tutte le forze affinché il suo disegno si realizzi per ogni uomo.

Tale preghiera trasforma il nostro cuore.

In colui che prega la volontà del Padre può aprirsi un varco, e solo la preghiera può implorare che sulla terra discenda la Gerusalemme del cielo.



COME IN CIELO COSI’ IN TERRA


Era convinzione degli antichi che il progetto di Dio fosse già pienamente realizzato in cielo. E’ lì che si trova, nella dimora di Dio, la celeste Gerusalemme sottratta ad Adamo ed Eva dopo la colpa.

Una città contemplata, desiderata...

Nel Pater si chiede che essa sia portata sulla terra.


Ma un dubbio sorge.

A quale delle tre aspirazioni del Pater si riferisce l’espressione "come in cielo così in terra"? Generalmente si pensa solo alla terza.

Ma la tradizione ha sempre trasmesso l’interpretazione che essa si riferisca a tutte e tre (es. Il Catechismo Tridentino la raccomanda).

La prima parte della Preghiera del Signore andrebbe dunque letta così:

Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome come in cielo così in terra

venga in tuo regno come in cielo così in terra

sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.



OSSERVANZA DEI COMANDAMENTI


Abbiamo visto che non si può ridurre la volontà di Dio a un insieme di precetti morali.

Ma è che l’adesione al progetto di benevolenza divina comporti una vita completamente nuova anche su questo fronte.

Ma questa necessità nasce dalla legge-grazia dello Spirito che è stata posta in noi nel battesimo .

Domandiamo al Padre la forza e la grazia dell’obbedienza (fà che amiamo ciò che comandi! Dalla liturgia) al comandamento nuovo.

Il suo comandamento, che compendia tutti gli altri e ci manifesta la sua Volontà, è che ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha amato (CCC 2822).

Un percorso arduo, difficile, in cui vediamo il nostro desiderio spesso scontrarsi con una fragilità che non riusciamo a vincere, questo vorrà dire che siamo lontani dalla volontà di Dio?

Se non riesci a "osservare i comandamenti" non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c’è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E’ inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi. Non devi cercare nemmeno annazitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama (O. Clèment).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.11

RASSEGNAZIONE


Certo la contraddittorietà di un regno e di una volontà divina che potrebbe mettere tutto e subito a posto ogni cosa rimane. Ci è difficile capire, soprattutto di fronte a certi drammi, l’"impotenza" di Dio.

La preghiera ci aiuta a leggere la storia con gli occhi di Dio, ad avere la sua pazienza di fronte alla zizzania che cresce col grano, di accettare i tempi e i modi così diversi dai nostri che tante volte riteniamo i soli e i migliori.

Questa preghiera e questa attesa acuiscono in noi la fame e sete di giustizia caratteristiche di ogni vero discepolo.


La volontà di Dio non è più un mistero:

"Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno" (Gv 6,39).

In Cristo contempliamo già la realizzazione della volontà di Dio su di noi e sulla storia. Certo resta l’incertezza dei tempi, riguiardo alla modalità e alle circostanze.

In Cristo, mediante i sacramenti dell’iniziazione, il Padre compie in noi la sua volontà. E in questa volontà ciascuno di noi entra da soggetto, da protagonista; vi sono chiamate in causa la nostra libertà, intelligenza, creatività. Nella volontà di Dio non vi è nulla di preconfezionato. Il Padre ci ha fatto dono di esistenze aperte, da costruire con lui.


La preghiera ci dispone nel medesimo atteggiamento del giovane Samuele: "Parla Signore che il tuo servo ti ascolta", di Maria di Nazaret: "Eccomi sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola".

Non si tratta di rassegnazione ma di collaborazione. Scrive Teilhard de C. (Ambiente divino): Il trovare e il compiere la volontà di dio non è un fatto immediato né consiste in un atteggiamento passivo... Non raggiungerò la volontà di Dio in ogni istante se non all’estremo limite delle mie forze, nel punto in cui la mia attività tesa verso il meglio-essere si trova continuamente controbilanciata dalle forze avverse che cercano di fermarmi o di farmi cadere. Se non faccio tutto il possibile per avanzare o per resistere non mi trovo al punto giusto, non subisco Dio quanto potrei e quanto egli desidera. Se invece il mio sforzo è coraggioso, perseverante, io raggiungo Dio attraverso il male, al di là del male; io mistringo a lui.


Ancora una volta prendiamo atto di come la preghiera del cristiano sia diversa da quella del pagano: questi tenta di ottenere con la preghiera che la divinità si pieghi al suo volere, in fin dei conti se ne vuole accapparrare la potenza. Il cristiano invece, come Gesù, chiede di conoscere ed attuare il volere del Padre. Gli chiediamo luce per conoscerla, forza per adempierla. E una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nsotro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudini per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi (Agostino, Confessioni, 9.20).



CONCLUDENDO LA PRIMA PARTE


La prima parte del Pater si sofferma su dio. Così fa Gesù nel riassumere la Thoràh: Amerai Dio e amerai il tuo prossimo.

"Pregare che il nome sia santificato, il regno venga, o la volontà sia fatta è cosa che non può essere realizzata senza che già si partecipi effettivamente, con il cuore e con l’anima, a questo regno di giustizia e di amore, alla volontà di pace.

Senza conversione e impegno per il prossimo nenache una delle richieste può essere pronunziata correttamente" (B. Stendaert)



°Teofilo°
00martedì 8 settembre 2009 22:05
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Consiglia  Messaggio 14 di 18 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.12

VI

 

DACCI OGGI IL NOSTRO PANE



Nella prima parte del Pater avevamo tre desideri, tre auspici da rivolgere al Padre che è nei cieli.

Nella seconda parte sono contenute invece tre domande che riguardano direttamente noi: gli chiediamo il pane, il perdono dei nostri peccati, la vittoria sulle tentazioni.


Questa struttura ripete quella di tante preghiere ebraiche.

Ad esempio nelle Diciotto Benedizioni le prime tre erano benedizioni rivolte a Dio, nelle dodici successive erano presentati a Dio i bisogni materiali e spirituali; infine le ultime tre erano caratterizzate dal ringraziamento.

La ragione di questo schema lo possiamo dedurre da un commento rabbinico:

"Le prime tre invocazioni fanno pensare a un servo che chiede favori al suo padrone; le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende nuovamente commiato".


Ma per il cristiano non si tratta di ricercare una sorta di captatio benevolentiae da parte della divinità. Per lui Dio è un Padre di fronte al quale non ci si prostra come schiavi, ma verso il quale egli nutre una fiducia e spontaneità filiale.

Se prima ci si interessa della santificazione del suo nome, della venuta del suo regno e dell’adempimento della sua volontà è perché solo dopo aver contemplato il suo progetto si è in grado di vedere con occhi nuovi i nostri problemi di ogni giorno, la nostra vita con tutte le sue necessità e contraddizioni.


Veniamo ora alla prima richiesta.

Ci domandiamo anzitutto la ragione del perché la prima domanda è in riferimento al pane.

Il fatto stesso che si domandi il pane può apparire umiliante ed ingiusto all’uomo. Non è infatti un dovere e un onore per l’uomo guadagnarsi il suo pane senza stendere la mano? Non è con il suo lavoro che egli porta a casa il pane per i suoi? Perché chiederlo a Dio? Non è un ridursi a fare i mendicanti? Dio stesso non ha imposto forse ad Adamo di guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte?

Ma allora come interpretare la domanda?


Potremmo anzitutto partire prendendo atto dell’ingiustizia esistente che porta con sé la fame nel mondo. Un quarto dell’umanità ne soffre drammaticamente... e sono i deboli che ne pagano le conseguenze amaramente e drammaticamente. Poniamo sulle loro labbra la preghiera del Padre nostro! Essa acquista subito uno spessore concreto che forse per noi, abituati all’abbondanza, non ha. Ad essi manca il pane quotidiano!

Riporto un testo significativo di un anonimo brasiliano che racconta il dramma di coloro che non hanno di che vivere, neppure il necessario:

Molto presto, come ogni mattina

bambini disputano con i cani

attorno ad una latta di spazzatura.

E dividono con i cani

il pane ammuffito della spazzatura.

In un mondo cane, senza cuore,

ecco la forma che Dio ha trovato

per esaudire la preghiera

dei piccoli affamati:

Dacci oggi il nostro pane quotidiano!

In quel giorno,

in quella settimana,

il pane della nostra tavola

non era lo stesso.

Era pane amaro,

peino delle bestemmie dei poveri

che per Dio sono suppliche.

E’ tornato ad essere dolce e buono,

quando fu condiviso

con quegli affamati.

Bambini e cani.


E’ una dura realtà di fronte alla quale le parole del Magnificat suonano come una beffa: Ha ricolmato di beni gli affamati e i ricchi ha rimandato a mani vuote.

Dio che ha cura degli uccelli del cielo e veste i gigli del campo come può lasciare morire di fame migliaia di bambini?

La fede di molti viene messa a dura prova da queste domande.

Attenzione! Non possiamo permetterci di ignorarle, spostandoci subito e comodamente, commentando la preghiera del Signore, su di un piano puramente spirituale!



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Consiglia  Messaggio 15 di 18 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.13

IL PANE NOSTRO DACCI OGNI GIORNO


E’ un dovere del padre di famiglia procurare il pane ai figli; e in questa richiesta possiamo scoprirvi l’invito a guardare a Dio nel suo volto di Padre provvidente.

Ritorniamo alla preghiera delle Diciotto Benedizioni. In essa non manca la richiesta di benedire il lavoro dei campi e i frutti della terra:

"Per noi, per il bene, Signore nostro Dio benedici questa annata e tutti i suoi raccolti. Ricolmaci dei tuoi beni, benedici questa annata e rendila simile alle migliori annate del passato. Benedetto sei tu, Signore, che benedici i raccolti."


In italiano diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Ma nel testo greco la disposizione delle parole è diversa, dice: il pane nostro, quello di ogni giorno, dà a noi oggi. L’accento non è quindi sul dacci ma sul pane.


Potremmo dilungarci sulla simbologia profonda ed estesa che il pane ha assunto nella nostra cultura occidentale.

Nel pane posto in mezzo alla tavola intorno a cui è radunata tutta la famiglia è riassunta la vita di tutti: la fatica, la gioia, la condivisione.

Al tempo di Gesù, ma non solo, il pane era cosa sacra. Non poteva essere buttato nell’immondizia, non lo si tagliava con il coltello (usanza mantenuta nella cultura monastica) ma lo si spezzava perché solo le mani dell’uomo erano degne di toccarlo. Il pane è sacro perché contiene il lavoro dell’uomo e la benedizione di Dio.

Capiamo allora che, in fin dei conti, con la parola pane si vuole rappresentare tutto ciò che è necessario alla vita. Esso rappresenta, riassume, tutti i doni di Dio e la collaborazione dell’uomo: Servirete il Signore ed egli benedirà il tuo pane e la tua acqua (Es 23,25).


E’ significativo che chi prega non dica "Dammi il mio pane quotidiano", ma il nostro pane.

Anche in questo caso la sua preghiera deve essere costantemente impregnata dal comandamento nuovo del Signore.



NOSTRO O DI DIO?


Ma come possiamo dire "nostro" se il pane lo chiediamo a Dio?

Abbiamo un riferimento illuminante nel libro del Levitico: "Se seguirete le mie leggi... mangerete il "vostro" pane a sazietà e abiterete tranquilli nel vostro paese" (26,5).

Della manna non si dice mai che è "nostra": Tu Signore non hai rifiutato la "tua" manna"(Ne 9,20).

Il pane è invece contemporaneamente dono di Dio e frutto del sudore della fatica e del sacrificio dell’uomo, per questo parla del "vostro" pane e gli uomini possono giustamente dire "nostro".


qual è allora il pane "nostro" benedetto da Dio?

Quello prodotto "insieme" ai fratelli, quello ottenuto dalla terra che Dio ha destinato a tutti e non solo a qualcuno, quello che non contiene le lacrime del povero sfruttato.

Non può pregare in modo sincero ed autentico chi pensa unicamente al proprio pane, chi accumula cioè beni per sé, per soddisfare i propri capricci, dimenticandosi del povero che manca di "pane".

Non può chiedere a Dio il "nostro" pane chi non lavora per pigrizia, chi vive alle spalle degli altri.

Scriveva con parole di fuoco Basilio di Cesarea vescovo del IV sec.: "Se ciascuno si tenesse solo ciò che gli serve per le normali necessità e lasciasse il superfluo agli indigenti, ricchezza e povertà scomparirebbero... All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano le vesti che sono nel tuo baule. Al misero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti" (Non lasciare che il tuo denaro dorma, 6).



QUELLO DI OGNI GIORNO


Vi è nella richiesta al Padre del pane una notevole difficoltà interpretativa che ha fatto e fa discutere schiere di esegeti e teologi.

Troviamo infatti un aggettivo molto strano: epioùsion che traduciamo con quotidiano.

Ora, questo aggettivo non si ritrova non solo in nessun altro testo della sacra scrittura ma anche in quelli profani (tranne una sola volta in un resoconto di rifornimenti di viveri ad un distaccamento militare). Non è facile perciò stabilirne l’esatto significato.

Esso può essere inteso come "necessario alla vita", oppure come "il pane per questo giorno", oppure "il pane per il giorno che viene".


I biblisti tendono a privilegiare l’ultima interpretazione: Dacci il pane per il giorno che viene. Ma stabilito questo che cosa esattamente significa?


Generalmente si fa ricorso al parallelo biblico della manna nel deserto. La comunità degli israeliti mormorava per la mancanza di cibo. Allora il Signore disse a Mosé: "Io sto per far piovere per voi pane dal cielo; il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di ogni giorno, perché io lo metta alla prova per vedere se cammina secondo la mia legge o no" (Es 16,4).

In cosa consisteva la prova? Probabilmente nel fatto che al mattino il popolo usciva a raccogliere il cibo necessario "per il giorno che veniva", non lo si poteva accaparrare in vista degli altri giorni, pena la putrefazione del prodotto conseguenza della sfiducia in Dio.

Quindi il giorno che viene è l’oggi.

Se immaginiamo il Pater recitato al mattino significa: Dacci oggi il nostro pane per questa giornata.


Evidentemente chi prega con queste parole intende rifiutare la logica mondana dell’accumulo dei beni per sé, soprattutto quando i fratelli soffrono per la fame.

Con questa richiesta chiediamo che il cuore viene liberato dalla bramosia del possesso e dall’angoscia per il domani. (Cfr. Mt 6,19-21; Lc 12,20ss).

Rabbi Eliezer di Modiim, contemporaneo di Gesù, insegnava: "Chi ha da mangiare per oggi, e dice: Che cosa mangerò domani? È un uomo di poca fede."

Non si tratta perciò di una fuga dal lavoro, di un pretesto di disimpegno e pigrizia, né di fatalismo. E’ anzitutto un richiamo forte a ciò che è essenziale alla vita: aiutami padre a liberarmi dalla schiavitù dei beni e dammi la forza di condividerli con i poveri.

Il discepolo è chiamato a sentirsi libero, ad accontentarsi del necessario, ad aprire gli occhi sulle necessità dei fratelli. (Andando non portate con voi né bisaccia, né due tuniche, né denaro, né bastone...).


Per capire bene questa domanda non bisogna dimenticare che il Pater viene insegnato da Gesù nel contesto, paradossale per il mondo, delle Beatitudini.

Chi accetta di seguire Cristo entra a far parte di una comunità che si propone al mondo come società alternativa a quelle rette dalle leggi della competizione, della ricerca egoistica del proprio interesse, dell’accumulo dei beni.

Può pregare così chi ha rinunciato a riporre tutta la sua fiducia nel denaro, nel potere, nei beni di questo mondo e ha scelto la povertà perché sa che Cristo l’ha scelta come via privilegiata per aprirsi ai valori del regno.

Solo chi fa propria la logica del servizio e del dono di sé diviene "figlio del regno che viene" e può pronunciare in modo autentico la preghiera del Signore.



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.14

Il discepolo non deve mai chiedere il superfluo.

Nel libro dei Proverbi leggiamo:

Signore, io ti domando due cose,

non negarmele prima che io muoia:

non darmi né povertà né ricchezza;

ma fammi avere il cibo necessario,

perché, una volta sazio, io non ti rinneghi

e dica: Che m’interessa del Signore!

Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi

profanando così il nome del mio Dio (30,7-9).

Si tratta cioè di saper gioire del necessario che la provvidenza non fa mancare.



ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE


Un’altra considerazione che è possibile fare è il fatto che il domandare il cibo rimanda al nostro essere creature, legate alla terra; in un certo senso rivela la nostra verità di esseri limitati, incompiuti, dipendenti, mortali. Fa scomparire in noi la pretesa di una spiritualità disincarnata, che non vuole fare i conti con la storia e con la realtà concreta in cui siamo immersi. Scrive san Gregorio Nisseno nel suo commento al Padre nostro (Sulla preghiera del Signore, IV): "Dacci oggi il nostro pane quotidiano: questa frase esprime un altro insegnamento morale: ti aiuta a comprendere attraverso le parole che pronunci che la vita umana è effimera: a ciascuno appartiene soltanto il presente, la speranza del futuro rimane avvolta nel mistero, non sappiamo infatti che cosa porterà il domani. Perché ci affanniamo per le preoccupazioni del futuro?"

Ci rendiamo coscienti di questo quando poniamo l’azione di grazie prima dei pasti. Quel cibo che sta davanti a noi è "nostro" ma è prima ancora "grazia". Testimonia che anche oggi Dio ha provveduto. Perché la vita non diventerà mai un nostro diritto, un nostro "possesso" esclusivo.

La richiesta rivela così la mia verità di un essere dipendente da Dio che è Padre, che ha cura dei suoi figli nella sua provvidenza che è amorevole. Stendo le mani alle sue mani di padre per ricevere da lui il necessario per la vita (cf il gesto stupendo ma spesso tanto trasandato della comunione sulla mano).

Il cristiano impara a fare di ogni cosa eucaristia. Vi è infatti un modo eucaristico nell’uso delle cose e dei beni, in esso è presente la memoria che da Dio riceviamo ogni bene.


Ancora: la richiesta del Pater mi insegna a mai disgiungere la preghiera dal lavoro. Chi lavora e non prega non è nella verità: si illude di essere lui protagonista della propria vita.

Chi prega e non lavora non è nella verità: non mette in atto quelle capacità di cui Dio ha dotato l’uomo perché collabori con lui.

Terremo sempre presente la sapiente massima attribuita a Ignazio di Loyola: "Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio e agire come se tutto dipendesse da noi".




UN PANE DI VITA ETERNA


Il pane è sempre realtà da condividere, da spezzare.

Non per nulla è il segno-sacramento scelto da Gesù per l’Eucaristia, memoriale vivo della sua vita donata e spezzata sulla croce. Cristo si moltiplica quando viene spezzato. Tutti se ne nutrono e non si esaurisce mai.

E’ il Padre che prepara una mensa per tutti e per tutti spezza il pane che è il dono del Figlio dato "per noi".

Scrive s. Pietro Crisologo in un suo sermone: "Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come bambini del cielo il Pane del cielo Cristo. Egli stesso è il pane che, seminato nella vergine, lievitato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, conservato nella Chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste" (Sermoni, 71).

La Provvidenza del Padre qui è al massimo livello: quel pane porta con sé vita eterna.

Ed è questa l’apice della riflessione sulla richiesta del pane fatta al Padre.

Diviene domanda di un pane che non perisce, di un pane per una vita nuova, perché "non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio".


Il Catechismo della Chiesa cattolica fa propria questa accentuazione: "Presa alla lettera - la parola epiousios-sovrasostanziale - indica direttamente il Pane di Vita, il Corpo di Cristo "farmaco di immortalità" senza il quale non abbiamo in noi la vita. Infine legato al precedente è evidente il senso celeste "Questo giorno" è quello del Signore, quello del banchetto del regno, anticipato nell’Eucaristia che è già pregustazione del regno che viene" (2837).

Cristo parola del Padre è questo pane. Non per nulla nella prima comunità l’eucaristia era denominata lo spezzare insieme il pane. (Cf Gv 6,34; Mt 4,4; Mc 8,14).

