Il cardinale Tomás Spidlík si racconta alla vigilia del suo Novantesimo compleanno

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Caterina63
00martedì 15 dicembre 2009 18:53
Il cardinale Tomás Spidlík si racconta alla vigilia del suo compleanno

Da novant'anni
con lo sguardo verso oriente


di Giampaolo Mattei


"Adesso non dirà e non farà più scherzi" gli sussurrò un collega porporato vedendolo con la veste rossa e l'anello cardinalizio al dito. Nella solenne cornice del concistoro del 2003 Tomás Spidlík non si scompose:  "Eminenza - rispose - stia sicuro che continuerò a dire e a fare soltanto scherzi seri". Ma "ora la Provvidenza - dice - è stata più brava di me a far scherzi, me n'ha fatto uno sorprendente, regalandomi il compleanno più bello":  il 17 dicembre il cardinale Spidlík compirà novant'anni e per festeggiarlo Benedetto XVI celebrerà con lui la messa nella cappella Redemptoris Mater. Un capolavoro nato dalle mani di padre Marko Rupnik e dal pensiero di Tomás Spidlík. Nell'intervista a "L'Osservatore Romano" il cardinale moravo - scelto tra l'altro per tenere la predica ai cardinali riuniti in conclave il 18 aprile 2005 - ripercorre "come in un film" i suoi novant'anni, ricordando incontri e andando al nucleo del suo pensiero. Sempre con il sorriso.

Il suo primo consiglio è che un filo di umorismo non guasta mai.

Scherzare è utile in un'esperienza cristiana autentica e non solo per restare svegli. Lo scherzo è una cosa seria. Razionalismo e tecnicismo assolutizzano ogni affermazione parziale. Lo scherzo la relativizza. La verità non può essere relativa ma dobbiamo tener conto della nostra conoscenza parziale dei misteri. La parola eresia vuol dire prendere una parte per l'intero. Lo scherzo quindi è anche un'arma efficace contro le eresie. E allora iniziamo l'intervista con un episodio scherzoso. Una volta Giovanni Paolo II ha alzato la mano per benedirmi ma io mi sono difeso:  "Santità, non posso più inginocchiarmi". E il Papa:  "Neanch'io". Di qui il mio apoftegma:  "Santità, che fortuna che le nostre debolezze corporali cominciano dalle gambe e non dalla testa". Si è messo a ridere. Oggi spero valga ancora per me.

Non è mica da tutti celebrare i "primi" novant'anni con il Papa. E per di più nella cappella Redemptoris Mater che significa così tanto per lei.

Sempre scherzosamente, stando ai calcoli biblici Dio avrebbe limitato l'età dell'uomo a centoventi anni (Genesi, 6,3) così devo considerare che ho solo trascorso tre quarti della mia vita. Prevedo di passare l'ultimo quarto nella Roma "eterna":  ho almeno trent'anni davanti... A parte gli scherzi, bisogna proseguire aver fiducia nella Provvidenza. Nella vita ci sono momenti per guardare avanti:  è il mattino. Altri momenti per voltarsi indietro:  è la sera. Arrivato alla sera della mia vita, non devo scadere in una proiezione cinematografica di ricordi incoerenti che ingannano, come le cronache superficiali dei programmi televisivi. Mi occorre, invece, uno sguardo contemplativo per comprendere cosa vuole fare ancora la Provvidenza con me.

E cosa vuol fare la Provvidenza con lei?

