L'IGNORANZA NEL GREGGE: CHE COSA E' LA MESSA? NESSUNO SA RISPONDERE

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Caterina63
00sabato 12 novembre 2011 12:09



poteva essere mio nonno quel signore che ha detto: è la ripetizione SIMBOLICA DELL'ULTIMA CENA....
si piangono amare lagrime per risposte come questa, quanti vescovi perderanno la beatificazione per aver condotto il gregge ALL'IGNORANZA......

Altre risposte date sono pari pari ai contenuti degli ERETICI CATECHISMI DELLA CEI che imploriamo il Papa e la stessa CEI a rigettare..... queste persone hanno risposto secondo gli schemi PASTORALI LITURGICI DEL DOPO-CONCILIO.....
la signora che sostiene che la Messa è UN FATTO ECUMENICO, anche se riconosce di non andare alla Messa, ripete uno schema CHE VEDE COMPIERSI.....
la signora che dice con orgoglio: "eh! io ci vado alla Messa eh! che cosa è la Messa? è LA CELEBRAZIONE DEL RITO DELL'EUCARESTIA!" non dice altro che quel VAGO catechismo contenuto in certe pastorali....

la signora che dice bene nel parlare di SACRIFICIO E DI OFFERTA, conclude con la ciliegina SINCRETISTA: un sacrificio CHE SI RITROVA POI NEI POPOLI PRIMA DI CRISTO....altro supporto di una certa pastorale del dopo concilio...

dalle immagini di questo catechismo CEI emerge ciò che dice l'altra signora quando afferma che la Messa è UN INCONTRO COLLETTIVO DOVE CI SI SCAMBIANO I SALUTI!
Una ragazza: definizione della Messa?!.... eh, eh! - il vuoto totale.... -
un altra giovane: boh! è un RITROVO PER I FEDELI?
L'unica risposa corretta, vista la situazione, è quella della giovane ad 1,25 dove dice, senza aggiunte: è l'incontro con il Cristo Risorto vivo e vero.....

quella dopo, molto presa dalla domanda, appare sapere la risposta, ma è incerta ed insicura: la Messa è UNA RIPRODUZIONE.... anche volendo cogliere l'impappinamento dell'uso dei termini, appare evidente che certa pastorale si è resa RESPONSABILE quando, per facilitare la comprensione della Messa, CAMBIO' I TERMINI....

Ma la Messa non venne riformata perchè fosse più COMPRENSIBILE?
un'altra giovane parla di comunità che si ritrova: "noi che condividiamo la stessa fede, magari dopo una settimana di lavoro, di studio...."
la vecchietta dopo, altro gioiello del dopo Concilio: LA MESSA E' UN RITROVO DI TUTTI I CREDENTI E NON CREDENTI....che magari vogliono convincersi di diventare credenti..e ciliegina sulla torta che non c'entra nulla con la domanda: e DIREI A TUTTI I PRETI DI FORMARSI UNA FAMIGLIA..... [SM=g1740729]

L'ultima le supera tutte: LA MESSA E' COME FARE LA COLAZIONE AL MATTINO.....ecco, per i cristiani è come un cibo.... [SM=g1740749]
senza dubbio potrebbe anche essere fra le migliori risposte, molti santi si nutrivano esclusivamente di Eucarestia e non cominciavano la loro giornata senza l'Eucarestia, come insegna Madre Teresa di Calcutta nella Regola del suo Istituto.... ma detta così la frase e l'espressione è davvero sconsolante, ci riporta a quella falsa visione della Messa QUALE BANCHETTO DA PIZZERIA, DA RISTORANTE, SCAVALCANDO IL CALVARIO....

Consolante il penultimo intervistato: risposta corretta..... Grazie a Dio! almeno uno.... e che ci riporta al dialogo con Abramo e Dio affinchè, per quell'uno credente la città non venga distrutta!
Amen!

it.gloria.tv/?media=213532

DA MESSAINLATINO condividiamo questa riflessione:

Qualche giorno fa una lettrice di MIL ha proposto la visione del video comparso su Gloria TV e da me qui allegato.
E' risultato di un'inchiesta spontanea e improvvisata condotta da una giornalista di un’emittente televisiva privata che intervista, nel centro di Bologna, alcuni cittadini , incontrati a caso, chiedendo loro : “che cos’è la Messa”?
Dalle risposte, degli intervistati, io mi sarei aspettato qualcosa di più, soprattutto dai meno giovani, che comunque sono figli anch'essi di certa retorica post conciliare, scaturisce il colpevole fallimento dei catechismi e dei metodi catechistici della CEI.

Ma non solo. Dalle piccole alle grandi realtà parrocchiali sappiamo con certezza che i Parroci si occupano di altre cose durante l’ora di catechismo, demandando ai volontari, preparati ma anche improvvisati, quell’importantissima missione.

25 anni or sono mi recai per suonare, occasionalmente, in una popolosa parrocchia di una città marina ed ebbi modo di parlare con una sempre sorridente catechista, focolarina trentenne ricevendo un’onda senza fine di retorica ecclesiologica “progressista” che sempre mi ha terrorizzato.

Alla mia domanda se nella parrocchia si cantasse qualcosa in canto gregoriano ed in latino … la focolarina e sempre sorridente catechista mi disse : “ No, no! Ma ci sono due adolescenti che manifestano queste stranezze… Sarà nostro compito farli cambiare”. Ebbi un brivido : erano gli anni in cui nei gulag i “catechisti” comunisti che cercavano di “ far cambiare idea” ( magari con minor focolarino sorriso) ai preti, ai vescovi e ai fedeli cristiani imprigionati a causa della fede.

Sono docente di Educazione Musicale in istituti statali ed ho sempre insegnato ai miei alunni, nelle Superiori come nella Media, un vasto repertorio in canto gregoriano offrendo pure un concerto natalizio. Sono giunto, fra l’altro, ad eseguire per intero, nella scuola media dove insegno dal 2001, il canto della tradizionale Novena di Natale con tutte le Antifone Maggiori, facendo cantare tutti : dai pakistani ai russi.

Nel paese si respirava una simpatica condivisione dell’iniziativa fino a quando sono subentrate delle catechiste provenienti dall’ACR, che pur essendo mie ex alunne, nel frattempo erano state indottrinate dall’ACR per il ruolo di “catechiste”.

Queste hanno incominciato a bollare il mio repertorio : “ una lagna di vecchi” creando un forte scollamento mentale nei miei alunni che ha provocato il mio abbandono dell’iniziativa. Pur essendo la scuola ovviamente “laica” è stato troppo faticoso per me lottare all’interno ( con le colleghe che non amano la musica sacra) e all’esterno con le “catechiste” dell’ACR.

Nel 2008 e 2009 ( ultimo concerto) le esecuzioni natalizie in canto gregoriano della mia scuola hanno avuto il titolo : “ Summorum Pontificum e la Musica Sacra tradizionale”.
Ho voluto “condividere” il video di GloriaTV sulla mia pagina Facebook .

