J.Ratzinger difende e ripropone come modello il Catechismo Romano (tridentino) proponiamo qui il Catechismo san Pio X

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Caterina63
00venerdì 25 settembre 2009 11:40
Trasmissione della fede e fonti della fede

Il 15 e il 16 gennaio di quest'anno, rispettivamente a Lione e a Parigi, nelle chiese di Notre-Dame delle due città di Francia, il prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Joseph Ratzinger, arcivescovo già di Monaco di Baviera e di Frisinga, ha tenuto una importante conferenza.

Affrontando 1o scottante tema della catechesi e, quindi, dei catechismi, l'autorevole porporato, già professore di teologia, ha illustrato possibili cause della crisi che travaglia anche questo fondamentale settore della vita ecclesiale, analizzando i rapporti tra catechesi, Bibbia e dogma.

Quindi, dopo avere definito la fede e le sue fonti, ha messo in risalto, nella prospettiva di un superamento di tale crisi, le strutture della catechesi, richiamandosi come a modello al Catechismo Tridentino, pubblicato da san Pio V per decreto del Concilio di Trento, e definendolo "il più importante catechismo cattolico". [SM=g1740722]

Non è necessario essere "addetti ai lavori" per cogliere la portata dell'intervento: basta conoscere la relazione che corre tra l'opera di san Tommaso di Aquino e il Catechismo Tridentino, e tra questo e i diversi catechismi pubblicati per ordine di san Pio X. Perciò, come era facilmente prevedibile, la conferenza ha suscitato e sta suscitando in Francia polemiche violente e accanite, al punto che si e parlato, a suo proposito, di una "operazione di polizia", di "cattivo servizio" e di opera di distruzione.

A informazione e a edificazione dei cattolici italiani, non insensibili ai gravi problemi della catechesi anche nel nostro paese, presentiamo il testo, cui appartengono sia il titolo - Transmission de la Foi et sources de la Foi - che i sottotitoli, in una traduzione dell'originale francese fatta dalla rivista Cristianità - www.alleanzacattolica.org/indici/cr_indici_5.htm - nel 1983 .

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di J.Ratzinger

Con le ultime parole rivolte ai suoi apostoli, il Signore diede loro l'incarico di andare in tutto il mondo per farvi dei discepoli (Mt. 28,19 ss.; Lc. 16,15; Atti 1,7). Fa parte della essenza della fede il richiedere di essere trasmessa: e la interiorizzazione di un messaggio, che si rivolge a tutti perché é la verità, e l'uomo non può essere salvato senza la verità (1 Tim. 2,4). Per questo la catechesi e la trasmissione della fede sono state, fino dalle origini, una funzione vitale per la Chiesa, e tali devono restare fin tanto che la Chiesa durerà.



Parte prima.
La crisi della catechesi e il problema delle fonti

1. Caratteristiche generali della crisi


Le difficoltà attuali della catechesi sono un luogo comune che non è necessario provare nei particolari. Le cause della crisi e le sue conseguenze sono state descritte spesso e abbondantemente (Cfr. Conferenza Episcopale Francese, La catéchèse des enfants. Texte de reference, Le Centurion, Parigi 1980, pp. 11-26; Sinodo Generale delle diocesi della Germania Federale, edizione ufficiale, I).

Nel mondo della tecnica, che é una creazione dell'uomo stesso, non si incontra anzitutto il Creatore, ma l'uomo incontra sempre se stesso. La sua struttura fondamentale consiste nell'essere "fattibile", il mondo delle sue certezze e il calcolabile. Per questo motivo il problema della salvezza non si pone in funzione di Dio, che non compare da nessuna parte, ma in funzione del potere dell'uomo, che vuole diventare costruttore di se stesso e della sua storia.

L'uomo non cerca più, dunque, i criteri della sua morale in un discorso sulla creazione o sul Creatore, che gli sono diventati sconosciuti. La creazione non ha più, per lui, risonanze morali; essa gli parla solamente il linguaggio matematico della sua utilità tecnica, a meno che non protesti contro le violenze che fa a essa subire. Anche allora l'appello morale che la creazione così gli rivolge, resta indeterminato: in definitiva, la morale si identifica, in un modo o nell'altro, con la sociabilità, quella dell'uomo verso se stesso e quella dell'uomo con il suo ambiente. Da questo punta di vista, anche la morale è diventata una questione di calcolo delle migliori condizioni di sviluppo del futuro. La società ne è stata mutata profondamente: la famiglia, che è la cellula portante della cultura cristiana, sembra essere, il più delle volte, in via di dissoluzione. Quando i legami metafisici non contano più, essa non può essere conservata, per lungo tempo, da altre specie di legami.

Questa nuova visione del mondo, da una parte si riflette nei mass media, dall'altra si nutre di essi. La rappresentazione del mondo e degli avvenimenti da parte dei mass media oggi segna la coscienza, più di quanto non lo faccia l'esperienza personale della realtà. Tutto ciò influisce sulla catechesi, che vede spezzati i classici sostegni della società cristiana, senza, peraltro, potersi appoggiare sull'esperienza vissuta della fede in una Chiesa vivente: in un tempo in cui il linguaggio e la coscienza si nutrono solo con la esperienza di un mondo che si vuole creatore di se stesso, la fede sembra condannata al mutismo.

Negli ultimi decenni la teologia pratica si è consacrata con energia a questi problemi per tracciare alla trasmissione della fede vie nuove e meglio adattate a questa situazione. Certo molti, nel frattempo, sono arrivati a convincersi che questi sforzi hanno contribuito più ad aggravare che a risolvere la crisi. Sarebbe ingiusto generalizzare questa affermazione, ma sarebbe anche falso negarla puramente e semplicemente. Un primo grave errore fu quello di sopprimere il catechismo e di dichiarare "sorpassato" il genere stesso del catechismo. Certo, il catechismo come libro è divenuto comune soltanto al tempo della Riforma; ma la trasmissione della fede, come struttura fondamentale nata dalla logica della fede, è vecchia quanto il catecumenato, cioè quanto la Chiesa stessa. Essa scaturisce dalla natura stessa della sua missione e, dunque, non si può rinunciarvi. La rottura con una trasmissione della fede come struttura fondamentale, attinta alle fonti di una tradizione totale, ha avuto come conseguenza la frammentazione della proclamazione della fede. Questa fu non solo lasciata in balìa dell'arbitrio nella sua esposizione, ma anche rimessa in discussione in alcune sue parti, che appartengono a un tutto e che, staccate da esso, appaiono sconnesse.

Cosa vi era dietro questa decisione errata, affrettata e universale? Le ragioni sono molteplici e fino a ora poco esaminate. Inizialmente essa è, con certezza, da mettere in rapporto con la evoluzione generale dell'insegnamento e della pedagogia, caratterizzata da una ipertrofia del metodo rispetto al contenuto delle diverse discipline. I metodi diventano i criteri del contenuto e non più i veicoli di esso. L'offerta si regola sulla domanda: è così che sono tracciate le vie della nuova catechesi nella disputa sul catechismo olandese (Cfr. JOSEPH RATZINGER, Dogma und Verkiindigung, Erich Wewel, Monaco di Baviera 1973, p. 70). Bisogna così limitarsi alle questioni per principianti, invece di cercare le vie che avrebbero permesso di superarle e di arrivare a ciò che inizialmente era, non compreso, unico metodo che modifica positivamente l'uomo e il mondo. Così, il potenziale di cambiamento proprio della fede fu paralizzato. Infatti la teologia pratica non era più intesa come uno sviluppo concreto della teologia dogmatica o sistematica, ma come un valore in se. Ciò corrispondeva, di nuovo, alla tendenza attuale a subordinare la verità alla prassi, che, nel contesto delle filosofie neo-marxistiche e positivistiche, ha fatto breccia anche in teologia (cfr. IDEM, Theologische Prinzipienlehre, Monaco di Baviera 1982).

Tutti questi fatti contribuirono a impoverire considerevolmente l’antropologia: precedenza del metodo sul contenuto significa predominanza dell'antropologia sulla teologia, di modo che questa dovette trovarsi un posto nel contesto di un antropocentrismo radicale. Il declino dell'antropologia fece apparire, a sua volta, nuovi centri di gravità: regno della sociologia, o, ancora, primato della esperienza, come nuovi criteri di comprensione della fede tradizionale.

Dietro a queste cause e ad altre ancora, che si possono trovare nel rifiuto del catechismo e nel crollo della catechesi classica, vi è, tuttavia, un processo più profondo. Il fatto di non avere più il coraggio di presentare la fede come un tutto organico in se stesso, ma solamente come riflessi scelti di esperienze antropologiche parziali, si fondava, in ultima analisi, su una certa diffidenza nei riguardi della totalità. Esso si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi e risultava che la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura, ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica.

Ma quest'ultima, secondo le concezioni contemporanee, poteva essere considerata solo come una tappa prescientifica della nuova interpretazione. Così, sembrava difficile riconoscere a essa un posto proprio. Laddove la certezza scientifica è considerata la sola forma valida, perfino la sola possibile, della certezza, quella del dogma doveva sembrare o come una tappa sorpassata di un pensiero arcaico, oppure come la espressione della volontà di potenza di istituzioni sopravviventi. Essa deve allora essere valutata secondo la misura dell'esegesi scientifica e può, al massimo, confermare le dichiarazioni di questa ultima; essa non può più pretendere di giudicarla in ultima istanza.

2. Catechesi, Bibbia e dogma

Eccoci arrivati al punto centrale del nostro tema, al problema del posto occupato dalle "fonti" nel processo di trasmissione della fede. Una catechesi che sviluppava, per così dire, la fede direttamente a partire dalla Bibbia, senza passare attraverso il dogma, poteva pretendere di essere una catechesi dedotta specificamente dalle fonti. Ma allora emerse un fenomeno curioso. L'effetto di freschezza, all'inizio provocato dal contatto diretto con la Bibbia, non fu durevole. Certo, all'inizio ne risultò molta fecondità, bellezza e ricchezza nella trasmissione della fede. Si sentiva "l'odore della terra di Palestina", si riviveva il dramma umano nel quale la Bibbia è nata. Vi fu così, più verità umana e concreta. Ben presto, però, apparve l’ambiguità del progetto, che J. A. Mohler aveva descritto in modo classico centocinquanta anni fa. Ciò che la Bibbia apporta in fatto di bellezza, di immediatezza, a cui non si può rinunciare, e così descritto: "Senza la Scrittura, la forma propria delle parole di Gesù ci resterebbe nascosta, noi non sapremmo come parlava il Figlio dell'uomo e credo che non mi piacerebbe più continuare a vivere se non la sentissi più".

Ma Mohler sottolinea subito il motivo per cui la Scrittura non può essere separata dalla comunità vivente, nella quale soltanto può essere "la Scrittura", quando continua dicendo: "Solo che, senza la tradizione, noi non sapremmo chi parlava allora, ne ciò che annunciava, e anche la gioia che proviene da questo modo di parlare svanirebbe" (J. A. MOHLER, L'unite dans l'Eglise, trad. francese, Parigi 1938, p.52).

Nel libro che Albert Schweitzer consacrò alla storiografia delle ricerche sulla vita di Gesù, si trova descritta, da tutt'altro punto di vista, la stessa evoluzione di una catechesi legata unicamente allo studio letterario delle fonti: "Ciò che è capitato alla ricerca sulla vita di Gesù è singolare. Essa è partita alla ricerca del Gesù della storia, e credette di poterlo ricollocare nel nostro tempo così come era, come Maestro e Salvatore. Essa disfece i legami che, da secoli, la univano alla roccia dell'insegnamento della Chiesa, e si rallegrava vedendo la sua figura riprendere vita e movimento, e il Gesù storico venire incontro. Ma ecco, esso non si arrestò, passò di fianco al nostro tempo e ritornò verso il suo" (cit. in W. G. KOMMEL, Das Neue Testament, Geschichte der

Erforschung seiner Probleme, Friburgo in Brisgovia 1958, p. 305).

In realtà questo processo, di cui, circa un secolo fa, Schweitzer aveva creduto di avere arrestato l'evoluzione teologica, si ripete sempre in un modo nuovo e con svariati cambiamenti nella moderna catechesi. Infatti, i documenti che si sono voluti leggere senza alcun altro intermediario oltre al metodo storico, per ciò stesso si allontanarono alla distanza che li separa dal fatto storico. Una esegesi che non vive e non comprende più la Bibbia con l'organismo vivente della Chiesa diventa archeologia: un museo di cose passate.

Concretamente, ciò si verifica anzitutto nel fatto che la Bibbia si disgrega come Bibbia, per non essere niente altro che una collezione di libri eterogenei. Di qui la domanda: come assimilare questa letteratura, e secondo quali criteri scegliere i testi con i quali bisogna costruire la catechesi? La rapidità con cui si è realizzata questa evoluzione si vede, per esempio, in questa proposta fatta recentemente in Germania, in una lettera di un lettore a una rivista: stampare, nelle nuove edizioni della Bibbia, in caratteri piccoli ciò che è superato, e mettere invece in evidenza ciò che resta valido. Ma che cosa è valido? Che cosa è superato? In fin dei conti, è il gusto a decidere, e la Bibbia potrà tutt'al più servire a secondare la nostra decisione.

Ma la Bibbia si disgrega anche in un altro modo. Cercando l'elemento primitivo, giudicato sicuro e affidabile, ci si scontra con le fonti più antiche ricostruite a partire dalla Bibbia, che si pensa in definitiva essere più importanti de "la fonte". Una madre tedesca mi raccontò, un giorno, che suo figlio, che frequentava la scuola media, era in procinto di essere iniziato alla cristologia della presunta fonte dei "logia del Signore"; ma dei sette sacramenti, degli articoli del Credo, egli non sospettava ancora neppure la esistenza. L'aneddoto vuole dire questo: con il criterio dello strato letterario più antico come testimonianza storica più sicura, la vera Bibbia spariva a vantaggio di una Bibbia ricostruita, a vantaggio di una Bibbia come dovrebbe essere. Lo stesso succede di Gesù. Quello dei Vangeli è considerato come un Cristo notevolmente rimaneggiato dal dogma, dietro il quale bisognerebbe ritornare al Gesù dei logia oppure di un'altra fonte presunta, per trovare il Gesù reale. Questo Gesù "reale", a questo punto, non dice e non fa niente di più di quello che ci piace.