La mia vita mi ha portato dove neppure immaginavo e solo dopo ho scoperto che lo speravo inconsciamente nel cuore. Per dirne una, mai avrei pensato di festeggiare i miei novant'anni con il Papa e vestito di porpora. Certo non lo immaginavo quando, all'inizio della seconda guerra mondiale, l'irruzione del nazismo ha brutalmente interrotto i miei studi di letteratura all'università di Brno sconvolgendo le mie prospettive. Già allora la Provvidenza ha avuto tanto lavoro con me. Mi è accaduto l'impensabile:  un agente della Gestapo si è trasformato in angelo visibile liberandomi dal campo di concentramento mentre l'angelo custode invisibile mi ha condotto nella compagnia di Gesù. Poi sant'Ignazio ha stabilito per me altre sorprese:  il noviziato a Benesov e a Velehrad, dove è sepolto san Metodio, e lo studio della filosofia mentro ero ai lavori forzati, prima con i soldati tedeschi e poi con quelli russi e romeni.

Sembra un paradosso:  uno dei più noti pensatori che inizia a studiare filosofia ai lavori forzati.

Ho imparato da piccolo a fare sacrifici, mi sono guadagnato da solo i soldi per studiare al liceo nel mio paese natale di Boskovice. Non ho però mai avvertito la sensazione dell'ingiustizia sociale paragonandomi con i ragazzi benestanti. Anzi, ero orgoglioso della mia indipendenza. Con la spensieratezza di un proletario mi sono iscritto all'università e mi è piombata addosso la vera prova:  la guerra.

Nel 1939, da ventenne, come ha vissuto "la vera prova" della seconda guerra mondiale?

Torno, come in un film, ai miei ricordi di settant'anni fa. Precisamente al Natale del 1939, l'ultimo che ho passato con i miei cari. La mia era una famiglia molto povera, da ragazzo però non ne ho mai avuto l'impressione. L'atmosfera di quel Natale del 1939 era triste. Con mio padre e mia madre abbiamo mangiato un pezzo di pane dolce con il caffellatte. In silenzio. Le mie speranze erano sottozero, gli studi universitari spezzati e una sola possibilità per il futuro:  la deportazione. Per non pensarci, ho passato i giorni tra Natale e capodanno pattinando selvaggiamente. Il 31 dicembre la mamma mi ha richiamato all'ordine:  "Vai in chiesa!". Le ho ubbidito più per disperazione che per devozione. E quando il parroco ci ha invitato a cantare il Te Deum "in ringraziamento al Signore per i beni ricevuti durante l'anno", sono rimasto di stucco:  davvero avrei dovuto ringraziare Dio per ciò che mi era accaduto? Ho cantato anch'io il Te Deum, vincendo non poche esitazioni. Proprio nel nuovo anno, il 1940, ho toccato con mano che la Provvidenza ti salva magari attraverso situazioni strane e mai pensate prima, eppure coerenti.

La fine della guerra ha significato per lei lo studio della teologia a Maastricht dove è stato ordinato sacerdote nel 1949.

Solo dopo la guerra ho potuto studiare teologia, andando anche all'estero. Nel 1949, da prete, ero pronto a tornare con le mie nuove idee in patria. Il nuovo regime totalitario comunista non me lo ha permesso. Sembrava un'altra volta tutto perduto. Ma ecco, di nuovo, la Provvidenza all'opera e quella volta si è servita di uno sbaglio "amministrativo":  un mio superiore si è dimenticato di scrivere una lettera e mi sono ritrovato esule a Roma. Insomma la Provvidenza mi ha dato la possibilità di dedicarmi a ciò che di nascosto già desiderava il mio cuore:  lo studio della spiritualità orientale.

Nel 1951 ha iniziato a lavorare alla Radio Vaticana e ancora oggi il venerdì pomeriggio va in onda per commentare le letture della messa domenicale.

Ci sono due possibilità per uno che fa, ogni settimana, lo stesso lavoro alla radio per quasi sessant'anni:  o nessuno lo sta a sentire o gli ascoltatori vogliono sentire sempre le stesse cose. Stando alla mia esperienza, voto per la seconda ipotesi. Ho sempre fatto trasmissioni attingendo ai miei studi sui Padri della Chiesa. La conclusione è che i Padri hanno ancora da dire qualcosa per l'oggi e non sono poi così antichi. Col mio programma ho cercato di aiutare i preti nella predicazione e sotto il comunismo mi dicono fosse un servizio particolarmente utile:  non c'erano né libri né ritiri spirituali.