Un amico, seminarista, quasi prete, ha commentato : “Va bè ma tanti di loro sono persone che non partecipano quasi mai alla Messa, anche se in alcune risposte ci può essere qualcosa di vero”.
Caro amico seminarista : mi capita spesso di chiedere ai miei ex alunni, che nell’estate hanno ricevuto il Sacramento della Cresima, cos’è la Messa e cos’è la Cresima… meglio dimenticare le loro risposte !

Difatti, sempre a commento del video, un altro amico , più realista, ha scritto : “ Niente di che meravigliarsi al giorno d'oggi. Purtroppo la colpa è della scarsa preparazione dei sacri ministri che,conseguentemente,non sanno trasmettere al Popolo Santo di Dio almeno quelle nozioni fondamentali della dottrina cattolica,sulle quali si fonda il nostro dirci ed essere cattolici. Il bello è che,a volte,ciò avviene perchè molti sacerdoti sono più impegnati nello giocare a dadi con gli scout anzicchè cimentarsi nella catechesi”.
E’ davanti a noi tutti il racconto disperato della povera catechista quarantenne di una grande cittadina costiera della mia regione che raggiunto dopo l’ora di dottrina il parroco, che stava tranquillamente a “provare” i canti con la chitarra, buttato a terra il testo del catechismo ( CEI ) gli urlò : “ Io con questo non riesco a fare nulla! Me lo avete imposto e non va bene e tu lo sai!”

Dopo la visione di questo sconvolgente video si rafforza in me un consiglio urgente ai vertici della Conferenza Episcopale Italiana: il trasferimento degli “esperti e dei catechisti CEI” nelle scuole e nelle aule di catechismo delle parrocchie abbandonando i loro comodi uffici che infondono una visione totalmente falsata dell'ambiente giovanile e parrocchiale.

Ci pensino seriamente per il bene della gioventù e della Chiesa “ che è in Italia” !
A.C.

blog.messainlatino.it/2011/11/che-cose-la-messa-amare-considerazioni.html#...






Caterina63
00domenica 26 febbraio 2012 17:42
[SM=g1740733] LA LITURGIA NON E' UN GIOCO!

"Tratto dal libro "Lo spirito della Liturgia" di Romano Guardini.

La liturgia fissa con grande minuziosita' cio' che si deve compiere. A che scopo tutto cio'?


Certe nature gravi e serie, tutte rivolte alla ricerca e alla contemplazione della verità, che in ogni cosa vedono il compito morale e dovunque cercano il fine, incontrano facilmente nella liturgia una difficoltà singolare. La liturgia appare loro facilmente come qualcosa senza scopo, un cumulo superfluo di cose, una realtà inutilmente complicata, artificiosa. Costoro si scandalizzano che la liturgia fissi con tanta minuziosità ciò che si deve compiere prima e ciò che deve avvenire dopo, se a destra o a sinistra, ad alta voce o piano. A che scopo tutto ciò? L'essenziale nella Santa Messa, l’offerta e la consumazione del cibo divino, può essere compiuto così semplicemente: perché tale grande spiegamento di un rituale levitico? Le necessarie consacrazioni potrebbero essere fatte così semplicemente con poche parole, i sacramenti essere amministrati senza complicazioni rituali: a che pro' tutte quelle preghiere e cerimonie? La liturgia può avere per costoro un carattere di gioco e di teatralità.

Questo problema si deve prendere sul serio.

Esso non si presenta a tutti; ma non appena affiora, costituisce sempre la rivelazione di un temperamento spirituale inteso all'essenziale.
Esso sembra aver stretta relazione con la questione dello scopo in assoluto. Scopo, in senso proprio, noi denominiamo quel principio d'ordine, per cui cose ed azioni si subordinano le une alle altre, in modo che l’una serva all’altra, l'una si presenti in funzione dell'altra. Ciò ch'è subordinato, il mezzo, ha significato solo in quanto è in grado di servire a ciò ch'è sopraordinato, allo scopo. Chi agisce non si indugia spiritualmente in esso, giacché per lui costituisce solo un passaggio ad altro, via che conduce allo scopo, dove propriamente stanno la mèta ed il riposo. Da questo punto di vista ogni mezzo deve saperci assicurare se e in che limiti è in grado di portarci allo scopo. Questo esame ha per intento di escludere tutto ciò che non appartiene alla cosa, ciò che è marginale, superfluo. Domina qui il principio economico di raggiungere il fine nel modo più perfetto possibile col minore impiego di forza, tempo e materia. Il corrispondente stato d'animo è caratterizzato da una certa febbrilità, da una tensione senza riguardo e da una rigida oggettività.
Questo atteggiamento spirituale è legittimo e necessario nella totalità della vita. Le assicura serietà e salda direzione. Corrisponde anche alla struttura della realtà nella misura in cui ogni cosa in certo modo cade sotto il punto di vista dello scopo. Molti dati di fatto possono essere giustificati quasi totalmente dal punto di vista dello scopo, come ad es. la vita economica ed i processi della tecnica; tutti poi possono esserlo almeno in parte e per qualche riguardo.

 Nessun fenomeno, però, cade esclusivamente sotto questo concetto; di molti, anzi, solo una piccola parte. Ovvero, per dir meglio: ciò che assicura alle cose, ai processi il diritto dell'esistenza e la giustificazione della loro peculiarità è, per talune, non solamente, per altre, non certo in prima linea, la loro attitudine ad uno scopo. Le foglie ed i fiori hanno uno scopo? Certamente, giacché sono organi delle piante; ma a tale scopo essi non devono assumere proprio quella forma, quel colore, quel profumo determinato. A che scopo pertanto la prodigalità di forme, colori, profumi della natura? A che pro' la molteplicità della specie? Le cose potrebbero andare anche con maggior semplicità. L'intera natura potrebbe essere piena di esseri, la cui riproduzione potrebbe essere ottenuta in una maniera assai più rapida e «funzionale». La indiscriminata applicazione del finalismo alla natura non rimane per nulla immune da contestazioni. E per approfondire maggiormente il problema: quale scopo deve avere in genere l'esistenza di questa o quella pianta, di questo o quell’ animale? Forse quello di servir da nutrimento ad altri? Certo no! Se noi applichiamo soltanto il criterio dell'esteriore funzionalità, troviamo che molte cose della natura sono funzionari solo in parte, e nessuna è utile in tutto e per tutto. Molte cose anzi, alla luce di questo criterio, appaiono senza scopo. In una creazione della tecnica, sia una macchina od un ponte, tutto risponde ad uno scopo: altrettanto in una impresa commerciale, nella burocrazia d'uno Stato; eppure neanche per queste cose il concetto della finalità basta a risolvere tutti i problemi relativi al loro diritto di esistere. Se, pertanto, vogliamo renderci pieno conto della cosa, dobbiamo assumere un angolo visuale più ampio.