Ci risparmia, per esempio, la croce come sacrificio espiatorio; la croce è ricondotta alle dimensioni di uno scandaloso incidente, al quale non conviene prestare troppa attenzione. Anche la Resurrezione diventa una esperienza dei discepoli secondo la quale Gesù, o almeno la sua "realtà", continua. Non ci si sofferma più sugli avvenimenti, ma sulla coscienza che ne hanno avuto i discepoli e la "comunità". La certezza della fede è sostituita dalla fiducia nell'ipotesi storica. Ora, questo modo di procedere mi sembra irritante. La garanzia della ipotesi storica, in un grande numero di testi di catechismo, diventa assolutamente più importante della certezza della fede. Questa è scaduta al livello di una vaga fiducia senza contorni precisi. Ma la vita non è una ipotesi, e la morte neppure; ci si rinchiude nello scrigno vitreo di un mondo intellettuale, che si è fatto da solo e che, allo stesso modo, può dissolversi.

Ma ritorniamo al nostro tema. Se ricapitoliamo le riflessioni fatte finora, possiamo anzitutto constatare che lo sconvolgimento della catechesi negli ultimi venti o trenta anni è caratterizzato da una nuova immediatezza nel contatto con le fonti scritte della fede, con la Bibbia. Se prima la Bibbia entrava nell'insegnamento della fede solo nella forma di dottrina della Chiesa, ora si tenta di penetrare nel cristianesimo attraverso un dialogo diretto tra la esperienza attuale e la parola biblica. L'utilità di questo sforzo consisteva in un accrescimento di umanità concreta nella esposizione dei fondamenti del fatto cristiano. Così facendo, il dogma non era generalmente negato, ma scadeva al rango di una specie di quadro orientativo di poca importanza per il contenuto e per la struttura della catechesi. Dietro a ciò stava una certa perplessità nei confronti del dogma, che proveniva dal fatto di non avere chiarito i rapporti tra lettura dogmatica e lettura storico-critica della Scrittura. Nella misura in cui questa evoluzione progrediva, apparve manifesto che la Scrittura, lasciata a se stessa, cominciava a dissolversi: la si sottometteva sempre a nuove "riletture". Nel tentativo di attualizzare il passato, l'esperienza personale o comunitaria diveniva, a vista d'occhio, il criterio decisivo di ciò che rimaneva attuale. Così nasceva una specie di empirismo teologico, in cui la esperienza del gruppo, della comunità oppure degli "esperti", diventa la fonte ultima. Le fonti comuni sono allora canalizzate in modo tale che non si riconosce più granché del loro dinamismo originario. Se un tempo è stato rimproverato alla catechesi tradizionale di non condurre alle fonti, ma di farle arrivare agli uomini dopo averle filtrate, oggi queste canalizzazioni del passato dovrebbero piuttosto essere paragonate a torrenti in rapporto ai nuovi metodi di dominio delle fonti.

Infatti, oggi, si pone una domanda centrale, ed è questo propriamente il nostro tema: come può essere conservata pura l'acqua delle fonti nella trasmissione della fede? Con questa domanda sono messi in luce due problemi essenziali per la situazione attuale.

a. I rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storico-critica

La questione che deve essere esaminata in primo luogo è quella dei rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storico-critica. Questa è anche la questione dei rapporti da stabilire tra il tessuto vivente della tradizione, da una parte, e i metodi razionali di ricostruzione del passato, dall'altra. Ma è anche la questione dei due livelli del pensiero e della vita: qual è, dunque, il posto dell'articolazione razionale della scienza nel tutto dell'esistenza umana e del suo incontro con il reale?

b. Rapporti tra metodo e contenuto, e tra esperienza e fede

La seconda questione ci sembra consistere nella determinazione dei rapporti tra metodo e contenuto, tra esperienza e fede. E' chiaro che la fede senza esperienza può essere soltanto chiacchiericcio di formule vuote. Per contro, è ugualmente evidente che ridurre la fede alla esperienza significa privarla del suo contenuto. Ci smarriremmo nel campo del non sperimentato e non potremmo dire con il salmo: "hai guidato al largo i miei passi" (Sal. 31 30,9), prigionieri della strettezza delle nostre esperienze.


CONTINUA...... [SM=g1740733]
Caterina63
00venerdì 25 settembre 2009 11:52
Parte seconda.
Per superare la crisi

1. Cosa e la fede?


Sarebbe dare prova di un inammissibile accademismo attendere che si "sia finito di discutere" prima di promuovere un rinnovamento della catechesi. La vita non aspetta che la teoria sia arrivata alla fine della sua elaborazione; la teoria, piuttosto, ha bisogno delle iniziative della vita, che è sempre "aggiornata". La fede stessa è anticipazione su quanto è attualmente inaccessibile. Così essa 1o raggiunge nella nostra vita e conduce la nostra vita a superarsi.

In altri termini: in vista di un giusto rinnovamento teorico e pratico della trasmissione della nostra fede, proprio come in vista di un vero rinnovamento della catechesi, è indispensabile che i problemi appena enunciati siano riconosciuti come tali e condotti verso la loro soluzione. Ora, l'impossibilita in cui siamo di rinunciare alla teoria, sia nella Chiesa che riguardo alla fede, non significa che la fede debba risolversi in teoria, né che dipenda totalmente dalla teoria. La discussione teologica, di norma, è possibile e significativa solo se e perché vi è, in permanenza, una avanzata del reale. Di questo parla con insistenza la prima lettera di san Giovanni, a proposito di una crisi del tutto simile alla nostra: "[...] voi avete l'unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza" (1 Gv. 2,20).

Questo vuole dire: la vostra fede battesimale, la conoscenza che vi è stata trasmessa con l'unzione (sacramentale), sono un contatto con la realtà stessa, che ha, dunque, la precedenza sulla teoria. Non è la fede battesimale che deve giustificarsi davanti alla teoria, ma la teoria davanti alla realtà, davanti alla conoscenza della verità concessa nella confessione battesimale. Alcuni versetti più avanti, l'Apostolo traccia una frontiera molto netta alle esigenze intellettuali che si chiamavano "gnosi". Poiché ciò che allora era in causa, era l'esistenza stessa del cristianesimo o il suo recupero da parte della filosofia del tempo. L'Apostolo dice: "E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da Lui rimane in voi [cioè la conoscenza della fede in comunione di spirito con la Chiesa]. E non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa [la sua unzione, cioè la fede cristologica della Chiesa, dono dello Spirito], è veritiera e non mentisce, così state saldi in Lui come essa vi insegna" (Ibid. 2,27).

Questo passaggio avverte, attraverso l'autorità apostolica di colui che aveva toccato il Verbo incarnato, che i fedeli devono resistere alle teorie che dissolvono la fede in nome dell’autorità della pura ragione. Ai cristiani viene detto che il loro giudizio - quello della semplice fede della Chiesa - ha una autorità più alta di quella delle teorie teologiche, poiché la loro fede esprime la vita della Chiesa, che è al di sopra delle spiegazioni teologiche e delle loro certezze ipotetiche (è la posizione di base di sant'Ireneo nel suo scontro con la gnosi; questa posizione, che sta al fondamento stesso della teologia cattolica, ha avuto, e ha ancora, una importanza decisiva nella formazione, come pure nella esistenza, della Chiesa cattolica: cfr. H. J. JASCHKE, Der Heilige Geist im Bekenntnis der Kirche, Munster 1976, pp. 265-294).

Ora, con questi rinvii al primato della fede battesimale su tutte le teorie didattiche e teologiche, diamo, in realtà, una risposta completa alle domande fondamentali della nostra esposizione. Per meglio elaborare e approfondire queste vedute, dobbiamo adesso formulare meglio la nostra questione. Per rispondere esattamente, dobbiamo, dunque, chiarire ciò che si deve intendere per fede e per fonte della fede.

L’ambiguità del termine "credere" deriva dal fatto che riveste due atteggiamenti spirituali diversi. Nel linguaggio quotidiano, credere significa "pensare, supporre"; questo è un grado inferiore del sapere rispetto a realtà di cui non abbiamo ancora certezza. Ora, è comunemente ammesso che la fede cristiana stessa è un insieme di supposizioni su argomenti di cui non abbiamo una conoscenza esatta. Ma una tale opinione manca totalmente il suo obiettivo. Il più importante catechismo cattolico, il Catechismo Romano pubblicato sotto Pio V in seguito al Concilio di Trento - e al quale dovremo sovente ritornare -, in merito al fine e al contenuto della catechesi, che è la somma delle conoscenze cristiane, si esprime, infatti, conformemente a un detto di Gesù riportato da san Giovanni: "E la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv. 17,3. Cfr. Catechismo Tridentino, prefazione, n. 10 [trad. it., Cantagalli, Siena 1981, p. 26]).

Dicendo ciò, il Catechismo Romano intende precisare contenuto e finalità di ogni catechesi, e precisa effettivamente, in un modo fondamentale, ciò che è la fede: credere significa trovare e realizzare la vita, la vera vita. Non si tratta di un qualsiasi potere, che sarebbe lecito acquisire o lasciare da parte, ma proprio del potere di imparare a vivere, e di vivere una vita che possa rimanere sempre. Sant’Ilario di Poitiers, che scrisse nel secolo IV un libro sulla Trinità, ha descritto in modo simile il punta di partenza della sua ricerca di Dio: aveva finalmente preso coscienza che la vita non è donata solamente per morire; nello stesso tempo, aveva compreso che i due scopi della vita, che si impongono come contenuto di vita, sono insufficienti: non sono sufficienti, dice, ne' il possesso ne' il godimento tranquilli della vita. "Beni e sicurezza" sono ciò che la vita non può accontentarsi di essere, "altrimenti l'uomo ubbidirebbe solo al suo ventre e alla sua pigrizia" (SANT'ILARIO DI POITIERS, La Trinità, I, 1 e 2).

Il vertice della vita può essere raggiunto solo la' dove vi è qualche cosa di più: la conoscenza e l’amore. Si potrebbe dire anche: solo la relazione dona alla vita la sua ricchezza: la relazione con l’altro, la relazione con l'universo. Tuttavia, neppure questa duplice relazione è sufficiente, perché "la vita eterna è che conoscano te". La fede è la vita, perché è relazione, cioè conoscenza che diventa amore, amore che viene dalla conoscenza e che conduce alla conoscenza. Come la fede indica un altro potere oltre a quello di compiere alcune azioni isolate, cioè il potere di vivere, così essa possiede anche, in proprio, un altro campo oltre a quello della conoscenza degli esseri particolari, vale a dire il potere della conoscenza fondamentale stessa, grazie alla quale prendiamo coscienza del nostro fondamento, impariamo ad accettarlo, e grazie a esso possiamo vivere. Il dovere essenziale della catechesi consiste, dunque, nel condurre alla conoscenza di Dio e del suo inviato, come dice giustamente il Catechismo Tridentino.

Le nostre riflessioni ci hanno fatto descrivere, fino a ora, quello che si potrebbe chiamare il carattere personale della nostra fede. Ma questa è solo la meta di un tutto. Vi è un secondo aspetto che troviamo ancora descritto nella prima lettera di san Giovanni. Al versetto I, l'esperienza dell'Apostolo è definita "visione" e "contatto" con il Verbo, che è Vita e si offrì al tatto facendosi carne. Di qui la missione degli apostoli, che consiste nel trasmettere quanto hanno sentito e visto, "perché anche voi siate in comunione con noi", con questa Parola (1 Gv I, 1-4).

La fede non è, dunque, soltanto un incontro a faccia a faccia con Dio e Cristo: è anche quel contatto che apre all'uomo la comunione con coloro ai quali Dio stesso si è comunicato. Questa comunione - possiamo aggiungere - è dono dello Spirito, che getta per noi un ponte verso il Padre e il Figlio. La fede non è, dunque, solo un "io" e un "tu", essa è anche un "noi". In questo "noi" vive il memoriale che ci fa ritrovare quanto abbiamo dimenticato: Dio e il suo Inviato.

Per dirla in altri termini, non vi è fede senza Chiesa [SM=g1740722] .

Henri de Lubac ha dimostrato che l’"io" della confessione di fede cristiana non è l’"io" isolato dell'individuo, ma l’"io" collettivo della Chiesa (Cfr. HENRI DE LUBAC S.J., Paradoxe et mystere de l’Eglise, Aubier-Montagne, Parigi 1967). Quando io dico: "Credo", significa che supero le frontiere della mia soggettività per integrarmi nell'"io" della Chiesa e, nello stesso tempo, mi integro nel suo sapere, che oltrepassa i limiti del tempo. L'atto di fede è sempre un atto con il quale si entra nella comunione di un tutto. E' un atto di comunione con il quale ci si lascia integrare nella comunione dei testimoni, tanto che, attraverso loro, tocchiamo l’intoccabile, udiamo l'inaudibile, vediamo l'invisibile. Il cardinale de Lubac ha dimostrato anche che noi non crediamo nella Chiesa allo stesso modo con il quale crediamo in Dio, ma che la nostra fede è fondamentalmente un atto compiuto con tutta la Chiesa (Cfr. IDEM, La Foi chretienne. Essai sur la structure du symbole des apotres. Aubier-Montagne, Parigi 1969, 28 ed. 1970, pp.201-234; cfr. anche J. RATZINGER, Theologische Prinzipienlehre. cit., pp. 15-27; importante e chiarificatore a tale proposito è quanto sottolinea LOUIS BOUYER, Le metier du theologien, France-Empire, Parigi 1979, pp. 207-227).