Lei è il maestro della spiritualità orientale, riconosciuto anche dal mondo ortodosso. Qual è il nucleo del suo pensiero?

Lo si può indovinare simbolicamente proprio nella cappella Redemptoris Mater dove i mosaici cercano di "respirare con due polmoni". Non soltanto gli uomini, ma anche le nazioni hanno una vocazione, per offrire il loro contributo alla Chiesa universale. Ho cercato di indovinare il messaggio cristiano dell'oriente europeo e di prestargli voce in occidente.

Professore universitario per mezzo secolo ma anche padre spirituale per trentotto anni al Pontificio Collegio Nepomuceno. Che esperienza ha vissuto?

Ho sperimentato la distinzione fra un moralista, che conosce le regole della vita spirituale, e un padre spirituale, che deve avere la conoscenza delle persone. Il secondo senza il primo si espone al pericolo di un vago carismatismo. Il primo senza il secondo rimane paralizzato. Come padre spirituale del Collegio ho avuto anche l'opportunità di incontrare persone che oggi porto nel mio cuore come i Papi Pio xii e Paolo VI e il cardinale Josef Beran.

Può parlarci di questi tre incontri?

Quando Papa Pacelli ha ricevuto in udienza i sacerdoti del collegio ero a Roma da poco. Sono rimasto impressionato di come fosse informato fin nei dettagli della triste realtà della Cecoslovacchia. Ha avuto parole di incoraggiamento per noi sacerdoti espulsi dalla nostra patria. Le sue non erano espressioni di circostanza perché ha provveduto subito a regolare il nostro stato giuridico. Saputo che ero il padre spirituale del collegio, Pio xii mi ha dato ottimi consigli pratici su come risolvere certi dubbi sulla vocazione dei candidati al sacerdozio.

E il suo incontro con Papa Montini?

Paolo VI l'ho conosciuto il giorno della morte di Beran, il 17 maggio 1969. Ho vissuto quattro anni nel Collegio accanto al cardinale, espulso da Praga nel 1965, e sono sempre pronto a testimoniare per la sua beatificazione. Poco prima di morire Beran, malato di cancro, ha celebrato la messa nella sua cappella. Colpito da una improvvisa crisi respiratoria, ha chiesto l'estrema unzione. Ero accanto a lui cercando di sostenerlo ma non c'era più nulla da fare. Paolo VI, chiamato dal segretario del cardinale, è entrato nella stanza proprio mentre Beran stava morendo. Mi sono spostato per farlo accostare al letto. Il Papa ha dato un bacio al cardinale sulla fronte. Ho visto Beran morire tra le braccia di Paolo VI. La Provvidenza mi ha messo accanto a loro.

Papi e cardinali, dunque. Ha conosciuto da vicino anche politici?

Con Dubcek e Havel ho discusso di spiritualità ascoltando ciò che di intimo avevano da dirmi. Ma è La Pira l'unico politico con cui ho parlato di spiritualità e cosa pubblica senza fare distinzioni. Ero interessato alle sue esperienze al Cremlino con Krusciov. E posso testimoniare che le sue famose "profezie" erano esatte. Cinque anni prima della primavera di Praga, quando non c'erano segni premonitori, La Pira mi ha detto che sarei presto tornato in patria. E ha specificato proprio "tra cinque anni". Mi sono sembrate le belle parole di un visionario. Gli ho confidato il mio scetticismo. Mi ha risposto che un regime basato sulla negazione dei valori cristiani non può che travolgersi da solo. La Pira ha avuto ragione sia sul crollo del totalitarismo ateo sia sul mio rientro in patria nei tempi da lui "profetizzati".