 Il concetto di scopo pone il centro di gravità d'una cosa al di fuori ed al di là di essa; tale concetto la considera quale tramite per un movimento che va oltre e precisamente si dirige alla mèta. ogni cosa, pertanto, è anche - e taluna lo è quasi del tutto - un quid a sé stante, uno scopo a sé, nella misura in cui si può applicare ancora questo concetto in tale più ampia significazione, cui si adatta meglio il concetto di senso. Tali cose non hanno scopo nella stretta accezione della parola; hanno però un senso. E questo senso è mostrato, non dal fatto ch'esse producono fuori di sé un effetto ovvero contribuiscono alla costituzione o alla modificazione di qualcosa d'altro, bensì il loro significato consiste nel loro essere quello che sono. Nella rigorosa accezione dei vocaboli, esse sono senza scopo, ma piene di senso.
Scopo e senso sono i due modi di presentarsi del fatto che una cosa esistente ha motivo e diritto al proprio essere. Dal punto di vista dello scopo, una cosa si inserisce in un ordine che va oltre di essa; nei riguardi del senso, essa riposa in se stessa.
Qual è ora il senso di ciò che è? D'esistere e d'essere un riflesso del Dio infinito. E qual è il senso di ciò che vive? Di vivere, esplicare l'intima essenza propria, di fiorire quale rivelazione naturale del Dio vivente.
Questo non vale solo per la natura, ma anche per vita dello spirito. La scienza ha forse uno scopo nel senso proprio della parola? No. Il pragmatismo vuoi attribuirgliene uno: quello di incitar gli uomini a migliorarsi moralmente. Ma questo significa misconoscere la dignità sovrana della conoscenza. Essa non ha alcuno scopo, ha però un senso, che riposa in se stesso: la verità.

L'attività legislativa di un parlamento ad es. ha uno scopo; essa intende far valere nella vita statale una direttiva nettamente determinata. La scienza del diritto invece non ne ha. mirando solo a conoscere la verità nelle questioni giuridiche.
E così è di ogni autentica scienza, che è, in base alla sua essenza, conoscenza della verità, servizio della verità.

Neppur l’arte ha uno scopo.
Si dovrebbe altrimenti pensare che la sua ragione d'essere sia la necessità dell’artista di procurarsi con essa di che nutrirsi e di che vestirsi. Oppure, come pensava l’illuminismo, che Parte sia destinata ad offrire esempi intuitivi della verità di ragione ed a insegnare la virtù. L'opera d'arte non ha scopo, bensì ha un senso, e precisamente quello ut sit, d'essere concretamente, e che in essa l’essenza delle cose, la vita interiore dell’uomo artista ottenga un'espressione sincera e pura. L'opera d'arte deve essere soltanto splendor veritatís.
Quando la vita si sottrae al rigoroso ordine dei fini, allora diventa un gioco di dilettanti. Muore, però, anche quando la si vuoi costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. I due elementi si integrano reciprocamente. Lo scopo è il fine dello sforzo, dei lavoro, dell’ordine; il senso è il contenuto dell’esistenza, della vita che fiorisce e matura. I due poli dell'essere pertanto sono: scopo e senso, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinamento e creazione.
Anche la vita della Chiesa universale si svolge tra queste due direzioni.
Ecco la possente struttura degli scopi nel diritto canonico, nella costituzione e nell'amministrazione della Chiesa. Qui tutto è mezzo ordinato ad un unico scopo, quello di mantenere in efficienza la grande macchina della amministrazione ecclesiastica. Decisivo qui è il criterio, se la istituzione o l’ordinanza considerata risponda alla finalità generale, se essa la raggiunga col minor impegno di forze e tempo. Lo spirito della praticità deve costituire la forza determinante in questa ampia organizzazione del lavoro.

La Chiesa, però, ha pure un altro aspetto. La sua vita abbraccia un campo in cui essa rimane libera dallo scopo nel senso proprio della parola. Questo campo è la liturgia. Anche questa certo include un complesso di scopi, i quali costituiscono, per così dire, l'armatura che la sostiene; così i Sacramenti hanno il compito di comunicare determinati doni di grazia. Ma questa comunicazione, presupposte le condizioni richieste, può anche aver luogo in forma assai semplificata. L'amministrazione d'urgenza dei Sacramenti offre l’esempio di una azione liturgica rigidamente limitata al mero suo scopo.

Si può anche affermare che la liturgia, ogni sua azione ed ogni sua preghiera, ha lo scopo di educare religiosamente. E questo è pur vero. Però essa non ha un piano d'educazione preordinato e voluto di proposito. Per comprendere la differenza, si confronti il decorso di una settimana dell’anno ecclesiastico con gli esercizi di S. Ignazio. In questi ultimi tutto è consapevolmente pesato, tutto organizzato allo scopo di raggiungere un determinato effetto pedagogico sulla vita spirituale; ogni esercizio, ogni preghiera, anzi le stesse ore di riposo sono indirizzate allo scopo fondamentale di determinare la conversione della volontà. Non così avviene nella liturgia: è già abbastanza significativo che la liturgia non abbia posto alcuno negli esercizi. Anch'essa vuole formare, ma non attraverso un sistema di influssi educativi calcolato appositamente in vista del fine, bensì creando semplicemente una perfetta atmosfera religiosa in cui l’anima si dispieghi religiosamente. Vi è una differenza simile a quella che passa tra una palestra ginnastica, dove ogni attrezzo, ogni esercizio è calcolato, e l'aperta campagna o la foresta. Là tutto è sviluppo consapevole delle forze, qui tutto è vita naturale, crescita delle intime energie nella natura e con la natura. La liturgia crea un ampio mondo esuberante di.intensa vita spirituale e fa sì che l’anima vi si muova e vi si sviluppi. Questa ricchezza di preghiere, pensieri, azioni; questo intero ordinamento di tempi rimane incomprensibile, se lo si commisura all’unità lineare della funzionalità rigorosamente oggettiva.

La liturgia non ha «scopo», o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì - almeno in una certa misura - fine a sé. Essa, secondo le vedute della Chiesa, non è una tappa sulla via che conduce ad una mèta che sta fuori di essa, bensì un mondo di realtà viventi che riposa in se stesso. Questo è l'importante: se lo si trascura, ci si sforza di trovare nella liturgia intenti pedagogici d'ogni specie, che possono in qualche modo esservi introdotti, ma che non vi occupano però un posto essenziale.

