In manos tuas commendo vitam meam. (Nelle tue rimetto la mia vita)

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Caterina63
00martedì 30 giugno 2009 14:44
Se vogliamo seguire veramente Benedetto XVI e dirci "papisti" nel termine più vero e più bello che la Tradizione ci insegna, facciamo nostro quanto segue....

Il viaggio di Benedetto XVI nel cuore dell'oscurità

di Mauro Bontempi - estate 2008

 L’umanità si interroga da sempre sul “senso della vita”.
 
Molti lo hanno ritenuto intrinseco nell’esistenza stessa. Non è solo il caso degli edonisti o dei materialisti di ogni epoca e credo politico. Forgiate nella fucina della memoria, le grandi gesta hanno ottenuto l’alloro dell’immortalità. La corporeità delle azioni umane non è destinata alla morte se riesce a guadagnarsi il passaporto dell’immortalità. Lo scopo del vivere umano, secondo questa nobile visione, consiste, come nei Sepolcri di Foscolo, nel rendere immortale la propria anima. Guadagnarsi l’eternità dopo la morte con gesta eccezionali durante la vita.

Ciò che si rileva è, ultimamente, la perfezione del proprio personaggio.
Se l’errore o l’insuccesso può allontanare il traguardo, una condotta di vita normale o ordinaria nega del tutto il raggiungimento dell’immortalità. Da oltre duemila anni i Cristiani obiettano a tale teoria: è questa la sola immortalità? Può essere immortale una presenza legata all’umano? Può essere immortale una memoria destinata a perire col passare del tempo e degli uomini? La risposta cristiana alla ricerca dell’origine e del significato dell’esistenza umana è semplice e “logica”. La vita non spiega se stessa, non totalmente, almeno. Perché vi sia vera immortalità e vero senso della propria esistenza, deve esserci un’origine esogena. La luce che illumina l’esistenza dell’uomo è “fuori campo”. Come a teatro, un attore che recita al buio può attirare l’attenzione per qualche istante ma alla fine sarà subissato di fischi. Simile o peggior trattamento se il grande interprete, pur sotto una luce ottimale, rimanesse fermo e immobile per due ore al centro del palcoscenico. Il gesto e la luce sono strettamente correlati, ma, indubbiamente, il primo è subordinato all’esistenza del secondo.

La fonte di illuminazione giustifica e dà significato allo svolgimento stesso del gesto, qualunque sia: ampio, rapido, eclatante o semplice. Non tutti coloro che si alternano sul palco della vita hanno questa consapevolezza. Il vero dramma dell’esistenza non è quindi il dolore ma l’incapacità di vedere una luce che illumina la vicenda umana. Tutto si consuma al buio.

L’uomo, abbandonato a se stesso, affronta la propria esistenza da solo, nel silenzio dell’oscurità.

Rispettando una tradizione ormai consolidata del Pontificato, Benedetto XVI è intervenuto lo scorso 9 giugno all’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma. Il tema scelta quest’anno, “Gesù è risorto: educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza”, ha permesso al Papa di tornare alla sua seconda enciclica: la “speranza che trasforma e sorregge la nostra vita” (Spe Salvi, 10).

Di false certezze la società contemporanea è assai ricca, ma non certo della vera speranza. La speranza, sembra un paradosso, è più impegnativa di una certezza “contabile”. Quando questa comincia a mancare o scarseggia, “prevalgono atteggiamenti di sfiducia e rassegnazione, che contraddicono non soltanto la ‘grande speranza” della fede, ma anche quelle ‘piccole speranze che normalmente ci confortano nello sforzo di raggiungere gli obiettivi della vita quotidiana. È diffusa cioè la sensazione che, per l’Italia come per l’Europa, gli anni migliori siano ormai alle spalle e che un destino di precarietà e di incertezza attenda nel nuove generazioni”.

Non sono più i tempi del cosiddetto boom economico. Il saggio d’incremento del PIL è pari quasi allo zero. Meno agi, meno lusso, meno “tempo libero” da impiegare in divertimenti, legittimi spesso ma di sovente ingannevoli. Una vita più monotona e infelice nella quale, prima o poi, piomba la realtà della malattia, della sofferenza e della morte.

Come può l’uomo uscirne integro e vittorioso se Dio è stato messo sino a quel momento “tra parentesi”, avendo organizzato “senza di Lui la vita personale e sociale? “Quando Dio è lasciato da parte - ricorda Benedetto XVI - nessuna della cose che veramente ci premono può trovare una stabile collocazione, tutte le nostre grandi e piccole speranze poggiano sul vuoto”. Il credente deve rispondere con il triplice motto: “Fiducia, tenacia e coraggio”.   Sorriso

È questa la consegna del Papa ai cattolici, i quali, con atteggiamento di “umiltà non possono pretendere di avere sempre successo, o di essere in grado di risolvere … con le proprie forze” i problemi e i fallimenti della vita perché ogni uomo “sa che il suo operare e la sua storia nel suo insieme sono custoditi nel potere indistruttibile dell’amore di Dio”.

In manos tuas commendo vitam meam.

Un tale atto di fede, non sempre spontaneo nei momenti felici, è quasi inconcepibile di fronte alla prova. Fermo restando, ricorda il Papa citando la Spe Salvi, che è necessario “fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza”, essa, d’altro canto, “educa e fortifica a titolo speciale la nostra speranza”. La creatura prediletta di Dio ha il diritto di ricercare e difendere la (vera) felicità ma deve sentire anche l’incapacità di potere “eliminare del tutto la sofferenza dal mondo”: l’uomo, secondo l’efficace metafora di Benedetto XVI, non ha il potere di “prosciugare le fonti” della sofferenza. “Non la fuga davanti al dolore guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e di maturare in essa, trovandovi un senso mediante l’unione a Cristo”.

Aprendo l’anno paolino, il Pontefice è tornato su questo concetto quasi a volere tenere alta l’attenzione dei fedeli su questo punto, arduo e tutt’altro che scontato. Durante l’omelia per i vespri dei Santi Pietro e Paolo, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, il Papa ha usato parole forti: “In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore”.

Ecco il senso della vita. Ecco il mistero svelato della eterna felicità. Ecco il mistero di fede racchiuso nell’Eucaristia, la cui assunzione concede all’uomo “il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera”.


Caterina63
00sabato 18 luglio 2009 18:36
Il discorso del patriarca di Venezia per la festa del Santissimo Redentore

Il dolore umano
e il silenzio dell'abbandono


Da oltre quattro secoli in occasione della festa del Redentore, celebrata la terza domenica di luglio, migliaia di veneziani e non solo attraversano in pellegrinaggio il canale della Giudecca sul ponte votivo di barche - realizzato apposta ogni estate - per sciogliere l'antico voto:  ringraziare Dio per la liberazione dalla terribile  peste  che colpì Venezia nel 1576 e affidargli nuovamente la città. Ogni anno in questa occasione il patriarca di Venezia propone il  suo  "Discorso del Redentore", una riflessione articolata su un tema  che,  suscitato dall'origine religiosa della festa veneziana, si incarna nella vita quotidiana e tocca le domande profonde dell'uomo. Quest'anno il discorso - che pubblichiamo quasi integralmente - ha per tema "L'umana sofferenza e l'opera del Redentore". Il testo integrale è disponibile in rete (www.angeloscola.it ).

di Angelo Scola

Far memoria, dopo più di quattro secoli, dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la nostra città verso la fine dell'estate del 1576, è più che mai ragionevole. Ha lo spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest'anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza. La loro presa feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l'urto della realtà:  dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio.

Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica, del tremendo carico di sofferenze e di morte causato da guerre, terrorismo e repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità spesso connesse col degrado ecologico...Ma nessuno di questi mali morde la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor più di noi stessi.
Personalmente sono stato provocato a mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle parole, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari.


(...)Vogliamo qui limitarci a riflettere un poco sull'immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l'umanità nel suo insieme, ma sempre nella carne dei singoli, deve sopportare. Se - come diceva Agostino - ogni uomo in quanto tale è "una grande domanda" ("magna quaestio"), al cuore della domanda-uomo sta l'interrogativo sulla sofferenza e sul dolore.