Eucaristia e carità sono indivisibili: "La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un’altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il "sacramento del fratello" è inseparabile da quello dell’altare, diceva san Giovanni Crisostomo" (O. Clèment)








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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 19/06/2003 21.15

VII

 

PERDONA I NOSTRI DEBITI


"Ho infranto senza saperlo, la legge del mio dio, ho compiuto, senza saperlo, ciò che la mia dea detesta. I miei peccati sono numerosi, grandi sono le mie mancanze, ma io non conosco gli sbagli che ho commesso... I miei peccati sono sette volte sette... Perdona le mie mancanze e che io canti le tue lodi". Si tratta di una invocazione di un uomo di 4000 anni fa, rivolta alle sue divinità. Quest’uomo prova una viva coscienza di un errore, uno "sbaglio" non voluto, non conosciuto, di cui sente di portare le conseguenze; ed è da questo senso di colpa che nasce l’invocazione del perdono.

Si tratta di un piccolo esempio al quale potrebbero essere aggiunti tanti altri in cui ritroviamo una coscienza di peccato presente in tutti i popoli antichi. Coscienza di "peccato" però con una comune caratteristica: essa è intesa come trasgressione materiale di una proibizione posta dagli dei(i tabù). La loro infrazione comporta colpa, condanna, morte.


Se all’inizio il popolo di Israele risentiva di questa concezione culturale (cfr. es. Nm 15,22-29; 2Sam 6,6ss) ben presto venne superata alla luce di una concezione diversa, più profonda, relazionale del peccato: esso non è più infrazione di un "tabù" ma rottura di un rapporto con Dio. Per Israele la concezione di peccato diviene inseparabile dalla dottrina dell’Alleanza.


Perché nell’uomo esiste questo "senso della colpa"? Probabilmente perché da sempre l’uomo ha sperimentato una grande debolezza e fragilità, la propensione a fare il male.

Non bisogna meravigliarsi di incontrare, in questo senso, espressioni pessimistiche nella Scrittura:

Ogni pensiero concepito dal loro cuore non era altro che male... perché il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla giovinezza (Gn 6,5; 8,21);

Tutti gli uomini sono peccatori e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23);

Tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2)

Se diciamo di essere senza peccatori inganniamo noi stessi (1Gv 1,8).


In tutte le lingue il concetto di peccato è molto ricco di idiomatismi; solo la lingua ebraica ne annovera almeno una ventina; ad esempio: trasgredire una regola, inciampare, deviare, fare un passo falso, fallire il bersaglio, commettere ingiustizia, ribellarsi, fare un torto, comportarsi da folle...

Ma il termine più usato è comunque hattàh che significa offesa, torto.


Preso atto di questo peccato insito nell’uomo rimane il problema del come eliminarlo, ecco allora il comune bisogno di remissione delle colpe.

Nei popoli antichi essa avveniva tramite riti espiatori destinati a ristabilire il giusto equilibrio infranto con la divinità.

In questo senso vi era (e rimane ancora in noi in certa misura) una concezione del peccato inteso come macchia da lavare, ovvero come impurità. Questo concetto porta ad intendere la remissione come offerta di riti purificatori. Da qui ad esempio, il ricorso alla simbologia dell’acqua purificatrice (Lv 14,5), del fuoco (Nm 31,22), del sangue (Lv 16,14-19), dell’animale su cui si scaricavano le colpe del popolo (Lv 14,7.53). Questa purificazione-remissione portava addirittura all’esclusione del colpevole dalla comunità, o addirittura in casi estremi alla sua eliminazione fisica (Dt 13,6).


Questo è molto significativo: nella rivelazione il peccato non è presentato solo come un errore dell’uomo, una sua scelta sbagliata, ma invece come un’"offesa" arrecata a JHWH, una rottura dell’alleanza, della sua amicizia.

Dal punto di vista umano certamente il peccato appare solo come un danno che il peccatore infligge a se stesso e tuttalpiù agli altri: in questo caso Dio non viene ad essere interessato dalla mia colpa. Il "saggio" Eliu dice a Giobbe: Se pecchi, che male fai a Dio? Se moltiplichi i tuoi delitti che danno gli arrechi? (Gb 35,6).

Ora secondo la Scrittura il peccato non è mai una realtà che viene a coinvolgere solo l’uomo. Esso è sempre un torto fatto a Dio, è visto alla stessa stregua dell’adulterio con cui l’amata tradisce l’amore dello sposo (cfr. la vicenda del profeta Osea).


La conseguenza è che la remissione dei peccati richiede un triplice atto:

- il riconoscimento della colpa come rottura dell’alleanza (cf Sal 38)

- la richiesta di perdono a Dio(Sal 51)

- il "ritorno" nell’alleanza con Dio (Lam 5,1).

Ma la domanda è: l’uomo è in grado di compiere questa trafila?

Anche qui La sacra Scrittura si manifesta un po’ pessimista: Chi cade si rialza, chi perde la strada torna indietro. Perché allora questo popolo è così testardo nella sua ribellione, persiste nella malafede e rifiuta di convertirsi? (Gr 8,4-5).

Ecco allora Israele implorare a Dio che sia lui stesso a prendersi a cuore quell’iniziativa di salvezza che l’uomo da solo non riesce a sviluppare: Fammi tornare ed io potrò ritornare, perché tu sei il Signore mio Dio (Gr 31,8).

°Teofilo°
00martedì 8 settembre 2009 22:06
Da: <NOBR>Soprannome MSN°Teofilo</NOBR>Inviato: 19/06/2003 23.14

Il discepolo non deve mai chiedere il superfluo.

Nel libro dei Proverbi leggiamo:

Signore, io ti domando due cose,

non negarmele prima che io muoia:

non darmi né povertà né ricchezza;

ma fammi avere il cibo necessario,

perché, una volta sazio, io non ti rinneghi

e dica: Che m’interessa del Signore!

Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi

profanando così il nome del mio Dio (30,7-9).

Si tratta cioè di saper gioire del necessario che la provvidenza non fa mancare.



ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE


Un’altra considerazione che è possibile fare è il fatto che il domandare il cibo rimanda al nostro essere creature, legate alla terra; in un certo senso rivela la nostra verità di esseri limitati, incompiuti, dipendenti, mortali. Fa scomparire in noi la pretesa di una spiritualità disincarnata, che non vuole fare i conti con la storia e con la realtà concreta in cui siamo immersi. Scrive san Gregorio Nisseno nel suo commento al Padre nostro (Sulla preghiera del Signore, IV): "Dacci oggi il nostro pane quotidiano: questa frase esprime un altro insegnamento morale: ti aiuta a comprendere attraverso le parole che pronunci che la vita umana è effimera: a ciascuno appartiene soltanto il presente, la speranza del futuro rimane avvolta nel mistero, non sappiamo infatti che cosa porterà il domani. Perché ci affanniamo per le preoccupazioni del futuro?"

Ci rendiamo coscienti di questo quando poniamo l’azione di grazie prima dei pasti. Quel cibo che sta davanti a noi è "nostro" ma è prima ancora "grazia". Testimonia che anche oggi Dio ha provveduto. Perché la vita non diventerà mai un nostro diritto, un nostro "possesso" esclusivo.

La richiesta rivela così la mia verità di un essere dipendente da Dio che è Padre, che ha cura dei suoi figli nella sua provvidenza che è amorevole. Stendo le mani alle sue mani di padre per ricevere da lui il necessario per la vita (cf il gesto stupendo ma spesso tanto trasandato della comunione sulla mano).

Il cristiano impara a fare di ogni cosa eucaristia. Vi è infatti un modo eucaristico nell’uso delle cose e dei beni, in esso è presente la memoria che da Dio riceviamo ogni bene.


Ancora: la richiesta del Pater mi insegna a mai disgiungere la preghiera dal lavoro. Chi lavora e non prega non è nella verità: si illude di essere lui protagonista della propria vita.

Chi prega e non lavora non è nella verità: non mette in atto quelle capacità di cui Dio ha dotato l’uomo perché collabori con lui.

Terremo sempre presente la sapiente massima attribuita a Ignazio di Loyola: "Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio e agire come se tutto dipendesse da noi".




UN PANE DI VITA ETERNA


Il pane è sempre realtà da condividere, da spezzare.

Non per nulla è il segno-sacramento scelto da Gesù per l’Eucaristia, memoriale vivo della sua vita donata e spezzata sulla croce. Cristo si moltiplica quando viene spezzato. Tutti se ne nutrono e non si esaurisce mai.

E’ il Padre che prepara una mensa per tutti e per tutti spezza il pane che è il dono del Figlio dato "per noi".

Scrive s. Pietro Crisologo in un suo sermone: "Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come bambini del cielo il Pane del cielo Cristo. Egli stesso è il pane che, seminato nella vergine, lievitato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, conservato nella Chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste" (Sermoni, 71).

La Provvidenza del Padre qui è al massimo livello: quel pane porta con sé vita eterna.

Ed è questa l’apice della riflessione sulla richiesta del pane fatta al Padre.

Diviene domanda di un pane che non perisce, di un pane per una vita nuova, perché "non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio".


Il Catechismo della Chiesa cattolica fa propria questa accentuazione: "Presa alla lettera - la parola epiousios-sovrasostanziale - indica direttamente il Pane di Vita, il Corpo di Cristo "farmaco di immortalità" senza il quale non abbiamo in noi la vita. Infine legato al precedente è evidente il senso celeste "Questo giorno" è quello del Signore, quello del banchetto del regno, anticipato nell’Eucaristia che è già pregustazione del regno che viene" (2837).

Cristo parola del Padre è questo pane. Non per nulla nella prima comunità l’eucaristia era denominata lo spezzare insieme il pane. (Cf Gv 6,34; Mt 4,4; Mc 8,14).

Eucaristia e carità sono indivisibili: "La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un’altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il "sacramento del fratello" è inseparabile da quello dell’altare, diceva san Giovanni Crisostomo" (O. Clèment)



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Da: Soprannome MSN°Gino¹Inviato: 02/06/2004 15.08
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Da: <NOBR>Soprannome MSN°Teofilo</NOBR>Inviato: 19/06/2003 23.15

VII

 

PERDONA I NOSTRI DEBITI


"Ho infranto senza saperlo, la legge del mio dio, ho compiuto, senza saperlo, ciò che la mia dea detesta. I miei peccati sono numerosi, grandi sono le mie mancanze, ma io non conosco gli sbagli che ho commesso... I miei peccati sono sette volte sette... Perdona le mie mancanze e che io canti le tue lodi". Si tratta di una invocazione di un uomo di 4000 anni fa, rivolta alle sue divinità. Quest’uomo prova una viva coscienza di un errore, uno "sbaglio" non voluto, non conosciuto, di cui sente di portare le conseguenze; ed è da questo senso di colpa che nasce l’invocazione del perdono.

Si tratta di un piccolo esempio al quale potrebbero essere aggiunti tanti altri in cui ritroviamo una coscienza di peccato presente in tutti i popoli antichi. Coscienza di "peccato" però con una comune caratteristica: essa è intesa come trasgressione materiale di una proibizione posta dagli dei(i tabù). La loro infrazione comporta colpa, condanna, morte.


Se all’inizio il popolo di Israele risentiva di questa concezione culturale (cfr. es. Nm 15,22-29; 2Sam 6,6ss) ben presto venne superata alla luce di una concezione diversa, più profonda, relazionale del peccato: esso non è più infrazione di un "tabù" ma rottura di un rapporto con Dio. Per Israele la concezione di peccato diviene inseparabile dalla dottrina dell’Alleanza.


Perché nell’uomo esiste questo "senso della colpa"? Probabilmente perché da sempre l’uomo ha sperimentato una grande debolezza e fragilità, la propensione a fare il male.

Non bisogna meravigliarsi di incontrare, in questo senso, espressioni pessimistiche nella Scrittura:

Ogni pensiero concepito dal loro cuore non era altro che male... perché il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla giovinezza (Gn 6,5; 8,21);

Tutti gli uomini sono peccatori e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23);

Tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2)

Se diciamo di essere senza peccatori inganniamo noi stessi (1Gv 1,8).


In tutte le lingue il concetto di peccato è molto ricco di idiomatismi; solo la lingua ebraica ne annovera almeno una ventina; ad esempio: trasgredire una regola, inciampare, deviare, fare un passo falso, fallire il bersaglio, commettere ingiustizia, ribellarsi, fare un torto, comportarsi da folle...

Ma il termine più usato è comunque hattàh che significa offesa, torto.


Preso atto di questo peccato insito nell’uomo rimane il problema del come eliminarlo, ecco allora il comune bisogno di remissione delle colpe.

Nei popoli antichi essa avveniva tramite riti espiatori destinati a ristabilire il giusto equilibrio infranto con la divinità.

In questo senso vi era (e rimane ancora in noi in certa misura) una concezione del peccato inteso come macchia da lavare, ovvero come impurità. Questo concetto porta ad intendere la remissione come offerta di riti purificatori. Da qui ad esempio, il ricorso alla simbologia dell’acqua purificatrice (Lv 14,5), del fuoco (Nm 31,22), del sangue (Lv 16,14-19), dell’animale su cui si scaricavano le colpe del popolo (Lv 14,7.53). Questa purificazione-remissione portava addirittura all’esclusione del colpevole dalla comunità, o addirittura in casi estremi alla sua eliminazione fisica (Dt 13,6).


Questo è molto significativo: nella rivelazione il peccato non è presentato solo come un errore dell’uomo, una sua scelta sbagliata, ma invece come un’"offesa" arrecata a JHWH, una rottura dell’alleanza, della sua amicizia.

Dal punto di vista umano certamente il peccato appare solo come un danno che il peccatore infligge a se stesso e tuttalpiù agli altri: in questo caso Dio non viene ad essere interessato dalla mia colpa. Il "saggio" Eliu dice a Giobbe: Se pecchi, che male fai a Dio? Se moltiplichi i tuoi delitti che danno gli arrechi? (Gb 35,6).

Ora secondo la Scrittura il peccato non è mai una realtà che viene a coinvolgere solo l’uomo. Esso è sempre un torto fatto a Dio, è visto alla stessa stregua dell’adulterio con cui l’amata tradisce l’amore dello sposo (cfr. la vicenda del profeta Osea).


La conseguenza è che la remissione dei peccati richiede un triplice atto:

- il riconoscimento della colpa come rottura dell’alleanza (cf Sal 38)

- la richiesta di perdono a Dio(Sal 51)

- il "ritorno" nell’alleanza con Dio (Lam 5,1).

Ma la domanda è: l’uomo è in grado di compiere questa trafila?

Anche qui La sacra Scrittura si manifesta un po’ pessimista: Chi cade si rialza, chi perde la strada torna indietro. Perché allora questo popolo è così testardo nella sua ribellione, persiste nella malafede e rifiuta di convertirsi? (Gr 8,4-5).

Ecco allora Israele implorare a Dio che sia lui stesso a prendersi a cuore quell’iniziativa di salvezza che l’uomo da solo non riesce a sviluppare: Fammi tornare ed io potrò ritornare, perché tu sei il Signore mio Dio (Gr 31,8).

(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:26
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 24/06/2003 21.10

NON C'INDURRE IN TENTAZIONE

Una conclusione questa della preghiera del Signore che apparve subito alquanto strana se paragonata a tutte le preghiere giudaiche. Esse non terminano mai, per così dire, al negativo, ma sempre con una benedizione o una richiesta di pace. Nel Padre Nostro, quasi si discendesse una china sempre più profonda, al termine ritroviamo il richiamo alla tentazione e al maligno!

Un disagio dimostrato già in alcuni manoscritti del N.T. e apostolici. La Didaché, un documento importantissimo databile alla stessa epoca degli ultimi scritti canonici, testimonia l’aggiunta di alcune comunità di una solenne esaltazione della regalità di Dio: Poiché tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli (8,3).



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 24/06/2003 21.11

UN DIO CHE CI TENTA?


Come se non bastasse questo la stessa richiesta di "non indurci in tentazione" risulta poco chiara. Immeditamente viene da domandarsi: come mai Dio metterebbe alla prova l’uomo?


Diamo uno sguardo ai testi biblici e notiamo un fatto sconcertante: vi è detto che sono i giusti ad essere provati, mai gli empi. La tentazione è un "privilegio", un appannaggio solo dei "giusti" e dei pii, di cui Giobbe è il primo rappresentante.

Figlio , preparati alla tentazione. Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché Dio prova gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore (Sir 2,1.4-5).

Ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe (Gdt 9,25-26).

Dio può tentare con la prova sofferta ma anche col benessere:

Quando ti sarai saziato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento ed il tuo oro e abbondare ogni cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dmenticare il Signore tuo Dio (Dt 8,12-14).

A questo punto ci domndiamo: se allora le tentazioni sono utili alla crescita della fede dei giusti e dei "pii", perché domandare a Dio di "non indurci in tentazione"?


A questo punto occorre farci una domanda: qual’è la tentazione e il male dal quale chiediamo di essere liberati? Sono forse le contrarietà, le difficoltà della vita, le malattie, le disgrazie, la vecchiaia? E ancora: Perché chiedere di essere liberati dal male se lui lo può fare in un attimo?


Dio è presentato talvolta nelle vesti del "tentatore".

Un esempio classico è il confronto con 2Sam 24,1 nel quale si dice che è Dio ad incitare Davide al censimento. In 1Cr 21,1 si interprterà lo stesso gesto come proveniente dallo spirito cattivo avversario di Dio.

Con questo si vuole affermare una verità di fondo: che nulla sfugge al progetto di Dio e che anche le azioni malvage sono da lui utilizzate al fine di compiere i suoi disegni (es Iil Signore indurì il cuore del faraone" Es 4,21, ovvero "Dio permise che il cuore del faraone si indurisse").

Sono molti i testi in cui Dio è presentato come colui che "mette alla prova" (cf Gn 22,1-19; Es 15,25; 16,4; Dt 8,2; Gd 2,22...). In questi testi si dice che Dio "mette alla prova", ma non per provocare al male. Si vuole affermare che Dio vuol far crescere nella fedeltà il suo popolo e i suoi eletti attraverso tutti gli avvenimenti in cui si trovavano coinvolti. Pur trattandosi di fatti provocati da fattori umani, la Scrittura li presenta come "tentazioni" di Dio in quanto situazioni che imponevano scelte decisive e sofferte in suo favore o contro di Lui.


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Consiglia  Messaggio 3 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 24/06/2003 21.11

E’ DIO O IL DIAVOLO?


Nel VI sec. Israele viene a contatto con le culture e religioni persiane.

Si fa strada la concezione che il male esistente nel mondo sia causato dall’avversario di Dio: Satana. Una figura che aiuterà a purificare notevolmente il linguaggio teologico della Bibbia.

Si comprende che situazioni di male, di peccato non possono essere imputate a Dio ma al suo avversario: è questi che diviene allora il "tentatore" per eccellenza (cf Sp 2,24; Gb 1-2;...)


Rimane sì una tentazione che costantemente viene attribuita a Dio: quella derivante dalla sofferenza, dalle disgrazie, dalle contrarietà della vita:

Figlio, se cominci a servire il Signore, preparati alla prova (Sir 2,1)

Dopo essere stati castigati un poco saranno largamente premiati, poiché Dio li ha provati come oro nel crogiulo e li ha trovati degni di sé (Sap 3,5).

Per questo si giungerà addirittura a chiedere la prova come occasione di crescita di fede:

Saggiami, Signore, e mettimi alla prova, esamina col fuoco le mie reni (Sal 26,2).

Una preghiera rischiosa e da farsi con molto discernimento.

Esiste un racconto ebraico molto esplicativo al riguardo di rabbi Jehuda: "Un giorno Davide si lamentò con Dio dicendo: "Signore del mondo, perché si dice: Dio di Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe e non Dio di Davide?". Il Signore rispose: "Perché essi sono stati messi alla prova e tu no". Allora Davide gli disse: "Signore, metti alla prova anche me, tentami, come dice il salmo". Dio acconsentì alla preghiera, gli fece incontrare Bersabea moglie di Uria e...".


Nel Nuovo Testamento l’immagine di un Dio che "tenta" l’uomo è completamente abbandonata:

Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio! Perché Dio non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce" (Gc 1,13-14).

Così la tentazione è attribuita alle seduzioni dello spirito del male (cf 1Pt 5,5-9; 1Cor 7,5; Lc 8,13).


Certo rimane saempre la convinzione che la prova svolge un ruolo importante nel cammino di purificazione della fede:

Considerate motivo di perfetta letizia il fatto di essere sottoposti a ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la costanza... Beato l’uomo che sopporta la prova, perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita" ( Gc 1,2-3.12).

Esultate pur essendo afflitti da svariate prove... Non stupitevi della persecuzione che si è accesa in mezzo a voi per provarvi, quasi che vi succedesse qualcosa di strano. Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi (1Pt 1,6; 4,12-13).