Dunque, tutte le volte che si pensa di potere trascurare anche solo un poco, nella catechesi, la fede della Chiesa, con il pretesto di attingere alla Scrittura una conoscenza più diretta e più precisa, si penetra nel campo dell'astrazione. Allora, infatti, non si pensa più, non si vive più, non si parla più in ragione di una certezza che oltrepassa le possibilità dell'io individuale e che si fonda su una memoria ancorata alle basi della fede e derivante da essa; non si parla più in virtù di una delega che oltrepassa i poteri dell'individuo; al contrario, ci si tuffa in quell'altra sorta di fede che è solo opinione, più o meno fondata, su quanto non è conosciuto. In queste condizioni, la catechesi si riduce a essere soltanto una teoria accanto ad altre, un potere simile ad altri; essa non può più essere, allora, studio e accoglienza della vita vera, della vita eterna.

2. Che cosa sono le "fonti"?

Considerando la fede in questa prospettiva, anche il problema delle "fonti" si pone in modo diverso. Quando, circa trent'anni fa, tentavo di fare uno studio della Rivelazione nella teologia del secolo XIII, mi scontravo con una constatazione inaspettata: infatti, in questa epoca nessuno aveva avuto l'idea di chiamare la Bibbia "la Rivelazione"; così pure a essa non venne applicato il termine di "fonte". Non che allora si fosse tenuta la Bibbia in minore stima di oggi: al contrario, se ne aveva un rispetto assai meno condizionale, ed era chiaro che la teologia non poteva e non doveva essere altro che interpretazione della Scrittura. E' l'idea che ci si faceva dell'armonia tra Scrittura e Vita che era differente. Per questo si applicava la parola "Rivelazione", da un lato, al solo atto - mai esprimibile con parole umane - con il quale Dio si fa conoscere alla sua creatura e, d'altro lato, all'accoglienza con la quale la "condiscendenza" divina diventa percettibile all'uomo in forma di Rivelazione. Tutto ciò che deve essere fissato in parole, dunque la Scrittura stessa, testimonia della Rivelazione, senza essere questa Rivelazione nel senso più stretto del termine. Solo la Rivelazione medesima è, propriamente parlando, "fonte", una fonte alla quale attinge anche la Scrittura. Se la si distacca da questo contesto vitale della "condiscendenza" divina nel "noi" dei credenti, allora la fede è strappata al suo terreno naturale, per non essere più che "lettera" e "carne" (in seguito a diverse circostanze, fino a ora ho potuto pubblicare solo frammenti delle ricerche fatte a quell'epoca; cfr. J. RATZINGER, Offenbarung - Schrift – Uberlieferung, in Trierer Theologische Zeitschrift. 67, 1958, pp. 13-27; IDEM, Wesen und Weisen der Auctoritas im Werk des hlg. Bonaventura in Die Kirche und ihre Amter und Stande, Miscellanea cardinale Frings, Colonia 1960, pp. 58-72; si troveranno ugualmente alcune indicazioni nella mia opera Die Geschichtstheologie des hlg. Bonaventura, Monaco di Baviera 1959; cfr., per la problematica, H. DE LUBAC S.J., Exégèse mèdiévale, 3 voll., Aubier-Montagne, Parigi 1959-1964).

Quando, molto più tardi, si applicò alla Bibbia il concetto storico di "fonte", si eliminò contemporaneamente la sua capacità interna di superamento, che, ciononostante, appartiene alla sua essenza, e si ridussero pure a una sola le dimensioni della sua lettura. Questa non poteva cogliere altro che lo storicamente verosimile; ma che Dio agisca, ciò non poteva e non doveva più rientrare nelle categorie del verosimile agli occhi dello storico.

Se non si considera la Bibbia altrimenti che come una fonte nel senso del metodo storico - cosa che certo essa è anche -, allora lo storico è il solo competente a interpretarla; ma allora, anche, essa può darci soltanto informazioni storiche. Lo storico si sente in dovere di provare a fare dell'agire di Dio, in un tempo e in un luogo determinati, una ipotesi inutile.

Se, al contrario, la Bibbia è il condensato di un processo di Rivelazione molto più grande e inesauribile, e il suo contenuto è percettibile al lettore solamente quando costui è stato aperto a questa dimensione più alta, allora il senso della Bibbia non ne risulta diminuito. Ciò che, per contro, cambia totalmente sono le competenze della sua interpretazione. Ciò significa che essa appartiene a un ambito di riferimenti, mediante i quali il Dio vivente si comunica in Cristo mediante lo Spirito Santo. Ciò significa che essa è espressione e strumento della comunione grazie alla quale l’"io" divino e il "tu" umano si toccano nel "noi" della Chiesa attraverso la mediazione di Cristo. Essa è allora parte di un organismo vivente dal quale trae, per altro, la sua origine; di un organismo che - attraverso le vicissitudini della storia - conserva nondimeno la sua identità e che, di conseguenza, può fare valere, per così dire, i suoi diritti d'autore sulla Bibbia come su un bene che a esso appartiene. Che la Bibbia, come tutte le opere d'arte e ben più di tutte le opere d’arte, dica di più di quello che noi possiamo comprendere ora della sua lettera, risulta allora dal fatto che essa esprime una Rivelazione, riflessa ma non esaurita dalla parola.

Si spiega così anche che, la' dove la Rivelazione è stata "percepita" ed è ridiventata vivente, ne sia seguita un'unione con la parola più profonda che là dove essa è stata analizzata soltanto come un testo. La "simpatia" dei santi con la Bibbia, le loro sofferenze condivise con la Parola, la fanno loro comprendere più profondamente di quanto non abbiano potuto farlo i sapienti dell'epoca dei lumi. Questa è una conseguenza del tutto logica. Ma, contemporaneamente, divengono comprensibili sia il fenomeno della Tradizione che quello del Magistero della Chiesa (Cfr. P. G. MOLLER, Der Traditionsprozess im Neuen Testament, Friburgo in Brisgovia 1981, che ha bene dimostrato, con l’aiuto del metodo linguistico, come la Bibbia stessa presupponga questo contesto e possa, dunque, essere letta nella sua prospettiva propria solamente nella misura in cui vi si acceda così; H. GESE, Zur biblischen Theologie, Monaco di Baviera 1977, pp. 9-30, presenta, a questo riguardo, punti di vista importanti e interessanti; sulla Chiesa in quanto soggetto, cfr. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L'unite de la loi et le pluralisme theologique, Einsiedeln 1973, in particolare il mio commento sulle tesi IV-VIII, pp. 32-48).

Che rapporto hanno queste analisi con il nostro soggetto? Se sono esatte, significa che le fonti storiche devono sempre confluire nella fonte per eccellenza, cioè Dio che agisce in Cristo. Questa fonte non è altrimenti accessibile che nell'organismo vivente che l’ha creata e la mantiene in vita. In questo organismo, i libri della Scrittura e i commenti della Chiesa che spiegano la fede non sono più testimonianze morte di avvenimenti passati, ma elementi portatori di una vita nuova. Là, essi non hanno mai smesso di essere presenti e di aprire le frontiere del presente. Dal momento che essi ci conducono verso Colui che tiene il tempo nella sua mano, rendono anche permeabili le frontiere del tempo. Il passato è il presente si ricongiungono nell'oggi della fede (così l’"oggi" e il "domani" della liturgia nel tempo di Avvento e in quello di Quaresima non sono un semplice gioco di parole nella fede, ma, piuttosto, interpretazione della realtà).

3. La struttura della catechesi [SM=g1740733]

a. Le quattro parti principali


La coesione interna tra la parola e l’organismo che la veicola traccia la via alla catechesi. La sua struttura appare attraverso gli avvenimenti principali della vita della Chiesa, che corrispondono alle dimensioni essenziali della esistenza cristiana. Così, fino dai primi tempi, è nata una struttura catechetica, il cui nucleo risale alle origini della Chiesa. Lutero ha utilizzato questa struttura per il suo catechismo altrettanto naturalmente di quanto hanno fatto gli autori del catechismo del Concilio di Trento. Ciò fu possibile perché non si trattava di un sistema artificiale, bensì, semplicemente, della sintesi del materiale mnemonico indispensabile alla fede, che riflette contemporaneamente gli elementi vitalmente indispensabili alla Chiesa: il simbolo degli apostoli, i sacramenti, il decalogo, la preghiera del Signore.

Queste quattro parti classiche e principali della catechesi sono servite per secoli come dispositivo e riassunto dell’insegnamento catechetico; esse hanno anche aperto l'accesso alla Bibbia così come alla vita della Chiesa. Vogliamo dire che corrispondono alle dimensioni della esistenza cristiana. E quanto afferma il Catechismo Romano dicendo (cfr. Catechismo Tridentino, prefazione, n. 12; trad. it. cit., p. 29) che vi si trova quanto il cristiano deve credere (simbolo), sperare (Padre Nostro), fare (decalogo), e in quale spazio vitale deve compierlo (sacramenti e Chiesa). Così diventa percettibile contemporaneamente l’accordo con i quattro gradi della esegesi, di cui si parla nel Medioevo, e che sono anche considerati come una risposta alle domande che si pongono alle quattro tappe della esistenza umana.

Vi è, anzitutto, il senso letterale della Scrittura, che si ricava con l’attenzione al radicamento storico degli avvenimenti della Bibbia. Viene poi il senso detto allegorico, cioè la intuizione e la interiorizzazione di tali avvenimenti in vista di superarli - quello grazie al quale i fatti storici riportati fanno parte di una storia della salvezza. Vi sono, infine, il senso morale e quello anagogico, che mettono in evidenza come l'agire deriva dall’essere e come la storia, al di là dell'avvenimento, è speranza e sacramento del futuro (Cfr. H. DE LUBAC S.J., Histoire et esprit. L'intelligence de l'Ecriture d'apres Origene. Aubier-Montagne, Parigi 1950). Oggi occorrerebbe rifare 1o studio di questa dottrina dei quattro sensi della Scrittura: essa spiega il posto indispensabile della esegesi storica, ma delimita altrettanto chiaramente i suoi confini e il suo necessario contesto.

Alla raccolta mnemonica delle materie della fede, che rappresentano le quattro componenti principali che stiamo enumerando, presiede, dunque, una innegabile logica interna. Per questo il Catechismo Romano le ha caratterizzate a giusto titolo come i "Luoghi della esegesi biblica".Nel linguaggio scientifico e teorico di oggi si direbbe che esso intende considerare come i punti fissi di una topica e di una ermeneutica della Scrittura (cfr. Il Catechismo Tridentino, prefazione, n. 12 - trad. it. cit., pp. 29-30 -, parla di "quatuor his quasi communibus Sacrae Scripturae locis", "questi quattro luoghi per così dire comuni della sacra Scrittura"; il n. 13 - trad. it. cit., p. 30 - tratta di "prima ilia quatuor genera", "queste quattro categorie prime"; la parola "fonte" interviene quando si dice che ogni enunciato della Bibbia può essere ricondotto a uno di questi "Luoghi", ai quali ogni catecheta deve ricorrere come alla fonte della dottrina da spiegare in ogni caso, "quo tamquam ad ejus doctrinae fontem [...] confugient", trad. it. cit., p. 30).

Per l’uso della parola "fonte", come pure per la comprensione esatta dei fattori che entrano in gioco nell'insegnamento cristiano, l'osservazione seguente non mi pare priva di importanza; qui, non si considera la Bibbia come fonte, in opposizione alle "componenti principali", "capita", che sarebbero uno schema di organizzazione, ma sono, invece, le "componenti principali" a essere la fonte dalla quale scaturiscono gli enunciati biblici particolari. Il fatto che ciò sia valido per il decalogo nel suo rapporto con i libri legislativi dell'Antico Testamento e stato dimostrato in modo convincente da H. Gese, con i metodi della esegesi scientifica, nel suo fondamentale studio sulla legge Zur biblischen Theologie (cit., pp. 55-84). Lo si dimostrerebbe ugualmente, non in modo equivalente ma analogo anche per le altre ("componenti principali").

Non si vede perché oggi si creda di dovere abbandonare a tutti i costi questa struttura semplice, esatta tanto teologicamente che pedagogicamente. Nei primi tempi del nuovo movimento catechetico essa passava per ingenua. Si credeva di dovere edificare a tutti i costi una sistematizzazione cristiana contemporaneamente logica e cogente. Ora, tentativi di questo genere appartengono alla ricerca teologica e non alla catechesi: essi, d'altronde, raramente sopravvivono ai loro autori. All'estremo opposto, vi è abolizione di qualunque struttura e caducità di scelte fatte in ragione della situazione attuale: fu una reazione inevitabile agli eccessi del pensiero sistematico.

b. Riflessioni su due problemi di contenuto

Il fine di questa esposizione non è di dare in dettaglio il contenuto di queste quattro componenti principali. Qui si tratta solo di problemi di struttura. Non posso nondimeno evitare alcune brevi riflessioni a proposito di due elementi di queste strutture, che mi sembrano oggi particolarmente minacciati.

La nostra Fede in Dio Creatore e nella creazione

Il primo punto è quello della nostra fede in Dio creatore e nella creazione, come elementi del simbolo di fede della Chiesa. Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della fede possa compromettere la cristologia (questo timore è ricordato dalla Conferenza Episcopale Francese, La catéchèse des enfants. Texte de reference. cit., p. 37, che sottolinea, per altro giustamente, "che si può parlare cristianamente di Dio creatore soltanto nella luce di Gesù Cristo risorto"). Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore potrebbe sembrare giustificato.

Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova, allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche, realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita.