"Gli scaffali della farmacia umana"

Con questa colorita espressione Balthasar descrive i principali tentativi umani di affrontare l'angoscioso interrogativo del dolore e della sofferenza. Nella sua analisi prende anzitutto in esame due categorie apparentemente opposte, ma in realtà accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario:  il "disfattismo" e la "ribellione". Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo  subito  che intendo limitarmi  a  coglierne la  radice  antropologica senza esprimere giudizi sulle singole persone. 
Gesù Il "disfattismo" è obiettivamente alla base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o "assistito", come si dice a proposito di talune pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria "resa davanti ad un eccesso di sofferenza, pensando così di liberarsene" (Balthasar). Il cuore dell'uomo percepisce immediatamente l'estrema fragilità di tale posizione. Anche nel caso, talora richiamato, del suicidio di certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, "il peccato per eccellenza". Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e con premeditazione, non si offre la vita. La si sottrae a se stessi. Inoltre una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo che non mette in conto la sofferenza arrecata ad altri.
 
La seconda posizione, la "ribellione", è autocontraddittoria. Per finire non identifica nessuna persona contro cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può chiamare in causa Dio, l'umanità o il male radicale, in realtà si riduce ad una rivolta per la rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore, nell'illusione di farlo tacere.

Altra è la posizione di chi non si ferma sul soggetto che soffre, ma si impegna per una riduzione progressiva del dolore nell'orizzonte di un più generale progetto di miglioramento del mondo:  un nuovo umanesimo in grado di riconciliare l'uomo con la natura (Marx), il passaggio dal nulla all'essere (Bloch), dalla bestialità alla vera umanità (Teilhard de Chardin). Un caso particolare è quello di Nietzsche per il quale il dolore esalta la "natura bellicosa dell'uomo" preparando il superuomo. Ma la battaglia contro il male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede?

Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l'uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti.

In questa prospettiva tragedie come quelle dell'Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scandalo), perché svelano il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura e angoscia. (...)

La sofferenza radicale di Gesù

(...)La Sacra Scrittura illumina aspetti importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro della Genesi) senza però preoccuparsi di fornire una teoria risolutiva al riguardo. Si limita per lo più a descrivere in vario modo l'esperienza che il credente vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio per la purificazione della propria fede. "Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano suo zio materno". Così il Libro di Giuditta (8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale, sostiene che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro che gli stanno vicini. Così nella Prima Lettera di Pietro (1, 7), in quella agli Ebrei (12, 6) e nell'Apocalisse (13, 19).

Ma all'uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male da parte di Dio può bastare?

Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l'esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato "l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto" (Lettera agli Ebrei 5, 8-9) ha attuato un'opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo "la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza" (Cicely Saunders).
Nell'opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di croce ha fatto un'esperienza irrepetibile di dolore morale:  l'abbandono da parte del Padre.

Il grido del Salmo 22 - "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15, 34) - è quello del Figlio, cui il Padre era ben noto. Legato al Padre nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò tuttavia di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente definitiva, dal Suo Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole estreme:  "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (Seconda lettera ai Corinzi 5, 21). Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece l'esperienza del dolore e della sofferenza più radicale:  la perdita dell'Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione.

Si intravvede l'abisso del misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo Spirito Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo "allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi" dei Due (Balthasar). Ora "nel silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza". Di ogni umana sofferenza.

Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente - sponte, dice sant'Anselmo -. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l'umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più contrario all'innocenza di Gesù quanto l'espiare (purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il "Puro" in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte e il peccato in nostro favore.

Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza:  per l'uomo è impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l'uomo che compie ingiustizia viene restaurato nella sua dignità tramite l'espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore.

La fecondità dell'umana sofferenza

(...)"Perché mi hai abbandonato?":  una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una domanda senza risposta, perché anche il silenzio è una risposta. Non è forse l'esperienza preponderante che ciascuno di noi fa di fronte alla sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa dire.
(...)Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore attraverso una teoria più brillante delle altre, ma ha compiuto un'opera di totale immedesimazione nella sofferenza, illuminandone il significato profondo:  la collaborazione alla Sua redenzione del mondo. Per quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa infastidire la nostra sensibilità post-moderna, non possiamo negare questa realtà. Don Gnocchi, che sarà fra poco proclamato Beato, condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore innocente - quello che più ci tenta di ribellione contro Dio, in un celebre scritto, racconta come i suoi mutilatini, una volta resi partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte risurrezione.

La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente l'accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione con la sua, espiare in modo vicario. San Paolo osa scrivere ai cristiani di Colossi:  "Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Lettera ai Colossesi 1, 24).

Qualche settimana fa un padre, parlando del figlio dodicenne appena morto in un incidente stradale, poteva dire:  "Non è vero che Dio dà e toglie; Dio dona sempre". Qui siamo scesi in profondità, ben oltre la tesi della pura permissione del male.
Questa consapevolezza non rinuncia all'indefesso impegno teso a combattere la sofferenza umana, ma - come mostrano le plurisecolari opere di carità cristiana - sprigiona una creatività non utopica.

Per una cura integrale

Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica dell'incarnazione propria della fede cristiana a considerare il nostro comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso, davanti a queste situazioni-limite, ci smarriamo e sembriamo incapaci di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una fragilità personale nel portarle, quanto piuttosto a una mancanza di chiarezza nel valutarle.
Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli terminali. Sollevano questioni scottanti che sono, tra l'altro, proprio in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al disegno di legge sul fine-vita e a quello sulle cure palliative.

Vista nel quadro delle considerazioni svolte, l'esperienza dell'uomo provato dalla malattia e dalla disabilità, con l'inevitabile carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull'azione terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l'intervento lenitivo della sofferenza è proposto all'interno di una visione integrale dell'uomo.
Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia ("L'uomo nella prosperità non comprende, è come un animale che perisce" ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non sono separabili, come si è visto, da una domanda di significato.

La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte, senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell'economia della vita umana.
Non pare falsificabile la convinzione, maturata da molti esperti, che quello che comunemente si chiama "stato vegetativo" non sia una malattia, ma la più grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai sempre più sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare terapia medica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere:  l'acqua, il cibo, la mobilizzazione, l'igiene, la relazione e un ambiente disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo, quindi, non ha bisogno di straordinarie apparecchiature di supporto delle funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è in grado di assolvere da solo:  igiene, movimenti, deglutizione (quindi alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle situazioni, di grande difficoltà diagnostica, e interroga molto profondamente sulla dignità della persona umana e sul mistero del suo essere.

Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta. Inoltre gli esperti che hanno coniato il termine "stato vegetativo" a proposito della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria "non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico".
La cura della persona in questo stato è, allora, una presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se a elevato impegno umano e assistenziale. Pur consapevole delle forti improbabilità di ripresa, sa accompagnare sempre il paziente, senza mai cadere negli opposti eccessi di un accanimento o di un abbandono.
La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni casi, consente di ottenere risultati sorprendenti e assolutamente inattesi come il recupero stabile della coscienza e la capacità di alimentarsi per via orale fino al rientro al domicilio.

Secondo gli esperti un "caso" assai diverso è quello dei cosiddetti "malati terminali", ad esempio quelli affetti da sclerosi laterale amiotrofica (Sla). È proprio questo l'ambito in cui si aprono gli interrogativi sui presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia.
Visitando taluni di questi ammalati, mi è sorta una domanda:  non siamo piuttosto noi sani a chiedere la "morte degna", mentre i malati chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita degna fino all'ultimo istante, fatta di quello che caratterizza l'uomo:  la capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non abbandono, di qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte le sue fasi e in tutti i suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente terminale come quando ho visto tre figli - di 8, 10 e 11 anni - accudire un padre quarantottenne malato di Sla in grado di comunicare solo con le palpebre.

Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative. La moderna definizione di tali cure, data dalla "European Association for Palliative Care", recita:  "Le cure palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria...Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine". "Inguaribile", infatti, non è sinonimo di "incurabile".

Questa definizione appare improntata al più grande realismo. Di essa devono tener particolare conto i curanti, dal momento che non pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo dall'atteggiamento degli operatori sanitari e dei familiari nei confronti della vita, della malattia e soprattutto dell'ammalato.