Teniamo però presente che anche in questo caso le "tentazioni" non sono attrbuite a Dio. E’ la fede in lui che aiuta ad affrontarle e superarle.



COS’E’ LA TENTAZIONE?


Il termine "tentazione" nell’accezzione comune richiama immeditamente una provocazione al male, al peccato. Da qui la difficoltà a capire come Dio possa "indurre" al male.

Ma un’analisi dei testi biblici fa risaltare chiaramente che esistono diversi tipi di tentazione.

C’è quella che ha come scopo quello di farci cadere, e Dio non ne può essere l’autore.

Vi è una seconda tentazione il più delle volte tesa dall’uomo a Dio che si presenta come una volontà negativa di verifica: "Se... allora....". Dio non si sottomette mai ad essa.

C’ un’altra tentazione che non presenta caratteristiche di occasione di male e scelta del bene. E’ quella che si offre all’uomo come un’opportunità di crescita, di purificazione, di miglioramento. Questa tentazione contiene sì implicitamente il rischio della caduta nel male o nell’errore ma è pure passaggio obbligato per una crescita. Questa tentazione, nel Nuovo Testamento, non è presentata come proveniente da Dio. Dio ne insegna invece la via d’uscita, dona la forza per affrontarla e superarla (cf 1Cor 10,13).

La medesima situazione che da parte di Satana è sfruttata come "tentazione", cioè insidia per trascinarci all’infedeltà, rappresenta una "purificazione" da parte di Dio per consolidare la stessa nostra fedeltà.


Facciamo poi attenzione che la lingua ebraica non distingue tra volontà causativa e volontà permissiva. Quando la Scrittura dice che Dio "tenta", ciò equivale a "permette la tentazione". E quindi anche l’espressione del Pater traducendola va intesa correttamente così: Non permettere che siamo indotti in tentazione.

Nel Pater non chiediamo solo di non cadere, ma addirittura di "neppure entrare" nella tentazione di abbandonare la sequela di Gesù. "Una richiesta questa che implora lo Spirito di discernimento e di fortezza" (CCC 2846).

Un’antica preghiera ebraica contemporanea a Gesù diceva: Non indurmi al potere del peccato, né alla forza della colpa, né alla violenza della tentazione, né al disprezzo. Fa’ in modo che io sia guidato dall’istinto buono e che l’istinto cattivo non mi domini (Ber.b. 60b).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 24/06/2003 21.12

LA GRANDE TENTAZIONE


Ancora una volta vediamo come il Padre Nostro ci riaggancia alla preghiera di Gesù nel Gethsemani. Significativamente l’ambito in cui il Pater viene a collocarsi in modo perfetto, ci dicono gli esegeti, sembra essere proprio il racconto della dolorosa passione del Signore.

Se Gesù ci fa chiedere di "non essere indotti in tentazione" questo è perché lui stesso ha provato la violenza della tentazione: Sa compatire le nostre infermità perché è stato tentato in tutto come noi (Ebr 4,15)

Nel Padre nostro non chiediamo al Padre che prepari per noi un cammino diverso, più comodo e meno rischioso di quello del Figlio suo Gesù. Imploriamo da lui invece di non essere lasciati a soccombere tristemente e mortalmente alla tentazione.


Quale tentazione in modo particolare? Non certo dalla nostre piccole colpe o difetti quotidiani anzitutto! La grande tentazione è quella delle defezione, dell’abbandono della sequela di Cristo, della sua sapienza al fine di abbracciare quella del mondo. Non scorderemo che ogni cristiano sarà inevitabilemnte tentato dalle tentazioni che furono già di Gesù nel deserto e nell’orto degli Ulivi.

E’ questa la "prova", la "tentazione" per antonomasia. Tutte le altre tentazioni in fin dei conti sono relative a questa: quella di tracciare un nostro cammino, lontano da quello corrispondente alla volontà del Padre. In fin dei conti è un voler uscire dalla sequela crucis.

Scrive O. Clèment: La grande tentazione sarebbe piuttosto di sentirsi guariti dalla malattia di Dio, guariti dall’interrogativo, alleggeriti del mistero, senza angoscia né stupore"

La nostra scelta di Cristo non è fatta una volta per tutte, deve essere rinnovata e attualizzata in ogni momento e circostanza della vita.

Il tempo dell’attesa del ritorno del Signore nella gloria è doloroso tempo di prova per la comunità dei discepoli.

"Allora vi consegueranno ai supplizi e vi uccieeranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda" (Mt 24,9-10)

"Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione" (2Pt 3,3-4)

"Gesù disse loro: Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse" (Mc 14,27)

L’esistenza della comunità cristiana è e sarà continuamente minacciata dal male fuori e dentro di lei; guai se il Padre non intervenisse col dono dello Spirito di fortezza. "Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo" (Ef 6,11); "Il Signore sastrappare dalla prova gli uomini pii" (2Pt 2,9) (nb qui si parla di una prova non tanto di prova particolari); "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma insieme alla tentazione vi darà anche il modo di uscirne bene, con la possibilità di sostenerla" (1Cor 10,13).

Gli eletti sono i discepoli che sono stati "provati" dalla tentazione, sono passati "attraverso la grande tribolazione", e che "hanno perseverato sino alla fine" (Mc 13,13).

Così la tentazione è paragonata al vaglio: "Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliavi come il grano" (Lc 22,31).


Vediamo che questa richiesta della preghiera del Signore si aggancia direttamente al desiderio dell’attuarsi definitivo del Regno: "La nostra domanda s’inserisce interamente nell’aspirazione di desiderio per la venuta del regno, che fa di essa una preghiera piena di fiducia nella vittoria" (H. Schurmann).



L’ARMA DEL CRISTIANO


Quale l’arma affidata da Gesù al discepolo contro l’insidia di questa tentazione? E’ la preghiera: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione (Mc 14,38). Si chiede di neppure entrare e non solo di non cadere nella tentazione!

La preghiera incessante manifesta la nostra fiducia nella fedeltà incrollabile del Padre che non lascia il proprio figlio soccombere alla prova("Ti basta la mia grazia" si sente dire Paolo 2Cor 12,7-9). La tentazione diviene pericolo quando si tralascia la preghiera. La prova sarà "troppo forte" soltanto se, venendo meno la preghiera, non otteniamo quell’aiuto che Dio ha predisposto ottenessimo tramite essa.

"La tentazione c’è: il cristiano deve sapere che c’è e pregare di non cadere in una situazione fatale per la sua vocazione di figlio di Dio. Il discepolo di Gesù, il povero sempre minacciato da colui che è "forte", deve domandare a Dio ogni giorno, dome domanda il pane, la forza per non essere travolto nella prova, la forza per restare fedele alla sua vocazione di figlio di Dio; la domanda per sé e per gli altri, che possono essere tentati come lui" (M. Ledrus).


Afferma il Catechismo: Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. E’ per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul tentatore fin dall’inizio e nell’ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente. La vigilanza è "custodia del cuore" e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza" (n. 2849).

La nostra vigilanza è in vista della "lotta contro un nemico insidioso, non "contro carne e sangue, ma contro i principati e le potestà, contro le insidie del diavolo" (Ef 6,11-12), il quale non mira ad altro che a renderci disattenti, a tenerci addormentati per farci perdere la speranza e farci cadere nei gorghi di morte. Chi può lusingarsi di non esserne avviluppato" (M. Ledrus)


(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:28
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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 25/06/2003 21.22

MA LIBERACI DAL MALE

 

Dio vide tutto ciò che aveva fatto: ed era molto buono (Gn 1,31).

Nonostante questa affermazione posta nella prima pagina della Scrittura Gesù ci fa invocare, per l’affrettarsi del Regno, al Padre la liberazione dal male: Liberaci dal male!


E’ nell’esperienza comune dell’uomo di ogni tempo una suddivisione della realtà in cose buone e cattive.

To’b – agathos è tutto ciò che è buono e bello, ciò che sentiamo piacevole.

Al contrario ra’ – poneròs – kakòs è ciò che è portatore di sofferenza, dolore, e soprattutto morte.



UNA DIVERSITA’ DI RISPOSTE ALLO STESSO PROBLEMA


Di fronte al problema del male che ogni giorno, attraverso l’esperienza personale e i mass-media , l’uomo si trova ad affrontare egli avverte un certo imbarazzo: se da un lato ne è affascinato per la prospettiva dell’indipendenza, dell’autonomia, del potere dall’altro se ne sente la minaccia e il sapore di morte.

Di fronte a tale ambivalenza è diverso il modo di posizionarsi di fronte al problema del male.


Una prima possibilità è che l’uomo mettendo a tacere la propria coscienza, richiamo nostalgico della propria dignità e della casa del padre, faccia volutamente la scelta del male come percorso di realizzazione di sé. Un cammino che noi crediamo condurre al nulla, alla disperazione e "dannazione".


Da un altro lato l’uomo può sentirsi schiacciato, impotente di fronte ad un male esterno ed interno che lo coinvolge e spesso travolge; da qui una passiva rassegnazione, un incrociare le braccia misconoscendo le proprie responsabilità.


Da un altro lato l’uomo può aggredire colui o coloro che ritiene responsabili del male: può essere l’altro che mi sta di fronte, oppure un gruppo, un popolo; e questa è una strada che ha risposto al male con altro male.

Oppure vi può essere un altro responsabile: Dio. Il male è un difetto della sua creazione. Nel IV sec. A.c. Epicuro affermava: O Dio vuole sopprimere il male e non può e allora è impotente… Oppure non vuole e non può, e allora è un "niente"… Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio… O infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?



UNA LETTURA DIVERSA


La risposta della Rivelazione biblica è diversa; essa ci parla di un "mistero dell’iniquità" e in quanto tale ci rimanda ad una spiegazione che va al di là dei nostri ragionamenti e deduzioni.

La Scrittura ci presenta la realtà tragica dell’uomo: creato nella libertà per il bene e in un mondo buono egli ha scelto una strada diversa: fin dall’origine ha scelto il male.

Ha cercato il bene nelle creature al di fuori della volontà di Dio, ha preteso di ergersi a dio lui stesso, nel diritto e capacità di decidere autonomamente del bene e del male. E’ questa in fin dei conti l’essenza del peccato.


La conseguenza, subito sperimentata già dai progenitori, è stata un frutto di sofferenza e di morte (cfr. Gn 3,16-19). Una conseguenza scaturita dal fatto che liberamente staccatosi dalla fonte della vita l’uomo si è ritrovato immediatamente solo e diviso.


Questa scelta ha fatto sì che il male potesse entrare, come in una breccia ormai insanabile, nel mondo e qui proliferare. L’umanità diviene talmente cattiva da "far pentire" Dio d’averla creata (Gn 6,5). L’uomo non ha più saputo arginare il male.

L’uomo sperimenta duramente che ormai "il mondo intero è in potere del maligno" (1Gv 5,19).

Per ogni singolo uomo, per tutta l’umanità, si spalanca la voragine dell’esperienza della lacerazione, di una schiavitù dalla quale non ci si riesce ad affrancare..

Il poeta Ovidio, contemporaneo di s. Paolo, scriveva: "Vedo il bene e lo approvo, ma seguo poi le cose peggiori" (Metamorfosi, 7), e ancora il filosofo Seneca che in una sua lettera dice: "Perché mai, caro Lucillo, mentre tendiamo a una meta siamo tirati in una direzione opposta e spinti là donde vorremmo fuggire? Qual è mai la forza che è in continuo contrasto col nostro animo e non ci lascia voler niente con fermezza?… Nessuno da solo è abbastanza forte per liberarsene: è necessario che qualcuno gli dia una mano, che qualcuno lo tragga fuori" (Ep. 52).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 25/06/2003 21.23

UNA DRAMMATICA SITUAZIONE


"C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo" (Rm 7,18).

E’ una frase lapidaria tratta dall’epistolario di Paolo; essa non riguarda solo l’esperienza dell’apostolo ma quella di tutti noi.

Si tratta di una situazione di cui prendiamo coscienza innumerevoli volte lungo l’arco, non dico della vita, ma di una sola giornata.

Questa lacerazione insanabile, questa drammatica impotenza invoca liberazione e guarigione: Chi mi libererà?


Paolo arriva perciò ad affermare che ormai nell’uomo vi è una legge contraria a quella dello Spirito. L’apostolo la definisce la "legge della carne". Si tratta di un dinamismo sfrenato di amor proprio, di desideri, di concupiscenze. A questo l’uomo è attratto e asservito.


Si giunge ad una concezione profonda della realtà del peccato. Esso non consiste solo in qualche violazione o trasgressione della Legge, è qualcosa di ben più grave. E’ realtà che incatena come una ragnatela tutti e tutto (anche il creato): "Non c’è un giusto, neanche uno!" (Rm 3,10); "Non c’è sulla terra un giusto che faccia solo il bene e non pecchi" (Qo 7,20).


La Legge non fa altro che portare l’uomo a prendere consapevolezza di questa malizia e lontananza da Dio e dell’impossibilità da se stessi di liberarsi da tale tragica situazione. In un certo senso essa acutizza l’angoscia di un’umanità incapace di "scegliere e di fare" il bene: Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,23).



UN GRIDO CHE INVOCA LIBERAZIONE


Ecco allora il grido di Paolo: "Oh me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?" (Rm 7,24).

Infatti "la resistenza della natura è cosa sconcertante. Sappiamo tutti che la peccaminosità, cioè la ricerca selavaggia, animale della propria soddisfazione e affermazione, è per eccellenza ciò che ci rende infelici. La peccaminosità è quindi alla coscienza dell’uomo una cosa intollerabile, un entrare in un inferno; per questo essa provoca la ricerca sfrontata di anestetici psichici, di divertimenti e compensazioni. " (A. Ledrus)


Questa liberazione invocata ha trovato finalmente risposta nella misericordia di Dio: "Siano rese grazie a Dio mediante Gesù Cristo Signore nostro" (Rm 7,25); "Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria mediante il Signore nostro Gesù Cristo" (1Cor 15,57).


Non si tratta di una liberazione raggiunta mediante la padronanza di sé in una ricerca di autocontrollo come dicevano gli stoici, non propone la via della morte come soluzione di un dramma insolubile (come per Platone), non rimanda solo ad un futuro escatologico in cui finalmente l’uomo sarà liberato (come nel giudaismo).


Questa liberazione si è già verificata, è già stata introdotta nella storia, una "nuova creazione" è già in atto.

All’uomo è stato dato un "cuore nuovo" capace di rispondere alle esigenze della nuova alleanza. Tale liberazione trova in Cristo Gesù morto e risorto la sua rivelazione ed attuazione. Il credente innestato in Cristo mediante la fede e i sacramenti partecipa già della sua liberazione e della sua vittoria.

Il Battesimo è il nostro essere rigenerati alla vita nuova di figli non più schiavi del male.

La Confermazione è la forza dello Spirito che ci rende capaci della lotta contro il potere di Satana.

L’Eucaristia è il nostro essere innestati in Cristo vincitore della morte e del peccato, ovvero di ogni male. Il suo corpo e sangue ne sono segno e pegno.

Nel sangue di Gesù si è manifestata la grazia del Padre che ha sottratto l’uomo alla signoria schiavizzante del Male.

Vorrei accennare pure al sacramento della Penitenza come luogo privilegiato in cui il credente sperimenta la vittoria di Cristo sul suo male e sul suo peccato, luogo di misericordia e di festa in cui è dato al credente di credere nella forza della misericordia del Padre più grande di ogni male.


Niente ormai può nuovamente incatenare il credente, strapparlo "all’amore di Dio che si è manifestato in Cristo Gesù Signore nostro" (Rm 8,39): è in lui la radice della nostra libertà. "Non c’è più dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. Infatti la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm 8,1-2).



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 25/06/2003 21.24

LA LIBERAZIONE COME DONO


La liberazione dal male non è dunque frutto dei nostri sforzi, essa è un dono posto in noi, un dono da chiedere incessantemente affinché la vittoria di Cristo sia rinnovata continuamente in noi: "Liberaci dal male".

Tale liberazione è frutto di grazia immeritata: "mentre eravamo ancora peccatori" (Rm 5,8).


Questo non toglie che essa non domandi una nostra collaborazione all’opera della grazia: "la domanda a Dio di liberazione dal male diviene sincera quando noi stessi ci impegniamo nella mortificazione e nella positiva abnegazione delle soddifazioni con cui nutriamo la nostra esistenza, e nella rottura di quei condizionamenti interiori ed esteriori che, alla luce della parola di dio, riconosciamo come peccaminosi: forze di palese o mascherata schiavitù" (A. Ledrus) .

Il male da cui chiediamo di essere liberati è anzitutto dentro di noi. Chiedere di essere liberati dal male significa chiedere di essere liberati da tutto ciò che in noi si frappone all’opera di liberazione che il Padre per Cristo ha per noi predisposto. Lutero diceva: Qui credit in Christum evacuatur a seipso – Chi crede in Cristo deve svuotarsi di se stesso.


Significherà ancora coraggio di coinvolgersi in una lotta contro il male non solo presente dentro ciascuno di noi ma anche fuori di noi: quel male che si rivela in strutture di ingiustizia, di sopraffazione, di violenza… quante volte il grido della Chiesa si è alzato contro il male presente nel mondo, un grido coraggioso che ha comportato spesso il sangue di tanti martiri.


Chiedere una liberazione dal male per che cosa? Per qual fine? Non si tratta solo di eliminare qualcosa, una macchia o una sporcizia; è qualcosa di molto di più! Domandiamo una presenza che garantisca la liberazione ottenuta e sia essa stessa la novità ottenuta: è Gesù questa novità.

Ormai l’uomo, trasformato dalla grazia, può "fare il bene" (cfr. Gal 6,9s); può "fare opere buone" (cfr. Mt 5,16).


In forza delle promesse battesimali il cristiano ha rotto definitivamente con l’opzione di Adamo.

Ma attenzione! Essere liberati dal male non significa non sentire più l’impulso del male, la sua attrattiva, la possibilità di compierlo.

Non perché si sperimenta questo significa che la nostra adesione a Cristo sia inutile.

Il credente invece si pone alla luce di Cristo, sapendo che in lui il peccato è già stato sconfitto da Cristo. Siamo ormai irrevocabilmente votati alla sua signoria.

E’ una richiesta possibile anche al credente che sperimenta in sé la fragilità e la disposizione di innumerevoli cadute. Egli può ripetere le parole della Preghiera del Signore in tutta verità, nella certezza che Dio gli rimane sempre propizio, che il suo essere peccatore è oggetto delle premure della grazia. E’ certo che il Padre "non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva".




LIBERACI DAL MALIGNO


L’ultima domanda del Padre nostro la ritroviamo anche nella preghiera stessa di Gesù per i suoi discepoli: Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno (Gv 17,15).

Ci vogliamo inserire in questa preghiera che si fa solidale con tutta l’umanità bisognosa di liberazione.


Il termine poneròs con cui si definisce il "male" è equivoco: grammaticalmente può essere inteso sia al genere neutro come a quello maschile.

Il "mistero di iniquità" nella rivelazione non viene inteso solo come una semplice assenza di bene; esso è una forza, un’entità personale, che asservisce l’uomo e corrompe il mondo.

Il catechismo della Chiesa Cattolica afferma: Il Male non è un’astrazione, indica invece una persona: Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il "diavolo" ("dia-bolos" colui che "si getta di traverso") è colui che "vuole ostacolare" il Disegno di Dio e la sua "opera di salvezza" compiuta da Cristo. (n. 2851).

Dio non l’ha creato, ma ora che è apparso, essa gli si oppone. Ha iniziato una guerra incessante che durerà quanto la storia. Si avventa "contro la Donna", ma non la può ghermire. "Allora si infuria contro la Donna" e se ne va "a far guerra contro il resto della sua discendenza" (Ap 12,17). E’ per questo che lo Spirito e la Chiesa pregano: Vieni, Signore Gesù" (Ap 22,17.20): la sua venuta infatti ci libererà dal maligno" (CCC 253).


Teniamo tuttavia ben ferma la certezza che se il demonio regna nel mondo lo fa solo per mezzo della malizia umana. Nella misura in cui la malizia viene ammessa e prevale nel nostro cuore si cade sotto l’influenza dominatrice di Satana: Il Male non è infatti tanto forte da potersi opporre alla potenza del signore, ma ha potuto nascere in virtù della disobbedienza ai comandamenti (Gregorio di Nissa, Il fine cristiano).