La liturgia non può avere «scopo» alcuno anche per questo motivo: perché essa, presa in senso proprio, ha la sua ragione d'essere non nell’uomo, ma in Dio. Nella liturgia l'uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo. In essa l'uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la gloria di Dio. Il senso della liturgia è pertanto questo: che l'anima stia dinanzi a Dio, si effonda dinanzi a Lui, si inserisca nella Sua vita, nel mondo santo delle realtà, verità, misteri, segni divini, e cosi si assicuri la vera e reale vita sua propria. Ci sono due passi molto profondi nella Sacra Scrittura che avviano alla soluzione definitiva di questo problema, per non dire che pronunziano la parola liberatrice. L'uno sta nella visione d'Ezechiele. Questi fiammeggianti Cherubini «andavano dritti dove il vento li spingeva..., né si voltavano nell’andare..., andavano e venivano come la vampa della folgore.... andavano... e stavano... e si alzavano dal suolo ... ; il fruscio delle loro ali assomigliava al murmure di molt'acqua.... e quando si fermavano abbassavano nuovamente le ali ... ». Come sono «senza scopo» codeste creature! Come sono addirittura sconfortanti per uno zelatore della funzionalità raziocinata! Essi sono «soltanto» mero movimento possente e maestoso che si dispiega come lo spirito lo sollecita; che null'altro vuole se non esprimere l'intimo essere dello spirito, rivelasse esteriormente l'intimo fervore e l’impetuosa forza; ecco una viva immagine della liturgia!

E in un altro passo- parla l’Eterna Sapienza e dice: «Io stavo presso di Lui intenta ad ordinare le cose tutte, ed ero tutta compiacenza giorno per giorno, ricreandomi (ludens) in sua presenza ogni momento, ricreandomi sul globo terrestre ... ».

Questa è la parola decisiva!

Il Padre eterno si compiace che la Sapienza, il Figlio, la Pienezza assoluta d'ogni verità, dispieghi dinanzi a Lui in una inesprimibile bellezza questo contenuto infinito senza alcuna «mira» - a che dovrebbe Egli «mirare»? -; ma nella pienezza più definitiva del senso, in mera e schietta gioiosità di vita: Egli «gioca» dinanzi a lui.
E questa è la vita degli esseri più elevati, degli Angeli; essi, senza scopo, come lo Spirito li sollecita, si muovono dinanzi a Dio in un senso misterioso, sono dinanzi a Lui un gioco ed un canto vivente.Anche nell’ambito delle cose terrene vi sono due fenomeni che accennano alla stessa tendenza: il gioco del bambino e la creazione dell'artista.

Nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcuno scopo. Non mira ad altro che ad esplicare le sue forze giovanili, ad espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere. a diventar sempre più perfettamente sé stesso.

Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita; e il senso non è altro che questo: che essa si manifesti senza impedimenti nei pensieri,
nelle parole, nei movimenti, nelle azioni, si renda padrona dell’essere suo, semplicemente esista.

E giacché non mira a nulla di particolare, giacché si dispiega così spontaneamente e senza coercizioni, appunto perciò anche l'espressione riesce armonica, la forma limpida e suggestiva: il suo gesto si tramuta da sé in ritmo ed immagine, in rima, melodia, canto. Questa è gioco: espandersi disinteressato della vita che prende possesso della propria pienezza, e ch'è piena di senso anche nella sua mera esistenza, ed è bella quando la si lascia a sé, quando non vi vengono introdotti intenti riflessi con precettistica mal illuminata pedagogizzante, rendendola in tal modo innaturale.
Coll'avanzare degli anni, si presentano anche le lotte: la vita si sente agitata da conflitti ed odiosa. L'uomo si pone dinanzi agli occhi ciò che egli vuole, ciò che egli deve, e cerca di realizzarlo nella sua vita e nell'essere suo. Ma qui esperimenta quante forze vi contrastino, e constata quanto di rado egli è veramente ciò che dovrebbe e vorrebbe essere.

Questa contraddizione tra ciò ch'egli potrebbe essere e quello chè in realtà, cerca di superarla in un altro ordine di realtà, nel mondo irreale dell'immaginazione, nell’arte. Nell’arte l’uomo cerca di ristabilire l'unità tra ciò che vuole e ciò che ha; tra ciò che dev'essere e ciò che è; tra l’anima ch'è dentro di noi e la natura ch'è fuori di noi; tra il corpo e lo spirito. Tali sono le creazioni dell'arte. Non hanno dunque alcuno scopo istruttivo, non mirano ad insegnare determinate verità o virtù. Nessun artista si è mai proposto questo.
Nell’arte l'artista non mira ad altro che a risolvere questa tensione interiore, a dar espressione nel mondo dell'immaginazione a quella vita superiore a cui anela e che nella realtà raggiunge solo approssimativamente. L'artista non vuol altro se non dare una realtà esteriore al suo essere intimo ed al suo anelito, assicurare alla verità interiore forma concreta. Ed anche chi contempla l'opera d'arte non deve proporsi null’altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muoversi liberamente, prendere consapevolezza della parte migliore del suo essere, anelare al compimento della propria brama intima.

 Non deve perciò riflettervi sopra con mutria critica «raziocinante» o cercarvi dottrina o savi ammonimenti. Ora la liturgia fa qualcosa di ancor più elevato. In essa viene offerta all'uomo l'occasione di realizzare, sostenuto dalla grazia, il senso più singolare e proprio del suo essere, d'essere quale egli dovrebbe e vorrebbe essere in conformità alla sua vocazione divina: un «figlio di Dio». Nella liturgia, dinanzi a Dio, egli deve «allietarsi della sua giovinezza». Questa è certamente una cosa del tutto soprannaturale, corrispondente però, nello stesso tempo alla natura intima dell'uomo. E poiché questa vita è più elevata di quella a cui dà occasione ed espressione la realtà consueta, essa trae forme ed immagini adeguate da quel dominio nel quale soltanto le può trovare, vale a dire nell'arte. Essa parla in ritmi e melodie; si muove con gesti solenni e misurati; si riveste di colori e paludamenti che non appartengono alla vita consueta; si svolge in luoghi e momenti che sono stabiliti ed organizzati secondo leggi superiori. Diventa cosi, in un senso più elevato. una vita filiale e infantile in cui tutto è immagine, ritmo e canto.

Questo pertanto il fatto mirabile che si offre nella liturgia: arte e realtà diventano una unica cosa nella condizione soprannaturale del figlio e fanciullo insieme, sotto lo sguardo di Dio.

Ciò che altrimenti è dato solo nel regno dell'irreale, nell'immaginazione artistica, vale a dire le forme dell’arte come espressione della vita umana pienamente consapevole, qui è realtà. Le forme dell'arte diventano la traduzione espressiva di una vita reale, sia pur soprannaturale. E anche questa ha un elemento comune con quella del bambino e dell'artista: è libera da ogni scopo, e perciò appunto piena del senso più profondo. Non è lavoro, ma gioco. Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un'opera d'arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo. E solo chi sa prendere sul serio Parte ed il gioco può comprendere perché con tanta severità ed accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, gli oggetti di culto.

Hai tu veduto mai con quale serietà i bambini stabiliscono le regole nei loro giochi, in che modo deve svolgersi il loro girotondo, come tutti debbano tenere le mani, che significhi questo bastoncino o quell’albero? Tutto ciò appare sciocco solo a chi non avverte il suo significato o senso e sa vedere la giustificazione d'un atto soltanto negli scopi che se ne possono addurre. E non hai letto mai, oppure direttamente sperimentato, con quale spietata serietà l'artista stia al servizio dell’arte, come egli soffra sotto «la parola» che non si presenta adeguata all’idea, quale padrona esigente sia la forma?