Nel 1991 lei ha scelto di vivere al Centro Aletti di Roma con padre Rupnik e un gruppo di artisti. Negli anni il Centro è divenuto un luogo di studio della tradizione dell'oriente cristiano in relazione ai problemi del mondo contemporaneo.

Cerchiamo insieme di continuare consapevolmente la tradizione iconografica secondo la quale l'immagine visuale è uguale alle testimonianze di fede dette o scritte. Anzi, ha la precedenza perché rispetta di più il mistero. Viviamo in una società che abbonda di immagini ma nessuno insegna a leggerle. Così spesso mi trovo a spiegare pensieri escatologici del film Nostalgia del regista russo Andrej Tarkovskij, poi tutti vogliono rivederlo. Alla Pontificia Università Gregoriana ho tenuto tanti corsi su come la vita spirituale possa essere letta sulle icone. Il Centro Aletti sta propagando questa "bellezza che salva", una visione teologica dove prevale un approccio simbolico, liturgico.

Tutto questo apre al dialogo ecumenico. Sono note le sue relazioni di amicizia nel mondo ortodosso, tanto che tra i suoi allievi c'è anche il Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli. Qual è oggi lo stato di salute dell'ecumenismo?

Per delinearlo basta forse un episodio. Ero amico del famoso teologo ortodosso Dumitru Staniloae, chiamato il "Rahner romeno". L'ho incontrato l'ultima volta nel 1993 poco prima della morte. Mentre parlavamo è arrivata a casa sua una persona che, meravigliata delle nostre amichevoli relazioni, ci ha chiesto quale fosse "la differenza fondamentale fra gli ortodossi e i cattolici". Non avevamo voglia di discutere ma, cedendo all'insistenza, il teologo ortodosso ha detto:  "In fin dei conti è l'infallibilità del Papa che ci è incomprensibile". Ho risposto:  "Per me non è così incomprensibile, perché sono infallibile anch'io". Staniloae si è fatto serio:  "Non scherziamo su un tema del genere". Ma io di rimando:  "Non scherzo. Credo nell'infallibilità delle mie parole "questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" nella messa o "io ti assolvo" nella confessione". E lui:  "Ma questa è l'infallibilità della Chiesa!". "È ciò che vogliamo dire - ho confermato - anche con il dogma dell'infallibilità del Papa". Staniloae ha concluso:  "Se il problema si affrontasse così sarebbe più facile da discutere".

Qual è stato il suo rapporto con Giovanni Paolo II, il primo Papa slavo?

Mi ha persino creato cardinale, credo per dare più visibilità alla spiritualità orientale. Ho conosciuto Giovanni Paolo II da vicino nel 1995, durante gli esercizi spirituali quaresimali che mi ha chiesto di predicare in Vaticano. La decisione di fare la cappella Redemptoris Mater è venuta immediatamente dopo. Ci siamo poi incontrati prima dei suoi viaggi nell'Europa dell'est o quando stava per prendere posizione nel campo della spiritualità orientale.

Com'è nata in Giovanni Paolo II l'idea di un'Europa spiritualmente unita che deve tornare a respirare con i suoi due polmoni, orientale e occidentale?

Papa Wojtyla ha fatto propria l'espressione "respirare con due polmoni" del pensatore russo Vjaceslav Ivanov. A sua volta, Ivanov ha utilizzato questa espressione nel 1926 al momento della sua riconciliazione pubblica con la Chiesa cattolica nella basilica di San Pietro.

C'è dunque un pensatore russo in un caposaldo del Pontificato di Wojtyla?

Ivanov, specialista di filologia e storia antica laureato a Berlino con il celebre Mommsen, non si capacitava che tutte le grandi culture del passato finissero nei musei. Ma come si salva una cultura? L'unico sistema è radicarla in Cristo. E Ivanov ha percepito questa intuizione anche a proposito delle diverse tradizioni ecclesiali. Unirle a Cristo vuol dire farle vivere nella comunione e non separate, isolate. Ciò che appartiene a Cristo è di tutti e contribuisce a far muovere il cuore verso di Lui. Così possiamo "respirare con due polmoni". È esattamente quello che anch'io cerco di fare da novant'anni.