Oggi si tende a evitare la difficoltà dovunque il messaggio della fede ci mette in presenza della materia, e si tende ad attenersi a una prospettiva simbolica: questo comincia con la creazione, continua con la nascita verginale di Gesù e la sua resurrezione, finisce con la presenza reale di Cristo nel pane nel vino consacrati, con la nostra stessa resurrezione e con la parusìa del Signore. Non si tratta di una discussione teologica di poca importanza quando si situa la resurrezione individuale al momento della morte, negando così non soltanto l'anima, ma anche la realtà della salvezza per il corpo (su questa problematica, cfr. J. RATZINGER, La Mort et l’Au-delà Court traile d'esperance chretienne; trad. francese, Fayard, 1979, e il mio articolo Entre la mort et la resurrection, in Revue catholique internationale Communio, V 1980, 3, pp. 4-19, dove sintetizzo e approfondisco tale problema). Per questo un rinnovamento decisivo della fede nella creazione costituisce una condizione necessaria e preliminare alla credibilità e all'approfondimento sia della cristologia che della escatologia.

Il decalogo

Il secondo punto che vorrei sottolineare concerne il decalogo. Fu a causa di una incomprensione fondamentale della critica fatta da Paolo alla Legge che molti sono giunti a pensare che il decalogo, in quanto legge, doveva essere eliminato dalla catechesi e sostituito dalle beatitudini del discorso della Montagna. Si misconosceva così non solo il decalogo, ma anche il discorso della Montagna, come pure tutta la struttura interna della Bibbia. Paolo, al contrario, ha caratterizzato il passaggio dalla Legge al Nuovo Testamento dicendo che "pieno compimento della Legge è l'amore", e per spiegare questo compimento si è espressamente riferito al decalogo (Rom. 13,8-10; cfr. Lev. 19,8; Es. 20,13 ss.; Deut. 5,17. Cfr. anche H. GESE, Zur biblischen Theologie. cit.).

Dove il decalogo è espulso dalla catechesi, viene intaccata la struttura fondamentale di essa. Non vi e più, allora, alcuna introduzione reale alla fede della Chiesa (è merito del testo di riferimento della Conferenza Episcopale Francese avere situato con esattezza l’attualità del decalogo - La catéchèse des enfants. Texte de reference, cit., p. 59 -; così pure è in rapporto con il nostro discorso quanta e detto della catechesi come "processo strutturato sacramentalmente", ibid.. p. 57).

c. La struttura formale della catechesi

Vorrei terminare le mie rif1essioni con due osservazioni sui problemi teologici essenziali, che sono stati oggetto della nostra considerazione nella prima parte della esposizione.

Rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storica

La prima riflessione concerne i rapporti della esegesi dogmatica con la esegesi storica. All'origine del ritorno alla Scrittura che fu in pari tempo un abbandono della catechesi dogmatica tradizionale, vi era la paura che il legame con il dogma non lasciasse vera libertà a una lettura comprensiva della Bibbia. Il modo con il quale la tradizione dogmatica aveva effettivamente praticato la esegesi scritturale giustificava ampiamente, infatti, questo timore. Ma oggi constatiamo che solo il contesto della tradizione ecclesiale mette il catechista in condizione di attenersi a tutta la Bibbia e alla vera Bibbia. Oggi vediamo che solo nel contesto della fede comunitaria della Chiesa si può prendere la Bibbia alla lettera, ritenere ciò che essa dice come realtà attuale, tanto per il nostro mondo di oggi che per la sua storia. Questa circostanza legittima l'interpretazione dogmatica della Bibbia anche da un punta di vista storico: il luogo ermeneutico costituito dalla Chiesa è il solo che possa fare accettare gli scritti della Bibbia come Sacra Scrittura, e le loro dichiarazioni come significative e vere. Vi sarà, nondimeno, sempre una certa tensione tra i nuovi problemi della storia e la continuità della fede. Ma, nello stesso tempo, ci sembra chiaro che la fede tradizionale non costituisce il nemico, bensì il garante di una fedeltà alla Bibbia che sia conforme ai metodi della storia.

Rapporto tra metodo e contenuto della catechesi

La seconda e ultima rif1essione ci fa tornare al problema dei rapporti tra metodo e contenuto della catechesi. Il lettore di oggi può stupirsi che il Catechismo Romano del secolo XVI abbia avuto una coscienza assai viva del metodo catechetico.

Vi si legge, infatti, che importava enormemente sapere se tale
insegnamento dovesse essere impartito in questa o in quella maniera. Per questo la catechesi doveva essere esattamente adeguata all'età, alle capacita di comprensione, alle abitudini di vita e alla situazione sociale degli uditori, per essere veramente tutto a tutti. Il catechista doveva sapere chi aveva bisogno di latte, chi aveva bisogno di alimenti solidi, al fine di adattare il suo insegnamento alla capacita di ciascuno.

Lo stupefacente per noi è che il Catechismo Romano abbia lasciato al catechista molta più libertà di quanto non faccia generalmente la catechetica attuale. Infatti, esso lascia all'iniziativa dell'insegnante l’ordine da adottare nella sua catechesi in funzione delle persone e delle circostanze. Esso presuppone anche, è vero, che il catechista viva e faccia sua la materia del suo insegnamento attraverso una meditazione continua e una assimilazione interiore e che - nella scelta del proprio piano - non perda di vista la necessità di ordinarlo in funzione delle quattro componenti principali della catechesi (Catechismo Tridentino, prefazione, n. 13: "Docendi autem ordinem eum adhibebit, qui et personis et temporis accomodatum videbitur" - trad. it. cit., p.30 -; gli altri riferimenti sono alla prefazione, n. 12 - trad. it. cit., pp. 27-28).

Il Catechismo Romano non esige certo di prescrivere tale metodo didattico.
Esso dice piuttosto: quale che sia l’ordine scelto dal catechista, noi abbiamo scelto per questo libro la via dei Padri (Ibid., n. 13; trad. it. cit., p. 30). [SM=g1740722]

In altre parole, mette a disposizione del catechista il dispositivo fondamentale indispensabile, come pure i materiali con cui riempirlo; ma non lo dispensa dal trovare lui stesso quale via sia più appropriata alla sua trasmissione nella tale situazione concreta. Senza alcun dubbio, il Catechismo Romano presupponeva già, così, l'esistenza di una letteratura di secondo grado, grazie alla quale il catechista poteva essere aiutato nel suo compito, senza che si potessero tuttavia programmare anticipatamente tutte le situazioni particolari.

Questa distinzione di livelli è, ai miei occhi, essenziale. Il guaio della nuova catechesi consiste, in definitiva, in questo: ci si è un poco dimenticati di distinguere il "testo" dal suo "commento".

Il "testo", cioè il contenuto propriamente detto di ciò che bisogna annunciare, si diluisce sempre più nel suo commento; ma il commento non ha allora più nulla da commentare, è diventato misura di se stesso, e perde, nello stesso tempo, la sua serietà. Sono dell'avviso che la distinzione fatta dal Catechismo Romano tra il testo di base (il contenuto della fede della Chiesa) e i testi parlati o scritti della sua trasmissione non sia una via possibile tra altre: essa appartiene all'essenza della catechesi (questo ordinamento di livelli appare chiaramente a partire dal secolo II nella struttura di relazioni simbolo - regula fidei - dei trattati catechetici: se il simbolo presenta la parola comune della confessione orante, per contro la regula, che non può essere fissata parola per parola, è una struttura fondamentale dei "capita" del cristianesimo preesistente a ogni maestro, struttura che, a sua volta, è riflessa, concretizzata e applicata alle diverse situazioni nella produzione teologica; per le relazioni tra il simbolo, la regula e la teologia, cfr. H. J. JASCHKE, op. cit., passim, ma, in particolare, le pp. 36-44 e 140-147). Da un lato è al servizio della necessaria libertà del catechista nel trattare le situazioni particolari; dall’altro, essa è indispensabile per garantire la identità del contenuto della fede.

A ciò non si può obiettare che qualunque discorso umano relativo alla fede è già un commento e non più il testo primitivo, perché la Parola di Dio non può mai essere imprigionata nella parole umane. Che la Parola di Dio sia sempre infinitamente più grande di ogni parola umana, più grande anche delle parole ispirate dalla stessa Scrittura, questo non toglie al messaggio della fede il suo volto e i suoi contorni.

Al contrario, questo ci obbliga tanto più alla salvaguardia della nostra fede ecclesiale come un bene comune. Essa dobbiamo sforzarci di spiegare nelle situazioni sempre mutevoli, con parole sempre nuove, al fine di corrispondere così, attraverso il tempo, alla inesauribile ricchezza della Rivelazione. Credo, di conseguenza, che sia necessario distinguere di nuovo con chiarezza i gradi del discorso catechetico, anche nei libri destinati alla catechesi e al catechista. Ciò vuol dire che bisogna avere il coraggio di presentare il catechismo come un catechismo, affinché il commento possa restare un commento e affinché le fonti e la loro trasmissione possano ritrovare il loro rapporto esatto.

Non saprei trovare migliore conclusione alle mie rif1essioni delle parole con le quali il Catechismo Tridentino - che ho spesso citato - descrive la catechesi: "L'intera finalità della dottrina e dell'insegnamento deve essere posta nell'amore che non finisce. Poiché si può ben esporre ciò che bisogna credere, sperare o fare: ma, soprattutto, si deve sempre fare apparire l’amore di Cristo, affinché ciascuno comprenda che ogni atto dl virtù perfettamente cristiano non ha altra origine che l'Amore e nessun altro termine che l'Amore" (Catechismo Tridentino, prefazione, n. 10; trad. it. cit., p. 27). [SM=g1740721]

+ Joseph card. Ratzinger
Arcivescovo già di Monaco di Baviera e di Frisinga

Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede



[SM=g1740733]

Caterina63
00giovedì 8 luglio 2010 22:11

"Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza di questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento che possa, in particolare tramite la mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti."

(card. Joseph Ratzinger , Conferenza del luglio 2001, QUI IL TESTO integrale)


Ordunque, cosa diceva questo Catechismo tridentino? ossia realizzato dalla Chiesa al Concilio di Trento per combattere l'eresia protestante?

Riportiamo solo la Prefazione di quel Catechismo:

PREFAZIONE

L'uomo lasciato alle sole sue forze non è in grado di acquistare la vera sapienza e di trovare i mezzi sicuri per conseguire la beatitudine

1 La capacità dell'anima e dell'intelligenza umana è tale che, pur avendo questa potuto da se stessa investigare e conoscere, con molta fatica e diligenza, non poche cose riguardanti le verità divine, tuttavia con il solo lume naturale non è mai arrivata a conoscere e ad apprendere la maggior parte dei mezzi con cui si acquista la salvezza eterna, scopo principale per cui l'uomo è stato creato e formato a immagine e somiglianza di Dio. "Poiché", come insegna l'Apostolo, "dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità" (Rm 1,20). Invece "il mistero tenuto nascosto fin dai secoli remoti e per tante generazioni", ossia il mistero di Cristo, supera talmente l'intelligenza umana che, se non fosse stato rivelato ai santi, ai quali Dio volle mostrare le ricchezze della sua gloria in mezzo alle genti, nessuno avrebbe potuto aspirare a tale sapienza con qualsiasi sforzo umano. 


L'origine dell'eccelso dono della fede

2 Poiché la fede nasce dall'ascoltare, è evidente la perenne necessità dell'opera e del ministero di maestri autorizzati, per conseguire la salvezza eterna. Ecco perché fu detto: "Come ascolteranno, se non c'è chi predica? E come possono predicare, se non ne hanno la missione?" (Rm 10,14.15). Perciò, fin dall'origine del mondo. Dio, che è pieno di clemenza e di benignità, non ha mai mancato di provvedere ai suoi eletti; ma "più volte e in molte maniere per mezzo dei profeti parlò agli antichi padri" (Eb 1,2), mostrando loro, secondo l'opportunità dei tempi, la via sicura e retta per la beatitudine celeste.
 

L'intervento di Cristo, degli Apostoli e dei loro successori

Dio però, avendo promesso "un maestro di giustizia per illuminare le genti" (Gl 2,23), che avrebbe portato la sua salvezza "fino agli estremi confini della terra" (Is 49,6), "negli ultimi tempi ha parlato a noi nella persona del Figlio" (Eb 1,2) e "ha comandato con una voce venuta dal cielo nella gloriosa trasfigurazione" (2 Pt 1,17) che tutti obbediscano ai suoi comandi. A sua volta il Figlio "destinò alcuni a essere Apostoli, altri costituì pastori e dottori" (Ef 4,14), perché annunciassero la parola di vita, per evitare che noi "fossimo sballottati da ogni vento di dottrina"; ben fermi invece sul fondamento della fede, "fossimo compaginati nell'edificio di Dio per opera dello Spirito Santo" (Ef 2,22).
 

Accoglienza per la parola dei pastori della Chiesa

Per evitare poi che qualcuno ricevesse la parola di Dio dai ministri della Chiesa come parola umana, bensì l'accogliesse qual è realmente, come parola di Cristo, il nostro Salvatore medesimo stabilì di conferire al loro magistero tanta autorità da affermare: "Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me" (Le 10,16). E questo non intese riferirlo solo ai presenti cui si rivolgeva, ma a tutti quelli che per legittima successione avrebbero ricevuto l'ufficio d'insegnare, perché promise di assisterli sino alla fine del mondo (Mt 28,20). 