E tutto ciò per qualcosa che non ha scopo! No, l'arte non ha nulla a che fare con gli scopi. Qualcuno crede seriamente che l'artista si assoggetterebbe alle mille emozioni. alla febbre ardente della creazione, se coll'opera sua non mirasse ad altro che a dar ai lettori od agli spettatori un insegnamento che avrebbe potuto esprimere non meno bene in un paio di frasi trovate senza fatica, oppure in qualche esempio tratto dalla storia, ovvero con alcune fotografie ben azzeccate? Certo no! Essere artista significa lottare per esprimere la vita profonda, affinché, espressa che sia, essa possa esistere. E null’altro: ma non è già molto questo? È niente di meno che una imitazione della creatività divina, della quale si dice che abbia fatto le cose ut sint, perché semplicemente esistano.

La stessa cosa fa la liturgia. Anch’essa ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressione in mille forme alla vita dell’anima, vita santa alimentata da Dio, mirando a null'altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere. Con severissime leggi essa ha regolato il santo gioco che l'anima svolge dinanzi a Dio.

Se vogliamo attingere il nucleo intimo di questo mistero, dobbiamo riconoscere: è lo Spirito Santo, lo Spirito del fervore e della santa disciplina, «che ha potere sulla parola»; è esso che ha regolato il gioco, che la eterna Saggezza dispiega dinanzi al Padre celeste nella Chiesa, il suo regno sulla terra. «E la sua delizia», pertanto, «sta nell’essere tra i figli degli uomini»
.
Può comprendere la liturgia solo chi non si scandalizza di questo, come ha fatto innanzitutto ogni razionalismo.

Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d'arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d'essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e «diventare come bambini»; rinunciando, una volta per sempre, ad essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersi a giocare, come faceva Davide quando danzava dinanzi all'Arca dell'alleanza. Può certo avvenire che persone troppo assennate, le quali, con la piena maturità, hanno perduto la libertà e la freschezza dello spirito, non lo comprendano e ne facciano argomento di scherno. Ma anche Davide dovette sopportare che Michol ridesse di lui. Il compito, pertanto, della educazione liturgica comprende anche questo aspetto: l’anima deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo «adulta», bensì deve sapere anche vivere semplicemente.
Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell’attività utilitaria, imparare ad essere prodiga di tempo per Dio; deve trovar parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi ad ogni momento: a che scopo e perché? Non voler far sempre qualche cosa, raggiungere qualche cosa, qualcosa produrre od ottenere di utile, bensì apprendere a fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da Lui regolato della liturgia.

Da ultimo, anche la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco. E chi non comprende questo, potrà afferrare poi che il compimento celeste della nostra vita è «un cantico eterno di lode»? Non finirà costui per rientrare nella categoria delle persone attive, che trovano inutile e noiosa tale eternità?


[SM=g1740733]



Caterina63
00domenica 11 marzo 2012 09:09

[SM=g1740722] Cristina Siccardi, Il sacro cristiano. La liturgia, la musica, l'architettura




Ringrazio Cristina Siccardi per averci messo a disposizione questa suo interessante lavoro nel quale illustra, a partire dalla riforma liturgica, le ferite inferte alla fede cattolica dall'umanesimo laico frutto delle moderne filosofie.

Conferenza tenuta presso il Circolo Newman
Seregno - 10 febbraio 2012

Quando la prima domenica di Avvento del 1969 venne introdotta la Messa del Novus Ordo, ovvero la Messa di Paolo VI (1897-1978), furono in molti a rimanere sconcertati, altri, invece, ne furono entusiasti. C’era chi si addolorava per la perdita di un rito millenario: il Messale che risaliva al XVI secolo.

In seguito alla richiesta del Concilio di Trento (1545-1563), san Pio V (1504-1572) s’impegnò per la revisione del Messale che approvò il 14 luglio 1570, con la bolla Quo primum tempore; il Pontefice lo promulgò e lo sostituì a quelli che non potevano vantare un’antichità di almeno 200 anni, che assicurava la loro immunità dalle influenze protestanti ed eretiche, ordinando «a tutti e singoli i Patriarchi e Amministratori [...] , e a tutti gli ecclesiastici, [...] facendone loro severo obbligo in virtù di santa obbedienza, che, in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri Messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l'audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo Messale».

Ebbene, quella domenica del 1969 c’era chi si rallegrava di quella rivoluzione liturgica che era in pratica il sigillo del nuovo pensiero che era maturato in seno alla Chiesa e aveva caratterizzato il Concilio Vaticano II: la Chiesa si era “aperta” al mondo, vi andava incontro con entusiasmo e non condannava più l’errore, ma era comprensiva e duttile.

Benedetto XVI, all’epoca, si collocò fra gli sconcertati: «Il […] grande evento all’inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al Concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo Papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il Concilio di Trento, fu di altra natura: l’irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di “riforme” liturgiche.
Non c’erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l’una accanto all’altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. […]. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentari dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. […] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro sia pure con il materiale di cui si era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti […] il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna “comunità” voglia darsi una propria liturgia» 1).

Aver distrutto un rito così ricco di sacralità e di bellezza non è andato a detrimento soltanto della rappresentazione visiva ed uditiva, ma ha prodotto una ben più tragica conseguenza: ha minato la Fede, l’ha colpita in maniera durissima. La scusante maggiore di una tale rivoluzione, sviluppata dalla Commissione liturgica (già operante sotto il Pontificato di Pio XII) e capeggiata da Monsignor Annibale Bugnini (1912-1982), era quella che i fedeli avrebbero avuto una più facile comprensione e per due ragioni: la lingua (il latino, dicevano, allontanava invece di avvicinare) e la «partecipazione attiva», attraverso un dialogo diretto che il sacerdote, rivolto non più verso Dio, ma verso il popolo, avrebbe instaurato con i fedeli. Scrisse anni fa Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI: «Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazioni per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando allato dell'autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia e per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo.
La liturgia non è l'espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e mutevole.
Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera...» 2).