Leggi giuste

Tra i fattori che influenzano in modo sostanziale le scelte della persona - sia perché impongono divieti e riconoscono diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità - va annoverato il contesto normativo di un Paese. Per questo il legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente giuste.
A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat), sento la responsabilità di invitare il legislatore a garantire quei principi irrinunciabili più volte richiamati dalla Conferenza episcopale italiana. Nello stesso tempo il pronunciamento legislativo sulle cure palliative deve essere al più presto attuato e dotato di tutti i mezzi finanziari perché siano capillarmente praticabili nel nostro Paese. Risorse economiche adeguate vanno investite anche nella normale terapia del dolore.

"Nel dolore lieti"

Dolore e sofferenza, nel loro carattere misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato al cuore dell'amore trinitario che si è coinvolto con questa condizione-limite dell'uomo. In Cristo Gesù siamo resi capaci della paradossale ma umanissima esperienza vissuta da san Paolo:  "Nel dolore lieti" (cfr Seconda lettera ai Corinzi 6, 10) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini. Per questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell'accompagnamento, ma - soprattutto - educazione al gratuito, all'amore come dono totale di sé. Questa è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone sono vicine ai malati, ai moribondi, agli angosciati che hanno perso tutto, ai troppi provati dalla miseria e dalla fame. L'oceano di carità che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di quell'eloquente silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile risposta al nostro grido di desolazione.

Ma, soprattutto, sono l'offerta di sé e la preghiera semplice (Santo Rosario) di quanti sono vittime del dolore di qualunque genere ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata e non trattenuta. (...)In quest'ottica l'accettazione dei mali fisici e il pentimento per il male compiuto sono alla nostra portata. Perfino la nostra stessa morte può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo della prosperità e del benessere la si guarda come autentico dono di sé. Lo sapevano bene i nostri vecchi, usi a recitare la preghiera dell'"Apparecchio alla buona morte".

Il mistero del dolore e della sofferenza sta inesorabile davanti a ciascuno di noi, ma il suo valore è già fin d'ora custodito nel nucleo incandescente dell'amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata, quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di noi li assuma quotidianamente nell'orizzonte dell'autentico amore di Dio, degli altri e di se stesso.


(©L'Osservatore Romano - 19 luglio 2009)

Caterina63
00sabato 27 marzo 2010 19:45

La Sindone, il Servo concepito e la sua Serva


Domenica delle Palme, 28 marzo 2010


 

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 26 marzo 2010 (ZENIT.org).- “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso” (Is 50,6-7).

“Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: ‘Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finchè essa non si compia nel regno di Dio’” (Lc 22,14-16).

“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,5-8).

La Bibbia “Via, Verità e Vita” da’ un nome al “Terzo carme del Servo” (Is 50,4-7), che introduce oggi la Passione del Signore, lo intitola: “Il dolore scritto sul corpo”.

Una scrittura che diventa presto più drammatica: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire,..trafitto..schiacciato..per le sue piaghe noi siamo stati guariti.(…) Gli si diede sepoltura con gli empi..” (Is 52,13-15; 53,1-12).

Tutte queste parole profetiche furono scritte all’incirca cinque secoli prima che quel volto di Gesù cui fu strappata la barba, percosso e umiliato, svergognato e disprezzato sputandogli in faccia; quel volto che fu schiacciato a terra dal peso della croce; quel volto e quel dorso presentato  docilmente ai flagellatori accaniti, rimanessero impressi per sempre nel sudario da cui fu avvolto il cadavere del Signore.

La Sindone non è solamente un lenzuolo che ammutolisce ogni considerazione, è una Parola eloquente da ascoltare: quella “Parola della croce” il cui enigma scientifico Paolo ha interpretato così: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti” (1 Cor 1,18-19).

Forse a compiere il pietoso gesto di avvolgere il corpo di Gesù nella Sindone è stata anche sua madre Maria, la quale mentre “stava presso la croce” (Gv 19,25) certamente ricordava quando, a Betlemme, stava avvolgendo in fasce quello stesso corpo del Figlio ora denudato e straziato dinnazi ai suoi occhi (Lc 2,7). Così le due fasce, pur richiamando momenti opposti ed estremi quali il nascere e il morire, sono il simbolo unificante dell’intera esistenza di Gesù, per il quale l’incarnazione fu, sin dal primo istante del concepimento, “kenosi”, svuotamento di sé (Fil 2,6-8).

Lo aveva già anticipato Isaia definendo così il Servo del Signore: “uomo dei dolori che ben conosce il patire” ( Is 53,3). Quanto è significativa questa piccola parola: “ben”! Sembra voler dire: lo conosce fino in fondo! Lo conosce ben più di quello che potete immaginare! Lo conosce per esperienza in tutta l’amarezza, l’orrore, la ribellione della natura, lo conosce come scandalo di fronte a Dio, suo Padre.

Ma “ben” va molto più in profondità: conoscere il patire anche nella sua nascosta, paradossale dolcezza, purissimo distillato che solo dall’amore può scaturire, come scrive il santo carmelitano Giovanni della Croce: “Più la sofferenza è pura, più procura una conoscenza intima e pura e, di conseguenza, una gioia più pura e sublime, perché nasce da un più intimo sapere” (“Cantico Spirituale” B, strofa 36,12).

A tale soprannaturale “sapienza” fanno pensare queste parole di Gesù: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,..”(Lc 22,15). Sì, da un lato Gesù ben conosce la forza travolgente del dolore sulla volontà, la devastazione che opera nell’anima, l’abbruttimento inferto dalla sofferenza alla dignità della persona, ed anche il suo potere di scuotere le fondamenta della fede fino al crollo; ma insieme il Signore sa’ che il dolore non è in contraddizione profonda con la vita, anzi: esso è perfino desiderabile (come una madre incinta desidera il travaglio del parto), per la sua fecondità redentrice e per il frutto buono che genera nei cuori miti ed umili come quello di Gesù: il frutto beato dell’unione d’amore con Dio.

Ecco, io credo che sia anche questa solidarietà umana e divina il motivo per il quale ogni ostensione della Sindone registra un successo senza precedenti.

L’umanità del 2010 sembra sprofondare sempre più nel baratro diabolico del relativismo e dell’indifferenza, i cui frutti sono: ateismo, violenza, perversione morale, superbia, spaventoso egoismo.., e le indicibili sofferenze patite anche dagli innocenti: è “il peccato del mondo”, che l’Agnello di Dio, l’Innocente, ha portato e continua a portare su di sè (come la Sindone “dimostra”).

E sembra essere proprio questa sofferenza totale l’obiezione più formidabile all’esistenza e alla bontà di Dio, mentre costituisce anche il contro-argomento “vincente” da opporre circa il valore assoluto ed incondizionato della vita umana.

Ma, in realtà, vivere “come se Dio non ci fosse” è il supplizio personale più terribile ed intollerabile che ci sia in questo mondo, è l’inferno stesso dentro l’anima, poichè  Dio ha creato l’uomo come un’insopprimibile nostalgia di Sé.

Perciò l’Uomo della Sindone, nella sua “se-ducente” misteriosità, fa intuire di possedere il segreto più decisivo di tutti, quello che il cuore umano non cessa mai d’indagare e che solo la fede rivela: il segreto della vita! E il segreto della vita è l’uomo della Sindone, Cristo, “via, verità e vita” di ogni uomo (Gv 14,6).  

La verità della vita e del dolore umano non è una dottrina, ma un Volto da cercare  con l’impegno costante e l’inesausto desiderio con cui scrutiamo l’enigma dell’immagine sindonica. La Sindone, non è una semplice reliquia naturale che permette solamente di fare memoria del Crocifisso risorto, ma è la sua reliquia soprannaturale, quasi “memoriale” efficace della sua Presenza, che agisce tramite la fede.

Ho cercato nel Vangelo dell’Annunciazione, per vedere se vi trovavo la Sindone, come nel Vangelo della nascita l’ho incontrata nelle fasce con cui Maria avvolge il figlio neonato, ed ho visto che Gesù, al concepimento, si trovò avvolto dal grembo di Maria, la quale rispondendo all’Angelo si definì “Serva del Signore” (Lc 1,38).