Necessità della loro predicazione ai nostri giorni

3 Questa predicazione della parola di Dio, pur non dovendosi mai interrompere nella Chiesa, certamente deve essere promossa con più impegno e pietà ai nostri giorni; affinché i fedeli vengano nutriti e confortati dal pascolo vitale di un insegnamento sano e incorrotto. Infatti oggi sono sorti nel mondo dei falsi profeti, di cui il Signore aveva detto: "Non li mandavo come profeti ed essi correvano; non parlavo loro, ed essi profetavano" (Ger 23,21), per pervertire gli animi dei cristiani "con dottrine varie e peregrine" (Eb 13,9). E la loro empietà, addestrata a tutte le arti di Satana, sembra che non trovi più limiti. E se non ci potessimo appoggiare alla stupenda promessa del Salvatore, il quale affermò di aver dato alla sua Chiesa un fondamento così solido che le porte dell'inferno non avrebbero mai potuto prevalere contro di essa (Mt 16,18), ci sarebbe da temere che ai nostri giorni la Chiesa, assediata da ogni parte, assalita e combattuta da tante macchinazioni, fosse sul punto di crollare.Per tacere di intere, nobilissime province, che un tempo erano attaccate con pietà e santità alla vera e cattolica religione ricevuta dai loro maggiori, mentre adesso, abbandonata la retta via, affermano di praticare in modo eccellente la pietà allontanandosi totalmente dalla dottrina dei loro padri: non esiste una regione così remota, né un luogo così ben custodito, né un angolo del mondo cristiano, dove tale peste non abbia tentato d'infiltrarsi. 


I catechismi degli eretici

Coloro poi che si sono proposti di pervertire le menti dei fedeli, avendo capito che in nessun modo era possibile raggiungere tutti con la parola viva, per infondere nelle orecchie i loro discorsi avvelenati, tentarono di riuscire a spargere gli errori dell'empietà con un altro mezzo. Infatti, oltre ai grossi volumi con i quali hanno tentato di scalzare la fede cattolica (e da cui forse non è difficile guardarsi, perché contengono apertamente l'eresia), hanno anche scritto un numero quasi infinito di libretti che, con un'apparenza di pietà, sono in grado di ingannare in modo incredibilmente facile gli animi incauti dei semplici.


 

II proposito catechistico del Concilio Tridentino

4 Mossi da tale stato di cose i Padri del Concilio Ecumenico Tridentino, con il vivo desiderio di adottare qualche rimedio salutare per un male così grave e pernicioso, non si limitarono a chiarire con le loro definizioni i punti principali della dottrina cattolica contro tutte le eresie dei nostri tempi, ma decretarono anche di proporre una certa formula e un determinato metodo per istruire il popolo cristiano nei rudimenti della fede, da adottare in tutte le chiese da parte di coloro cui spetta l'ufficio di legittimi pastori e insegnanti. 


Il catechismo voluto dal Concilio e quelli già esistenti

E’ vero che non pochi si sono già distinti per pietà e dottrina in questo genere di componimenti, tuttavia i Padri conciliari ritennero che sarebbe stata della massima importanza la pubblicazione di un libro, munito dell'autorità del Concilio, dal quale i parroci e tutti gli altri cui spetta il compito di insegnare potessero attingere e divulgare norme sicure per l'edificazione dei fedeli. Cosicché, come "uno è il Signore e unica la fede" (Ef 4,5), così fosse unica la regola comune nel trasmettere la fede e nell'insegnare al popolo cristiano i doveri della pietà. 


Limiti del nostro Catechismo

Essendo però assai numerose le cose riguardanti la professione della religione cristiana, nessuno pensi che il Concilio si sia proposto di comprendere e di spiegare appieno, in un solo libro, tutti i dogmi della fede cristiana: cosa che son soliti fare coloro i quali insegnano l'origine e la dottrina di tutta la religione. Questa infatti sarebbe stata un'impresa lunghissima e poco adatta allo scopo suddetto. Ma volendo istruire parroci e sacerdoti in cura d'anime, si è pensato di limitare l'esposizione alla conoscenza di quelle cose che sono maggiormente necessarie al compito pastorale e più proporzionate alla comprensione dei fedeli. Perciò vengono proposti qui soltanto quei punti di dottrina che possono aiutare lo zelo e la pietà dei pastori non troppo versati nelle dispute teologiche.

 

Principi orientativi fondamentali dell'azione pastorale

5 Stando così le cose, prima di esporre i singoli trattati che ricapitolano questa dottrina, lo scopo fissato esige l'illustrazione di quei pochi fondamentali principi che i pastori d'anime devono sempre considerare e tenere principalmente presenti.Affinché, dunque, i pastori d'anime indirizzino tutte le loro deliberazioni, fatiche e industrie al debito fine e possano facilmente conseguirlo, la prima cosa da ricordare sempre è la seguente: che tutta la scienza del cristiano si ricapitola in quel programma, stabilito dalle parole del Salvatore: "Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17,3). Perciò l'impegno principale di quanti insegnano nella Chiesa sarà quello di suscitare nei fedeli il desiderio di conoscere "Gesù Cristo e questo crocifisso" (1 Cor 2,2) e far sì che si persuadano bene e credano con intima pietà e devozione, che "non è stato dato agli uomini altro nome sotto il cielo, nel quale sia possibile salvarsi" (At 4,12), essendo egli la vittima di propiziazione per i nostri peccati (1 Gv 2,2).

Siccome però "noi possiamo sapere di conoscerlo, dal fatto che ne osserviamo i comandamenti" (1 Gv 2,3), è strettamente legato al principio suddetto che s'insegni ai fedeli a trascorrere la propria vita non già nell'ozio e nell'ignavia; che anzi "noi dobbiamo camminare come lui ha camminato" (1 Gv 2,6), ed esercitarci con impegno nella giustizia, nella pietà, nella fede, nella carità e nella mansuetudine. Infatti "egli offrì se stesso per noi, per redimerci da ogni iniquità e per rendere il suo popolo mondo e applicato alle opere buone" (Tt  2,14), opere che l'Apostolo comanda ai pastori di illustrare e di raccomandare.D'altra parte, avendo il Signore e Salvatore nostro affermato e dimostrato con il suo stesso esempio come tutta la Legge e i profeti si riducano alla carità (Mt 22,40) e avendo poi l'Apostolo confermato che la carità è il fine dei precetti e la pienezza della legge (Rm 13,10), nessuno può dubitare che l'intento principale da perseguire con ogni diligenza sia quello di sollecitare il popolo dei credenti ad amare l'immensa bontà di Dio verso di noi; cosicché, infervorato da un ardore divino, venga rapito da quel Bene perfettissimo, aderendo al quale potrà godere la vera felicità colui che sarà in grado di ripetere con il profeta: "Che cosa vi è in cielo per me? E all'infuori di te, che cosa io bramo sulla terra?" (Sal 72,25). In realtà è questa la via più sublime che l'Apostolo additava, quando indirizzava tutta la somma della sua dottrina e del suo insegnamento alla carità, la quale non verrà mai meno (1 Cor 13,8). In tal modo, qualunque cosa venga proposta, da credere, da sperare, o da compiere, in essa deve sempre essere raccomandata la carità del Signore nostro, cosicché ognuno capisca che tutte le opere della perfetta virtù cristiana non hanno altra origine e non hanno altro scopo all'infuori di questo amore soprannaturale. 


L'obbligo di adattarsi alla capacità di ciascuno

6 Se poi è vero che nell'impartire qualsiasi insegnamento ha grande importanza la maniera d'insegnare, questa è da ritenere addirittura grandissima nell'istruire il popolo cristiano. Va infatti tenuto conto dell'età, dell'intelligenza, delle abitudini e della condizione degli ascoltatori, in modo che l'insegnante si faccia tutto a tutti, per guadagnare tutti a Cristo (1 Cor 9,19-22) e, rendendosi ministro e dispensatore fedele (1 Cor 4,1.2), sia degno, quale "servo buono e fedele", di ricevere dal Signore autorità su molto (Mt 25,23). Egli deve persuadersi che a lui sono affidati non soltanto uomini di una data categoria, da istruire su particolari norme e con una determinata formula, ma che egli deve formare alla pietà tutti i fedeli. E siccome alcuni di essi sono "come bambini appena nati" (1 Pt 2,2), altri cominciano a crescere in Cristo, mentre ce ne sono di quelli che hanno raggiunto l'età matura, è necessario considerare con diligenza chi ha bisogno del latte e chi del cibo solido, per offrire a ciascuno quell'alimento di dottrina che ne assicuri la crescita spirituale, "fino a che arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo" (Ef 4,13).

L'Apostolo indicò tale dovere a tutti coloro che sono chiamati a questo ministero, dichiarando se stesso "debitore dei greci e dei barbari, dei sapienti e degli ignoranti" (Rm 1,14), per far comprendere che nell'esporre i misteri della fede e i precetti della vita bisogna adattare l'insegnamento alla comprensione e all'intelligenza degli ascoltatori; affinché nel fornire di cibo spirituale quelli che sono più preparati, non si lascino morire di fame i più piccoli, che inutilmente chiedono il pane perché non c'è chi possa loro spezzarlo (Lam 4,4).Nessuno poi deve trascurare l'insegnamento per il fatto che talora bisogna istruire gli ascoltatori su dei precetti che sembrano meno importanti e che per lo più vengono trattati non senza molestia da coloro che si occupano e si deliziano di argomenti più sublimi. Se infatti l'eterna sapienza del Padre discese sulla terra per trasmetterci i precetti dell'eterna vita nell'umiltà della nostra carne, chi sarà colui che non si sentirà costretto dalla carità di Cristo a diventare bambino in mezzo ai suoi fratelli e, simile a una nutrice che allatta i suoi figlioli, non bramerà la salvezza del prossimo con tale ardore da dare per essi, come scriveva di se stesso l'Apostolo (1 Ts 2,7s), non solo il Vangelo di Dio, ma anche la propria vita? 

La dottrina della fede è racchiusa nella Scrittura e nella Tradizione, nonché nel Credo, nei Sacramenti, nel Decalogo e nell'Orazione domenicale

7 Ogni sorta di dottrina che deve essere insegnata ai fedeli è contenuta nella parola di Dio, distribuita nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. Perciò i pastori d'anime si esercitino giorno e notte nella meditazione di queste due cose, ricordando l'ammonimento di san Paolo a Timoteo: "Dedicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento" (1 Tm 4,13). "Tutta la Scrittura, infatti, ispirata da Dio, è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3,16s).8 Data però la molteplicità e varietà delle verità così trasmesse, al punto che risulta difficile comprenderle e, una volta comprese, non è facile ricordarle in modo da averle pronte quando capita l'occasione d'insegnarle, con grande saggezza i nostri maggiori ricapitolarono tutto il succo di questa dottrina salutare in quattro formule distinte, che sono: il Simbolo apostolico, i sette sacramenti, il Decalogo e l'Orazione domenicale o Padre nostro. Infatti tutto quello che a norma della fede cristiana si deve ritenere e conoscere su Dio, sulla creazione e il governo del mondo, sulla redenzione del genere umano, sulla ricompensa dei buoni e sulla punizione dei malvagi, è contenuto nell'insegnamento del Simbolo.
 
Quelli che costituiscono i segni e gli strumenti per procurarci la divina grazia sono racchiusi nell'insegnamento relativo ai sette sacramenti.
Quanto poi si riferisce alle Leggi, il cui fine è la carità, si trova descritto nel Decalogo.Finalmente tutto quello che gli uomini possono salutarmente desiderare, sperare e chiedere, è racchiuso nella Preghiera del Signore. Ecco perché spiegando queste quattro formule, che costituiscono come i punti comuni di riferimento della Sacra Scrittura, non rimane quasi più niente da insegnare circa le cose che il cristiano è tenuto a imparare e a desiderare. 


Suggerimenti ai parroci per unire alla spiegazione del Vangelo quella del Catechismo

Riteniamo quindi opportuno avvertire i parroci che ogni qualvolta essi son chiamati a spiegare un passo del Vangelo o qualsiasi brano della Sacra Scrittura, la materia di quel testo, qualunque esso sia, ricade sotto una delle quattro formule riassuntive suddette e a quella essi dovranno ricorrere per trovarvi la fonte della spiegazione richiesta. Nel caso, per esempio, che si debba spiegare il Vangelo della prima domenica d'Avvento: "Ci saranno segni nel sole, nella luna..." (Lc 21,25), quanto si riferisce a tale argomento si troverà in quell'articolo del Simbolo: "Verrà a giudicare i vivi e i morti". E così, valendosi della spiegazione di quell'articolo, il pastore d'anime insegnerà insieme il Credo e il Vangelo.Perciò in ogni suo impegno d'insegnamento e d'interpretazione prenderà l'abitudine di riferire ogni cosa a quei quattro generi di argomenti, ai quali fanno capo, come abbiamo detto, tutti gli sforzi e gli insegnamenti della Sacra Scrittura.Nell'insegnare, poi, ognuno terrà quell'ordine che sembrerà più adatto alle condizioni della persona e del tempo. Noi però, seguendo l'autorità dei santi Padri, che nell'iniziazione cristiana dei neofiti cominciavano dalla dottrina della fede, abbiamo giudicato opportuno mettere al primo posto quanto si riferisce alla fede.
 


Caterina63
00mercoledì 14 luglio 2010 14:39
Dalla Liturgia delle Ore di Novembre

XXXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO - GIOVEDÌ
UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dall'«Omelia» di un autore del secondo secolo
(Capp. 13, 2 - 14, 5; Funk, 1, 159-161)

La Chiesa viva è corpo di Cristo

Dice il Signore: Il mio nome è bestemmiato tra tutti i popoli (cfr. Is 52, 5). E ancora: Guai a colui a causa del quale il mio nome viene bestemmiato (cfr. Rm 2, 24). Ma perché viene bestemmiato? Perché noi non mettiamo in pratica ciò che insegniamo. Infatti la gente, sentendo dalla nostra bocca le parole di Dio, ne resta stupita, perché quelle parole sono buone, sono stupende. Ma poi, notando che le nostre azioni non corrispondono alle parole che diciamo, ecco che prorompono in bestemmie, affermando che tutto ciò non è che una favola e una serie di inganni.