(©L'Osservatore Romano - 16 dicembre 2009)
Caterina63
00giovedì 17 dicembre 2009 15:16
Alle ore 7.30 di questa mattina, nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI ha presieduto la Celebrazione eucaristica con la Comunità del Centro "Aletti" di Roma, in occasione del novantesimo compleanno del Cardinale Tomáš Špidlík, S.I.

Di seguito riportiamo il testo dell’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Santa Messa:


OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari amici,

con l’odierna Liturgia entriamo nell’ultimo tratto del cammino dell’Avvento, che esorta ad intensificare la nostra preparazione, per celebrare con fede e con gioia il Natale del Signore, accogliendo con intimo stupore Dio che si fa vicino all’uomo, a ciascuno di noi.

La prima lettura ci presenta l’anziano Giacobbe che raduna i suoi figli per la benedizione: è un evento di grande intensità e commozione. Questa benedizione è come un sigillo della fedeltà all’alleanza con Dio, ma è anche una visione profetica, che guarda in avanti e indica una missione. Giacobbe è il padre che, attraverso le vie non sempre lineari della propria storia, giunge alla gioia di radunare i suoi figli attorno a sé e tracciare il futuro di ciascuno e della loro discendenza. In particolare, oggi abbiamo ascoltato il riferimento alla tribù di Giuda, di cui si esalta la forza regale, rappresentata dal leone, come pure alla monarchia di Davide, rappresentata dallo scettro, dal bastone del comando, che allude alla venuta del Messia.

Così, in questa duplice immagine, traspare il futuro mistero del leone che si fa agnello, del re il cui bastone di comando è la Croce, segno della vera regalità. Giacobbe ha preso progressivamente coscienza del primato di Dio, ha compreso che il suo cammino è guidato e sostenuto dalla fedeltà del Signore, e non può che rispondere con adesione piena all’alleanza e al disegno di salvezza di Dio, diventando a sua volta, insieme con la propria discendenza, anello del progetto divino.

Il brano del Vangelo di Matteo ci presenta la "genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo" (Mt 1,1), sottolineando ed esplicitando ulteriormente la fedeltà di Dio alla promessa, che Egli attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro e, come per Giacobbe, talora attraverso vie tortuose e impreviste. Il Messia atteso, oggetto della promessa, è vero Dio, ma anche vero uomo; Figlio di Dio, ma anche Figlio partorito dalla Vergine, Maria di Nazaret, carne santa di Abramo, nel cui seme saranno benedetti tutti i popoli della terra (cfr Gen 22,18).

In questa genealogia, oltre a Maria, vengono ricordate quattro donne. Non sono Sara, Rebecca, Lia, Rachele, cioè le grandi figure della storia d’Israele. Paradossalmente, invece, sono quattro donne pagane: Racab, Rut, Betsabea, Tamar, che apparentemente "disturbano" la purezza di una genealogia. Ma in queste donne pagane, che appaiono in punti determinanti della storia della salvezza, traspare il mistero della chiesa dei pagani, l’universalità della salvezza. Sono donne pagane nelle quali appare il futuro, l’universalità della salvezza. Sono anche donne peccatrici e così appare in loro anche il mistero della grazia: non sono le nostre opere che redimono il mondo, ma è il Signore che ci dà la vera vita.