Ora, dato che sin dal concepimento il Verbo divino “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Fil 2,7), possiamo pensare che in questo istante, nel quale l’essere di Maria venne ontologicamente mutato dalla grazia della sua divina maternità, molto più che in un lenzuolo Gesù concepito impresse, in colei che lo avvolgeva con il suo corpo, il proprio volto di “Servo del Signore”. Riconosciamo allora in Maria la viva “Sindone” del Verbo incarnato, com’ella sembra autorizzarci a concludere con l’affermazione: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38).

Giovanni Paolo II ha detto che l’Eucaristia, essendo il medesimo Corpo di Cristo che nacque dalla vergine Maria, reca in sé la fragranza della carne di lei, della sua persona. Ora se la creatura ha potuto lasciare impressa nel Creatore la sua impronta umana, molto di più si può ritenere che il Creatore ha impresso Se stesso nella creatura Maria nel momento in cui fu concepito nel grembo che lo avvolgeva.  Maria, dunque, nella sua persona ricevette la forma-impronta ontologica del Servo del Signore, suo figlio, e divenne la Serva del Signore, sua madre.

Di tutto ciò sembra darci conferma Giovanni nell’Apocalisse, quando descrive il “segno grandioso” della “donna vestita di sole” (Ap 12,1), tradizionalmente identificata con Maria santissima. Tale segno risulta subito essere un segno sofferente: “Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto” (Ap 12,2).

Se Gesù è definito da Isaia, “uomo dei dolori”, Maria appare qui come donna del dolore, poiché il travaglio torturante del parto indica l’abisso del dolore fecondo della Madre presso la croce, dove fu generata la Chiesa.

Cosa significa, infatti, questa contraddizione “impossibile”: che Maria, beata nella gloria del Paradiso, stia contemporaneamente gridando di dolore come le partorienti terrene? Credo si possa intendere anche così: Maria assunta in Cielo in anima e corpo è la stessa persona che nell’istante in cui si trovò incinta del Figlio di Dio, fu anche resa gravida del suo destino di Servo sofferente, una partecipazione dolorosa e necessaria, visto che la vergine fu scelta quale corredentrice del Cristo fin dal primo istante della sua maternità divina.

E come la Sindone mostra la perfetta, inspiegabile aderenza del corpo del Signore al tessuto che lo ricopriva, così Maria fu discepola perfettamente aderente alla volontà del Figlio, che progressivamente la “svuotò” mediante rinunce sempre più dolorose, fin sotto la croce.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Caterina63
00martedì 6 settembre 2011 12:48

MA CHI VI HA DETTO

CHE AVETE DIRITTO AD ESSERE FELICI? 1

Il papa “teologo”. Il bambino malato. I giornalisti sciacalli.


Dinanzi alle parole meravigliose del papa a Madrid,ecco il livello medio della polemica anticattolica

 

SPAGNA: SIA BENETTO IL BASTONE CHE LI PERCUOTE. IL BAMBINO MALATO DOMANDA AL PAPA:“PERCHÈ?”, LA STAMPA “RISPONDE”. UN PAPA TEOLOGO “NON PUÒ CONVINCERE. SE IL FETO “NON È” UN BAMBINO, PERCHÈ UN EBREO NON PUÒ ESSERE UN TOPO? L’OCCIDENTE DOVE “O GODI O MUORI”. LA PASSIONE PER LA VITA DEL CATTOLICESIMO. IL “SILENZIO” DI DIO? VERAMENTE DIO HA PARLATO: NEI COMANDAMENTI. LO ABBIAMO ASCOLTATO?

(Parte prima)

 

 

Morte morte morte! Godere o morire. Questa è sempre, in ogni contesto, mutando solo in unaltro sinonimo il medesimo sostantivo, la loro unica risposta a ogni problema. In questo, i giacobini, sono e saranno sempre inconciliabili col cristianesimo, e qualsiasi “risposta” del papa a ogni domanda, prima ancora che la risposta giunga, prima ancora della domanda stessa, sarà condannata come non “convincente”, perchè tale è secondo il loro “schema”, se non secondo la realtà della quale, come abbiamo visto, se ne strafottono. Il cattolicesimo ama l’autentico, loro la rappresentazione farsesca della realtà; il cattolicesimo ama pazzamente la vita, a tal punto che della stessa sofferenza e della morte fa momenti qualificanti della vita stessa, vita ulteriore, passaggio a una vita superiore. Proprio perchè il cattolicesimo odia il nulla, odia anche la morte. Il cattolicesimo, per dire Cristo, ha sconfitto la morte, l’ha cancellata, annientata, ridotta a “vita” essa stessa. Gli altri invece, come questi giornalisti nichilisti, amano la morte, come ogni “nichilista”, e ne vedono sempre non un “passaggio” a vita ulteriore, ma la soluzione finale alle vite che “non val la pena” d’essere vissute, secondo loro. Si inizia col “diritto di morire” e si finisce col “dovere” di far morire chi non avrebbe “diritto” a vivere

 

 

 di Antonio Margheriti Mastino

 

SPAGNA: SIA BENEDETTO IL BASTONE CHE LI PERCUOTE

E Zapatero manganellò i contestatori

Il papa è stato in Spagna: la sua GMG è stata non solo un trionfo mondano, come magari poteva succedere in passato; al contrario, il silenzio carico di significati da parte di tutti nei momenti più sacri, la parola (parole che stavolta sono state meravigliose) gravida di contenuti del papa, erano parte corposa e maggioritaria di quel “successo” che, dunque, era affatto solo statistico: gioia sì, ma restando concentrati con serietà sull’Essenziale (l’adorazione, prima di tutto). Niente caciaronerie e giovanilismi anacronistici come qualche lustro fa, da parte di papaboys acchitarrati, schiamazzanti, non di rado patetici e con la testa rivolta a tutt’altro che non alle parole del papa, semmai gli prestavano un occhio per i tanti enfatizzati “gesti”, e per i quali le GMG spesso erano un’occasione ulteriore per un generale facimm ammuina.

Un viaggio davvero trionfale, dunque: anche perchè la polizia spagnola, proprio perchè non è italiana e non ha sul collo giudici-ideologi radical-chic, quando c’è stato da benedire (menare) ha benedetto senza risparmio di aspersorio (manganello) i guastafeste. Che poi altro non erano frange sparute di provocatori anarco-tossico-gay-anticristiani più qualche rottame senescente di vetero-femminista irrancidita, radunatisi per disturbare milioni di cattolici raccolti intorno al loro papa. “Sia benedetto il bastone che mi percuote!”, diceva san Francesco d’Assisi, prima di far mazzolare qualche fraticello insubordinato. Sì, proprio quello che qualche cialtrone di cattolico “adulto” oggi fa passare per “pacifista” quando non addirittura per anarchico, ecologista e antesignano di Rifondazione Comunista. La cosa che fa più piacere è che tali eroici manganellatori, son stati mandati proprio da Zapatero, giunto alla fine della sua parabola politica e rivoluzionaria, a percuotere santamente la sua stessa sciagurata base elettorale. Dopotutto, se non per rispetto al papa, almeno c’era da difendere la manna caduta dall’orbe cattolica di milioni di fedeli-turisti che hanno riversato su Madrid un vero capitale, una colata d’oro, per albergatori, ristoratori, musei: tutti! E dato che sono marxisti, e siccome per il marxismo l’economia è tutto e il resto è sovrastruttura, per loro i soldi son soldi e… pecunia, fosse anche cattolica, non olet, finchè finisce nelle loro tasche. Tutto si paga: tutti si comprano. I marxisti per primi, in base ai loro stessi principi.

 

 

IL BAMBINO MALATO DOMANDA AL PAPA:“PERCHÈ?”. LA STAMPA “RISPONDE”

Benedetto XVI e un piccolo malato romano

Fatto sta che l’ultimo giorno, il grande vecchio papa, uscendo dall’Escorial, si è trovato davanti un ragazzino sulla sedia a rotelle. Il quale, pare – così la raccontano i giornali, almeno – ha fatto tenacemente di tutto, per superare i servizi di sicurezza e accostare il Vicario di Cristo. Doveva ad ogni costo consegnare “una lettera” al papa. Lo scenario drammatico e strappalacrime c’era tutto. Scenario ideale anche per manipolatori, mestatori e sciacalli senza scrupoli. Dico questo perchè ancora non è affatto chiaro se il ragazzino ha veramente agito sua sponte e se davvero ha scritto lui tale lettera. E a giudicare da come hanno rigirato la frittata giornali laicisti e spagnoli (un’accoppiata micidiale), dall’artificiosità di certi resoconti, dalla pretestuosità di certi commenti (classici), si potrebbe pure pensare che no, è zizzania del sacco altrui.