Sentono da noi ciò che dice Dio: Non è per voi un merito, se amate quelli che amano voi; merito lo avete se amate i vostri nemici e coloro che vi odiano (cfr. Mt 5, 46). Udendo ciò, ammirano la nobiltà di tanto amore. Ma vedono poi che noi, non soltanto non amiamo quelli che ci odiano, ma nemmeno quelli che ci vogliono bene. Allora si fanno beffe di noi e così il nome di Dio è bestemmiato. Fratelli, compiamo la volontà di Dio, Padre nostro, e faremo parte di quella Chiesa spirituale che fu creata prima ancora del sole e della luna. Ma se non faremo la volontà del Signore, sarà per noi quell'affermazione della Scrittura che dice: La mia casa è diventata una spelonca di ladri (cfr. Ger 7, 11; Mt 21, 13). Perciò facciamo la nostra scelta, cerchiamo di appartenere alla Chiesa della vita, per essere salvi.


Penso che sappiate che la Chiesa viva «è corpo di Cristo» (1 Cor 12, 27). Ecco perché la Scrittura dice: «Dio creò l'uomo maschio e femmina» (Gn 1, 27; 5, 2). L'uno è Cristo, l'altra è la Chiesa. Del resto anche la Scrittura e gli apostoli affermano che la Chiesa non ha avuto origine in questo tempo, ma è da sempre, perché è spirituale, come il nostro Gesù; ma si è manifestata in questi ultimi tempi per dare a noi la salvezza.

Questa Chiesa, che è spirituale, è apparsa nella carne di Cristo per ricordarci che, se uno di noi le è fedele nella carne e non l'abbandona, la riceverà nello Spirito Santo. In realtà questa carne è immagine dello spirito.

Chi dunque perderà la copia, non potrà ricevere il modello originale. Perciò così ci parla, o fratelli: rispettate la carne, per essere partecipi dello spirito. Ma se diciamo che la carne è la Chiesa e lo spirito è Cristo, ne consegue che chi profana la carne, profana anche la Chiesa. Egli, di conseguenza, non sarà partecipe dello spirito che è Cristo. Questa carne, dunque, può ricevere, con l'aiuto dello Spirito Santo, una vita mirabile e la stessa interruzione, e nessuno è in grado di spiegare o dire ciò che Dio ha preparato per i suoi eletti.


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"Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (Santa Caterina da Siena)
 
Caterina63
00lunedì 29 novembre 2010 14:40

  Un grazie al sito Maranathà


INTRODUZIONE
 AL
COMPENDIO DI SAN PIO X

DEL CATECHISMO
DEL CONCILIO DI TRENTO




Il Catechismo della Dottrina Cristiana, volgarmente detto Catechismo Maggiore di San Pio X, è un Compendio in forma di domanda e risposta, del Catechismo ad uso dei parroci, pubblicato da San Pio V.  Nello stendere il Compendio del Catechismo Tridentino, San Pio X volle produrre un'opera che tenesse conto anche di un aggiornamento ecclesiale relativo al Concilio Vaticano I, e che fosse un testo valido per l'insegnamento della religione nel suo tempo. Per questo, quello che in origine era concepito come “compendio”, è diventato un testo a sé, robusto e massiccio, oltre ad essere uno dei testi più importanti del '900, sicuramente il testo più letto e che a memoria d'uomo tutti quelli di una certa età ricordano.  

Diviene uno di quei testi fondamentali della storia, capaci di dare una svolta alla cultura e al costume della società, come il Codice civile napoleonico, il codice di giustiniano a suo tempo, e pochi altri testi. Nell'ambito di un'intervista rilasciata al giornalista Gianni Cardinale del quotidiano dei Vescovi d’Italia Avvenire il 27 aprile del 2003, il Cardinale Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, dichiarò a tal proposito:
 

La fede come tale è sempre identica. Quindi anche il Catechismo di San Pio X conserva sempre il suo valore. Può cambiare invece il modo di trasmettere i contenuti della fede. E quindi ci si può chiedere se il Catechismo di San Pio X possa in questo senso essere considerato ancora valido oggi. Credo che il Compendio che stiamo preparando possa rispondere al meglio alle esigenze di oggi. Ma questo non esclude che ci possano essere persone o gruppi di persone che si sentano più a loro agio col Catechismo di San Pio X. Non bisogna dimenticare che quel Catechismo derivava da un testo che era stato preparato dallo stesso Papa quando era vescovo di Mantova. Si trattava di un testo frutto dell’esperienza catechistica personale di Giuseppe Sarto e che aveva le caratteristiche di semplicità di esposizione e di profondità di contenuti. Anche per questo il Catechismo di San Pio X potrà avere anche in futuro, degli amici.
 

Maranatha.it ripropone dunque questo gioiello della Tradizione sana e genuina della Chiesa Cattolica, perché possa essere consultato e utilizzato ancora come valido strumento per la catechesi ordinaria nelle parrocchie.  ... Il Catechismo Maggiore fu la risposta di un parroco, quale fu San Pio X, alle domande di un popolo desideroso di istruzione. Il Papa Sarto, qual “parroco santo” del mondo, donò questo compendio semplice ma nello stesso tempo ricco di pietà e dottrina.  Il Clero comune con il sostegno dei propri Vescovi con gioia accolse questo strumento che con generosa abnegazione venne proposto e divulgato ben presto in tutta la Chiesa. Il Papa, i Vescovi, il Clero, i terz'Ordini, l’Azione Cattolica le Confraternite uniti e compatti furono il cardine divulgativo della Sana Dottrina della Chiesa Cattolica. PERCHÉ IL CATECHISMO MAGGIORE È STATO MESSO NELL’OBLIO? 
Con la morte di San Pio X, per la Chiesa Cattolica è incominciata una “prova” senza precedenti.

Non solo perché nel secolo ‘900 la Chiesa ha subito la più grande persecuzione della sua storia con milioni e milioni di morti, ma soprattutto perché nella Chiesa, nella sua Gerarchia incominciò ad annidarsi un pensiero non cattolico che via via ha preso forza e potere.
 
Il Segretario di Stato di Pio XI, il Cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, che ben conobbe Pio X, così si espresse da cardinale, nel 1936 con parole che si sono rivelate profetiche: "Sono preoccupato per il messaggio che ha dato la Beata Vergine a Lucia di Fatima il 13 maggio 1917.

Questo insistere da parte di Maria, sui pericoli che minacciano la Chiesa è un avvertimento divino contro il suicidio di alterare la Fede, nella Sua liturgia, la Sua teologia e la Sua anima. … Sento tutto intorno a me questi innovatori che desiderano smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti e farla sentire in colpa per il suo passato storico. … Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato negherà il proprio Dio, quando la Chiesa dubiterà come dubitò Pietro. Sarà allora tentata in credere che l’uomo è diventato Dio … Nelle nostre chiese, i Cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta. Come Maria Maddalena, in lacrime dinanzi alla tomba vuota, si chiederanno: “Dove Lo hanno portato?"
(Cfr. Mgr. Georges Roche et Père Philippe St.Germain, Pie XII devant l’histoire, Laffont, Paris, 1972, pp 52-53). 

Chi erano questi innovatori? L’Esegesi protestante, l’Esame storico critico dei passi del Nuovo testamento, archeologismo liturgico ecc. ecc., spinte culturali non cattoliche che Pio XII da una parte denuncio nella “Mediator Dei” ma nello stesso tempo accolse per esempio nell’approvare l’intollerabile ri-tradizione latina dei Salmi (accantonando la versione della Vulgata latina di San Girolamo) e nella modifica liturgica della Settimana Santa.  Questo clima maturerà e complice l’asprezza generale che investirà la Chiesa gli anni ’60 si vide per la prima volta rifiutare da parte di una porzione della gerarchia ideologicamente orientata, quei pilastri Tradizionali che fino a quel tempo nessuno ebbe il coraggio di contestare. Contestazione non significa crisi
, non significa che un problema reale sia emerso.

La Chiesa è andata di continuo incontro a momenti di crisi delle sue istituzioni, che sono risorte tramite un continuo aggiornamento che le rendesse compatibili con la vita contemporanea. Si pensi alla crisi della Chiesa primitiva di fronte al fenomeno delle invasioni barbariche, e alla sua resurrezione mediante il monachesimo; alla crisi del monachesimo (con conseguente crisi del clero secolare) cui è seguita la riforma operata dagli ordini mendicanti; la crisi degli ordini mendicanti cui è seguita la controriforma; ecc.

Ciò che è stato il fermento culturale e filosofico presente in quegli anni, invece va visto come l'applicazione alla vita della Chiesa di una ideologia, ossia di un sistema complesso in cui la Verità, la Domanda, la Risposta, i Problemi e le Soluzioni, sono tutti contenuti nel medesimo pacchetto.

Un sistema autonomo che è svincolato dalla realtà, poiché in se medesimo è portatore di tutti gli elementi di una “realtà” e quindi creatore di una realtà parallela.
 Alla Filosofia-della-Certezza, che osservando il contingente  (le realtà concrete di tutti i giorni) proclamava l’Immutabilità della Verità e dell’Essere, il principio di Identità (ciò che è bianco non può essere nero) e la certezza nel Dio cristiano Trascendente e Immanente: Tomismo-Aristotelico, si è contrapposta la Filosofia-del-Dubbio un sistema di pensiero (costruito a tavolino, diremo noi) che da Cartesio scardinava quella della Certezza postulando un certo “avanzamento o progressione della Verità” (non più certa, immutabile e unica) e la sostanziale Immanenza di Dio a scapito della Trascendenza oltre che la conciliazione degli opposti (una sintesi) come via economica per la stabilità e la progressione dell’essere. 

Mons. Marcel Lefebvre lo chiamava modernismo o neo-modernismo altri lo chiamavano progressismo, soprattutto per identificare una contrapposizione interna alla Chiesa, fatta di “conservatori e progressisti”, con evidente accezione negativa dei primi e positiva dei secondi. Noi questa realtà parallela la chiamiamo Marxismo-filosofico-ideologico. Secondo la visione marxista, la realtà è materiale e non spirituale. Differenza questa fondamentale tra Hegel e Marx, di fatto latori della medesima ideologia, ma con risultati differenti: Hegel fu l'ispiratore del modernismo della fine dell'800 e degli inizi del '900 noto all'estero come protestantesimo liberale, una sorta di razionalismo spiritualista - e quindi hegeliano - ; Marx fu l'ispiratore di quello che è, a nostro avviso, il pensiero cattolico dagli anni 60 in poi, e che di fatto non ha mai avuto un nome preciso. 
 

Benedetto XVI si guarda bene dal cadere nel tranello della lotta di classe tra fazioni cattoliche, ossia una politicizzazione relativista del cristianesimo stesso, probabilmente perchè, come dice nella sua autobiografia, il marxismo all'opera lui lo ha visto bene, quando era giovane professore nelle università tedesche e i suoi studenti e colleghi professori - Bloch e Moltmann, soprattutto - applicavano in modo orrendo questi principi;  tuttavia si trova nell'esigenza di dover chiamare in qualche modo il nuovo corso.  

Userà i termini “ermeneutica della continuità/discontinuità” per indicare coloro che fanno del post-concilio un prosieguo della tradizione perenne e chi invece fa di questo periodo una rottura. In fondo il marxismo è “rottura e superamento”, Antitesi e sintesi (Aufhebung) e trova in questo la sua particolarità.




continua...............


Caterina63
00lunedì 29 novembre 2010 14:51
Dal canto nostro preferiamo parlare di Tradizione e di Modernità, intendendo per Modernità la degenerazione (non la contemporaneità ovviamente) del pensiero Tradizionale, quale è risultato da una serie di fenomeni storici, sociali, politici e filosofici: dalla scoperta dell'America alla trasformazione dell'economia in mercantilismo alla nascita del protestantesimo alla rivoluzione francese ad Hegel e Marx. Il marxismo attuale - non più comunista-collettivista, ma curiosamente divenuto liberal - è l'attuale fase della modernità.

Ebbene dicevamo all'inizio che il marxismo è contraddistinto da un superamento dello spiritualismo hegeliano e da una forte connotazione materialista. In ambito cattolico anche se si è sempre negata alcuna relazione con il marxismo, si é osservato però una lenta assimilazione con questo pensiero che è per sua natura molto complesso.

Si è visto in pochi decenni il fenomeno di un progressivo abbandono del trascendente (l’uomo è proteso verso Dio, per le cose del Cielo e non della terra), dello spirituale, del sacro, del divino, per parlare unicamente di questioni sociali, politiche ed economiche.

[I missionari cattolici nelle pubblicazioni per ottenere fondi si vede esplicitamente che non vanno più per battezzare (unica via rivelata da Dio per la Salvezza) e per portare le anime in Cielo ma per costruire asili e scavare pozzi].


Il Catechismo nelle sue riduzioni nazionali per la catechesi primaria non insegna più come funziona il cielo e come ci si va, ma come gli uomini devono vivere sulla terra.

Nasce il Catechismo Olandese, e così come affermerà il Servo di Dio Mons. Piercarlo Landucci negli anni nella rivista “Palestra del Clero”, con il preciso intento di essere la sintesi di superamento della visione cristiana precedente, fondatore di una nuova cristianità che abbia l’utile come base: non più discorsi sulla presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, che diventa trans-significazione, mutamento di significato per l'opinione del credente, ma meramente simbolico; discorsi invece sul popolo, sui diritti “umani”, sociali e politici. La vita non è più vista in dimensione sacrale ma in dimensione economica.


Il marxismo nella Chiesa cambia la chiave di lettura della realtà, in un modo mai avvenuto prima. E' vero che sempre l'eresia fenomenologicamente si delinea come l'uso di una filosofia impropria come chiave ermeneutica della fede che quindi se come chiave è difettosa, finisce con lo scassinare e scardinare la stessa serratura: l'arianesimo fu plasmato dal neoplatonismo, il protestantesimo dal volontarismo occamiano, il modernismo dall'hegelismo, ecc.


Tuttavia le eresie si superano perchè in un contesto di realismo filosofico, ossia di una filosofia che cerca la verità, poiché sa che esiste la Verità (e tale filosofia si chiama metafisica) si riesce a emendare gli errori tramite la logica e a recuperare agevolmente il senso delle cose.