Agli addetti ai lavori quella Messa sembrò un cedimento ai protestanti, mentre per i fedeli fu un distaccarsi, domenica, dopo domenica, sempre più dal Santo Sacrificio. Ecco che il Novus Ordo, mettendo al centro la comunità e l’uomo, in ossequio al pensiero antropocentrico moderno, non permise più di creare quell’ambiente idoneo alla sacralità e dunque alla comprensione che in quel momento si sta compiendo davvero il Sacro Sacrificio, del quale, peraltro, non si parlò più. Togliendo il concetto di Santo Sacrificio e riducendolo ad un solo memoriale della Cena e non più orientandosi a Dio, ma verso il popolo (i sacrifici, fin dai tempi più remoti, erano sempre stati rivolti alle divinità, mai verso le persone), la protagonista divenne l’assemblea. Spesso il Tabernacolo, addirittura, fu tolto dal centro del presbiterio per essere collocato nella «riserva eucaristica».
Il pensiero moderno occidentale aveva avuto il suo trionfo non soltanto nella società e nella cultura, ma anche nella Chiesa, fin dentro la sostanza del Credo: il Santo Sacrificio per l’appunto.
Questo avvenne, e questo è il dramma che viviamo. Infatti, benché il Sommo Pontefice Benedetto XVI, ben cosciente della gravità di un rito distrutto, abbia liberalizzato la Santa Messa di sempre con il Motu Proprio Summorum Pontificum del 2007, gli ostacoli che molti sacerdoti incontrano per poterla celebrare sono numerosissimi. Questa Messa, allora, è una pietra di inciampo: per celebrarla si necessita una sorta di “conversione”, dove la Fede venga ripulita dalle incrostazioni di una mentalità che ha fatto del Cristianesimo un’ideologia più che un una Fede religiosa.
Grazie a studiosi di grande spessore come il teologo Brunero Gherardini, legato a San Tommaso d’Aquino (1225-1274) e alla gloriosa Scuola Romana, oppure all’oratoriano Jonathan Robinson, fondatore dell’Oratorio San Filippo Neri in Canada, veniamo a scoprire, con tremore e sgomento, che la Nouvelle théologie, caratterizzante buona parte la formazione impressa nei seminari e nelle Facoltà di teologia, da cinquant’anni a questa parte, è stata influenzata dai filosofi moderni. Dietro Chenu (1895-1990), Daniélou (1905-1974), Congar (1904-1995), de Lubac (1896-1991), Rahner (1904-1984) c’erano Hume (1711-1776), Kant (1724-1804), Hegel (1770-1831), Comte (1798-1857) … Proprio Kant, ne La religione entro i limiti della sola ragione (1793), giunse a sostenere:
«Non c’è che una sola (vera) religione; ma ci possono essere diverse specie di fede. Si può aggiungere che nella pluralità delle Chiese, distinte le une dalle altre per la diversità delle loro credenze speciali, si può trovare, tuttavia, una sola e medesima vera religione», ecco il relativismo religioso tanto paventato dal Cardinale John Henry Newman (1801-1890). Quel relativismo che porta ad affermare che il Vangelo è una storia come tante altre…
Il pensiero filosofico è così penetrato nella cultura e nella mentalità da contaminare lo stesso Culto Divino e, attraverso questo processo, il Culto a Dio non è più oggettivo, indipendente da quello che si può sentire o provare, ma diventa espressione soggettiva, modificabile a proprio piacimento. Benedetto XVI ha osservato che esso veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, «la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile» 3). Le deformazioni arbitrarie della liturgia hanno inferto ferite profonde nel popolo di Dio e nella stessa Chiesa.

L’Illuminismo ha negato la Rivelazione. Le idee chiave dell’Illuminismo furono: laicismo, umanesimo, cosmopolitismo, libertà di parola, di commercio, libertà estetica, libertà dal potere monarchico (bisognava combattere l’idea di un unico sovrano, il cui potere veniva dall’alto, per porre attenzione sulla Repubblica, il cui potere veniva dal basso, senza intervento divino. Così come venne abbattuto il concetto di Cristo Re). Di libertà in libertà nacque l’idea, come viviamo oggi, di decidere ognuno per se stesso; perciò la libertà viene ad applicarsi anche a quelli che un tempo la Chiesa chiamava compiutamente vizi e peccati.
Kant con la sua religione morale ha escluso i Sacramenti e la Chiesa dall’orizzonte della vita dell’uomo moderno. La religione è diventata una faccenda personale, funzionale ad una morale che struttura la società. In Hume si giunge all’esclusione di Dio, che viene ad essere completamente espunto dall’esistenza dell’uomo. L’empirismo prende il posto della metafisica e Dio non è più il Creatore, ma è un ente inutile. Hegel e Comte realizzarono i passi successivi nel sottolineare l’importanza della comunità e dello studio della società come orientanti la vita dell’uomo e, di fatto, sostitutivi di Dio.
Devastante è stato l’impatto di tutto ciò sulla vita liturgica e sacramentale.
Hegel non lascia, a differenza di Hume, scomparire Dio, ma lo sottopone alle necessità della comunità. Si tratta dell’auto-celebrazione della comunità che rappresenta se stessa. Ecco che il Culto non è più un salire verso di Lui, un eliminare la forza di gravità dalle miserie e dai peccati, ma un abbassamento di Dio alle dimensioni umane. Tale Culto allora diventa una festa che la comunità si fa da sé e su di sé. È mutata proprio la concezione. Dall’adorazione a Dio si passa ad un cerchio che gira intorno a se stesso. Però, come ben abbiamo potuto constatare in tutti questi decenni, si giunge alla frustrazione, al senso di vuoto, alla stanchezza e alla noia.

Le idee di comunità, ragione, scienza, democrazia, valori come diritti umani, libertà politica e religiosa trovano la loro formulazione nell’opera dei pensatori del XVIII secolo. Afferma giustamente Robinson:
«È mia opinione che gli uomini di Chiesa non abbiano finora dedicato abbastanza attenzione a capire e valutare le idee che hanno plasmato il mondo moderno. Come risultato, l’iniziativa di comprendere e predicare il vangelo è passata nelle mani del mondo moderno, a detrimento della nostra comune tradizione cristiana» 4). Si è di fatto compiuta un’evoluzione del Cristianesimo, meglio, è avvenuta una vera e propria rivoluzione, dove la Tradizione non è più stata presa in considerazione. Eppure sta scritto nella quarta di copertina dell’opera di Monsignor Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia 5) : «Se vuoi conoscere la Chiesa, non ignorare la Tradizione. Se ignori la Tradizione, non parlar mai della Chiesa». Ebbene, il teologo Rahner affermerà, convinto, che il suo vero maestro fu Martin Heidegger (1889-1976), discepolo di Hegel… la Tradizione si perse per strada.

La lente deformante della filosofia dialettica moderna ha letteralmente strappato dalla Fede i credenti, gettandoli su strade senza sbocco, se non addirittura incoraggiati a seguire la «via che conduce alla perdizione» (Mt 7,13). Si è venuta a creare un’osmosi fra il pensiero secolarizzato e il pensiero dei teologi. Le nuove idee sono penetrate nelle varie commissioni e negli organismi della Chiesa, che hanno provveduto a travasarle nei seminari, nelle Facoltà teologiche, nelle parrocchie, nelle scuole cattoliche…

Emblematica risulta l’Allocutio di Paolo VI (1897-1978) per la chiusura del Concilio Vaticano II. C’è la piena coscienza di ciò che era avvenuto:
«L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». È evidente che questo non è esattamente in linea con la Tradizione cattolica che ha sempre parlato di irriducibile ostilità tra Dio e il mondo, di cui, non per nulla, è principe Satana.