Al di là della malafede bavosa degli sciacalli, al di là se è onesto e sincero il quesito di quella “lettera”, se non contiene già in sé una risposta preconfezionata, apodittica o anapodittica che sia, al di là di tutto questo, la domanda c’è e merita attenzione. Più che per la risposta che ne dovrebbe scaturire, per la domanda in sé. Certe volte per capire le cose non bisogna aspettare la risposta alla domanda, bisogna andare persino oltre la domanda, risalire invece al “da dove sorge una tal domanda?”. Andare all’origine del dubbio, vero o fittizio che sia: non cosa si chiede ma perchè si è arrivati a chiederlo.

Andiamo alla notizia, riprendendola da un giornale online.

Un bambino in sedia a rotelle e malato di cancro ha chiesto a Benedetto XVI: «Santo Padre, perché Dio, se è buono e onnipotente, permette che malattie come la mia colpiscano persone innocenti?Perchè la mia malattia?». Un bambino in sedia a rotelle, ammalato di cancro, è riuscito a consegnare un bigliettino, con scritto il suo drammatico interrogativo, a Benedetto XVI.

Una domanda semplice, ma carica di emozione. Emozione che il piccolo ha dimostrato insieme a tanta tenacia per riuscire a convincere sicurezza e organizzatori a lasciarlo avvicinare al Papa. Così Benedetto XVI, uscendo dal Monastero dell’Escorial, se l’è trovato davanti. Il Santo Padre si è fermato un attimo. Ha guardato il bimbo, triste e serio. Ha preso il biglietto. Il piccolo lo ha pregato di rispondergli. E Ratzinger ha fatto cenno di sì.

Renato Farina mi disse, sorprendendomi, che l’ambiente giornalistico “è il più nichilista della terra”. E non è un caso che,subito dopo l’incontro del bambino in carrozzella col papa, si è scatenato lo sciacallaggio della stampa. Una giornalista spagnola di Tele Madrid, dando prova di tutto il cinismo viscido di cui è capace il giornalista medio, imbevuto di dottrine giacobine, chiede al bambino: «E se non ti risponde?». E il bambino dalla risposta pronta, dice: «Se non mi risponde mi darà una grande delusione perché sono anni che mi pongo questa domanda».

E siccome al peggio del giornalismo spazzatura non c’è limite, El Mundo supera se stesso e cedendo ogni argine di decenza, con insostenibile leggerezza scrive:“Una risposta probabilmente gli arriverà. Sarà sicuramente gentile, ma difficilmente potrà soddisfare il bimbo, anche se a scriverla sarà il Papa teologo”. Una affermazione superficiale che, nella sua profonda idiozia, lungi dal non dir nulla, dice anzi tutto. Sul livello di faziosità al limite del fanatismo anticattolico della stampa. E la dice lunghissima anche su quanto se ne stessero fregando, loro, le prefiche e pupari delle commozioni artificiali della tv generalista dei sentimentalismi, delle condizioni fisiche e psicologiche del bambino in carrozzella.

 

 

UN PAPA TEOLOGO “NON PUÒ CONVINCERE”

Dei sodomiti a Madrid, ignorati dai fedeli, tentano la loro provocazione al passaggio del papa

La risposta del papa difficilmente potrà soddisfare il bimbo”, perchè in fondo non è che un “teologo” e magari -non detto ma ti pare di leggerlo tra le righe- è pur sempre l’ex panzerkardinal, e come non bastasse “tedesco”, e, hai visto mai, sotto sotto nazista, anzi, magari veramente cattolico, il che è peggio. Ergo: uno così, con tanto di curriculum, quali risposte “convincenti” può mai dare?

Parlerà di cose “sorpassate” dai tempi. Vecchie: Dio, Chiesa, fede, speranza, volontà di Dio. Cose “vecchie”, che non possono convincere, immateriali, e se la Chiesa è “materiale” per quel tanto deve solo chiedere “scusa” (a chi? di cosa? A coloro che hanno sostenuto tutte le rivoluzioni e il limo sanguinario delle burocrazie che ne son derivate? Ai giacobini a prescindere?), tutte quella altre cose non si possono provare, e in più non si possono nemmeno comprare e vendere, non si trovano nei mega-store o in farmacia. Invendibili. Che questi signori siano gli stessi che negli anni hanno sposato tutti gli “ismi” ossia tutte le mode, e che mille volte sono rimasti “vedovi” di queste mode sposate e passate subito a peggior vita, mentre la Chiesa e quel “Dio inutile” durino da duemila anni, unico fenomeno tanto antico sul globo, questo, tutto questo non li induce a una minima riflessione. Il pregiudizio non ha bisogno di “prove”, non sente il bisogno di “dimostrazioni”, che invece vorrebbero per quella fede, che comunque già a priori liquidano come indimostrabile: una passione inutile. “Vecchia… fuori dal tempo”…

Ma tanto, qualunque cosa il “teologo” dirà “difficilmente soddisferà il bimbo”.

Un processo alle intenzioni, praticamente, così caro al loro padrino Robespierre. Un conato acido di determinismo storico per il quale la storia ha in sé le leggi che hanno superato, portandola all’inevitabile autodistruzione per privazione di senso, ciò che non è pura materia, la religione appunto, “oppio dei popoli” e sovrastruttura (mentre proprio questo schema marxista è fallito autodistruggendosi, come il marxismo stesso, come tutti gli schemi e le mode che lo hanno preceduto e seguito, e tuttavia sta ancora in cattedra a dar lezioni di come si sta al mondo).

In definitiva, il trionfo della malafede, di orfani d’ogni moda autoritaria e mistificatrice: il giornalismo giacobino ne è l’orfanotrofio.

 

 

SE IL FETO “NON È” UN BAMBINO, PERCHÈ UN EBREO NON PUÒ ESSERE UN TOPO?

Le risposte del papa “certamente” non saranno “soddisfacenti”.

Il papa immerso nel suo trionfo di Madrid

Vale a dire: non ce ne frega niente delle risposte del papa, e ciò che non frega a noi non deve fregare neppure a qualsiasi bambino, peggio poi se è su carrozzella. Questo da un lato. Dall’altro lato significa: la domanda c’è, ci sarà la risposta del papa, che sarà la risposta della fede di sempre. Ma ci sarebbero, volendo, pure le risposte (queste sì poco “convincenti”, anzi sinistre) che il giornalismo incancrenito dalla metastasi del nichilismo “spesso marxistoide”, come sempre Renato Farina mi dice, ha fornito a tutte queste domande.

Vecchiaia? Ci sarebbe l’eutanasia, ovvero la “dolce morte”, secondo la semantofobia ipocrita del radical-chic, se uno non si rassegna o non riesce nel dovere sociale dell’ “eterna giovinezza”.

Sofferenze? Non hanno senso. Stop. Ci sarebbe perciò, se uno non ce la fa ad essere qui e subito eternamente “felice”, il “diritto” al suicidio, ovverossia sempre l’eutanasia, panacea di tutti i “mali”, ultimo estremo atto di buonismo (pietismo pidocchioso e ideologico) sociale, che ha sostituito la caritas e la pietas cristiane.

Malattia? Neppure ha senso. Se non riesci a viveresanoebello che vivi a fare, che sei pure un peso sociale e non produci? Ma ammazzati,convincendoti che usufruisci di un “diritto” e al contempo compi un “dovere” verso il mondo. O guarisci presto e totalmente, o porti avanti un non-sense sopravvivendo.