Ma soprattutto le eresie antiche non scardinarono una visione morale e spirituale che rimane sostanzialmente identica. L'emanazionismo plotiniano arrivava a fare pensare che il Figlio fosse emanato dal Padre, ma non fosse della stessa sostanza, bensì un prodotto. Ma intendiamoci: sempre si credeva in Dio, sempre si confidava che i Comandamenti erano via per il Cielo, sempre si andava al Culto (la Messa), sempre si amava il prossimo, sempre si pregava, sempre si cercava di lavorare per il regno di Dio.


Ma il marxismo significa soprattutto rottura, come si è visto, e nel nostro caso rottura con la logica e soprattutto con la metafisica. Non si crede più nelle realtà Trascendenti, non si crede più in Dio, la Chiesa quindi è considerata SOLO una struttura di potere che disorienta il popolo o peggio lo droga, niente più.


Nulla è più come prima e quindi impossibile diventa il dialogo. Non esiste quella culla di tradizione che permette il dialogo con base comune e risultati differenti. La base comune è oggi solo biologica, non più intellettuale menchemeno spirituale: tutti hanno due braccia, due gambe e una testa e basta!


Ciò che tuttavia però sta dentro a quella testa è già diverso. Un tradizionale (e quindi un cattolico) non può dialogare con un marxista. Poiché diversa è l'interpretazione della realtà ma soprattutto diverso ne è il linguaggio e diverso ne è il procedere: perennità dell'essere CONTRO divenire; verità, CONTRO utilità; spirito CONTRO materia; salvezza CONTRO economia.


Applicando e portando alle estreme conseguenze tale visione, si capisce perchè ad esempio, l'episcopato olandese il più influenzato dal marxismo, negli anni 70 contestò il cattolico Paolo VI per la Humanæ Vitæ. Se il procedimento cattolico è il rispetto della Verità e dell'Essere, allora la VITA è il principio primo da difendere. Di contro se il procedimento marxista è l'Economia, allora è L'UTILE il principio da difendere.

I risultati sono evidenti: i vescovi olandesi forti di un “concilio nazionale” Landelijk Pastoraal Concilie (‘68-‘70) – all’indomani e in opposizione dell’ Humanae Vitæ (‘68) – continuarono a lasciare “libertà di coscienza” (che l’HV non concedeva) circa la “regolamentazione delle nascite” dove nella volontà intenzionalmente ambigua, si continuarono ad equiparare implicitamente tutti i metodi contraccettivi, quindi anche quelli notoriamente abortivi, (cfr. Il Nuovo Catechsimo Olandese, con Supplemento, LDC, Torino, 1969, p. 489).

Nulla valse l’accorata lettera del 24 dicembre 1969 di Paolo VI, per far cambiare atteggiamento dell’Episcopato Olandese, poiché mutata era la loro percezione filosofica. Al centro non c'è l'Essere, ma c'è l'Utile. E l'utile marxista, al contrario di quello che si penserebbe, è strettamente individualista e relativista e ora liberal. Per cui, se è maggiormente utile godere e non avere responsabilità, leciti sono quei mezzi che permettono la realizzazione di questo piano.

Se l'utilità economica è prevalente alla vita, allora sarà anche bene a livello sociale difendere il diritto a non avere figli e a fare ciò che si vuole, piuttosto che il diritto di ciò che esiste, di continuare ad esistere.


Alcune la domande sorgono spontanea: come ha fatto questo pensiero ad invadere la Chiesa e quindi a conquistare parte della Gerarchia ecclesiastica? E soprattutto perché questo pensiero si è fatto largo?


La spiegazione è molto complessa, certamente il comunismo-marxista si presentò come il rimedio universale di tutti i mali sociali, economici e politici. Il Marxismo così come fu presentato dai suoi sostenitori non poteva fare che “del bene a tutti”.


Le Università Pontificie spinte da correnti riformiste interne e d esterne che consideravano le "nuove" filosofie adatte a "riformare" una Chiesa a loro avviso antiquata e stanca si arrogarono la “missione” di conciliare l'inconciliabile, elaborando degli adattamenti grotteschi che cercassero di soddisfare la “capra” della Tradizione con i “cavoli” della modernità, discostandosi completamente dalla Tradizione Tomista-Aristotelica.


Il muro filosofico che da 5 secoli che garantiva la certezza della separazione tra l’errore protestante e la Verità Cattolica fu abbattuto in brevissimo tempo.

Quindi con la falsa speranza di affiliare (non certo di convertire) a se quel mondo protestante e materialista figlio della medesima modernità, nel tempo del Concilio si penso bene di ingurgitare la fiala velenosa del marxismo e pensando che ciò avrebbe fatto solo del bene a tutti, la "Chiesa" ha iniziato la sua abominevole metamorfosi. Con la complicità di un papato debolissimo (dottrinalmente determinato MA non determinante) e il più delle volte tacitamente consenziente.

L'utilitarismo è diventato la chiave per capire il tutto e quindi l’inutile va eliminato perché non è necessario.

Quindi ci si domanderà: “a cosa serve il latino in generale ed in particolare nella Messa? a cosa servono i paramenti con ricchi ricami, i calici con le pietre preziose, le chiese con i campanili, adornate con dipinti riproducenti i Sacri Misteri, se alla fine tutto l’utile si riduce ad una riunione dove un prete dice un po' di parole su un po’ di pane (l’ostia) e su un po’ di vino? Quale è l'utilità di ciò? Allora cosa servono le Chiese? Talaltro sono assai costose. Sono più utili le sale meglio se dentro a dei palazzi, così si è più vicini alla gente!

Poi, in senso strettamente materialistico, leggere serve per istruirsi, per cui tutta la liturgia non è più mistero della Trinità che si epifanizza nella sua eterna e soprannaturale processione, in una dimensione finita, temporale, storica (così come già fu per la divinità del Verbo, incarnato e fatto presente nella storia: la liturgia è il Cielo che scende sulla terra per portare la terra in Cielo), non è più comunione con Dio e richiesta del perdono dei peccati e quindi mezzo sicuro per andare il Cielo, ma semplicemente lettura-istruzione.

Non importa celebrare con oggetti, vasi e arredi sacri “degni” di una Celebrazione Eucaristica, è più importante valorizzare l’Ambone mettendolo al centro della Chiesa e in asse la Sede del presbitero mettendo però il Tabernacolo non troppo visibile (se no disturba il Rito) in un angolo. Il latino è improponibile perché si deve leggere in italiano per conoscere il contenuto della Bibbia (anzi di una sua “accurata” selezione) e si riformi il ciclo delle letture in modo da leggerla tutta in 3 anni: così si unisce l'utile al dovere (un po' come quelli che sentono gli audiolibri mentre sono in macchina per andare al lavoro: non posso farne a meno, almeno lo rendo interessante).


La Messa diventa spiegazione della Bibbia. Si elimina tutto ciò che è significativamente chiamato “superato” (marx-isticamente), si coniano i nuovi termini rivoluzionari per fucilare gli oppositori. La rivoluzione di ottobre fucilava “revisionisti”, “reazionari”, “controrivoluzionari” e Stalin vi aggiunse - o sostituì - i termini “fascisti” e “borghesi”. Nel nostro passato recente, accuse di borghesia e di fascismo erano snocciolate con gaia abbondanza a chiunque non fosse marxista. Esattamente come all'epoca delle guardie rosse erano revisionisti tutti quelli che semplicemente erano rimasti tali e quali a come erano tutti prima. E si fucilava oltretutto.


Fucilare vuole dire giudicare, sentenziare e condannare sulla base di un discernimento morale. Quale? Buono e cattivo diventano “appartenente” e “non appartenente”. Semplicemente. Chi non è marxista è un malvagio. E cosa ha fatto quella gerarchia post-conciliare ebbra di marxismo che ha tagliato le radici con il passato? Ha coniato e fucilato (spiritualmente e politicamente) i “preconciliari”, i “tradizionalisti”, i “retrogradi”, i “superati”, i “conservatori”.


Chi ha avuto una militanza tradizionalista, sa cosa significa parlare con un clero che magari rifiuta indignato un’appartenenza marxista, ma che marxista lo è nei fatti. Se poi è abbastanza vecchio da avere visto la contestazione, vede applicata la medesima mentalità.


Come fare a riconoscere questo tipo di clero deformato ideologicamente nelle Università Pontificie? Semplice, si provi a domandare ad un prete qualsiasi: “possiamo dire una preghiera in latino?” La risposta sarà unica e sola: “signor mio lei è rimasto nel passato, lei è PRECONCILIARE (= fascista)!”, l’unica cosa che cambierà sarà forse il sentimento che accompagna questa medesima risposta che andrà dalla benevola compassione al disprezzo senza pietà.


Cambia dunque la Liturgia sulla base di una errata percezione della realtà. Cambia la vita in parrocchia, cambia l'azione pastorale. Più sociale, meno spirituale; forse niente spirituale.


Da un catechismo assolutamente completo, chiaro, semplice e buono, come il tridentino e del suo relativo compendio di San Pio X, anch'esso assolutamente buono e adatto ad un uomo contemporaneo (in 500 anni nessuno ha mai avuto problemi con la stagionatura di questi testi), si è passati ad un “meglio” più UTILE.


Un meglio che in realtà sarà un nulla. Un nulla che invece di formare cristiani militanti ha generato “cattolici adulti” portatori e divulgatori solo di pregiudizi e ignoranza sulla Chiesa.


Oggi la parrocchia, per i motivi citati, è il luogo in cui si porta i bambini tra un corso di nuoto, uno di judo, uno di tennis, uno di danza, uno di informatica, a fare l'ennesima, - secondo la mentalità corrente - rottura settimanale: “il catechismo”, che per i genitori non è importate ma UTILE perchè serve solo per far fare la festa per la prima comunione.

Cosa si fa a catechismo? Se lo si domandasse ai bambini che escono dalla lezione si avrebbero le seguente risposte: “un cartellone”, “che non si deve urlare a lezione”, “che ci dobbiamo voler bene”, “che siamo tutti fratelli” e nelle migliore delle ipotesi, “abbiamo parlato di Gesù”, “abbiamo imparato l’atto di dolore”. E le nozioni? I contenuti della fede?


UNA CONSIDERAZIONE SUI NUOVI CATECHISMO E SULLA MEMORIZZAZIONE DEI CONTENUTI.


Il Cardinale Ruini nella prolusione che tenne all’Assemblea Generale della CEI (19-23 maggio 2003) così analizzò la questione tanto importante della trasmissione della fede:

“La trasmissione della fede alle nuove generazioni è un impegno tradizionale e fondamentale della Chiesa, che vi ha concentrato e vi concentra gran parte delle proprie energie.


Negli ultimi quaranta anni questa trasmissione ha incontrato crescenti difficoltà e ottenuto minori e più precari risultati concreti, almeno per quanto è possibile valutare, per così dire dall’esterno, dei fenomeni che soltanto il Signore può conoscere davvero e fino in fondo.


La risposta è consistita in un grande sforzo di rinnovamento che ha riguardato principalmente la catechesi, sostituendo a un metodo piuttosto nozionistico il tentativo di una «catechesi per la vita cristiana», che fosse più coinvolgente e meglio idonea a introdurre i ragazzi nella comunità credente.

I risultati sono stati però scarsi, almeno sul piano quantitativo, dato che è continuato a diminuire il numero dei ragazzi, e poi degli adolescenti e dei giovani, che riescono a stabilire con la fede e con la Chiesa un rapporto duraturo e profondo”.

All’indomani di questa coraggiosa presa di coscienza, ci furono delle forti reazioni.

Molti sentivano minacciati all’esistenza quei catechismi particolari editi dalla CEI negli anni 80, frutto di quell’ideologia NON troppo occultamente marxista che tanto rispecchiavano la nuova chiesa uscita dal Concilio.

[Confrontate le immagini del Catechismo “Venite con Me” destinato ai bambini dagli 8-10 anni per la Prima Comunione dalla CEI nel 1991, e guardate a chi assomiglia un barbuto personaggio in primo piano nella pagine 14 e 156, e palesemente come immagini subliminale nelle pagine 19, 100, 106, 113].


Anche perché con l’uscita del Catechismo della Chiesa Cattolica il Papa già dal 1992 e ribadito nel 1997, chiedeva con forza magisteriale una revisione di questi catechismi particolari alla luce del nuovo Catechismo certamente più conforme alla Tradizione. (cfr Costituzione Apostolica Fidei depositum, n. 4), una revisione mai avvenuta e i suddetti catechismi sono ancora in servizio.

Molti altri invece forti della prolusione del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, misero nel cassetto i catechismo della CEI e ricominciarono a riutilizzare il Catechismo di San Pio X con la sua metodologia volta ad una memorizzazione di nozioni di fede, forti anche del richiamo del Papa a questo genere di approccio metodologico-pedagogico-didattico. “I fiori della fede e della pietà – se così si può dire – non spuntano nelle zone desertiche di una catechesi senza memoria. La cosa essenziale è che questi testi memorizzati siano al tempo stesso interiorizzati, compresi a poco a poco nella loro profondità, per diventare sorgente di vita personale e comunitaria”, Giovanni Paolo II, Catechesi Tradendae, n°55.


Concludendo questa considerazione, il problema della memorizzazione è sicuramente urgente e presente, ma la mancata memorizzazione è certamente una conseguenza portata da una nuova filosofia di vita che il mondo ha, marxista, materialista, che non ritiene più necessari e utili gli sforzi dediti all'acquisizione delle competenze dottrinali che sono la base della fede. Ciò che è cambiato è appunto il modo con cui ci si accosta alla religione.

Cento anni fa, si aveva una forma mentis tradizionale, e il sacro era una reale esigenza, una sete che tutti percepivano e che veniva colmata attraverso la catechesi di massa di san Pio X.