La Chiesa si è trovata a dialogare con il mondo, ad aprire le porte a chi l’aveva combattuta e la combatteva, e perse la sua valenza di guida, lasciandosi trascinare dalla corrente. Ecco come il Premio Nobel per la letteratura (1980), Czesław Miłosz (1911-2004) descrive l’umiliazione del Pensiero Cristiano nei confronti del «pensiero debole»:

«Nel corso della mia esistenza il Paradiso e l’Inferno sono scomparsi, la fede nella vita eterna si è notevolmente indebolita… l’idea di verità assoluta ha perso la sua posizione di supremazia, la storia guidata dalla Provvidenza ha cominciato a somigliare a un campo di battaglia dove sia in atto uno scontro tra forze cieche» 6).

La liturgia non è qualcosa di costruito dagli uomini, qualcosa di inventato per fare un’esperienza religiosa; ma è la lode, l’omaggio e soprattutto il riproporre il Santo Sacrificio. La maggior parte degli uomini moderni, anche cattolici, pensavano che il Vetus Ordo fosse un ferro vecchio da rigattiere, un pezzo d’antiquariato per vecchiette bigotte, amanti di pizzi e merletti. Il Motu Proprio dimostra l’esatto contrario: il Vetus Ordo è la possibilità per il fedele di entrare nel mistero di Dio, perché la Fede è mistero e i giovani sono molto interessati e attratti dalla sacralità di questa Santa Messa.

La deformazione liturgica è stata, realmente, il prodotto di forze intellettuali che hanno soffocato la trascendenza di Dio, la Sua incarnazione e l’opera dello Spirito Santo. Ma l’Opera di Dio non è l’opera degli uomini. Il Vetus Ordo è opera di Dio, il nuovo Messale è opera di alcuni uomini che hanno pianificato un rito atto a soddisfare le loro aspirazioni.

In quest’epoca scientifica e antimetafisica i dogmi, le immagini e i precetti della religione hanno perduto forza e al loro posto si è collocata l’ideologia. In quest’epoca postmoderna, ormai, le persone non credono più in una sola verità, ma prestano soltanto più attenzione alle esperienze individuali. E non esiste più un corretto e sicuro criterio di comprensione, valido a collocare ciò che è peccato e ciò che non lo è. Tuttavia, come sostiene san Tommaso d’Aquino, l’uomo ha un’inclinazione verso la verità, ecco, allora, che subentra la frustrazione. Siamo perciò condannati a ritrovarci in un mondo buio, lugubre, pieno di paure, privo di verità, bellezza e bontà, dove soltanto coloro che hanno il controllo decidono che cosa si può definire bello, vero, buono.
Afferma Robinson:

«Se l’Eucaristia è “fonte e culmine” della vita della Chiesa, ma il culto è malamente degenerato, allora la missione del Corpo mistico di Cristo viene seriamente compromessa. È una questione centrale, non solo per la Chiesa, ma per il mondo intero. Se la Chiesa che san Paolo definisce “colonna e sostegno della verità” (1Tm 3,15), parla con voce smorzata della Passione, della morte, della Risurrezione e dell’Ascensione di Cristo, anche il mondo ne risente».

Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, la sorgente della nostra vita. La crisi ecclesiale in cui ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della Fede, l’unità universale della Chiesa e della sua storia, dov’è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora, davvero, la comunità celebra solo se stessa. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, diventa inevitabile, in queste condizioni, che si arrivi alla formazione di molte correnti, finanche alla contrapposizione, in una Chiesa così divisa, di idee e pratiche liturgiche relativiste.

Fra i credenti, influenzati dalle idee moderne, ci si stancò di assistere a dispute religiose, ecco che emerse il latitudinarismo e l’indifferentismo e il sentimento comune fu quello di guardare ad una religione che non avesse più incidenza nella vita pubblica, ma diventasse, come aveva diagnosticato Newman, un fatto privato, una questione personale. Il Cristianesimo, in duecento anni, è diventata una nuova, razionale e pacifica religione umanistica.
La morale stessa, ovvero la buona volontà, tanto decantata da Kant (quale vera autentica religione), alla fine, però, perde consistenza. Infatti il filosofo visse ed operò quando il suo riferimento era ancora quello di una società civile cristiana. Oggi, in una società scristianizzata, la stessa moralità è profondamente minata e ciò che è bene per uno, non è bene per un altro. Siamo in una Babilonia.
Il deismo dell’Illuminismo sfociò inevitabilmente nell’aperta negazione dell’esistenza di Dio, come dimostrerà Nietzsche (1844-1900). Hume, fra i più valenti architetti dell’Illuminismo ed uno dei migliori esempi di coscienza laica, propone un nuovo messaggio: occorre fare filosofia per dimostrare che non c’è posto per la metafisica, poi si potrà godere della libertà prodotta dalla consapevolezza di tale assenza. Ecco l’ideale: niente tensioni, niente clamori verso l’assoluto metafisico, occorre evitare i voli pindarici. Le sue opere sono pervase dall’odio per la religione, in particolare proprio quella cristiana. Per il filosofo la religione è fanatica, intollerante, scolastica e grottesca. Non pensava che un uomo razionale potesse essere credente. L’opera La religione naturale ebbe un ruolo immenso nello sviluppo dell’ateismo e il suo pensiero è stato così forte ed è così circolato da influire, in certi aspetti, in una parte del mondo cattolico: miracoli e Novissimi ebbero un colpo fatale in molti teologi. Pensiamo alla dottrina di Rahner dove i Novissimi perdono consistenza, un fattore che continua ad influenzare moltissimo la vita quotidiana della Chiesa.

Interessante constatare che cosa Kant dicesse a proposito della preghiera, che considera «culto da cortigiani», se realizzata per chiedere grazie, scrive:

«Considerare la preghiera un mezzo per ottenere la grazia è “un errore superstizioso (un feticismo)”. Dio non ha bisogno di informazioni riguardo “i nostri” sentimenti intimi […] la preghiera riguarda il miglioramento morale del soggetto» 7).

Inoltre, andare in Chiesa,

«è generalmente, una buona pratica a patto di essere consapevoli che può avere due buoni risultati. Innanzitutto può ricordare al fedele l’obbligo di perseguire una vita morale; in secondo luogo può essere considerato come un’obbligazione diretta nei confronti dell’individuo in quanto membro della Chiesa etica universale. Andare in chiesa ci ricorda il dovere di cercare di obbedire all’imperativo categorico proprio in quanto membri del regno dei fini. Il culto reso in chiesa, tuttavia, non deve contenere nulla di incompatibile con la vera religione del dovere […]. Pertanto andare in chiesa diventa un atto negativo quando il fedele inizia a pensare di fare qualcosa di gradito a Dio solo per il fatto che gli rende culto insieme ad altre persone» 8).