Gravidanza indesiderata? Godere hai “diritto” a godere… certo, le conseguenze del godimento, ossia i “doveri” di una maternità “non-prevista” (viva la logica dei “razionalisti”: scopano a gambe all’aria ma una gravidanza… quella proprio non se l’aspettano), cozzano contro cotanto di “diritti della donna”, cioè le “conquiste del femminismo”? Male. Anzi bene: la soluzione c’è: aborto! Allora fai notare: ma scusate, un “diritto” del femminismo vale più delle legge di natura, ossia di un bambino che, dal momento che è stato concepito ha “diritto” (questo sì) a vivere la sua vita, che non appartiene a nessuno (se non a Dio) men che meno che alla madre… alla “donna”? La risposta del giornalista medio, nichilista marxistoide e radical-chic, qual è? “Ma quello non è un bambino. E’ solo un feto”. Che tecnicamente vuol dire bambino di pochi mesi non ancora partorito. Se la realtà (così lapalissiana in questo caso) contraddice lo schema, come per tutti gli ideologi, tanto peggio per la realtà: conta lo schema. “Quello non è un bambino”. Ed è tutta la loro “risposta”. Che possa non essere “convincente”? Non si pongono il problema: “è buonsenso”. Quello del mondo, è chiaro. Pure Goebbeles, quando andava di moda cremare vivi gli ebrei, sostenne che quello “era buonsenso”, logico, naturale, “come il gatto che caccia il topo”. E nessuno, men che meno i giornalisti, trovò da ridire: tutto logico! La moda del momento lo confermava: come all’improvviso non “sono bambini” i feti di oggi, così all’epoca “non erano uomini” gli ebrei. Allora come oggi, solo la chiesa cattolica rimase ferma a sostenere il contrario. La moda è lo spirito del mondo, e lo spirito del mondo altro non è che Lucifero.

 

 

L’OCCIDENTE DOVE “O GODI O MUORI”. LA PASSIONE PER LA VITA DEL CATTOLICESIMO

Morte morte morte! Godere o morire. Questa è sempre, in ogni contesto, mutando solo in unaltro sinonimo il medesimo sostantivo, la loro unica risposta a ogni problema. In questo sono e saranno sempre inconciliabili col cristianesimo, e qualsiasi “risposta” del papa a ogni domanda, prima ancora che la risposta giunga, prima ancora della domanda stessa, sarà condannata come non “convincente”, perchè tale è secondo il loro schema, se non secondo la realtà della quale, come abbiamo visto, se ne strafottono. Il cattolicesimo ama l’autentico, loro la rappresentazione farsesca e deformata della realtà; il cattolicesimo ama pazzamente la vita, a tal punto che della stessa sofferenza e della morte fa momenti qualificanti della vita stessa, vita ulteriore, passaggio a una vita superiore. Proprio perchè il cattolicesimo odia il nulla, odia anche la morte. Il cattolicesimo, per dire Cristo, ha sconfitto la morte, l’ha cancellata, annientata, ridotta a “vita” essa stessa. Gli altri invece, come questi giornalisti nichilisti, amano la morte, come ogni “nichilista”, e ne vedono sempre non un “passaggio” a vita ulteriore, ma la soluzione finale alle vite che “non val la pena” d’essere vissute, secondo loro. Si inizia col “diritto di morire” e si finisce col “dovere” di far morire chi non avrebbe “diritto” a vivere (essì, come non pensare ancora una volta al nazismo, altro giacobinismo, e quella sua prassi di cremare i malati cronici). Per “rispetto”, sia chiaro! Rispetto alla “volontà” del candidato a “caro estinto”. E affinchè il “candidato” se ne convinca, gli fanno il deserto attorno, gli spiegano pietosi che brutta vita è la sua, che peso -per carità: “sostenuto eroicamente”, ma sempre “sostenuto” con grande fatica-insostenibile è per i congiunti, per chi dovrebbe accudirlo, curarlo, aiutarlo a vivere, amarlo; persino per lo Stato “è un peso” (e pazienza se ha pagato per i tre quarti della sua vita le tasse). Si togliesse di torno, insomma, usufruendo di questo “nuovo diritto” dei soli, degli sconfitti, in questo mondo affollato e di vincenti. In questo mondo… alla rovescia. Alla rovescia, finchè il carnevale, per volontà divina, non finirà, come crediamo e auspichiamo, in una purga collettiva colossale che ci rimetterà nella posizione originale: i piedi per terra e la testa sul collo. Per chi avrà conservato la testa.

 

 

IL “SILENZIO” DI DIO? VERAMENTE DIO HA PARLATO: NEI COMANDAMENTI. LO ABBIAMO ASCOLTATO?

Ad Auschwitz

Giusto a ricordare subliminalmente che essendo il papa tedesco e magari, se non proprio “complice” di Hitler (in base al principio -una mania americana a ogni guerra- criminale degli Alleati della “responsabilità collettiva dei tedeschi”), almeno che è quel presunto Panzerkardinal che vive nell’immaginario dei giornalisti che tutto ignorano di cosa è la Chiesa, la sua natura e le sue funzioni, lo stesso giornale che all’inizio citavamo, conclude con questodemenziale collegamento: “Benedetto XVI si confessò già senza poter dar risposta quando visitò 5 anni fa il campo di sterminio di Auschwitz. «In un posto come questo, disse, le parole non servono. Alla fine può esserci solo un terribile silenzio, un silenzio che è un pianto del cuore rivolto a Dio. Perché Signore sei rimasto muto? Come hai potuto tollerare questo? Dov’era Dio in quel momento?».

Per la verità Benedetto disse pure altro. E se limitò le parole è perchè conosceva la malafede di tanti giornalisti, laicisti, rabbini e rabdomanti specializzati in processi alle intenzioni, che da tempo lo aspettavano in quel luogo come in una trappola, e che in quel momento, il papa, innocente come un agnello disperso in un deserto, gli volteggiavano intorno come avvoltoi, in attesa di qualche brandello di parola facile da manipolare, per tentare di assalirlo mediaticamente. Non trovarono brandelli di parole dai quali iniziare a divorarlo, e allora tentarono, senza riuscirci, di aggredirlo sul “silenzio”, manco a dire una novità in fatto di antipapismo post-bellico (e Pio XII ne sapeva qualcosa). Non riuscirono perchè Benedetto aveva fatto di quel “silenzio”, di quella “mancanza di parole”, preghiera, de profundis.

Mancano le parole” perchè al posto suo già Dio aveva parlato. Parlava al posto suo, e fu chiaro proprio da quella “mancanza di parole”, la Legge di Mosè, il vecchio e il nuovo Testamento, l’intera storia della salvezza, e il magistero papale tutto. Gli “mancano le parole” perchè quelle “parole” già Dio le aveva pronunciate: nei Comandamenti. Che cos’erano il nazismo, il comunismo, le carneficine, i campi di concentramento, gli stermini, i genocidi, e ogni altro giacobinismo, se non aver derogato, essere rimasti sordi, aver disobbedito alla Legge di Dio e della Chiesa?

I Comandamenti. Uno per tutti: Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me: lo abbiamo ascoltato? Quanti semidei, divinità terrestri abbiamo invece adorato, a quanti paradisi in terra abbiamo aspirato, generando solo ulteriori inferni?

Davvero servivano le “parole”? Le “risposte”? Dallo stesso “silenzio” di Dio, esplodeva la sola domanda che tutti dovrebbero porsi, alla quale ognuno dovrebbe saper rispondere: “Cosa vi avevo detto Io?”: la Sua Legge, i Suoi Comandamenti, le sole “parole” che contassero ed avessero un senso, tutte queste belle cose, le avevamo rispettate? No, e i risultati della nostra disobbedienza, che ci ha portato alla perversione, erano sotto i nostri occhi. E il papa se ne stava inginocchiato e in preghiera nell’ennesima Auschwitz frutto della nostra apostasia. “Senza più parole”. Non ce potevano essere. Le sole che c’erano, le Parole di Dio-Cristo, erano state ignorate da molti. Allora (i nazisti e loro seguaci). Oggi (l’Occidente post-cristiano). L’uomo ha smesso di ascoltare il “silenzio” di Dio, per ascoltare soltanto se stesso e il frastuono delle sue vuote parole. Nei suoi idoli neo-pagani, di ieri di oggi di sempre, ha solo dei ventriloqui.


Caterina63
00martedì 6 settembre 2011 12:50
[SM=g1740733]RIFLESSIONI ALL'ARTICOLO SOPRA in attesa della seconda parte...