L’entrare nel regno include una violenza, una volontà risoluta nel voler collaborare con la grazia al fine di vincere tali tendenze-passioni (Mt 11,12: Dal tempo di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti vogliono impadronirsene). E’ questo il grande capitolo che la teologia spirituale riserva all’ascesi, indispensabile componente di ogni cammino che voglia dirsi autenticamente spirituale.

"Le nostre affezioni disordinate, i nostri favoreggiamenti allo spirito laico e borghese, i compromessi con ogni forma di potere sono le catene delle quali il maligno tiene uno degli estremi per ritardarci, farci indietreggiare, vacillare e cadere sul cammino della salvezza. Rotti questi legami, Satana non ha più potere su di noi" (A. Ledrus).

Paolo inviterà i cristiani di Efeso: Rivestite l’armatura di Dio onde poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra lotta non è con avversari di sangue e carne ma contro i principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male" (Ef 6,11-12).


Da qui il dovere di una vigilanza incessante: Siate sobri, vigilate, il vostro nemico il diavolo, come leone ruggente si aggira, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede (1Pt).


In questo combattimento contro il male è necessario rinsaldare la virtù della speranza, che vinca ogni nostro scoraggiamento quando sperimentiamo la nostra debolezza e sconfitta. Occorre sempre ravvivare la speranza nella vittoria di Cristo a cui già partecipiamo in virtù della fede e del battesimo.

E’ Cristo vincitore che alla sua comunità e ad ogni discepolo ripete ancora oggi: Ecco che io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni e ogni potenza del nemico, e niente vi nuocerà (Lc 10,19).



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Consiglia  Messaggio 8 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 25/06/2003 21.25

Scrive sant’Ambrogio nel suo trattato De Sacramentis: Il signore che ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vostre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a dio, non teme il diavolo: "Se infatti Dio è con noi chi sarà contro di noi?" (Rm 8,31)" (5,30).


Siamo discesi con quest’ultima domanda nel profondo della nostra povertà, l’abisso del male in cui rischiamo di rimanere avvinghiati. Il Padre nostro ci ha fatto ripercorrere tutti i grandi temi della fede, ora si conclude qui, con una invocazione al Padre affinché doni ai suoi figli la pace, la vita, la gioia, l’allontanamento da tutto ciò che si può frapporre tra noi e Lui.

In quest’ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l’umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell’attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell’umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha "potere sopra la Morte e sopra gli Inferi" (Ap 1,18), "colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente" (Ap 1,8) (CCC 2854).


(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:32
Commento al Padre Nostro della Bibbia TOB 
 
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Consiglia  Messaggio 1 di 9 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 09/03/2003 15.39

Siccome le preghiere dovevano essere fatte ad ore stabilite, gli ipocriti vi trovavano un'occasione favorevole per farsi notare

 Nella tua camera (TOB aggiunge più ritirata) II termine indica un luogo segreto, probabilmente la stanza per le provviste

 II verbo greco battalogein viene vana mente interpretato Alcuni traducono dire delle cose futili, altri richiamano i papiri ma gici che moltipllcano le formule abracada branti per impietosire la divinità, qualche volta si precisa non dite batta (termine senza significato), ma Padre nostro

 L'errore della preghiera pagana (cf 1 Rè 18,27), ma a volte anche ebraica cf Is 1,15, Sir 7,14) non sta tanto nel fatto di esse rè lunga, ma nella sua pretesa di poter fare pressione sulla divinità m forza della sua lunghezza.

MA VEDIAMO COSA INSEGNA GESU'



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Consiglia  Messaggio 2 di 9 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 15.41

La preghiera dei discepoli di Gesù e affine, per contenuto e forma, alle preghiere ebraiche, m particolare alla " preghiera delle 18 domande" che gli Ebrei recitano ancora oggi. Essa però se ne distingue innanzitutto per la grande semplicità e libertà con cui Dio viene invocato Anche l'ordine delle doman de e originale e carattenstico dell'insegna mento di Gesù. Essa incomincia con una tn plice preghiera che e un appello all'azione divina per la venuta del suo Regno, ogni preoccupazione di trionfo politico o religioso e esclusa. Segue poi la sene di richieste che esprimono le necessita essenziali dei di scepoli In questa seconda parte, come già nell'invocazione, la prima persona plurale riunisce i singoli credenti m una comunità di preghiera.

Questa preghiera e stata trasmessa da Matteo e da Luca in due forme differenti II testo di Luca e più breve 5 domande invece di 7, e nelle parti comuni ci sono 2 o 3 divergenze di dettaglio E impossibile stabilire con certezza quale sia la forma più antica Si

costatano in tutte e due le forme tracce di adattamento all'uso di un ambiente particolare. Le prime comunità fecero perciò uso di forme differenti di questa preghiera.

La traduzione di questa preghiera m una lingua moderna presenta particolari difficolta II testo greco reca ('impronta della sua origine semitica Alcune espressioni, per poter essere correttamente interpretate, esigono una buona conoscenza dell'AT e dell'antico giudaismo.

 Gli stessi specialisti non sono d'accordo sul significato di qualche ter mine (cf v 11) o di qualche formula (cf v 13) Si comprende perciò come le antiche traduzioni abbiano preferito, il più delle volte, seguire il testo greco parola per parola.

 Tuttavia questa soluzione che rifiuta di cor rere rischi, pone m realta il lettore di fronte a oscurità e ambiguità non tutte dovute al testo originale. Si e perciò creduto necessario presentare qui una traduzione che, senza alcuna pretesa liturgica, cerca di rinnovare, con l'aiuto delle note, la comprensione di un testo cosi fondamentale


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Consiglia  Messaggio 3 di 9 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 15.47

b) Lett Padre nostro, colui (che e) nei cieli

I discepoli si rivolgono al loro Padre comune che è unico (23,9)

L'espressione nei cieli non intende localizzare il Padre, essa corrisponde a una costruzione semitica che dice simultaneamente che Dio domina.

 Slitta la terra (nei cieli) e che e, per il suo su ore paterno, immediatamente vicino agli uoinini (.Podre nostro), la ricchezza di questa espressione verrebbe resa molto bene dalla traduzione Padre celeste. Padre nostro Mt l'ha tradotta letteralmente con mio padre, quello nei cieli (7,21, 10.32 33, 2 50 16,17, 18,10 19) e vostro padre, quei lo nei cieli (5,16 45, 6,1 9,7,11, 18,14) La presenza di quest'ultima formula in Me U ,25 (cf Lc 11,13) induce molti critici ad attribuirla allo stesso Gesù (nonostante il testo parallelo di Le 11,2 che non la conosce) Al tré volte Mt l'ha resa con celeste, sia per vostro padre, il celeste (5,48, 6,14 26 32, 23,9) o per mio padre, il celeste (15,13, 18,35)


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Consiglia  Messaggio 4 di 9 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 15.50

c)Trad lett La TOB traduce fa conoscere a tutti chi sei. II nome di Dio e una espressione biblica tradizionale per indicare, rispettosamente, soprattutto nei testi cultuali il suo essere. Santificare Dio o il suo Nome è una espressione classica nella Bibbia e nel giudaismo. Siccome Dio e il Santo per eccellenza, essa non può avere il significato di aggiungere qualche cosa alla sua santità, ma indica che venga riconosciuto, che venga manifestato ciò che egli è, che gli si renda gloria (come m Gv 12,28, che deve equivalere a questa domanda).

La Bibbia e il giudaismo conoscono due modi di santificare Dio o il suo Nome. I legislatori e i rabbini invitano con le loro esortazioni i fedeli a santificare Dio con l'obbedienza ai suoi comandamenti, e a riconoscere in questo modo la sua autorità su di loro (Lv 22,32, Nm 27,14, Dt 32,51, Is 8,13, 29,13) I profeti nei loro oracoli sulla salvezza  futura annunziano che Dio si santificherà, manifestandosi agli occhi di tutte le nazioni come il giusto Giudice e il Salvatore (Is ^e e soprattutto Ez 20,41, 28,22 25, 36,23, 38^ 23, 39,27).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 15.55

d) Nella preghiera presente, accanto alla domanda della venuta del regno di Dio, che può essere assicurata soltanto da lui, si tratta di questo intervento salvifico (la costruzione Passiva sia santificato viene correntemente  nella letteratura ebraica per indicare in modo discreto l'azione di Dio senza nominarlo cfMt5,679,7,l 278 )

Solo Dio può rivelarsi cosi come e' nella sua potenza e  nella sua giustizia e grazia. Per Gesù, come Per Ezechiele (cf sopra), questa manifestazione si rivolge a tutti gli uomini.

 TOB: fa'che venga il tuo regno Cf 3,2 note g eh II Padre nostro domanda che questo Regno, venuto o iniziato , venga presto rivelato e definitivamente riconosciuto su tutta la terra.

e)Trad lett La TOB traduce fa' che si realizzi la tua volontà

Come la preghiera di Gesù al Getsemani (Mt 26,42, Le 22,42) questa domanda non e' una preghiera di rassegnazione, ma un appello a Dio affinchè faccia che la sua volontà si compia ecco il perche della traduzione proposta, che presenta Dio come il soggetto della frase.

 La forma del verbo implica una realizzazione globale condotta a termine, il che può essere soltanto opera di Dio.  II legame di questa domanda con le due precedenti rivela che si tratta innanzitutto della realizzazione da parte di Dio della sua volontà di fare giungere il suo regno (cf Is 44,28, 46,10 11, 48,14, Ef 1,5 9).  Ma questa volontà riguarda gli uomini e non potrebbe compiersi senza la loro adesione alla fine dei tempi per mezzo di un accordo perfetto delle loro volontà con la sua (cf Ger 31,31-33, Ez 36,27), e fin d'ora con l'adempimento dei suoi comandamenti, la cui necessita viene spesso sottolineata da Mt (5,17-20, 6,33, 7,21 24-27. 12,50, 21,30 )


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 15.57

,/)Trad lett La TOB traduce sulla terra a immagine del cielo.

 La traduzione comune sulla terra come in cielo presenta l'inconveniente di poter essere concepita come una aggiunta sulla terra e cosi nel cielo, mentre si tratta di domandare che si realizzi sulla terra ciò che avviene già nel cielo, come nello schema apocalittico (cf Dn 4,32, 1 Mac 3,60)

Il cielo viene concepito come il regno di Dio perfettamente realizzato la terra dovrà esserne necessariamente l'immagine. Si potrebbe parafrasare affinchè la terra sia quella che tu vuoi che sia, quella che deve essere. E' del resto molto probabile che la frase non si riferisca soltanto alle ultime parole, ma a tutte e tré le domande insieme. Sarebbe una specie di conclusione che corrisponderebbe parola per parola all'invocazione Padre nostro / nei cieli, cielo / terra

g) La difficolta d'interpretazione sta nel l'aggettivo greco, reso qui con "quotidiano", che determina il pane richiesto e che la TOB traduce con di cui abbiamo bisogno. II termine non e' attestato in modo chiaro fuori del Padre nostro, bisogna perciò ricorrere all'etimologia che orienta verso due scelte principali oggi o domani. Sono perciò possibili vane traduzioni.

del giorno che viene questo significa to deriva da una espressione comunemente usata per indicare il giorno che incomincia Ma domandare oggi il pane del domani sem bra poco conforme all'insegnamento di Gè su (cf Mt 6,34) Tuttavia questa domanda potrebbe essere compresa come un futuro inteso m senso largo da congiungersi con il carattere escatologico delle domande prece denti si tratterebbe del pane futuro, del banchetto del mondo futuro,

di oggi la stessa espressione greca vie ne di fatto usata qualche volta per indicare il giorno presente, la sera del giorno che incomincia (Prv 27,1, At 7,26), in opposizione al domani Ricollegandola con la manna che si guastava solo l'indomani del giorno m cui era caduta, e stata fatta la proposta di tra durre nostro pane fino a domani,

- necessario al sostentamento secondo un'etimologia possibile, ma poco probabile

Indipendentemente da qualsiasi significa to etimologico, secondo un'mterpretazione antica e spesso ripresa, questa domanda al luderebbe al pane eucaristico, od anche alla parola di Dio

Anche se la traduzione esatta di questa parola rimane incerta, e chiaro che la domanda, in ogni caso, non si riduce a una esi genza di assicurarsi il futuro Gesù invita i suoi discepoli a domandare giorno per giorno il nutrimento come egli aveva nutrito Israele nel deserto con la manna raccolta giorno per giorno (Es 16)


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 16.00

A) Trad lett Il debito e', nel linguaggio profano e biblico, un obbligo giuridico e commerciale tra gli uomini, particolarmente importante nel mondo antico, dove poteva causare la perdita della libertà (cf Mt 18,23 35). Questa immagine, sconosciuta all'AT, viene usata nel giudaismo per indicare la condizione dell'uomo di fronte a Dio, di cui e' debitore insolvibile, essa indica allora lo stato di peccatore (cfil parallelo tra Le 13,2 e 4). Nel mondo moderno, dove prestiti e crediti sono cose normali, la traduzione debiti indebolirebbe questo simbolismo, il termine torti evidenzierebbe meglio l'oltraggio personale fatto a Dio e la condizione miserevole del peccatore. Su questi motivi si basa la trad. TOB (cf 6,9 nota o)

Con questa preghiera domandiamo a Dio di rimettere i debiti che abbiamo verso di lui. E' la grazia per eccellenza, perche noi siamo incapaci di riparare il nostro peccato.

Gesù che unisce cosi fortemente i nostri doveri verso Dio con quelli verso i nostri fratelli, seguendo il tema biblico dell'alleanza, ha spesso proclamato (come aveva fatto Sir 28,1 5) che Dio per darci il suo perdono ci chiede di perdonare ai nostri fratelli (Mt 5,7, 6.14-15, 18,23-35, Me 11,25) Questo perdono fraterno non compra ne' merita il nostro perdono, ma testimonia la sincerità della nostra domanda (Mt lo sottolinea col passivo) .


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 16.04

La tentazione non e, qui, la prova alla quale Dio nell'AT sottopone Àbramo ir 22,1, 1 Mac 2,52, Sir 44,20, Eb 11,17) o il suo popolo (Es 15 ->? 16,4, 20,20, Dt 8.2, 13,4, Gdc 2,22, 3,1 4' Sap 11,9). Si tratta qui, come spesso nel Vt' della prova con cui satana cerca di rovinare colui che viene colpito dalla medesima ( Cor7,5,lTs3,5. 1 Pt5,5 9, Ap2,10,cfLc 22,31). Cosi nel NT non si afferma mai che Dio tenta, e Gc 1,13 l'esclude esplicitamente (cf Sir 15,11 12 La traduzione non sottometterci alla tentazione corre il rischio di confusione). Tuttavia niente sfugge al sovrano dominio di Dio, nemmeno la tentazione e il potere di satana, donde la formula non farci entrare nella tentazione che implica un intervento attivo di Dio. Non si tratterebbe che Dio introduca o faccia entrare l'uomo nella tentazione, come in una trappola che lo prenda, ma che egli possa condurre qualcuno in una situazione critica di tentazione, come lo Spinto ha spinto Gesù nel deserto per essere tentato da satana (Mt 4,1 par ). Secondo questa interpretazione il discepolo di Gesù non domanda a Dio di non essere tentato (cfMt 26,41 par , 1 Cor 10,13), ma di fargli evitare una prova che corre un grande rischio di non poter superare. La traduzione proposta (dalla TOB) non condurci nella tentazione suppone la gravita’ di questo rischio serio. Un’altra interpretazione s'appoggia su un semitismo che, nel caso di un verbo causativo, permette di tradurre fa' che noi non entriamo in tentazione invece di non farci entrare, cioè preservaci, difendici dall'aderire alle idee del tentatore, dal venire a patti con lui, oppure, secondo l'espressione di 1 Tm 6,9, dal cadere nella tentazione.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 09/03/2003 16.07

 Ma liberaci dal male, o dal maligno, cioè da satana, dal tentatore (TOB). In Mt sono possibili questi due significati (per il primo cf 5,11, 6,23 , per il secondo 13,19 e probabilmente 5,37, 13,38) come pure m 2 Ts 3,3 eGv 17,15, dove il significato personale sembra da preferirsi, mentre quello impersonale viene precisato in 2 Tm 4,18. A favore del senso personale sta qui l'intensità della tentazione. Comunque, il male e’ qui inteso in relazione con una potenza malvagia.

Per la mancanza di un termine soddisfacente per indicare satana come il maligno. La traduzione proposta dalla TOB ricorre al concetto di tentatore (cf Mt 4,3, 1 Ts 3,5) che permette di dare all'idea di tentazione quella sfumatura drammatica che ha perso nel nostro vocabolario di oggi. Le due ultime domande costituiscono in realta una domanda sola .

(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:37
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Da: Soprannome MSN°Gino  (Messaggio originale)Inviato: 29/12/2002 14.11

IL PADRE NOSTRO

Padre nostro che sei nei cieli

Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate dite: Padre...» (Lc 11,12). Il discepolo vede Gesù che prega e sente il desiderio di imitarlo, di pregare in modo nuovo.

La preghiera non è un lusso né una debolezza dell’uomo, ma una necessità: è il respiro dell’anima credente. Non nasce dal complesso di inferiorità di chi vede franare tutto attorno a sé o cerca un’evasione dall’angoscia. Prima di mettere a nudo l’indigenza dell’uomo, la preghiera ne rivela la grandezza. Chi non sa pregare non conosce se stesso o ha paura di se stesso; non adora Dio perché adora se stesso: la più insulsa e ripugnante idolatria.

La preghiera non è soltanto un bisogno, ma una fortuna, una felicità: «La preghiera e il colloquio con Dio è il bene sommo perché è unione con lui» (s. Giovanni Crisostomo).

Scrive santa Teresa di Gesù: «La preghiera è un intimo rapporto di amicizia, un trattenimento con colui da cui sappiamo d’essere amati».

Per chi crede, Dio non è un’astrazione della mente, ma la realtà più reale, una persona che vive, che è la Vita, con la quale si può e si deve intrecciare un colloquio. La preghiera è il linguaggio della nostra fede.

L’avvocato africano Tertulliano, il più antico scrittore che ha commentato il «Padre nostro», verso il 200 d.C., ha potuto dire: «In esso è contenuto, come in una sintesi, tutto il vangelo». Diciotto secoli dopo di lui, J. Jeremias, uno dei più celebri studiosi della Bibbia del nostro tempo, ha scritto: «Il Padre nostro è il più chiaro e, nonostante la sua concisione, il più completo riepilogo del messaggio di Gesù che noi conosciamo».

E’ infatti il vangelo tradotto in preghiera e nella preghiera più perfetta e più sicura, perché preghiera di Gesù diventata nostra. «Tutte le altre parole che noi diciamo pregando non esprimono altro se non quanto è racchiuso in questa preghiera insegnataci dal Signore, se la recitiamo bene e convenientemente» (s. Agostino).

Nessuno sarebbe più presuntuoso di chi pretendesse di parlare a Dio meglio di quanto ha fatto e insegnato suo Figlio: lui che solo conosce il Padre (Mt 11,17), lui che solo sa quello che c’è in ogni uomo (Gv 2,25).

Gesù ha deplorato una preghiera fatta soltanto di parole (Mt 6,7), ma ci ha insegnato una preghiera fatta anche di parole. «La vera preghiera non è nella voce, ma nel cuore. Non sono le nostre parole, ma i nostri desideri a dar forza alle nostre suppliche. Se invochiamo con la bocca la vita eterna, senza desiderarla dal profondo del cuore, il nostro grido è un silenzio. Se, senza parlare, noi la desideriamo dal profondo del cuore, il nostro silenzio è un grido» (s. Agostino).

Il «Padre nostro» è questo silenzio diventato anche grido: grido di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.

Il «Padre nostro» è preghiera esclusiva e perfetta del cristiano.

Fin dai primissimi anni della chiesa si recitava tre volte al giorno in sostituzione delle preghiere giudaiche. Poteva essere recitata soltanto da chi nel battesimo era diventato pienamente figlio di Dio. Era il quotidiano, indispensabile nutrimento dello spirito cristiano. Dal quarto secolo la preghiera di Gesù trova la sua migliore collocazione
nel cuore della celebrazione eucaristica, come la più idonea premessa alla partecipazione attiva alla mensa del Signore. Essa è preceduta da queste parole: «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre nostro...». Senza un precetto di Cristo nessuno avrebbe mai avuto l’ardimento di chiamare Dio suo Padre. Senza Cristo non avremmo mai saputo perché e quanto Dio ci ami. Senza Cristo non avremmo mai saputo di essere realmente figli di Dio (Gv 1,13; 1Gv 3,1) e partecipi della natura divina (2Pt 1,4).