Oggi il materialismo marxista ha reso l'uomo insensibile alla sete religiosa, ha dirottato la sua fede nella ricerca di un senso dell'esistenza che non ha il suo culmine in Dio, ma nei ben creati e specialmente nell’armonia di una felice convivenza civile. Lungi dall'aver eliminato la religione, il marxismo è riuscito a creare una nuova religione, in cui lo Spirito è sostituito dalla Materia e dal benessere di una convivenza gioiosa.

In termini generici, Dio è il senso perfetto e pieno dell'esistenza, la fede è l'avvertenza di una necessità di definizione del senso della propria esistenza mediante l'aiuto di Dio, la religione è l'insieme delle relazioni concrete e delle pratiche che si compiono nel portare avanti questa ricerca.

Il marxismo non ha modificato questa struttura connaturata alla realtà dell'uomo, di tutti gli uomini, ma ha cambiato nome ai soggetti: ciò che conferisce il senso dell'esistenza è la materia e la convivenza senza guerre, la pace.

Nella materia e nella pace l'uomo d'oggi cerca e "trova" il senso unico della sua esistenza, e perciò non ha possibilità di cercarlo altrove. Religione moderna è ciò che l'uomo fa nel tentativo di dare un senso materiale alla propria esistenza. Il marxismo rivela dunque un volto idolatrico, sostituisce il Dio incorruttibile con l'immagine di prodotti delle mani dell'uomo e della pace ad ogni costo. Il denaro, il potere, il sesso, il lavoro, sono le divinità nuove dei tempi nuovi, e la pace, la nuova liturgia del nuovo culto.

Non si può più pensare di essere nel passato. Il mondo tradizionale, trascendentale, metafisico, è finito (o almeno così sembra) e la Chiesa anziché prendere le distanze per divina vocazione (“voi siete nel mondo ma non del mondo”) si è trovata immersa pagando a caro prezzo questo tradimento con una apostasia silenziosa mai vista prima.

Non si percepisce più la necessità di una vita religiosa e spirituale, dunque non si sente nemmeno la necessità di chiedere una istruzione religiosa alla Chiesa. Anzi, il tutto è percepito con fastidio dalla gente “sazia di beni”, che vede nella pastorale dottrinale della Chiesa, solo un insieme di frasi vuote e prive di significato, con cui perdere del tempo.

Tuttavia ci si deve domandare cosa occorre fare, nell'affrontare questa circostanza.

Non si può pretendere che mutando il modo di pronunciare o di riformulare quelle frasi, inserendoci magari una recita, un cartellone, un gioco o una gita, si possa risolvere il problema di fondo, ossia demarxistizzare ciò che è marxista. Occorre anche essere assai precisi nel vedere la natura del problema.

Il problema non è la presenza dei giovani nelle aule, o la continuità della frequenza alla Messa dei ragazzi dopo la cresima. Una messa poco frequentata o una classe scarna, non sono i veri problemi della Chiesa. Non sono proprio problemi: sono sintomi di un problema. Ma chi ha il mandato Divino di guidare la Chiesa si rende conto di questo, o interpreta le cause seconde come cause prime?

E' triste considerare infatti come negli ultimi 40 anni, buona parte del clero e la quasi totalità dell’Episcopato mondiale abbia tendenzialmente evitato di guardare in faccia la realtà, preferendo trovare una soluzione materiale a problemi marginali. Alla scarsa affluenza al catechismo ha risposto rendendo il catechismo "divertente". Alla scarsa affluenza alla Messa, ha risposto rendendo la Messa "coinvolgente".

Senza considerare tali segnali, come sintomi di un disagio ulteriore, con la conseguenza che l'affluenza al catechismo non è aumentata, nonostante i giochi, i cartelloni e tutte le "animazioni" suggerite dagli esperti di pastorale, e l'affluenza alla Messa è diminuita, nonostante la ridicolizzazione della liturgia, per portarla al livello ridicolo delle nuove masse, sazie e perplesse e oramai refrattarie a tutto ciò che è trascendente e sacro.

Certamente non si può più pensare la Chiesa e le sue strutture, in senso tradizionale. La parrocchia non è più il centro della comunità, ma è semplicemente un luogo in cui per comodità, un insieme di singoli, si rivolgono per ottenere dei servizi spirituali (o semplicemente per occupare locali). Che puntualmente la parrocchia non offre nemmeno più, avendoli delegati ai famigerati "movimenti", che nel tentativo di rivitalizzare le parrocchie, ne hanno decretato la “condanna a morte”.

Segno dei tempi è dunque una appartenenza alla Chiesa diversa dal passato. La formazione cristiana non è più una normale tappa dello sviluppo di una persona nella sua comunità, dove il Parroco a nome della Chiesa INSEGNA le cose di Dio, EDUCA alla sopportazione al sacrifico (base del buon vivere) e SANTIFICA mediante amministrazione dei Sacramenti. Ora quel clero smarrito e mal formato, che è stato educato a considerare “superata” tutta la spiritualità e dottrina stampata prima del 1965, conquistato dall’idea ECONOMICA di vedere la propria parrocchia sempre più piena, non ha esitazione nel gettare giovani e adulti tra le braccia di quelle realtà (gruppi o “itinerari di formazione) sorte, guarda caso, proprio nel tempo del Concilio che seppur “approvate”, di cattolico, delle volte, hanno ben poco.

Cosa fare dunque di fronte a questa malsana ideologia che ha infettato la Chiesa? Una Chiesa “malata” che ha scambiato questa malsana corrente di pensiero per un “Rinnovamento ecclesiologico” al punto tale che questo “rinnovamento” è diventato, spesso e volentieri un idolo dalle molte facce!

Come all'epoca di Mosè, non esistono rimedi contro l'idolatria, che non siano il castigo di Dio, lo sterminio degli idolatri, la sofferenza espiatoria, la penitenza, e l'umile e silenziosa adesione alla Verità, dei pochi che l'hanno custodita. Israele nei tempi antichi ha sempre pagato a caro prezzo i suoi continui tradimenti e le sue idolatrie.

Sterminio, esilio, deportazione, castighi forti, cui sono seguiti sempre momenti di rinnovamento spirituale e di rinascita della vera fede. Non c'è motivo di ritenere differente questa era storica. La differenza vera, è forse nella gravità: oggi l'apostasia è universale e radicata in tutto il mondo. Nel passato l’uomo chiedeva perdono a Dio del suo peccato; ora dilaga l’impenitenza generale. Dio ancora oggi si presenta al mondo come Dio della Misericordia ma si presenta ad un mondo che non sente bisogno della misericordia perché è contento del suo peccato, anzi che non sente di dover chiedere scusa a nessuno perché, nel suo cuore chiuso ed ostinato, crede pugnacemente che alla fine non vi sia nessuno a cui render conto!

Certamente, il mondo pagherà duramente il suo peccato, ma tale castigo sarà lo strumento di riscatto e di resurrezione. Solo allora la Chiesa purificata al suo interno sarà capace di essere una comunità nuova, di singoli che individualmente cercano il senso della loro esistenza guardando non più alla terra, alla materia, alla “gioiosa convivenza ad ogni costo”, e partendo da questo, si ricomincerà a riorganizzare su basi cristiane la società e lo spirito del mondo stesso, fino alla grande battaglia dove Cristo ritornerà nella Gloria con i suoi angeli.

Ci permettiamo di deporre, sotto lo sguardo e l'intercessione della Beata Vergine Maria, l'intero lavoro svolto per la Maggior Gloria di Dio. Alla Madre della Chiesa rifugio dei peccatori e Madre della Misericordia affidiamo opere ed intenzioni perché le orienti e le sostenga e perché l'uomo nella riscoperta della Verità possa incontrare la Salvezza.

“...Se, turbato dall'enormità dei peccati, confuso dall'indegnità della coscienza, impaurito dall'orrore del giudizio, tu cominci ad essere inghiottito nel baratro della tristezza, nell'abisso della disperazione ... guarda la stella, invoca Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non si allontani dalla tua bocca, non si allontani dal tuo cuore”.


Qui immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui Genétricem, Matrem et Salútem pópuli Románi constituísti, ut, ipsa protegénte, fídei certámen certet intrépitus, in Apostolórum doctrína firmus consístant et inter mundi procéllas incédat secúrus, donec ad cæléstem civitátem lætus pervéniat.

(dal Prefazio della Salus Populi Romani)


Lo Spirito e la Sposa dicono: ‘Vieni!’. (Ap 22,17).

Maranathà:

Vieni Signore Gesù!


Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 15:09

Archivio di 30Giorni dicembre 2010

[SM=g1740733]  Figli di Dio non si nasce. Si diventa


L’articolo che qui ripubblichiamo può essere riassunto nelle due prime risposte del Catechismo maggiore di san Pio X: «Siete voi cristiano? Sì, io sono cristiano per grazia di Dio. Perché dite voi: per grazia di Dio? Io dico: per grazia di Dio, perché l’essere cristiano è un dono tutto gratuito di Dio, che noi non abbiamo potuto meritare»


di Ignace de la Potterie, s.i.

Masaccio <I>Il battesimo dei neofiti</I>, nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze

Masaccio Il battesimo dei neofiti, nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze

La Chiesa ha da poco celebrato col santo Natale la nascita nel tempo dell’unigenito eterno Figlio di Dio. Secondo una teologia sempre più diffusa, con l’incarnazione del Figlio deriverebbe in maniera automatica l’attribuzione immediata a ogni uomo della figliolanza divina. Nel senso che ogni uomo, che lo sappia o no, che lo accetti o no, vive già radicalmente in Cristo. Secondo tale teologia, Cristo, prima ancora di essere il capo della Chiesa, è il capo di tutto il creato. Ogni uomo gli appartiene prima ancora di essere raggiunto e trasformato dal suo Spirito.

Questa concezione pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui «considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi» (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes dell’ultimo Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (22). Ma se si togliessero dalla frase della Summa theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi «secondo gradi diversi» e «in certo modo» non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica.
E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica
Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica.


Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza: la missione della Chiesa nel mondo sarebbe solo quella di far prendere coscienza a tutti gli uomini di questa salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”.

Già Erik Peterson, il famoso esegeta tedesco convertitosi alla Chiesa cattolica dal luteranesimo, nel suo saggio del 1933 Die Kirche aus Juden und Heiden (La Chiesa composta da Giudei e da Gentili), commentando i capitoli 9-11 della lettera di san Paolo ai Romani, spiegava che non può esserci un cristianesimo ridotto all’ordine meramente naturale, in cui gli effetti della redenzione operata da Gesù Cristo verrebbero trasmessi geneticamente, per via ereditaria, a ogni uomo, per il solo criterio di condividere con il Verbo incarnato la natura umana. La figliolanza divina non è l’esito automatico garantito dall’appartenenza al genere umano.

La figliolanza divina è sempre un dono gratuito della grazia, non può prescindere dalla grazia donata gratuitamente nel battesimo e riconosciuta e accolta nella fede.

Un brano di san Leone Magno, letto nella liturgia dell’Avvento, chiarisce con precisione il rapporto tra l’incarnazione e il battesimo: «Se colui, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura. A causa di questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito per opera del quale fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale».

E sant’Agostino nel
De civitate Dei scrive: «La natura corrotta dal peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste. Perciò i primi sono chiamati vasi d’ira; gli altri sono chiamati vasi di misericordia. Se ne ha un simbolo anche nei due figli di Abramo. L’uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l’altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe di Abramo, ma un rapporto puramente naturale ha fatto nascere il primo, invece la promessa che è segno della grazia ha donato il secondo. Nel primo caso si rivela un comportamento umano, nel secondo caso si rivela la grazia di Dio».


Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», Gv 15, 16).

Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1, 12) che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3, 1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1Gv 3, 6-9; 1Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati.

Nel Prologo (Gv 1, 12-14), Giovanni scrive: «A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato. Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito venuto da presso il Padre pieno della grazia della verità».

È importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire, sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è «generati dall’alto», cioè quando si è «generati dall’acqua e dallo Spirito».

E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una
nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria.


L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere, che indica anch’essa non un possesso, ma un dinamismo.

Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede.
È la fede
il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi «crede nel suo nome». Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel «credere nel nome del Figlio unigenito di Dio» (Gv 3, 18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato tra noi come «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua a operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli dà (cfr. Gv 17, 2).


Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: «Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Quindi la via d’accesso al diventare «figli nel Figlio» è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua).

Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.

Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: «Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito». E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: «“Bisogna adorare nello Spirito e nella verità” (Gv 4, 23) chiaramente definendo se stesso “la verità”».

Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito «insegnerà», facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14, 26); «renderà testimonianza» a Gesù (Gv 15, 26); «non parlerà da sé stesso, ma dirà quello che ascolta» (Gv 16, 13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità («Lo Spirito ispira dove vuole», Gv 3, 8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è «lo Spirito della verità» (Gv 15, 26; Gv 16, 13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)?
Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (
Gv 16, 13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: «Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue» (48).


Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio «la fede che abbiamo ricevuto» è un «dono dall’Alto senza nostro merito».

L’esperienza della figliolanza è invece tutta piena solo di gratitudine, per il dono immeritato, e di speranza nei confronti di tutti. Per cui non si tratta di giudicare i miscredenti, i lontani, o addirittura quelli che possono sembrare avversari. Anche perché ognuno di loro può, quando meno se lo aspetta, incontrare il fatto cristiano. Come scriveva Charles Péguy, commentando un verso di Corneille, «Dio tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta. È la formula stessa del morso, è la formula dell’attacco, del colpo, della penetrazione della grazia. Ma essa implica anche che colui che vi pensa, che ha l’abitudine di pensarci, che è ricoperto dallo strato dell’abitudine è anche colui che si espone di meno e per così dire dà meno possibilità alla presa».

Questa gratitudine non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa anche davanti all’errore e al peccato. Come accadde a san Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato a evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi dei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi. Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno…».


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