Caro Mastino… le tue riflessioni che sono per altro ottime provocazioni, dovrebbero suscitare, almeno in ambiente CATTOLICO se ancora ve ne è rimasto, lo studio e l’approfondimento della Teologia patristicamente intesa ed usata dai Santi per dare proprio delle risposte che il mondo non può dare…

Fanno ridere questi giornalisti! e definirli nichilisti è anche un modo ancora troppo elegante per definire la loro superbia e la presunzione di dare, con le loro risposte, LE NON RISPOSTE… ma alimentare semplicemente la zizzania, l’ostracismo alle vere risposte di Dio, la superbia adamitica sempre in prima in linea con la quale si pretende di saperne sempre di più del Papa e della Chiesa Mater et Magistra…

Ma veniamo ALLE PROVE….perchè sono queste alla fine quelle che contano!
La prima risposta da dare, e che lo stesso Ratzinger paventò in diverse occasioni, è la seguente: SE TU MI RIFIUTI IL PECCATO ORIGINALE come faccio a darti una risposta che ti faccia capire il perchè del male e delle malattie?
Da qui parte TUTTO!
Dio quando creò tutto dice sempre: ERA COSA BUONA!
Se un Dio esiste questo è BENE ASSOLUTO, BONTA’ INFINITA… ergo il male non ha in Dio la sua origine, il Male di per sè NON esiste, come non esistono le malattie in quanto creazione di Dio (san Tommaso d’Aquino)…
Ciò che l’uomo di ogni tempo, e maggiormente oggi rifiuta è L’ASSUMERSI LA RESPONSABILITA’ DELLA PROPAGAZIONE DEL MALE PROVENIENTE DALLE SUE AZIONI, DALLE SUE DECISIONI…dalle sue scelte! L’Uomo rifiutando il Peccato il Originale in quanto REALTA’ CON LA QUALE DOBBIAMO CONFRONTARCI, finisce per NON trovare risposte alle sue mille domande, e di conseguenza deve sempre cercare UN CAPRO ESPIATORIO contro il quale scagliare la sua inquietudine e l’impossibilità di rispondersi…. ;-)

Dio, invece PERMETTE IL MALE… e questo è un altro discorso che non è affatto incomprensibile se l’uomo, accogliendo l’umiltà del suo essere nulla senza Dio, si lasciasse CONVINCERE DA DIO STESSO su questi “perchè” a cominciare da una bella e profonda ACCETTAZIONE, ACCOGLIENZA e non rifiuto del Libro di Giobbe… e semmai una bella SCAZZOTTATA CON DIO ma alla maniera di Giacobbe!!
Ma lo stolto invece di porsi domande interessanti, chiede:
“Ma ve lo immaginate, un Dio che aveva il tempo di passeggiare per gli accampamenti e di fare a cazzotti con Giacobbe?”
STOLTO che sei!! ci viene da rispondere: se ti scandalizzi di un Dio che trova il tempo per fare a cazzotti con l’uomo PER SALVARLO, come reagirai di fronte a un Dio CHE MANDA IL SUO UNICO FIGLIO SULLA CROCE PER SALVARTI? :-(
Perchè invece NON TI MERAVIGLI e non godi del fatto che abbiamo un Dio che trova il tempo di fare a cazzotti con noi, ma che poi manda il suo unico Figlio a morire sulla Croce per aprirci le porte dell’Eterna beatitudine?

Il problema del nostro tempo è quello non tanto di un rifiuto di Dio, ma rifiutare e ridere DELLA RIVELAZIONE DI DIO che in Cristo Gesù ci ha dato non una ma mille risposte alle tante domande che ci perseguitano….
Se facessimo un sondaggio, i CREDENTI sarebbero la maggioranza…perchè anche l’ateo CREDE in qualcosa, magari in sè stesso o nella scienza, ma crede spostando semplicemente l’oggetto o la divinità della sua fede… non è a caso che Gesù fa una domanda drammatica:
“IL FIGLIO DELL’UOMO, QUANDO VERRÀ, TROVERÀ LA FEDE SULLA TERRA?”Lc 18,8..
Queste parole hanno un preciso significato, come tutte le parole di Dio! e rimandano alla fine del mondo.
In riferimento ad essa Gesù ha anche predetto: “Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato” (Mt 24,9-13).
San Paolo ricorda che prima della fine del mondo “dovrà avvenire l’apostasia” (2 Ts 2,3), e cioè l’abbandono della fede.

Proprio per questo Gesù chiede la fede perseverante, la fede viva, quella che non si lascia scoraggiare dalle tribolazioni, dalle malattie, DALLE PROVE, e dalle persecuzioni: ci saranno scandali, tradimenti, ODIO… ma tutto in funzione DELLA RIVELAZIONE, DI CRISTO che non ha detto “io vi dico la verità” ma ha detto IO SONO LA VERITA’, LA VIA E LA VITA…;-) Egli pertanto intende metterci in guardia dal pericolo di affievolire o addirittura spegnere la fede a causa DEL MALE…
Piuttosto: Gesù troverà in noi persone che sono rivolte a Lui con lo sguardo del cuore(=TEOLOGIA), fiduciose di essere prontamente esaudite perché impegnate nella preghiera perseverante, e cioè in quella preghiera che ha il compito di trasformare il cuore dell’uomo e di renderlo adatto a ricevere le grazie che Dio da tutta l’eternità ha già decretato di dare?

CHIEDETE E VI SARA’ DATO dice Gesù, e l’apostolo sottolinea: non ottenete, PERCHE’ CHIEDETE MALE!
;-)


P.S.
Andiamo alla notizia, riprendendola da un giornale online.

“Un bambino in sedia a rotelle e malato di cancro ha chiesto a Benedetto XVI: «Santo Padre, perché Dio, se è buono e onnipotente, permette che malattie come la mia colpiscano persone innocenti?Perchè la mia malattia?».

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La risposta dell’innocente che PAGA la troviamo non nelle parole, ma proprio nella testimonianza del Figlio di Dio, Gesù Cristo, che INNOCENTE E SENZA PECCATO si lascia colpire dal male facendosene carico(=croce)…
Perchè accade questo?
Perchè noi non nasciamo innocenti, puri ed estranei al male…
spesse volte l’idea E L’IMMAGINE di un Bambino colpito dalla malattia(=MALE) ci sensibilizza di più ci fa soffrire mentre ignoriamo e snobbiamo L’ADULTO DI 33 ANNI INCHIODATO SULLA CROCE per darci delle risposte… :-(

Caro Bambino che soffri, per comprendere la tua sofferenza occorre guardare al mondo ed alla vita che ci è data da vivere CON GLI OCCHI E IL CUORE DI DIO… occorre guardare al tuo problema DALLA CROCE, magari mettendosi ai piedi di quella Croce dove non servono tante parole, ma serve CONFORMARSI, cioè farsi uguale a Cristo Crocefisso per dire con san Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”
a partire dalla Croce!
Tanti bambini sono diventati santi perchè fin da piccoli hanno capito come stare davanti a Gesù… e lasciandosi dolcimente catturare dal Cristo, hanno ricevuto le risposte che desideravano…

Un esempio per tutti è la piccola Nennolina …Era una bambina che incantava, sia con il suo aspetto fisico e il suo candore infantile, sia con la sua maturità e capacità di riflessione.
Nell’ottobre 1933 fu iscritta all’asilo delle suore di Monte Calvario, quindi passò all’asilo delle suore Zelatrici del Sacro Cuore. Frequentò la prima elementare dal 19 ottobre 1936 al 22 maggio 1937, quando si aggravò il male, cancro osseo, che la portò alla tomba.
Vedeva la sofferenza come una “ricompensa” a Gesù per tutte le sue sofferenze. Intuisce che le sue avrebbero potuto attenuare quelle di Lui che continua a soffrire non nel suo corpo fisico, ma nel suo corpo mistico, nei campi di guerra, nelle tante forme in cui gli uomini peccano e soffrono.
“Sai mamma ? ho offerto la mia gambina a Gesù per la conversione dei poveri peccatori e perché siano benedetti i soldati che stanno in Africa”.
Al padre: “Il dolore è come la stoffa: più è forte più ha valore”.
Alla madre: ” Quando si sente male, si sta zitti e si offre a Gesù per un peccatore” Gesù ha sofferto tanto per noi e non aveva peccato: era Dio. E vorremmo lamentarci noi, che siamo peccatori e sempre lo offendiamo?” .
Al suo direttore spirituale: “Per un momentino solo, mi corico sulla ferita perché in quel momento posso offrire più dolore a Gesù”.
A chiunque le domandava “Come stai?” rispondeva: “Sto bene!”.
Non vuole che si preghi per la sua guarigione ma perché si faccia la volontà di Dio: “Voglio stare con Lui sulla croce perché Gli voglio tanto bene”.