Fin dalle prime parole, quindi, la preghiera del Signore scopre tutti gli orizzonti immensi del mistero di Dio e dell’uomo. «L’amore ha impedito a Dio di restare solo» (s. Tommaso d’Aquino).

Il Signore del mondo è il Dio dell’uomo, il suo creatore, il suo Padre.

Il Padre nostro sta nei cieli; nei cieli è la nostra patria (Fil 3,20); nei cieli è il nostro tesoro e il nostro cuore (Mt 6,20–21). Figli del Padre celeste, noi siamo a un passo dal cielo perché la grazia ha già dato inizio alla vita eterna in noi.

Nella lingua aramaica, parlata da Gesù, abbà aveva il valore del nostro papà o babbo e indicava quindi non soltanto confidenza e abbandono, ma un vincolo di natura. Perciò l’invocazione di Gesù al Padre – Abbà – sarà anche l’invocazione di quanti diventeranno figli nel Figlio: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna..., perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Papà!» (Gal 4,4–6).

«Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Papà!". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,15–16).

La vita cristiana è «comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,3) e trova necessario alimento nella preghiera al Padre insegnataci dal Figlio.



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Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 29/12/2002 14.12

Sia santificato il tuo nome

La vigilia della sua morte, Gesù esprimeva la sua soddisfazione per aver fatto conoscere agli uomini il nome del Padre (Gv 17,6), cioè per aver rivelato Dio al mondo (Gv 1,18), Il nome, nel linguaggio della Bibbia, esprime l’essere, il carattere, la funzione di colui che lo porta. Il nome di Dio, perciò, è Dio stesso come lo abbiamo conosciuto dal Figlio venuto tra noi.

«Santificare» il nome di Dio significa riconoscere e onorare Dio come Santo. Domandare che il nome di Dio, cioè Dio stesso, sia santificato vuol dire chiedere che egli sia da tutti riconosciuto per quello che è: il Santo, colui che è totalmente diverso da ogni altro essere, «il solo che possiede l’immortalità, che abita in una luce inaccessibile; che nessuno tra gli uomini ha mai visto né può vedere» (1Tm 6,16).Nella Bibbia Dio è proclamato «Santo, Santo, Santo» (Is 6,3). La triplice ripetizione indica il sommo grado della santità di Dio: egli è santissimo. Davanti a lui tutte le creature del cielo e della terra devono mettersi in profonda adorazione. Certamente, Gesù ci ha messi nella condizione di nutrire per il Padre celeste confidenza filiale, ma questa non abbassa Dio al nostro livello, ma innalza noi al livello del cuore di Dio. Dio non si è rimpicciolito, ma ha ingrandito l’uomo. Resta perciò intatto il nostro dovere di adorarlo e di glorificarlo.

Non c’è nulla al mondo che sgomenti e atterrisca quanto un uomo senza il senso di Dio.

Sta scritto nella Bibbia:
«I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Sal 19,2); Cristo è venuto sulla terra col solo scopo di glorificare il Padre; fin da quando aprì gli occhi a Betlemme gli angeli cantarono: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli» (Lc 2,14); e chi crede di essere l’uomo che a questo coro oppone la sua indifferenza, il suo assurdo silenzio? Perfino i credenti spesso hanno la bocca chiusa e il cuore spento. Dio si è lamentato per mezzo del profeta: «Se io sono Padre, dov’è l’onore che mi spetta?» (Ml 1,6).

L’esclusione di Dio dalla vita dell’uomo, la pratica soppressione nel nostro cuore del sentimento di adorazione per lui, è una mutilazione nella nostra autentica umanità.

Gli idoli che si sostituiscono a Dio, la ragione, la violenza, il denaro, se stessi, il sesso, fanno indietreggiare l’umanità verso la più nera barbarie. Si è disposti a piegare il ginocchio dinanzi a tutti fuorché a Dio, e così l’uomo si vede degradato e distrutto nella sua dignità e va perdendo la gioia e la gloria di essere uomo.

L’adorazione di Dio è la più nobile ed alta espressione della dignità dell’uomo. Bisogna che Dio sia Dio perché l’uomo sia uomo.

La glorificazione del nome di Dio è una suprema e struggente felicità (Lc 10,21–22).

Dio stesso è il primo a santificare e glorificare se stesso (Gv 12,28) e a dimostrare chi egli sia, compiendo meraviglie nell’opera della creazione e nella storia della salvezza. Così parla Dio in una drammatica pagina del profeta Ezechiele:
«Io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amor del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore – parola del Signore Dio – quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi» (Ez 36,22–23).Questa glorificazione del nome di Dio si compie definitivamente nel Figlio Gesù: «Padre, io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare» (Gv 17,4). Così Dio santifica e glorifica il suo nome, e così dobbiamo santificarlo e glorificarlo noi, manifestando ciò che siamo diventati in Cristo e per mezzo di Cristo. Riconoscere Dio per quello che è non può ridursi a una semplice idea astratta, ma dev’essere un’affermazione fatta con tutta la nostra vita nell’adesione perfetta alla sua volontà. Professarsi cristiani e non dimostrarlo nei pensieri, nelle parole e nelle opere significa avere una fede fatta di fumo. Gesù, invece, ci ha detto: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,14–16).

Onorare Dio è splendere della sua luce, riflettendola sul mondo, con una vita in cui sia facilmente identificabile la presenza di Dio e la potenza della grazia del suo Cristo (2Cor 4,6; 3,18).

Questa prodigiosa e progressiva trasformazione è la vera ed eloquente prova della nostra fede. «Noi siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Ef 2,10). Nell’ultima cena, Gesù disse ai suoi:

«In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8).

Quando siamo aridi nello spirito e infecondi di opere defraudiamo Dio della sua gloria agli occhi del mondo, perché non riusciamo a dimostrare chi egli sia effettivamente per noi, con quanta forza egli incida nell’intera nostra vita. La prova più convincente dell’esistenza e della potenza di Dio siamo noi cristiani. Quando siamo cristiani.

Ai primi fedeli san Pietro scriveva:
«La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (1Pt 21,12).

Il dovere del cristiano è quello di dimostrare al mondo che una vita ispirata alla religione e alle norme divine della morale è una vita piena, felice e feconda, una perenne giovinezza dello spirito; che il cristiano non crede per abitudine o per paura, ma per un liberissimo atto di intelligenza e di volontà; che lo sforzo per vincere il male dentro e fuori di sé non è rinuncia alla vita, ma ricupero di una dignità e di una pienezza senza le quali non vale la pena di vivere; che il progresso nella vita morale e spirituale è fondamento necessario alla piena promozione umana; che il benessere e il consumismo non sono le componenti più importanti di una vita autenticamente umana. Se oggi tanti, troppi, commettono spudoratamente il male, se ne vantano e lo pubblicizzano addirittura, perché i buoni non devono avere il coraggio di dirsi e dimostrarsi tali, senza lasciarsi impressionare dalla diffusa apostasia da Dio, senza lasciarsi intimidire dall’arroganza del male?

Preghiamo con Cristo: «Padre sia santificato il tuo nome».

Cantiamo con Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore ... Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome» (Lc 1,46–49).

(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:38
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Consiglia  Messaggio 3 di 7 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 29/12/2002 14.13

Venga il tuo regno

Il «Padre nostro» orienta la preghiera dei credenti in Cristo nella giusta direzione, equilibrando le esigenze di Dio e i bisogni dell’uomo.

Nella preghiera, dunque, c’è una legittima compenetrazione di ciò che riguarda Dio e di ciò che riguarda noi, nel rispetto della necessaria subordinazione: prima Dio e poi noi. Da soli valiamo poco; con Dio possiamo tutto. La preghiera, perciò, non è disincarnata, ma nemmeno è ristretta alle nostre necessità.

Nel «Padre nostro» c’è l’arcano di Dio e il dramma della condizione umana. Non è un lamento di miserabili, ma la preghiera di figli che conoscono, amano e invocano il Padre di cui hanno a cuore gli interessi. Gesù ha detto:
«Il Padre vostro celeste sa di che cosa avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32–33).

Anche il lettore più superficiale dei vangeli si rende conto che il regno di Dio è l’argomento essenziale della predicazione di Gesù. I primi tre vangeli parlano un centinaio di volte del regno di Dio o del regno dei cieli.

Interrogato da Pilato sulla regalità da lui pretesa, Gesù dichiarò:
«Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,36–37). Il regno di Dio e del suo Cristo non è, dunque, tale alla maniera dei regni di questo mondo, ma riguarda gli atteggiamenti e i bisogni profondi, interiori dell’uomo. Cristo regna dando testimonianza alla verità, cioè alla piena e definitiva rivelazione delle intenzioni e della volontà di Dio sull’uomo da lui creato per la felicità suprema. Dio vuole salvare il mondo, non condannarlo. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16–17).

Il regno di Dio non è un trionfo politico o un successo elettorale. Dopo la prodigiosa moltiplicazione dei pani, la folla avrebbe voluto rapire Gesù per farlo re, ma egli fuggì (Gv 6,15). Non fuggì, invece, quando fu coronato di spine (Gv 19,2).

Le sorti del regno di Dio non sono affidate alle armi o al favore popolare, ma a Dio soltanto.
«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura» (Mc 4,26–28).

La storia è fatta dagli uomini, ma è dominata da Dio. Nulla può fermare il lento, ma inarrestabile sviluppo del regno di Dio. La sola storia degna dell’umanità sarà la storia del regno di Dio sulla terra. La parte di Dio nella nostra storia sembra a molti insignificante, addirittura inesistente, ma questa falsa impressione è stata già corretta da Gesù (Mt 13,31–33).

Il regno di Dio è la forza che solleva il mondo, è la vera ricchezza della terra, è simile a un tesoro nascosto, a una perla di grande valore (Mt 13,44–46). Chi può ancora dirsi veramente povero se ha a sua disposizione la ricchezza di Dio?

Il regno di Dio è in mezzo a noi (Lc 17,21). Realtà interiore ed invisibile, il regno diventa realtà visibile nella chiesa, istituita da Cristo per realizzare in questo mondo il dominio regale e salvifico di Dio, mediante la liberazione dal peccato, che è rifiuto della signoria del Padre celeste. A Nicodemo Gesù disse: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5), cioè mediante il battesimo che lo introduce nella chiesa l’uomo trova in concreto e con certezza la via, la verità e la vita di Dio (Gv 14,6).

A Pietro disse: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,18–19).Dopo la sua risurrezione, Gesù si mostrò agli apostoli vivo, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio (At 1,3) e ad essi diede un preciso comando:

«Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18–20).

La meravigliosa avventura del regno di Dio non si esaurisce nella storia del mondo, ma avrà la sua fase culminante con la fine della storia, quando Cristo verrà come re a pronunziare l’ultimo giudizio di salvezza e di condanna: «Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si sederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo...". Poi dirà a quelli alla sua sinistra: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli"» (Mt 25,31–41).

«Poi sarà la fine, quando egli (Cristo) consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte... E quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,24–28).

La Gerusalemme celeste sarà «la dimora di Dio con gli uomini. Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli il Dio–con–loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3–4).

Così si concluderà la storia del regno di Dio, la cui venuta Cristo ci ha fatto invocare dal Padre suo e nostro.

Con Cristo e in Cristo il regno di Dio è già venuto sulla terra e tuttavia è lo stesso Gesù che ci insegna a pregare perché questo regno venga. In realtà è la potenza di Dio che instaura il regno, ma siamo noi che dobbiamo accoglierlo, e riconoscere di fatto la regalità del Signore. Dio regna anche se gli uomini non vogliono, ma in questo caso la sua regalità si manifesta nel giudizio e nella condanna, ai quali nessuno potrà sottrarsi. Il Signore però vuole regnare per la nostra salvezza. E’ bene allora interrogarsi fino a che punto siamo buoni cittadini del regno di Dio; fino a che punto siamo vivi al battesimo; fino a che punto siamo attivamente dentro il regno di Dio e non, piuttosto, vaghiamo ai margini, assenti e sperduti.

L’avvento del regno è per tutti gli uomini. Nessuno di essi è anonimo e senza volto: tutti sono immagine di Dio e per tutti è morto Cristo, il quale vuole attirare tutti a sé (Gv 12,32). Gesù ha detto:
«Pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,38); «Io sono il buon pastore... e ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,14–16).

Questa ansia di Cristo deve diventare la nostra, deve pesare sul nostro cuore. Dobbiamo pregare e operare perché tutti entrino nel regno di Dio. Ogni uomo è nostro fratello. Fu Caino che disse: «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen 4,9).

A nessuno è lecito barricarsi nel guscio del proprio egoismo o chiudersi nel proprio bozzolo d’oro: i beni della salvezza non sono un privilegio personale. Non abbiamo nessun merito per essere nati in seno alla chiesa, come tanti altri non hanno alcun demerito se non conoscono la felicità del regno di Dio.

Il Padre nostro ci invita a dilatare l’anima, a partire dalla preghiera, fino ai confini della terra, che sono i confini terrestri del regno di Dio.

Il regno di Dio deve ancora venire nell’ordine sociale. Non basta elevare alti e sterili lamenti sui mali del mondo; dobbiamo contribuire con tutte le possibilità a realizzare un mondo migliore, in cui l’uomo non sia lupo per un altro uomo, il potente non opprima vigliaccamente il debole, l’odio, l’ingiustizia e la violenza non seminino lacrime e sangue. E non si dica che ciò è al di là delle nostre possibilità e delle nostre forze, perché il mondo comincia a un passo da noi, è sulla strada che percorriamo ogni giorno. Chi dice di essere cristiano e non rende più abitabile la terra è un bugiardo. Dobbiamo essere sale della terra e luce del mondo (Mt 5,13-14) nelle relazioni di famiglia, di amicizia, di lavoro. E’ là che si comincia a sollevare il mondo animandolo di spirito evangelico e di ansia di salvezza. E non è necessario per questo assumere pose donchisciottesche o atteggiamenti da acidi censori; è sufficiente essere consapevoli, con semplicità e spirito fraterno, delle proprie responsabilità di cristiani.

Il regno di Dio deve venire in tutto il suo splendore alla fine dei tempi e della storia. Perché pensare con terrore a quei momenti supremi se sono proprio quelli in cui si dispiega in tutta la sua potenza l’amore del Padre? Il cristiano aspetta con amore la manifestazione della gloria di Cristo alla conclusione della vicenda terrena (2Tm 4,8) e fin dall’alba della chiesa invoca nella lingua materna di Gesù: «Maranà tha: vieni, o Signore» (1Cor 16,22).

Dicendo «Padre, venga il tuo regno» noi desideriamo che Dio riceva tutta la gloria dagli uomini, che quanto ha fatto per essi sia da tutti goduto e amato, che la sua opera di salvezza non trovi ostacoli e giunga a felice compimento.

Il "Padre nostro" è un’alta scuola di fede; ci insegna ad estendere all’infinito i nostri orizzonti, a sentirci implicati nella vita degli altri e nella vicenda del mondo, a guardare a tutto e a tutti con gli occhi di Dio.


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Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 29/12/2002 14.14

Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra

Dopo il fruttuoso dialogo con la samaritana, Gesù risponde ai discepoli che lo pregavano di mangiare: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete... Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,32-34).

Dopo l’ultima cena, Gesù andò con i suoi discepoli in un podere chiamato Getsemani a pregare. «Cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me". E, avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!"... E di nuovo pregava dicendo: "Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà"... E pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole» (Mt 26,36–44).Sulla croce, dopo orribile supplizio, Gesù sigilla la sua vita terrena pronunziando con infinita soddisfazione:

«Tutto è compiuto!» (Gv 19,30). La volontà del Padre era stata fatta.

Nel «Padre nostro» Gesù insegna anche a noi a chiedere: «Padre, sia fatta la tua volontà». Lui stesso ci ammonisce: «Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). E’ facile, infatti, pronunziare all’indirizzo di Dio parole bellissime, apparentemente piene di fede, ma è difficile avere un’adesione personale e totale a Dio, ai suoi pensieri e alla sua volontà.

Le parole inondano il mercato del mondo a prezzo di svendita; ma il costo dell’adesione a Dio è la vita tutta intera, senza sconti o patteggiamenti. E’ un rapporto nuovo di essere e di appartenere a lui: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). La fede, infatti, ci introduce nella famiglia di Dio con tutti gli oneri e gli onori: è una cosa seria, un impegno solenne.

«Entrando nel mondo, Cristo dice: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5–7) e vivendo tra gli uomini ha ripetuto con insistenza: «Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30); «Io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 8,29). Quale sia la volontà del Padre, Gesù l’ha detto con chiarezza: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,37–40).

La volontà di Dio è la santificazione e la salvezza di tutti: «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3); «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Il credente deve riflettere e irradiare la santità di Dio in sommo grado. Gesù ci ha dato come modello il Padre: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Un cammino praticamente senza fine.

Il cristianesimo si distingue dalle antiche religioni per l’importanza attribuita alla vita morale come conseguenza della fede religiosa. Chi crede nel vangelo accetta come norma essenziale di vita la volontà di Dio. E’ la volontà di Dio, e non la dottrina umana, quella che esige una vita morale coerente e perfetta, anche a prezzo di rinunzie.

«Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione. Chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (Gal 6,7–8); «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).

La volontà di Dio è che siamo felici (1Ts 5,16–18). E la felicità nasce dall’osservanza dei comandamenti di Dio (Gv 15,10–11).

Dio fa tutto per amore e per il nostro vero bene: quando comanda o proibisce non può avere altro movente che il bene e l’amore. Per i nati da Dio la volontà di Dio è certezza d’amore.

Il buon cristiano non è un rinunciatario, un debole, un uomo che piega la testa e la schiena sotto il peso di una volontà minacciosa e implacabile; è un uomo che ha il coraggio di vivere in armonia con Dio e con se stesso, il coraggio di amare con la generosa offerta di sé.

Il male è una via troppo facile; è la via dei deboli, di quelli che vanno a rimorchio dei propri istinti, della mentalità corrente; pecore matte in un gregge sbandato. E’ facilissimo andare alla deriva, cedere ai compromessi; per essere buoni, invece, si ha bisogno di un cuore da leone. Dire a Dio
«sia fatta la tua volontà» con supina rassegnazione, con tetro fatalismo, è deformare la preghiera che Gesù ci ha insegnato. Responsabili delle nostre azioni siamo noi.

Qualunque cosa ci accada «noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28); «Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18). Il cristiano, come il Cristo, non sfugge al mistero del dolore: lo affronta con animo forte e avendo accanto a sé il fratello Gesù che sa compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato (Eb 5,15).Con l’espressione

«come in cielo così in terra» Gesù ci esorta a riempire la terra di cielo, ad anticipare nel profondo del nostro spirito la pace della patria celeste, a riempire di eterno ogni attimo sfuggente della vita.

Nel cielo gli astri «splendono nei loro posti di guardia e brillano festosi»; Dio «li chiama ed essi rispondono: "Eccoci" e splendono con gioia in onore di colui che li ha fatti» (Bar 3,34–35).Gli angeli

«eseguono la volontà di Dio ascoltando il suono della sua parola» (Sal 102,20–21).

Noi preghiamo «sia fatta la tua volontà» affinché gli uomini siano docili alla voce di Dio per giungere a salvezza e partecipare alla gloria di Dio nell’universo.

La volontà di Dio è il principio e il fine di tutto ciò che esiste. Nelle tempeste della vita, la volontà di Dio è un approdo di pace, dove le braccia del Padre si aprono ai figli con ansia d’amore. La voce antica e nuova della Bibbia grida al Signore in nome di tutte le creature: «Nella tua volontà è la mia gioia» (Sal 119,16).

(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:39
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Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 29/12/2002 14.14

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Durante la sua vita mortale, Gesù condivise la nostra condizione umana in tutto, fuorché nel peccato, e si prese cura di tutto l’uomo, spirito e materia.

Nutrì le folle con la parola di Dio, ma sentì ugualmente forte il problema della fame e della mancanza di pane.
«Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li mando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono da lontano» (Mc 8,1–9).

Anche dopo la sua risurrezione Cristo non nutrì i discepoli con armonie angeliche, ma con pane e pesce arrostito (Gv 21,1–14).

Gesù lenì le miserie, sanò i malanni, restituì agli infelici la gioia di vivere, alle famiglie in angoscia la tranquillità. Gesù non ignorò i bisogni materiali dell’uomo, ma ne fece esperienza personale.