Sono donne peccatrici, sì, in cui appare la grandezza della grazia della quale noi tutti abbiamo bisogno. Queste donne rivelano tuttaviauna risposta esemplare alla fedeltà di Dio, mostrando la fede nel Dio di Israele. E così vediamo trasparire la chiesa dei pagani, mistero della grazia, la fede come dono e come cammino verso la comunione con Dio.La genealogia di Matteo, pertanto, non è semplicemente l’elenco delle generazioni: è la storia realizzata primariamente da Dio, ma con la risposta dell’umanità. È una genealogia della grazia e della fede: proprio sulla fedeltà assoluta di Dio e sulla fede solida di queste donne poggia la prosecuzione della promessa fatta a Israele.

La benedizione di Giacobbe si accosta molto bene all’odierna felice ricorrenza del 90.mo compleanno del caro Cardinale Špidlík. La sua lunga vita e il suo singolare cammino di fede testimoniano come sia Dio a guidare chi a Lui si affida. Ma egli ha percorso anche un ricco itinerario di pensiero, comunicando sempre con ardore e profonda convinzione che il centro di tutta la Rivelazione è un Dio Tripersonale e che, di conseguenza, l’uomo creato a sua immagine è essenzialmente un mistero di libertà e di amore, che si realizza nella comunione: il modo stesso di essere di Dio.

Questa comunione non esiste per se stessa, ma procede – come non si stanca di affermare l’Oriente cristiano – dalle Persone divine che liberamente si amano. La libertà e l’amore, elementi costitutivi della persona, non sono afferrabili per mezzo delle categorie razionali, per cui non si può comprendere la persona se non nel mistero di Cristo, vero Dio e vero uomo, e nella comunione con Lui, che diventa accoglienza della "divinoumanità" anche nella nostra stessa esistenza. Fedele a questo principio, il Cardinale Špidlík ha intessuto lungo gli anni una visione teologica vivace e, per moltiaspetti, originale nella quale confluiscono organicamente l’Oriente e l’Occidente cristiani, scambiandosi reciprocamente i loro doni.

Il suo fondamento è la vita nello Spirito; il principio della conoscenza: l’amore; lo studio: un’iniziazione alla memoria spirituale; il dialogo con l’uomo concreto: un criterio indispensabile, e il suo contesto: il corpo sempre vivo di Cristo, che è la sua Chiesa. Strettamente legata a questa visione teologica è l’esercizio della paternità spirituale, che il Cardinale Špidlík ha costantemente svolto e continua a svolgere. Oggi, potremmo dire che si raduna attorno a lui, nella celebrazione dei Divini Misteri, una sua "piccola discendenza" spirituale, il Centro Aletti, che vuole raccogliere il suo prezioso insegnamento, facendolo fruttificare con nuove intuizioni e nuove ricerche, anche attraverso la raffigurazione artistica. In questo contesto, mi sembra particolarmente bello sottolineare il legame tra teologia ed arte scaturito dal suo pensiero.

Ricorrono infatti dieci anni da quando il mio venerato e amatopredecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, ha dedicato questa Cappella, la Redemptoris Mater, affermandoche "quest’opera si propone come espressione di quella teologia a due polmoni dalla quale può attingere nuova vitalità la Chiesa del terzo millennio". E continua il Papa:"L’immagine della Redemptoris Mater, che campeggia nella parete centrale pone davanti ai nostri occhi il mistero dell’amore di Dio, che si è fatto uomo per dare a noi, esseri umani, la capacità di diventare figli di Dio… (E’ il) messaggio dellasalvezza e di gioia che Cristo, nato da Maria, ha portato all’umanità" (Insegnamenti XXII, 2 [1999], p. 895).

A Lei, caro Cardinale Špidlík, auguro di vero cuore l’abbondanza delle grazie del Signore, perché continui ad illuminare con sapienza i Membri del "Centro Aletti" e tutti i suoi figli spirituali. Continuando la Celebrazione dei Santi Misteri, affido ciascuno alla materna protezione della Madre del Redentore, invocando dal Verbo divino, che ha assunto la nostra carne, la luce e la pace annunciata dagli Angeli a Betlemme. Amen

[01897-01.01] [Testo originale: Italiano]

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