Aveva fra i 6 e gli 8 anni quando scriveva e diceva queste cose…. Benedetto XVI l’ha dichiarata venerabile nel 2007 ….

Non può comprendersi la sofferenza se la si rifiuta!
Dio PERMETTE queste situazioni quando trova Anime pronte a rispondere al Suo appello PER SALVARE L’UMANITA’…
Diceva un santo: se rifiuti la Croce questa, senza il sostegno, ti cadrà rovinosamente addosso, ma se l’accetti, sostenuta dalla tua volontà, TI PORTERA’ sollevandoti dalla disperazione….

Qualcuno dirà: ma che razza di discorsi fai ad un bambino malato?
no, scusatemi! perchè dare ai bambini giochi VIOLENTI con play-stacion &company o affini, illusioni, inganni sulla morte, sulla sofferenza, sull’insegnamento di Dio, lo potrà sollevare forse dalla sua prova?
se è l’illusione che volete, allora tacete pure sulla VERITA’….
ma se è la verità che volete dare ad un Bambino sofferente, non potete tacere sulla Croce di Cristo e sul fatto che ad essa dobbiamo conformarci PER GODERE DELLA RISURREZIONE E DELLA GIOIA ETERNA!


[SM=g1740733] 

 

 

 

Caterina63
00sabato 17 novembre 2012 15:21

Un sacerdote risponde

Caro padre, è davvero un brutto momento per me e ho bisogno di capire perché

Quesito

Caro padre,
è davvero un brutto momento per me e ho bisogno di capire perché.
Le spiego in breve il mio problema. Circa un mese fa, a metà Quaresima, mi sono confessata con ogni migliore intenzione e con molto pentimento, risoluta a ben usare il perdono ricevuto e a non ricadere con tanta facilità. Fino alla Pasqua mi sono comportata al meglio delle mie capacità: preghiera, carità verso gli altri, esercizio costante della presenza di Dio – è una cosa, quest’ultima, che mi tiene lontana dal peccato e che mi orienta in ogni momento verso il bene, e che finora non ero mai riuscita a mettere in pratica per così tanto tempo. Insomma, ero contentissima di me stessa: per la prima volta in vita mia riuscivo a sentire la verità dell’assunto per cui Dio va amato qui e ora, non domani o la prossima volta, e cercavo di agire di conseguenza.
Dopo Pasqua, il crollo. Ho cominciato prima ad avvertire un certo fastidio, una stanchezza, perché mi sono accorta di essermi limitata troppo (neanche una parolaccia, nemmeno uno scatto di impazienza, un pettegolezzo, una risposta cattiva, e così via – io che sono impaziente, viziata, egoista e quant’altro), e poi è subentrata un’altra terribile sensazione: che Dio è così grande e buono che qualsiasi cosa io possa fare non riuscirò mai a ricambiare il Suo amore e la Sua carità per me.
Così ho smesso di cercare di farmi santa - come, con tutti i miei limiti, ho sempre provato a fare finora: da una parte, perché mi sembra che molte delle virtù che tento di praticare costituiscano uno snaturamento senza speranza del mio carattere, d’altra parte perché Dio è così immenso che qualsiasi cosa faccia di buono penso che potrei farne una migliore, e la mia distanza da Lui resterà sempre incommensurabile. Ero così contenta di esser riuscita, in questa Pasqua, a intuire anche solo un pochino il merito che Dio ha di essere amato perché pensavo in questo modo di riuscire a diventare più generosa e pronta nel servizio a Lui e ai fratelli, invece questa cosa mi ha schiacciato e non riesco più nemmeno a rivolgermi a Lui: contemplarlo è diventato un tormento, fonte di malessere anche fisico….perché mi sento così? E’ arroganza la mia? E’ una tentazione?
E’ paradossale dirlo, ma in questo momento vedo Dio così grande e santo che mi comporto male perché cercare di comportarmi bene mi farebbe pensare a Lui e quindi mi farebbe star male. Ho cercato di essere migliore per tutta la mia vita – lo dico senza presunzione – e adesso – è incredibile! – sono separata da Lui dalla stessa venerazione che mi ispira. Non è assurdo?
So che il suo servizio la impegna tanto, ma io prego che questa mia le cada sotto gli occhi il più presto possibile e che in quello stesso momento lei mi risponda: ne ho davvero tanto bisogno.



Risposta del sacerdote

Carissima,
1. i Santi Padri (i santi dell’antichità cristiana) dicevano che “in via Domini, non progredi, regredi est” (nella via del Signore, non andare avanti equivale a regredire).
Ti esorto pertanto a riprendere il fervore della quaresima. Era troppo bello il cammino che facevi. Questa quaresima è stata per te una autentica primavera dello spirito.

2. Ma adesso il Signore ha permesso (o voluto) che tu sentissi il senso della sua grandezza.
Talvolta il Signore ci fa passare per queste sensazioni, sicché avvertiamo che tutto quello che facciamo è macchiato e inadeguato ad amare Dio come Egli merita di esser amato.
E ci accorgiamo anche che per quanto ci sforziamo di essere all’altezza della sua volontà, rimaniamo sempre distanti.
Penso ad una preghiera del grande Sant’Ambrogio di Milano, il quale si pentiva per i pensieri e la lingua non sempre ben custoditi!
Mi dici che ti senti separata a motivo della venerazione che provi per lui.
Ma non è vera separazione: è un’unione senza consolazioni (forse), ma è vera unione.

3. In questo momento sei tentata di abdicare, di rinunciare all’impresa, perché la consideri irraggiungibile.
Ma si tratta di una vera tentazione.
Il demonio tentava il santo Curato d’Ars dicendogli che tutta la sua predicazione e il suo darsi da fare per le anime erano vani.
Il demonio cerca tutte le astuzie per farci desistere dall’impegno.

4. Può succedere che nella tua vita spirituale tu possa avvertire anche prove peggiori di quelle che stai passando attualmente.
Non scoraggiarti.
Vai avanti intrepida. Così ha fatto la beata Madre Teresa di Calcutta quando per lunghi anni ha provato esperienze che corrispondono alle notti oscure dei sensi e dello spirito, come le chiamava San Giovanni della croce.

5. Desidero però precisare per alcuni nostri visitatori (non per te) una cosa riguardo alle pratiche.
Non sono le pratiche in quanto tali che ci fanno diventare santi, ma la carità che le anima.
Le pratiche che hanno caratterizzato la tua quaresima (neanche una parolaccia, nemmeno uno scatto di impazienza, un pettegolezzo, una risposta cattiva, e così via) sono indubbiamente molto belle. Ma la santità non sta in esse. Chissà quanti filosofi stoici le hanno praticate.

6. La santità consiste nell’essere uniti al Signore in tutto: nei pensieri, nelle parole e nelle azioni. Consiste in quanto mi hai scritto più sopra: “preghiera, carità verso gli altri, esercizio costante della presenza di Dio”.
E allora si capisce che non è possibile conservare in noi l’unione con Dio nell’orazione continua, nell’esercizio della carità verso il prossimo e nel tenerci costantemente alla sua presenza senza lo sforzo di evitare parolacce, pettegolezzi, risposte cattive.
In altre parole, non è possibile vivere la mistica (l’unione con Dio) senza l’ascetica (i mezzi per arrivarci o per custodirla).
Ma da soli questi mezzi (l’ascetica) non fanno ancora la santità.

Ecco, quanto il Signore ha voluto dirti quando i miei occhi sono caduti sulla tua email.
Vai dunque avanti serenamente, anche se interiormente non provassi più niente. L’unione con Dio, che è essenzialmente una realtà spirituale, non può essere misurata con metri inadeguati, quelli della sensibilità o soddisfazione interiore.

Ti auguro un feconda festa di Pentecoste, ti assicuro la mia preghiera e la mia benedizione.
Padre Angelo


Pubblicato 15.11.2012

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