Nel «Padre nostro» ci autorizza a chiedere il necessario sostentamento della vita, non da egoisti e da ingordi, ma secondo lo spirito del vangelo (Mt 6,24–34). Noi siamo figli del Padre celeste che conosce i nostri bisogni e provvede: non abbiamo motivo di affannarci.
«Chi tra voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9–11).

Gesù deplora che l’uomo si faccia schiavo dei beni materiali, che li serva invece di servirsene, che li metta al vertice delle sue occupazioni e delle sue preoccupazioni, come se fossero la ragione suprema della vita. Gesù vuole che l’uomo non perda il dominio delle cose che fin dall’inizio il creatore gli ha dato (Gen 1,28).

Il cibo, il vestito e tutto il resto non cadono dal cielo. Dobbiamo impegnarci a procurarceli. Guardare l’esempio degli uccelli e dei fiori non vuol dire incrociare le braccia. Lo stesso Figlio di Dio, fatto uomo, ha dovuto lavorare duramente per procurare a sé e ai suoi il necessario per vivere: ha fatto il carpentiere fino all’età di trent’anni. Il richiamo del «Padre nostro» alla provvidenza del Padre celeste ci ricorda che le cose necessarie alla vita sono dono della creazione di Dio il quale ha messo le cose buone da lui create a disposizione di tutti (Gen 1). Di suo l’uomo ci mette l’operosità, ma non l’avidità e l’avarizia: questa è la ragione per la quale Gesù ci invita a chiedere il pane «nostro» con una preghiera fraterna. I beni non sono un privilegio di pochi, ma un bene comune la cui destinazione universale è compromessa dall’egoismo privato e pubblico, dagli sperperi, dalle ingiustizie sociali: cose tutte che sono in contrasto con la volontà di Dio.

E’ orrendo e insensato che, in una società come quella di oggi, accanto a persone e a nazioni gonfie di benessere ci siano persone e popoli interi che muoiono letteralmente di fame.

Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che
«Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, così i beni devono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità... Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri. Del resto a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alle proprie famiglie. Questo ritenevano giusto i Padri e Dottori della chiesa quando hanno insegnato che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo». Il Concilio richiama a questo proposito un’antica sentenza: «Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non lo hai nutrito l’hai ucciso» (GS, 69).

Non basta parlare, fare congressi e cortei; non basta amare a parole o stanziare i soldi degli altri per la fame nel mondo. «Egli (Cristo) ha dato la vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1Gv 3,16–18).

«Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?» (Gc 2,15–16).Noi siamo amministratori dei beni di Dio, non proprietari. Non ci è lecito sperperare i suoi averi (Lc 16,1–15) né mettere al posto del Dio trino il dio quattrino. E non basta aiutare gli amici, i buoni, coloro che chiedono con garbo, buona educazione e umiltà. Ma «se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se ha sete dagli acqua da bere; perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà» (Pr 25,21–22; Rm 12,20). Il cristiano «si vendica» dei suoi nemici facendo loro del bene. Il bene fatto a un indegno è come fuoco bruciante che lo porta a conversione. L’amore che dona deve essere generoso e lieto «perché Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7).

Insegnandoci a chiedere a Dio il pane quotidiano, cioè per le necessità di un giorno, Gesù ha inteso anche moderare l’eccesso dei desideri dell’uomo e liberarlo dalla cupidigia, che può degenerare in ingiustizia, in violenza e perfino in delitto, come puntualmente registra la cronaca quotidiana.

Un saggio della Bibbia ha scritto questa splendida preghiera:
«(Signore) non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: "Chi è il Signore?", oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome di Dio» (Pr 30,8–9).

La civiltà del nostro tempo è definita consumistica e del benessere. Il superfluo è diventato necessario, è derisa la sapienza e commiserata la gioia di chi sa moderare le proprie aspirazioni. I desideri non hanno più freno e divorano il cuore. Non si vogliono affrontare tempo e fatica per migliorare onestamente la propria posizione: si pretende tutto e subito. La meta non è un onesto guadagno, ma l’arricchirsi a spese del sudore e del sangue altrui. Gli unici modi per ottenere questo risultato sono il colpo di fortuna, la frode o il furto.

Non chiediamo a Dio la ricchezza: egli ci ama troppo e si rifiuta di metterci nei guai. Nella parabola del seminatore, le spine che soffocano la parola di Dio e le impediscono di far frutti di salvezza sono «la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza» (Mt 13,22). L’avidità dei beni materiali rende vane le sollecitazioni dello Spirito e uccide l’umanità dell’uomo. Gesù ha maledetto la ricchezza che impedì a un giovane di seguirlo (Mc 10,17–27).

Quando noi calcoliamo troppo, uccidiamo la fede nella Provvidenza. Dai calcoli di una malintesa previdenza nascono le nostre paure. Quando vogliamo tenerci troppo radicati alla terra rinunciamo ad essere intelligenti (Lc 12,13–31).

La vita terrena ha una scadenza inevitabile: il regno di Dio in eterno. Non c’è proporzione tra le ricchezze dell’uomo e le ricchezze di Dio. Quando Gesù ci fa pregare per il pane quotidiano ci trova certamente consenzienti: è una preghiera che ci tocca assai da vicino. Ma Gesù non ha parlato soltanto di pane materiale. «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).

L’ascolto della parola di Dio è una cosa necessaria, la parte migliore, più importante di tutte le altre faccende (Lc 10,3842). Non esiste solo la fame di pane e la sete di acqua; esiste la fame di Dio (Am 8,1 1). Sensibilissimi ai bisogni del corpo, non possiamo dimenticare che anche l’anima ha bisogno di nutrirsi, che la sua fame è realissima e che solo Dio la può saziare.

Alla folla che lo cercava accanitamente dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù disse: «In verità, in verità, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna... Io sono il pane della vita... Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo... Se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno... Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,26–58).

Il «Padre nostro» è recitato nel momento culminante della celebrazione eucaristica come la più idonea preparazione alla comunione con il Cristo, pane di vita eterna.

Ciò che Gesù ci ispira col «Padre nostro» è di non separare la vita materiale da quella spirituale, la realtà di ogni giorno dal regno di Dio, ma anzi di realizzare una fusione tra il piano della creazione e quello della redenzione.

L’uomo è una unità vivente, un miracolo di vita fisica e spirituale, anzi divina, il capolavoro di Dio; deve vivere di pane, ma non può vivere di solo pane.


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Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 29/12/2002 14.15

Rimetti a noi i nostri debiti

come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Il «Padre nostro» che nella prima parte ci ha abituati a mirare in alto, al Padre che sta nei cieli, e poi ci ha fatto volgere lo sguardo attorno, alle necessità quotidiane, adesso ci invita a guardarci dentro, nello specchio di colui che ci conosce infinitamente più e meglio di quanto noi stessi ci conosciamo. Gesù ci fa dire: «Rimetti a noi i nostri debiti» che significa: «Perdonaci i nostri peccati» (Lc 11,4).

Invece di rimproverare al cristianesimo di insistere sull’idea del peccato, umiliando e deprimendo l’uomo, bisognerebbe riconoscergli il merito di educare l’uomo alla sincerità.

Se Gesù ha conosciuto degli insuccessi, ciò è avvenuto solo e sempre con coloro che si reputavano giusti.

L’adultera (Gv 8,1–11) è convinta del suo peccato, ma i suoi accusatori non sono affatto coscienti del loro. Gesù, l’unico senza peccato, non scaglia la pietra, ma perdona e sveglia la coscienza. Non scusa il peccato, non lo minimizza, anzi lo combatte e lo distrugge, ma ama il peccatore che si pente. Il rapporto con Dio, nostro Signore e nostro Padre, è duplice: un rapporto di diritto e, soprattutto, un rapporto di amore. Egli è il Signore, al quale l’uomo deve servire, rispettandone la volontà (Lc 17,7–10).

Tutto appartiene a Dio che è il creatore di tutto e di tutti. Di conseguenza vale quanto ha detto Gesù:
«Rendete a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12,17).

Il Creatore e Signore è nostro Padre, che secondo la legge antica e nuova dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze (Dt 6,5; Mt 22,37). L’amore o è totale o non è amore.

Il peccato, perciò, è un furto alla gloria di Dio, una rapina all’amore che gli dobbiamo e il peccatore è, per giunta, un debitore insolvibile (Mt 18,21–35). Giusto risulta solo colui che si riconosce debitore di Dio e implora il suo perdono come dono non meritato (Lc 18,9–14).
«Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli, che è fedele e giusto, ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo peccato facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,8–10).

Non è possibile nascondersi allo sguardo di Dio (Sal 139,1-12). Gesù invita tutti a venire coraggiosamente alla luce (Gv 8,12), a mettere a nudo le proprie piaghe perché egli è il medico (Mt 9,12) e diagnostica la nostra malattia non per il gusto di terrorizzarci, ma per guarirci e ridarci la gioia di essere salvati (Sal 51,14).

Nessuno, più di Cristo, ha affermato che l’uomo è peccatore e ha preteso che l’uomo lo riconosca: è il primo passo verso la verità e il perdono.

Dio non gode della morte dell’empio, ma vuole che desista dalla sua condotta e viva (Ez 33,11). Gesù non è stato mandato sulla terra per condannare il mondo, ma per salvarlo (Gv 3,17). Il grande ostacolo al perdono è la superbia e l’ipocrisia. Dio, padre buono, corre incontro al figlio traviato che ritorna, lo riammette con tutti i diritti e gli onori nella sua casa e fa una grande festa (Lc 15,11–32);
«C’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15,19).

Il peccato è una tragedia familiare, la rivolta contro il Padre; non è soltanto un nostro difetto personale, ma un’offesa che arriva a Dio, è una rottura mortale del vincolo vitale che ci unisce alla sorgente unica e somma della vita che è Dio.

Noi siamo capaci di rompere, non di aggiustare; siamo capaci di perderci, non di salvarci.

Chi rimane nel peccato cammina a grandi passi sulla via larga che porta alla perdizione (Mt 7,13).

Come insegna il vangelo, il Padre celeste è pronto al perdono, ma alle condizioni che Cristo suo Figlio ha chiaramente indicato, dando agli apostoli e ai loro successori il potere di rimettere le colpe nel sacramento della riconciliazione.
Scrive san Paolo: «Dio ci ha riconciliati a sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,19–20).

All’amore che perdona deve però corrispondere un perdonato che ami, che non disperi per i suoi tradimenti e che non approfitti fraudolentemente dell’amore.

Giuda si pentì di aver tradito Cristo, riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo:
«Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente» (Mt 27,4), ma non seppe sperare e amare e si impiccò. Pietro negò di conoscere il Maestro, ma le sue lacrime amare e sincere gli ottennero il perdono e la piena fiducia del Signore che gli affidò la sua chiesa (Gv 21,15–17).

Il papa san Gregorio Magno osserva: «Colui che sarebbe stato il pastore della chiesa doveva imparare dal suo peccato come doveva essere misericordioso con gli altri. Prima, perciò, Dio rivelò Pietro a se stesso e poi lo mise a capo degli altri, affinché conoscesse dalla sua debolezza con quanta misericordia doveva compatire la debolezza degli altri».

L’ultimo gesto di Gesù sulla croce fu un gesto sublime di perdono verso tutti: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34), e a uno dei malfattori, suoi compagni di supplizio, che lo chiamava teneramente per nome: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42) Gesù rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).

Il peccato è la tragedia quotidiana dell’uomo; il perdono dato e ricevuto è la felicità più sublime e indefinibile. Il perdono rivela Dio all’uomo e l’uomo a se stesso. Gesù impone a chi prega un esplicito impegno: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», cioè: perdona a noi come noi ci impegniamo a perdonare agli altri.L’evangelista, subito dopo il «Padre nostro» registra queste parole di Gesù che non lasciano scampo:

«Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14–15).

Quante volte dobbiamo perdonare?

A questa domanda il buon senso umano ha risposto così: «La prima volta si perdona, la seconda si condona, la terza si bastona»; «Chi perdona una volta è buono, chi perdona la seconda è santo, chi perdona la terza è matto».

Cosa risponde Gesù?

Ascoltiamo il vangelo.
«Allora Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?". E Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette"» (Mt 18,21–22): sempre, senza calcolo, senza stanchezza; di cuore, con chiarezza di mente e pienezza d’amore (Mt 18,23–35).

Non bisogna perdonare per motivi umani, per superbia, per sentimento di superiorità e di mal celato disprezzo, ma a imitazione del Padre celeste: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro celeste. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,36–37).Solo quando Dio smetterà di perdonare avremo il diritto di non perdonare: e non succederà mai, perché

«la sua misericordia è eterna» (Sal 136).

L’uomo è convinto di perdere prestigio e onorabilità quando, imitando Dio, perdona. La stupidità umana è veramente un mistero! Dio perdona perché è grande, intelligente e buono; l’uomo non perdona perché è piccolo, stupido e cattivo.

Lo spirito del vangelo che salva il mondo non è soltanto assenza di odio, ma positiva e operante presenza d’amore: «Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per voi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore »(Ef 4,31–32; 5,1–2);

«Rivestitevi dunque, come amati da Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3,12–13).

Siamo, come si vede, nel cuore del messaggio evangelico. Gesù ha proclamato la beatitudine dei misericordiosi perché troveranno misericordia (Mt 5,7).

E’ illusione ritenersi cristiani quando il cuore è chiuso alla misericordia e al perdono.

In un mondo in cui l’odio è sparso a piene mani è urgente che il cristiano sia generoso seminatore di amore e di perdono.

(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:40
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Consiglia  Messaggio 7 di 7 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°GinoInviato: 29/12/2002 14.16

Non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male

Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche capirla e capirla bene. Il Concilio Vaticano II ci insegna: «Poiché Dio nella sacra scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana..., per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci si deve ricercare con attenzione che cosa gli scrittori sacri in realtà abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le parole... Per comprendere infatti nel suo giusto valore ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di intendere, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che allora generalmente erano in uso nei rapporti umani» (DV, 12).

Questo è appunto il caso dell’ultima domanda del «Padre nostro».

Gesù parlava aramaico, non italiano; si rivolgeva a gente molto diversa da noi come mentalità e cultura. Non dobbiamo perciò commettere l’errore e l’ingiustizia di far dire al testo quello che non ha mai voluto dire, né leggere con la mentalità italiana moderna un testo antico.

Dicendo al Padre celeste: «Non ci indurre in tentazione», qualcuno potrebbe pensare che è Dio a tentarci e che noi gli chiediamo di farne a meno per non essere vittime del male. Infatti, in italiano, «indurre» significa determinare a una scelta di atteggiamento o di comportamento, e la «tentazione» è una provocazione a commettere il male.

Interpretata così, questa frase direbbe tutto il contrario di quello che vuole in realtà significare. Ce lo conferma la parola di Dio: «Nessuno, quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio" perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quando è consumato, produce la morte» (Gc 1,13–15).

E’ vero che la Bibbia ci presenta personaggi «tentati» dal Signore: Abramo, Giobbe, Tobia ...; in questi casi però non si tratta di tentazioni dirette a far commettere il male, ma di «prove» con cui Dio saggia la fedeltà e la virtù di uomini a lui carissimi.

Dio ha il diritto di saggiare l’autenticità e la serietà della fede e dell’obbedienza dell’uomo, come sta scritto:
«Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4). La prova rivela l’uomo a se stesso. Quando tutto va bene, credere sembra facile, ma quando siamo toccati sul vivo ed esposti alla prova, spesso scopriamo che la nostra fede ha fondamenta fragili. Quanti dicono di aver perduto una fede che, in realtà, non avevano mai avuto! Credevano di essere vivi e robusti e si afflosciarono come la casa costruita sopra la sabbia (Mt 7,26–27). E, quel che è peggio, ci sentiamo quasi traditi da Dio, al quale osiamo ribellarci attribuendogli crudeltà e indifferenza.

La fede che ci radica in Dio ci dà un vigore che non è nostro e che può vincere il mondo intero: «Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4).Un antico saggio della Bibbia dice:

«Figliolo, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione... Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l’oro, e gli uomini ben accetti nel crogiolo del dolore» (Sir 2,1–5). L’immagine del crogiolo viene ripresa da san Pietro, il quale aggiunge un motivo nuovo e tipicamente cristiano: la gioia nella sofferenza: «Perciò, siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo» (1Pt 1,6–7). La prova purifica, rafforza, arricchisce di meriti, fa degni di premio, è un’occasione privilegiata e non un castigo.

Il «Padre nostro» parla di tentazione come provocazione al male alla cui origine è il maligno. Satana aggredì nel deserto Gesù in persona per distoglierlo dalla sua missione di salvezza (Mt 4,1–11): lui non rispetta niente e nessuno.

Satana non è un’invenzione per sottosviluppati mentali, uno spauracchio per i deboli e i bambini, un simbolo del male: è uno spirito maligno che ha trasferito sulla terra la ribellione a Dio consumata nel cielo.

La storia religiosa e morale dell’uomo di tutti i tempi si svolge nel segno della tentazione: da Adamo a Cristo fino all’ultimo uomo che vivrà sulla terra.

Nessuno si illuda di essere al riparo da ogni tentazione del maligno, il quale, anzi, sceglie come bersaglio preferito i migliori. Nemmeno satana ha stima dei fiacchi e non sa cosa farsene delle banderuole.

La tentazione non è per se stessa peccato; lo diventa quando noi acconsentiamo.

Il racconto della passione di Gesù ci offre la chiave per capire il significato della parola «indurre».

I discepoli sono materialmente con Gesù, ma non riescono a fargli compagnia! Li esorta:
«Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). L’anima dei discepoli è generosa, ma fragile. Pietro, nonostante le buone intenzioni, lo tradirà. I discepoli stanno per trovarsi davanti a un grave ostacolo contro cui si «scandalizzeranno» (Mt 26,31), cioè inciamperanno. Gesù aveva predetto a Pietro: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31–32).

Nel Getsemani, gli apostoli sono scossi da satana come si fa con il grano nel crivello, esposti al rischio di fare naufragio nella fede; stanno per «entrare» nella rete di satana come dei pesci incauti. Entrare nella tentazione significa quindi esporsi al pericolo, cominciare a cedere o cedere del tutto. «Non ci indurre in tentazione» significa perciò «fa’ che non entriamo nella tentazione», cioè nella situazione critica di chi comincia ad essere affascinato dal male e finisce per esserne vittima.

Non è in nostro potere vincere satana da soli. Dobbiamo essere vigilanti e pregare. Dio permette che ci assalgano nemici insuperabili dalle nostre forze affinché con la preghiera otteniamo dalla sua misericordia l’aiuto a resistere. «Il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno» (2Ts 3,3); «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).

Il vero problema è che ci fa difetto l’allenamento, abbiamo il fiato corto e i riflessi spirituali intorpiditi; siamo come atleti fuori esercizio, e di questo non possiamo incolpare Dio. Sì, perché spesso addossiamo a Dio la colpa della nostra imprudenza e debolezza.

S. Paolo ci esorta:
«Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo... Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi» (Ef 6,10–18).Gesù ci ammonisce: «Quando un uomo forte, ben armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino» (Lc 11,21–22).

Il diavolo è nemico sleale che non rispetta nessuna regola del gioco. Si trasforma in «angelo di luce» (2Cor 11,14) cambiando i suoi connotati, presentando il male come bene e viceversa. Si inserisce nel nostro precario equilibrio psicologico e spirituale, facendo leva sulle nostre tendenze incontrollate per farci, come lui, nemici di Dio.

Nemmeno i santi sono nati buoni e non sono fatti di pasta diversa dalla nostra; anzi, ce ne sono di quelli che al principio erano peggiori di noi e più proclivi naturalmente al male. Essi però hanno avuto la saggezza, l’umiltà e la forza per arginare la piena.

Una cascata d’acqua imbrigliata e incanalata è una fonte di energia e di benessere. La passionalità è una forza che può essere indirizzata al male come al bene. Paolo, Agostino, Francesco d’Assisi... avrebbero fatto un male incalcolabile se avessero messo il loro genio e la loro passione al servizio del male; furono invece, e restano, benefattori dell’umanità, esempi convincenti delle possibilità dell’uomo a cui lo Spirito dona
«il dominio di sé» (Gal 5,21).

Nel «Padre nostro» Gesù ci ha insegnato prima a chiedere il perdono dei peccati commessi, poi ci fa domandare di evitarli in avvenire, mettendoci sulle labbra e nel cuore un’ansia e un’invocazione di libertà: «Liberaci dal male».

Il testo originale greco si presta a una duplice traduzione: «Liberaci dal male» o «Liberaci dal maligno». La differenza è quasi nulla: il male non può venire che dal maligno che ha introdotto il peccato nel mondo, diventando «omicida fin dal principio» (Gv 8,44).

La preghiera di Gesù comincia con il nome del Padre e termina con quello del maligno, perché noi siamo come presi in mezzo tra Dio e satana; tra Dio che ci ama e ci vuole salvi e felici con sé e satana che ci odia mortalmente, perché odia Dio e, non potendo provocarne la rovina, si impegna a deturparne nella creatura umana l’immagine. Ed è certissimo che satana non ha di mira la nostra felicità.

Noi, dunque, contesi tra Dio e satana, liberi come siamo, possiamo decretare la vittoria dell’uno o dell’altro nella nostra vita; ma nessuno può pensare seriamente di poter sconfiggere Dio: se non si vuole che trionfi nell’amore egli trionferà nel giudizio e nella condanna.

Conclusione

A proposito del «Padre nostro», Santa Teresa d’Avila dice: «C’è da lodare Dio nel considerare la sublime perfezione di questa preghiera evangelica. Come si vede bene che fu insegnata da quel Maestro! Ognuno può servirsene secondo i suoi particolari bisogni, perché in poche parole racchiude tutto quanto si può dire... io ne sono tutta meravigliata e mi pare che avendo questa preghiera non ci debba occorrere altro libro, bastandoci essa sola».

La preghiera insegnataci da Cristo, infatti, è la sintesi della fede, è preghiera sublime e sicura, sazia l’anima e la libera da ogni ansia e paura dell’ignoto e del male. E’ un grido di certezza nell’amore di Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti (Ef 4,6).

Sia lodato Gesù Cristo

(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:45
Il Padre Nostro commentato
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Da: Soprannome MSN7978Pergamena  (Messaggio originale)Inviato: 03/04/2003 12.34
Il mistero del "pane nostro quotidiano"

ANALISI DEL 'PADRE NOSTRO'
Conferenza tenuta a Firenze nel 1977,
presso la Società Leonardo da Vinci, 
in occasione della settimana ecumenica 

(In MENORAH ~ sito ebraico ~)

L'autore desidera rimanere anonimo

 

In questa sala eminenti dotti cristiani hanno commentato i Salmi o altri scritti di ebrei. Sia lecito dunque a un ebreo commentare un brano del Nuovo Testamento. C'è un'altra ragione più specifica. 
Gesù fu ebreo, nacque da una famiglia di ebrei, fu circonciso, visse sempre da buon ebreo, osservava il Sabato, mangiava kasher, solennizzava le feste (sebbene i Vangeli parlino della sola Pasqua), recitava lo Scema Israel (Marco XII, 29). 
La sua vita terrena appartiene alla storia degli ebrei, ma dopo la morte egli diventò l'oggetto delle speculazioni teologiche dei cristiani di varie chiese: cattolici, marcioniti, gnostici, ariani, nestoriani, monofisiti, e poi luterani e calvinisti, seguaci di Bultmann e di Bonhoeffer, ecc.

Di tutta questa vita postuma stasera noi non ci occuperemo affatto. Lasciamo stare la teologia. 
Io vi parlerò come storico, e non come teologo. Ho rispetto e simpatia per quei teologi i quali con le loro interpretazioni omiletiche dei testi sacri talvolta fanno acute osservazioni sulla vita d'oggi e porgono consigli eccellenti. Ma stasera mi occuperò esclusivamente di ricercare il significato originario del Paternostro, secondo la lingua, le situazioni e la mentalità di quei tempi.

Lo storico scrupoloso non deve lasciarsi sedurre dalle preoccupazioni apologetiche dei teologi, né dalla tentazione di deformare i fatti a scopo di edificazione.
Ho imparato da prima gli episodi della vita di Gesù dalle bellissime pitture dei nostri Musei: le pitture del Beato Angelico, di Gentile da Fabriano, del Perugino, di Raffaello, ecc. - incantevoli, poetiche, idilliache, con verdi giardini, colline come quelle di Firenze, con figure eleganti e sorridenti, con quell'atmosfera di pace. 
Quando mi diedi a studiare i documenti dell'epoca mi accorsi che la realtà storica era diversa: il paesaggio brullo e stepposo, lacrime e sangue. Uno sfondo tragico paragonabile forse all'Algeria di qualche anno fa. 
Da una parte un popolo oppresso, i Giudei che sognavano l'indipendenza. Insurrezioni e rivolte frequenti. 
Dall'altra i Romani, gli sfruttatori, che non esitavano a crocifiggere a migliaia per volta gli uomini validi e a vendere le donne e i bambini ai mercanti di schiavi. Qualche volta crocifiggevano anche le donne e i bambini, come fece il buon Tito "delizia del genere umano". 
C'erano insurrezioni di partigiani - i Romani li chiamavano banditi - e alcuni erano forse masnadieri, altri erano forse santi martiri. Oggi non ne conosciamo neppure i nomi. 
C'erano quelli che predicavano la sottomissione - alcuni per interesse, i ricchi che non amano le rivoluzioni, i pubblicani appaltatori d'imposte che s'impegnavano a fornire una somma fissa al fisco romano e s'industriavano di estorcere quanto più potevano dalle sventurate popolazioni - ma altri in buona fede, sapendo che lo stato romano era invincibile e che ogni resistenza avrebbe provocato maggiori sventure. 
C'erano anche i mistici che s'illudevano che Dio avrebbe liberato con un miracolo il popolo fedele.
In quest'atmosfera di oppressione e di sangue viveva Gesù. Questo è lo sfondo del Vangelo
. Le varie tendenze alle quali ho accennato si riflettono negli scritti dei vari redattori del Nuovo Testamento.
Veniamo dunque al Paternostro.

Di questa bellissima preghiera abbiamo quattro versioni: quella di Matteo VI 9-13, quella di Luca XI 2-4, quella della Didaché e quella di Marcione. Ma quella di Marcione è alterata per conformarla alla sua teologia. Quella della Didaché è quasi uguale a quella di Matteo. Tra le due rimanenti, la versione di Matteo mi sembra più primitiva che la versione di Luca, contrariamente a quanto pensano molti critici tedeschi. Ne daremo più avanti qualche prova.
Il Paternostro è tutto composto di formule ebraiche. E' esente da ogni accenno ai dogmi e alle formule caratteristiche del cristianesimo. 
Questo mi pare un buon indizio della sua autenticità
. Leggendo i commenti dei Padri della Chiesa cristiana confrontandoli ai moderni teologi  protestanti, si nota come spesso questi ultimi sono sconcertati da un linguaggio che non è il loro e che non capiscono.

continua........




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Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 03/04/2003 12.44

Pater (padre). E' antica e costante usanza ebraica di considerare Iddio come nostro Padre e gli Israeliti come Suoi figli. 
Ve n'è una ventina d'esempi nell'Antico Testamento: Esodo IV, 22; Deuteronomio XIV, 1; XXXII,6, 18, 19, 20; Salmo LXXIII, 15; Isaia I, 2; XXX, 1; LXIII, 16; LXIV, 7; Geremia III, 4, 19; IV, 22; XXXI, 9, 20; Osea I, 10; Ezechiele XVI, 20, 21; Malachia I, 6; II, 10.
Citiamo il versetto del Deut. XIV, 1: "Voi siete i figli del Signore Iddio vostro", e quello di Geremia III, 19 "Mi chiamerete: Padre mio".
Vi sono altri esempi nei libri ebraici non canonici, ma riconosciuti ispirati dalla Chiesa: Ben Sira XXIII 1, 4; LI, 10; Sapienza II, 16; XIV, 3; Tobia XIII, 4; III Maccabei V, 7; VI, 8; Giubilei I, 24, 25, 28; Testamento di Giuda XXIV, 2; Testamento di Levi XVIII, 6; Hodayot IX, 35-36; Nei detti dei Tannaim, Akiba (Abot III, 18; Yoma 85; Taanit 25) e Jehuda ben Tema (Abot V, 23 ).
Vediamo che , invocando Dio come Padre, questi testi e Gesù di Nazaret, si conformarono all'esortazione di Geremia. E Dio è invocato come padre nelle preghiere quotidiane: nell'Amidà (benedizioni V e VI) nell'Ahabah, nel Col berue e in molte altre. 
Nella preghiera mattutina è invocato più volte proprio con le parole Abinu shebashamaim "Padre nostro che sei nei cieli".


Hmwn "di noi" "nostro". Chi sono questi "noi"? Nei passi della Bibbia citati di sopra, Dio è chiamato Padre degl'Israeliti. 
Veramente, secondo la dottrina ebraica, Iddio si potrebbe chiamare Padre universale per due ragioni: I) perché è il Creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che v'è (Genesi I-II, Esodo XX, 11; XXXI, 17; II Re XIX, 15; Nehemia IX,6; Salmi CII, 25; CXV, 15; CXXI, 2; CXXIV, 8; CXXXIV, 3; CXLVIII, 6; IsaiaXLII, 5; XLV, 18; Geremia XXXII, ); II) perché veglia amorosamente non solo sugli ebrei, ma su tutti i popoli, sugli egiziani e sugli assiri (Isaia XIX, 25), sugli etiopi, sui filistei e sugli aramei (Amos IX, 7) e anche sugli animali (Giobbe, XXXVIII, 39 -41; Salmo CXLVII, 9) e ama tutte le sue creature (Salmo CXLV, 9, 16; Sapienza di Salomone XI, 24-26). Ma sebbene Iddio si possa considerare come il Padre di tutti gli uomini e di tutte le creature, esplicitamente non è chiamato se non Padre degli Israeliti.
Veniamo ai Greci. Per Omero Zeus è padre di uomini e di dei (Iliade V, 426). Certo è padre in senso fisico, ché dai suoi molteplici amori con dee, con ninfe e con donne mortali, Zeus ebbe numerosa prole. La formula di Omero è ripetuta da altri poeti. Ma Platone (Timeo) più filosoficamente chiama Dio "Fattore e Padre dell'universo". Filone, il filosofo ebreo un poco piò anziano di Gesù, adotta la formula di Platone (De opificio mundi 13, Legatio ad Gaium XVI, II9). Dunque Filone, prima di Gesù, rende esplicita la dottrina che nella Bibbia era implicita.
Pare probabile che Gesù usasse la parola "padre" nel senso nazionale dell'Antico Testamento. Il Vangelo di Matteo non dice neppure hmetere "nostro", ma dice proprio hmvn "di noi", "di noialtri", dunque "padre di noialtri ebrei".
L'autore del Terzo Vangelo e degli Atti, letterato elegante, spirito irenico, novellatore piacevole, ma non sempre storico scrupoloso, come negli Atti cerca di conciliare Pietro con Paolo, nascondendo le dispute che conosciamo dalle epistole, così nel suo Vangelo cerca di conciliarsi i Gentili, tanto più che era un Gentile egli stesso. Perciò cancella l'hmvn e scrive il semplice pater. Dio non è più padre dei soli Israeliti, è padre di tutti gli uomini. Il pensiero di Luca è chiarito dalla genealogia. Mentre Matteo I, 1-16 risale fino ad Abramo per dimostrare che è un vero Israelita; Luca III, 23-38 risale fino ad Adamo, per dimostrare che Gesù, in quanto figlio d'Adamo, è figlio di Dio.
Neanche Luca, però, assurge all'universalismo di Platone e di Filone.
Il Quarto Evangelista (Giovanni), che per noi naturalmente, storicamente parlando è definito un antisemita che probabilmente subì l'influenza degli gnostici o di Marcione, spesso tenta di confutare i Sinottici. Per lui gli Ebrei non sono i figli di Dio né d'Abramo. Sono i figli del Diavolo (Giovanni VIII, 39-44). Gesù non ha più genealogia. E' l'unigenito figlio di Dio (Giovanni I, 14, 18; III, 16-18). E il Paternostro è omesso da questo Vangelo.
Alcuni commentatori (G. Luzzi, J. Jeremias) pensano che nel Giudaismo Dio fosse Padre del popolo, ma non dei singoli individui. Ma non è così. Un profeta che non apparteneva al popolo ebraico per nascita , poiché era un proselita, scriveva: "Tu sei il Padre nostro, benché Abramo ci ignori e Israele non ci riconosca. Tu, o Eterno, sei il Padre nostro" (Isaia LXIII, 16). Geremia e Ben Sira adoperano l'espressione "Padre mio" col pronome di prima persona singolare. E il Salmo LXVIII, 5 dice che Dio è il Padre degli orfani.

continua........


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Consiglia  Messaggio 3 di 6 nella discussione 
Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 03/04/2003 12.57
O en toiV ouranoiV "che sei nei cieli". Nel greco ordinario ouranos "cielo" è singolare. In ebraico shamaim e in aramaico shemaya sono plurali. Si tratta di una peculiarità linguistica senza riferimento a dottrine astronomiche. La sua presenza nel nostro testo greco dimostra che questo è tradotto da un originale semitico.
Secondo la dottrina ebraica, Iddio è in ogni luogo: "Egli riempie il cielo e la terra "(Geremia XXIII, 24).
"Se io salgo in cielo, Tu vi sei,
se scendo nello Sheol, eccoti là!
Se prendo le ali dell'alba
e dimoro nell'estremità del mare,
anche colà mi condurrà la tua mano
e la tua destra mi sosterrà." (Salmo CXXXIX, 8_10)
E così anche Deut. IV, 39; Giosué II, 11; II Re VIII, 27; Isaia LXVI, 1. Ma in altri versetti biblici si dice che Dio sta nei cieli (Deut. XXXIII, 26; I Re VIII, 30, 32, 49; Giobbe XXII, 12; Salmi II, 4; CIII, 19; CXIII, 5; CXV, 2-3, 16; CXXIII, 1; Eccles. V, 2; Daniele II, 28).
Abbiamo già osservato che la frase "Padre nostro che sei nei cieli" è usata dai dottori della Mishnà e più volte nelle preghiere ebraiche.

Agiasqhtw to onoma sou "sia santificato il tuo nome". Il verbo agiazw non esiste nel greco classico né nei papiri pagani. Fu inventato dai Settanta per tradurre l'ebraico "qadash". Questa è una novella prova che ci troviamo di fronte a una traduzione, da spiegare con la fraseologia ebraica, incomprensibile a chi è stato educato in ambiente diverso. Infatti anche nel nostro Kaddish si dice "Itgaddal weitqaddash shemey rabba" (sia magnificato e santificato il suo gran nome). E nella preghiera mattutina del Sabato: "Shimchà Adonai Elohenu itqaddash" (il tuo nome, o Eterno Dio nostro, sia santificato).
Che significa "santificare il nome"? Per il Pichenot significherebbe astenersi dalla bestemmia, dai giuramenti falsi, ecc.. Ma così si restringerebbe troppo la portata della frase. Più giusto mi pare Sant'Agostino: "Quando diciamo: Sia santificato il tuo nome, facciamo sapere che desideriamo che il suo nome, il quale è sempre santo, sia considerato santo anche fra gli uomini, cioè non sia spregiato".
Nel linguaggio biblico "qadash" (santificare) è il contrario di "halal" (profanare). Dunque "santificare il nome" significa preservarlo dalle profanazioni. Il santo nome è profanato quando gli Ebrei commettono atti d'idolatria o altri gravi peccati (Levitico XVIII, 21; XIX? 12; XX, 3; XXI, 6; XXII, 32; Ezechiele XLIII, 7, 8; Amos II, 7) e quando il popolo il popolo ebraico è esiliato e la sua religione è insultata (Isaia LII, 5; Ezechiele XXXVI, 20-24; XXXIX, 7, 25; Malachia I, 11-12; Salmo CXI, 9).
Si può congetturare che Gesù pensasse a un fatto recente. Ponzio Pilato aveva offeso i sentimenti dei pii ebrei introducendo le insegne delle legioni nella Città Santa (Flavio Giuseppe, Antichità XVIII, iii, 1; Guerra II, ix, 3); Le insegne erano gli dèi delle legioni e i soldati offrivano loro sacrifizi (Flavio G., Guerra VI, vi, 1; Svetonio, Caligola XIV, Tacito, Annali I, 39; Tertulliano, Apologetico XVI, 162). Perciò la presenza delle insegne nella Città Santa era una profanazione del nome. I giudei supplicarono Pilato di farle togliere di lì, ma questi fece circondare i supplici dai soldati, minacciandoli di morte immediata. Allora essi si gettarono in terra, scoprendo il collo, pronti a lasciarsi tagliare la testa piuttosto che consentire all'atto profano. E Pilato allontanò le insegne.
Nell'uso ebraico più tardo la "santificazione del nome" era il martirio sofferto per restare fedeli alla Torà. Il Sifra (Emor XIII) dice: "Io vi ho tratti fuori dall'Egitto a patto che siate pronti a sacrificare la vita, qualora lo esiga l'onore del mio nome".

Elqetw h basileia sou "venga il tuo regno". Questa frase allude al nucleo centrale della predicazione di Gesù. 2 Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino" (Marco I, 15). E' questo l'euangelion, la buona novella.
La parola italiana "regno" (come l'ebraico "malkut", il greco "basileia", il latino "regnum") può significare tanto un territorio governato da un re come il periodo durante il quale egli regna. Invece l'inglese e il francese distinguono "kingdom", "royaume" (il territorio) e "reign", "règne" (il periodo). Ma i traduttori inglesi e francesi della Bibbia dimostrano incoerenza e confusione nel rendere questa parola. Il "regno di Dio" nella Bibbia è sempre un periodo, mai un territorio. Gesù e altri Giudei del suo tempo aspettavano che Dio cominciasse a regnare, non già che continenti ed isole mutassero posto.
Il primo regno di Dio era stato al tempo dei Giudici. Gedeone rifiutò l'invito a farsi re, per non togliere il regno a DIo (Giudici VIII, 22-23). Quando gli anziani volevano ungere re Saul, Iddio li rimproverò, per mezzo del profeta Samuele, perché l'avvento di un re mortale avrebbe segnato il ripudio del Sovrano celeste (I Samuele VIII, 4-7; X,18-19; XII, 12).
Da questi passi si ricava: 1) che nell'opinione dei sacri autori la monarchia umana e la monarchia divina erano incompatibili; 2) che era tradizione che Iddio fosse il re d'Israele al tempo dei Giudici; 3) che il regno di Dio cessò con l'incoronazione di Saul.
Dopo Saul ci furono i re della dinastia davidica. Poi la Giudea fu soggetta ai re Babilonesi, ai re Persiani, ad Alessandro Magno, ai Lagidi, ai Seleucidi. Finalmente nel 167 i Giudei si ribellarono ai re stranieri. Ma non richiamarono al trono la famiglia davidica. Invece instaurarono il secondo regno di Dio. A questo periodo assegno i Salmi che proclamano "Adonai malakh" (l'Eterno ha cominciato a regnare) (Salmi XLVII, XCIII, XCVI, XCVII,IC). Il secondo regno di Dio durò un paio d'anni (dal 164 al 162). Seguì un ventennio sotto i re greci (162- 140). Poi un terzo regno di Dio dal 140 al 104. Poi i re Asmonei, il dominio romano, Erode, Archelao. Nel 7 dell'Era Volgare i Romani ridussero la Giudea a provincia, imposero tasse e mandarono Quirino a fare il censimento dei patrimonii. Agli Ebrei parve di esser ridotti in schiavitù. Tuttavia il Sommo Sacerdote Joazar li persuase a rassegnarsi e a dichiarare i loro patrimonii, a inchinarsi ai voleri di Cesare. Ma qualcuno non si rassegnò e insorse. Giuda gaulonite, della città di Gamala, detto anche Giuda di Galilea istigò il popolo alla ribellione. Diceva che questa tassa non era altro che imposizione di schiavitù ed esortò i Giudei a proclamarsi indipendenti e a non riconoscere altro padrone che Dio. Chiamare padrone un uomo, fosse pure Augusto, era tradire Iddio. I suoi seguaci, piuttosto che accettare Augusto come sovrano, subirono in gran numero la tortura e il martirio. E condussero una lunga e sanguinosa guerriglia di partigiani (Flavio G., Ant. XVIII, 1, 6; Guerra II viii, 1).
Ma accanto a coloro che volevano instaurare il quarto regno di Dio con la violenza (Matteo XI viii,1) c'erano altri che l'aspettavano con tranquilla fiducia, come Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava il regno di Dio (Marco XV, 43). Non mi pare probabile che un consigliere, forse membro del Sinedrio, partecipasse attivamente alla guerriglia.
Anche per Gesù il regno di Dio era nel futuro. Lo dimostrò Johannes Weiss, rivoluzionando la teologia tedesca. Ma del resto risulta evidente dai Vangeli (Marco IX,1 = Luca IX, 27; Marco XIV, 25 = Matteo XXVI, 29 = Luca XXII, 16-18; Matteo VIII, 11; Matteo XXII, 41) e dallo stesso Paternostro.
Il Reimarus, il più antico e uno dei più intelligenti fra i critici del Nuovo Testamento, osserva che il succo della predicazione di Gesù è "Pentitevi, ché il regno di Dio è vicino". Poiché Gesù non spiega mai questa espressione, bisogna supporre che l'adoperasse nel significato usuale degli Ebrei del suo Tempo.
Possiamo noi sapere come si figuravano gli Ebrei di quella generazione il regno di Dio?
Cent'anni dopo il Reimarus, cent'anni fa, uno studioso italiano, Monsignor Ceriani, scopriva nella Biblioteca Ambrosiana di Milano uno scritto (l'Ascensione di Mosé) il quale fu composto proprio al tempo di Gesù. Questo scritto contiene una descrizione del regno di Dio. Eccola:
E allora comparirà il Suo regno per tutto il Creato.
E allora l'Accusatore avrà fine,
e la tribolazione sarà tolta via con lui.
E saranno empite le mani dell'Angelo
che è stabilito nel sommo dei Cieli,
il quale subito li vendicherà dei loro nemici.
Ché il Celeste sorgerà dal trono del Suo regno
e uscirà dalla Sua santa dimora
con indignazione e ira pei Suoi figlioli.
E la terra tremerà: sarà scossa fino ai suoi confini,
e le montagne saranno abbassate e squassate
e le valli saranno alzate.
E il sole non farà luce
e le corna della luna saranno oscurate e rotte,
e tutta la luna si muterà in sangue,
e l'orbita delle stelle sarà sconvolta,
e il mare cadrà nell'abisso.
Le sorgenti dell'acque si seccheranno
e i fiumi inaridiranno.
Perché il Dio Altissimo, l'Eterno,
il Dio unico si leverà
e si manifesterà per punire le nazioni
e per distruggere i loro idoli.
Allora sarai felice tu, o Israele, 
salirai sul collo e sull'ali dell'aquila
e i giorni del tuo dolore termineranno.
E Dio ti esalterà,
e ti solleverà fino al Cielo delle stelle
al luogo della Sua dimora.
Allora tu guarderai dall'alto
e vedrai i tuoi avversari sulla terra
e li riconoscerai e ti rallegrerai,
e renderai grazie e riconoscenza al Creatore.

Dunque per questo antico poeta il regno di Dio consisteva nella liberazione d'Israele, accompagnata da terremoto, oscuramento del sole, sanguinare della luna, ecc.. Naturalmente non è detto che tutti i Giudei se lo figurassero nell'identico modo, ma è degno di nota che anche nel Nuovo Testamento non manchino accenni alla sperata liberazione di Israele (Marco X, 42-43 = Luca XXII, 25-26; Luca I, 74; Atti I, 6) e a fenomeni simili a quelli suddescritti (Marco XIII, 24-27 e paralleli; Atti II, 18-21; Apocalisse VI, 12-17).
Anche la frase "Venga il tuo regno" ha analogie nelle preghiere ebraiche. Il Kaddish: "Veiamlikh malkhuté" (e regni il suo regno - e seguita: "durante la nostra vita, nei giorni nostri, durante la vita di tutta la famiglia d'Israele.") E l'Amidà (benedizione II): "Fa tornare i nostri Giudici come in antico e i nostri consiglieri come una volta e regna sopra di noi tosto, Tu solo con fedeltà, con misericordia, con rettitudine e con giustizia".
Nell' Antico Testamento il regno di Dio era limitato alla Palestina o esteso a tutta la terra? I versetti Giosuè III, 11; Salmo XCVII, 5 e Zaccaria XIV, 9 forse non sono chiarissimi, perché ha-arez potrebbe significare così "la terra" come "il paese". Ma nel Salmo XLVII, 8 (Dio regna sulle nazioni), nel LXXXII, 8 (tutti i popoli), nel XCVI, 13, nel XCVII, 1 (le grandi isole), nel XVIII, 9 (il mondo, i popoli), il regno è universale. Ed è universale nell'Assunzione di Mosé e nell'Alenu .
Marcione e probabilmente anche l'autore del terzo Vangelo, essendo fedeli sudditi dell'Impero romano, non potevano pregare per la venuta d'un regno diverso. Perciò alla frase sovversiva ne sostituirono una innocua: "Venga il tuo spirito santo su di noi e ci purifichi".
continua........
(Teofilo)
00martedì 15 settembre 2009 11:47
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Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 03/04/2003 13.07
Genhqhtw to qelhma sou, wV en ouranw kai epi ghV. "Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra".
Chi fa la volontà di Dio in cielo? Gli angeli. Lo dice il Salmo CIII, 20-21:
Benedite il Signore, o suoi angeli,
obbedienti al suono della sua parola.
Benedite il Signore, tutti voi, o eserciti suoi,
suoi ministri che fate la sua volontà.
E in terra? I giusti. perché "i giusti conoscono la volontà" (Proverbi X, 32). Il Salmo XL, 8:
Insegnami a fare la tua volontà,
perché tu sei il mio Dio.
E il Salmo CXLIII, 10:
Io mi compiaccio di fare la tua volontà, o mio Dio,
Sì la tua legge è nel mio cuore.
Anche alcune preghiere ebraiche contengono un parallelo fra il cielo e la terra. Il Kaddish: Colui che fa la pace nelle sue altezze, nella sua misericordia conceda la pace a noi e a tutto Israele. E Rabbi Eliezer (verso il 90 dell'E. V.) pregava: Fa' la tua volontà nell'alto dei cieli e dà pace sulla terra a coloro che ti temono (Berakot Tosefta 3, 7). E viene in mente il canto degli angeli "Gloria a Dio nelle altezze e pace in terra agli uomini dei quali Egli si compiaceva" (Luca II, 14).

ton arton hmwn ton epiousion doV hmin shmeron "Dacci oggi il nostro pane epiousion. Questa parola è un "hàpax legòmenon" ed è di incerta interpretazione. Menzionerò le principali congetture.
Alcuni traducono "dacci oggi il nostro pane quotidiano". Bellissima interpretazione, conforme alla preghiera nei Proverbi XXX,8:
Non mi dare nè povertà nè ricchezza
Porgimi il pane che è la mia porzione.
Se non che epiousion non può significare "quotidiano". Quotidiano in greco si dice kathemerinos o ephemeros. Ambedue queste parole s'incontrano nel N. T. (Atti VI,1 e Giacomo II, 15). Perché l'Evangelista, avendo a disposizione due ottime parole usuali, ne avrebbe inventata una terza incomprensibile?

Altri interpreti traducono "per domani". E derivano epiousion da epiousa "il giorno seguente". Abbiamo dunque un'etimologia possibile. E anch'io preferisco il pane un po' raffermo, e la previdenza è raccomandata nella Bibbia (Proverbi VI, 6-8):
Va' alla formica, o pigro;
considera i suoi costumi e sii savio,
la quale... si provvede di pane nell'estate,
e raccoglie il cibo nella stagione delle messi.
Ma non sempre la previdenza fu lodata dagli Ebrei. Rabbi Eliezer (tempo di Domiziano) diceva: "Chiunque ha pane nel paniere e domanda: Che cosa mangerò domani? è un uomo di poca fede" (Sota 48). Pare che anche Gesù la pensasse come R.Eliezer: "Non pensate alla vita vostra, che mangerete e che berrete... Non vi preoccupate dunque per il domani" ( Matteo VI, 25-34) e additava ad esempio gli uccelli del cielo; anziché la formica, tanto ammirata dal poeta dei Proverbi e dal La Fontaine. Perciò è poco verosimile che Gesù consigliasse di chiedere il pane per il giorno dopo (come interpretano i Protestanti).

Altri interpreti derivano epiousion da epi (sopra) e ousia (sostanza) e traducono "soprassostanziale", cioé spirituale, metaforico. Anche quest'immagine del pane spirituale è ebraica. Isaia LV, 1-2:
O voi tutti che avete sete, venite all'acqua.
E voi che non avete denaro, venite, comperate e mangiate.
Perché spendete denaro per cose che non sono pane?
E i vostri guadagni per cose che non saziano?
E nei Proverbi IX, 5 la Sapienza chiama:
Venite, mangiate del mio pane
E bevete del vino che vi ho mesciuto.
E Ben Sira XV, 1-3:
L'uomo che teme il Signore farà questo.
Colui che si attiene alla Torà l'otterrà.
Ella gli verrà incontro come una madre,
come una giovane sposa l'accoglierà.
Lo nutrirà col pane dell'intelligenza
e gli darà da bere l'acqua della dottrina.
In questi versi la Sapienza è probabilmente, per noi Ebrei, la Torà (cfr. Ben Sira XXIV, 22) e il cibo e le bevande sono i suoi frutti salutiferi. Mi par poco verosimile che Gesù pregasse per ricevere la Torà, se di Lui dobbiamo pensare alla Somma Sapienza. Ma le difficoltà principali sono linguistiche. Esiste la parola "soprassostanziale" in aramaico? E supponendo che esistesse, sarebb'essa una definizione esatta della Torà, della Grazia o del soccorso divino chiesto dai primi discepoli? E sarebbe naturale questo termine filosofico in bocca a semplici pescatori di scarsa istruzione? Oltre a ciò, un composto di ousia sarebbe epousion anziché epiousion. Il prefisso epi elide sempre la finale in composizione con la parola che comincia per vocale, a meno che non sia impedito il digamma. Dunque nessuna delle supposte congetture pare accettabile. Non saprei più cosa proporre. Forse un'emendazione del testo. Leggendo epi ousion "per l'esistenza, per la vita" il senso corrererebbe bene. Ousia nel senso di vita, esistenza è documentato in Platone, Sofista 232. (Naturalmente, alla fine, non resta, fino a prova contraria così come illustrata dallo storico Ebreo, il senso Cattolico: l'Eucarestia Cibo di vita eterna che non perisce e che dona l'eternità!)
Si osservi ancora che la presenza di questa parola rarissima così nel testo di Matteo come in quello di Luca dimostra che ambedue derivano da un'unica fonte greca e non sono traduzioni indipendenti dall'aramaico.
continua.......

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Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 03/04/2003 13.17
Kai afeV hmin ta ofeilhmata hmwn, wV kai nmeiV afhkamen toiV ofeiletaiV hmvn "Rimettici i nostri debiti, come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori".
Qui c'è qualche divergenza fra i Vangeli. Matteo ha la parola "debiti", Luca la parola "peccati". La remissione dei debiti ogni sette anni era prescritta dal Deuteronomio XV, 1-11. Ma poiché questa disposizione, adatta per i prestiti caritatevoli dell'età più antica, produceva gravi inconvenienti nelle operazioni commerciali di un popolo più evoluto, Hillel l'aveva abolita pochi anni prima del tempo di Gesù. E' probabile che la predicazione di Gesù e dei primi Cristiani avesse anche un contenuto sociale, che essi non vedessero benignamente i ricchi (Luca VI, 20-26; XVI, 19-31; XVIII, 22-25; Giacomo I, 9-11; II, 5-7; V, 1-6) e che praticassero la comunione dei beni (Atti II, 42-45; IV, 32-37). Ma non pare che rimettessero i debiti. Anzi pare che qualche volta fossero rapaci ed esosi nell'esigerli (Atti V, 1-6).
E poi, quali sono i debiti dell'uomo verso Dio? Non si può certo pregare Dio d'essere esentati dall'adempiere ai comandamenti né d'essere dispensati dai voti. Perciò par meglio intendere i peccati. E' stato osservato che la parola aramaica "hobayya" può valere "debito" e "peccato". Matteo ci dà la traduzione letterale, Luca interpreta e chiarifica per il lettore greco (si deve ricordare tuttavia che le due versioni del Paternostro derivano probabilmente da una fonte comune Q scritta in greco e non sono traduzioni indipendenti dall'aramaico). Vi sono altri passi dei Vangeli (Matteo XVIII, 23-35, Luca VII, 37-39) nei quali i debiti sono figura dei peccati.
Molti precetti dell'A. T. impongono di perdonare i torti ricevuti (Genesi XLV, 4-15; L, 15-21; Esodo XXIII, 4-5; Levitico XIX, 17-18, 34; I Samuele XXV, 28-34; Giobbe XXXI, 29: Salmo XVIII, 24-25; Proverbi XX, 72; XXIV, 29; XXV, 21-22).
Molte preghiere chiedono a Dio di perdonare i peccati degli uomini (Esodo X, 17; XXXII,32; XXXIV, 7-9; Numeri XIV, 19; I Re VIII, 30, 34, 50; Salmi XXV, 11, 18; XXXII, 5; LI, 2; LXXIX, 9; LXXXVI, 3-5; CXXX, Amos VII,2; Daniele IX, 19).
La connessione tra i due concetti s'incontra in Ben Sira XXVIII, 2:
Perdona il torto che ti ha fatto il vicino
E quando pregherai i peccati saranno perdonati.
Sifré sul Deuter. XIII, 18: "Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te".
Si può ricordare anche Luca VI, 36: "Siate misericordiosi, come ancora il Padre vostro è misericordioso".

Kai mh eisenegkhV hmaV eiV peirasmon, si suol tradurre "non c'indurre in tentazione". Ma il Cristiano potrebbe domandare: E' Dio o il Diavolo colui che induce in tentazione? Infatti un antico Cristiano, il quale forse non aveva capito il Paternostro, protesta: "Che nessuno dica, quando è tentato: io sono tentato da Dio. Perché Dio non può essere tentato dal male, né può Egli tentare alcun uomo. Ma l'uomo è tentato quando è sedotto dalle sue voglie." (Epistola di Giacomo I, 13-14). Ma altri osserva che "tentazione" è traduzione inesatta di peirasmon. Il Tommaseo traduce: "Non ci recare in cimento". E il Pernot: "non ci esporre alla prova". Infatti non credo che Gesù alludesse alle tentazioni del bambino che trova la scatola delle caramelle e dell'adulto che trova a portata di mano il denaro della ditta o la moglie del collega. Si tratta di cosa ben più tragica. In tempi di oppressione, di guerriglia, di congiura, coloro che speravano che il regno di Dio sostituisse il dominio romano, erano sempre in pericolo d'essere arrestati, torturati e costretti a rivelare i progetti, a denunciare i camerati, ecc.. Perciò era naturale il timore d'essere esposti alla prova.
Citerei il detto attribuito a Gesù da Origene (In Jerem. hom. lat. XX, 3): "Chi è vicino a me è vicino al fuoco. Chi è lontano da me, è lontano dal regno."
Marcione, la Vetus Latina, S. Cipriano e S. Agostino emendano e traducono: "Non permettere che siamo indotti in tentazione". E il padre Tonna - Barthet: "non ci lasciar soccombere alla tentazione". Ma così si discostano dal testo.

alla rusai hmas apo tou ponhrou "Liberaci dal male-maligno". Gran discussione su questa parola ponhrou. E' maschile o neutro? E' il Maligno o il male? E' vero che il neutro degli aggettivi greci può avere valore di astratto, così che ambedue le traduzioni sono grammaticalmente possibili. Ma non tradurrei col nome astratto "male", il quale in italiano fa pensare a disturbi e malattie. Certo è che  i discepoli non chiedevano d'essere esentati dalle malattie, destino inesorabile dell'uomo. In Genesi II, 9 il male è il peccato. Ma l'Ebreo non aspetta che Dio lo liberi dal peccato, il quale, secondo la dottrina ebraica, dipende dal libero arbitrio dell'uomo. Ma neanche tradurrei "il Maligno", cioè Satana. Satana ha poca importanza nella religione ebraica, che è rigorosamente monoteista. Non conosco preghiere ebraiche che chiedano di esser liberati da Satana, né che chiamino Satana "il Maligno". Mi par meglio tradurre letteralmente: "Liberaci dal malvagio". Infatti la frase è una citazione abbreviata del Salmo CXL: "Liberami, o Signore, dall'uomo malvagio, preservami dall'uomo violento".
S'intende che al tempo del Salmista, il malvagio era il soldato greco e il Giudeo apostata. Al tempo di Gesù il malvagio sarà stato il soldato romano e il Giudeo collaboratore. (Naturalmente l'indicazione cristiana tiene conto poi della Rivelazione).
contunia.......

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Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 03/04/2003 13.24
A conferma di questa interpretazione si può citare Matteo V, 39: mh antisthnai tw ponhrw "Non resistere al malvagio".
Anche qui si tratta dell'uomo malvagio, non di Satana, né delle malattie.
Non v'è contraddizione fra Matteo V 39 e VI, 13. La Palestina era piena di malvagi. Resister loro era follia. Pregare Iddio che liberasse il paese era ovvio.
Anche questo versetto è soppresso da Luca per non dispiacere ai Romani.
Ammirate il bell'ordine del Paternostro; prima l'onore a Dio, secondo il suo regno in terra, terzo i bisogni dell'orante: il pane, il perdono, la pace. Un simile ordine, presso a poco, si trova in alcune preghiere ebraiche.
Alcuni manoscritti del V secolo aggiungono una dossologia
: "Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria in eterno". Ma questa dossologia manca nei manoscritti del IV secolo e perciò i critici la ritengono apocrifa. Si legge tuttavia nella Didaché ed è in tutto conforme all'uso ebraico. Infatti è ispirata dalla preghiera di David in I Cronache XXIX, 11: "Tua, o Signore, è la grandezza; la forza e la gloria e la vittoria e la maestà... Tuo è il regno, o Signore, e Tu sei innalzato come capo sopra a tutti".
Dalla medesima preghiera sarà stata ispirata la dossologia dell'Alenu "Il regno è tuo" e il verso del Cantico delle Creature di S.Francesco: "Tue so' le laude, la gloria e l'onore". Ed è uso ebraico aggiungere "le 'olam va'ed" dopo le lodi a Dio.
Molti critici (Wettstein; Bultmann, Fleg, ecc.) hanno osservato che il Paternostro è composto in gran parte di formule ebraiche. Dice E. F. Scott che chi mira a fare opera eterna deve riattaccarsi al passato. Ma senza negare il valore permanente delle petizioni, bisogna anche riconoscere che sono strettamente connesse con la situazione politica e con le speranze del tempo di Gesù. Pretendereste di capire la Divina Commedia senza conoscere la lingua, la situazione politica, le controversie del tempo di Dante?
Osserva il Bultmann (Jesus Christ and Mythology 1958, pp. 13-14) "La prima comunità cristiana attendeva il regno di Dio nel medesimo senso che l'aveva atteso Gesù. Anch'essa aspettava che il regno di Dio venisse nel futuro immediato. La Cristianità ha sempre conservato la speranza che il regno di Dio venga in un futuro immediato, sebbene abbia aspettato in vano. La speranza di Gesù e della prima comunità cristiana non si avverò. Esiste ancora lo stesso mondo e la Storia continua. Il corso della Storia ha smentito la mitologia".
Con sommo rincrescimento debbo confessare che il Bultmann non ha tutti i torti. Prima che quella generazione fosse discesa tutta nella fossa, venne, non già il Figliol dell'Uomo sulle nuvole e gli angeli con le trombe (Matteo XXIV, 30-34; Marco XIII, 26-30; Luca XXI, 27-32), ma Tito, con le sue stragi e le sue distruzioni. Ma la Storia non finì allora e non è finita ancora. L'impero dei Cesari è caduto. Altri imperi sono sorti e scomparsi. La Palestina è per metà ebraica e indipendente. Questo almeno si è avverato.
Resta da imprimere i comandamenti della giustizia e della carità nei cuori degli uomini. Resta da lavorare per il regno di Dio inteso in modo più conforme alla nostra coscienza moderna. Per questo i Cristiani possono dire "Padre nostro che sei nei cieli" e gli Ebrei possono dire "Abinu shebashamaim." Diranno la stessa cosa. I Cristiani possono dire "Sia santificato il tuo nome" e gli Ebrei "Itkaddash shemeh rabba". E' la stessa cosa. 
I Cristiani possono dire "Venga il tuo regno" e gli Ebrei "Yamlik malkuteh." 
Diranno la stessa cosa.
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