Nei confronti dei Sacramenti Kant ha un atteggiamento decisamente negativo. Considera positivo il Battesimo soltanto se considerato come iniziazione alla comunità etica cristiana, altrimenti

«[La consacrazione] in se stessa, non è santa, né è un’azione che, compiuta da altri, produca nel soggetto, insieme con la santità, la capacità di ricevere la grazia divina; essa non è, dunque, un mezzo di grazia, nonostante l’eccessiva importanza che le si attribuiva nei primordi della Chiesa greca, quando si credeva che il battesimo potesse cancellare in una sola volta tutti i peccati, il che rivelava in modo evidente la parentela di quest’errore con una superstizione quasi più che pagana» 9).

Mentre per Kant la fede si trasfigura nel senso del dovere, per Hegel la fede si trasfigura nella filosofia e la religione diventa porta d’accesso proprio alla filosofia stessa. Il suo pensiero ha avuto un’influenza enorme sulla formazione della coscienza dell’uomo contemporaneo, egli è uno dei massimi architetti della modernità. Inoltre molti scritti di Hegel e di Marx (1818-1883), che ha attinto dal primo, hanno influenzato i pensatori della Chiesa, pensiamo, per esempio, a tutta la teologia della liberazione.
Hegel iniziò i suoi studi universitari come seminarista luterano, poi fuoriuscì e la sua massima aspirazione fu quella di diventare un educatore del popolo, ambizione che raggiunse. Pensava che la religione fosse lo strumento più efficace per veicolare le sue idee e basilare sarà il ruolo che con lui acquisirà il concetto di comunità: giunse a sostenere che se non apparteniamo a una comunità non possiamo neppure considerarci esseri umani. Hegel sviluppa l’idea che nell’esistenza umana sia presente, oltre al governo e alla famiglia, una struttura che definisce società civile: campo di azione della moderna attività economica che permette alle associazioni di svilupparsi e prosperare.
Per Hegel l’esistenza di Dio è necessaria se vogliamo capire il mondo in cui viviamo, ma, e questo è lo snodo essenziale della questione, il mondo in cui viviamo è necessario a Dio per essere veramente tale. Dio non scomparve ancora, ma ciò che rimase era un Dio riformulato alla luce delle necessità della comunità. La teologia protestante è stata influenzata in modo particolare da questa posizione; ma tale infausta mentalità ha condizionato anche i cattolici, modificando la visione di Dio e del mondo. Il punto d’ingresso dell’idealismo hegeliano nella coscienza cattolica è rappresentato dalla crescente consapevolezza dell’importanza delle scienze sociali, ovvero della sociologia e della psicologia. L’oggetto di indagine della sociologia è la società ed è nella società, secondo questa concezione, che troviamo Dio. La dimensione soprannaturale viene completamente distrutta.
Hegel sostenne che una comprensione adeguata della vita etica non è possibile se non si dispone di uno studio serio che descriva la società come è realmente. Ecco entrare in campo Comte. Egli asserisce che l’umanità ha bisogno di votare un culto a qualcosa: tale bisogno sarà utilizzato per addestrare i cittadini del nuovo ordine ad obbedire ai dettami della nuova scienza, poiché questo sarà l’unico modo per venire incontro agli interessi dei cittadini e incoraggiarne lo sviluppo personale. Il sociologo ammise di essersi ispirato al sistema cattolico per creare la sua nuova «chiesa», dove oltre alla società non esiste altro punto di riferimento.

Il mondo moderno è un prodotto dell’Illuminismo, della presa di potere da parte della scienza, dell’incidenza dei filosofi fin qui menzionati, nonché delle scienze sociali. Tutte queste forze non si sono affatto esaurite, ma sono entrate a far parte della coscienza comune. Ma le idee che hanno contribuito a creare il mondo moderno si presentano come una matassa aggrovigliata: forze cieche che si scontrano in una battaglia notturna, come asseriva Newman.
La postmodernità è la continuazione e l’acutizzazione dei tempi della modernità. Per alcuni è la presa di coscienza che il mondo prefigurato dalla modernità non si è mai realizzato. Per altri è un’accozzaglia di interpretazioni selvagge e sregolate, dove non ci sono criteri di misura, significati certi, identità, ma è una mischia rumorosa.
Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha rinunciato all’idea che essa è una società perfetta che funge da controparte ai governi secolari. Inoltre non possiede più quel valore pedagogico che la sua missione le ha imposto; ma la sua opera viene condotta allo stesso livello e negli stessi contesti degli Stati. Tuttavia questa visione di unione felice fra Chiesa-Stato, dove si opererebbe un’arricchente fecondazione reciproca, è di carattere meramente utopico, in quanto il mondo moderno è sempre più vittima della teoria e della prassi del laicismo e del liberalismo; mentre la Chiesa ha uno specifico e imprescindibile connotato di eternità, dove le sue regole sono immutabili e proprio per questo sempre nuove, perché fuori dal tempo che passa inesorabilmente con le sue mode di pensiero e di costume. Da qui l’essenzialità della Tradizione, di ciò che ci è stato trasmesso. Afferma sant’Agostino: «Ci son sacramenti che custodiamo non perché scritti, ma perché tramandati» 10). Egli arriva a dire: «Ego vero Evangelio non crederem, nisi me catholicae Ecclesiae commoveret auctoritas» («Nemmeno all’evangelo crederei, se non mi fosse proposto dall’autorità della Chiesa»). C’è poi quella definizione agostiniana di Tradizione, «la verità è sempre ciò che, con vera Fede cattolica, fin dall’antichità vien predicato e creduto dalla Chiesa intera» 11), che si ricollega, ante litteram, a quello che affermerà, più tardi, san Vincenzo di Lérins (?–450 ca.): «è veramente e propriamente cattolico ciò che fu creduto in ogni luogo, sempre, da tutti» 12), pertanto è Tradizione ciò che si presenta come universale consenso, sin dagli albori della Fede, che non deve essere mai manomesso perché è oro e come oro deve essere mantenuto. Dichiara san Vincenzo: «Oro hai ricevuto; oro devi restituire […] non piombo, non bronzo al posto del prezioso metallo» 13). Questa la definizione di Tradizione che dà Monsignor Gherardini: «La Tradizione è la trasmissione ufficiale, da parte della Chiesa e dei suoi organi a ciò divinamente istituiti, e dallo Spirito Santo infallibilmente assistiti, della divina Rivelazione in dimensione spazio-temporale» 14).

La lex orandi deve insegnare la lex credendi. Questi gli elementi per il ritorno alla sacralità, queste le cure per una Fede che è stata avvelenata: rimettere Dio al suo posto; ridare al Santo Sacrificio il suo reale significato e il suo degno lustro; riscoprire l’autentica identità del sacerdote, quale Alter Christus; ridonare ai Sacramenti e alla grazia lo spazio a loro dovuto.
Recuperare la liturgia di sempre significa recuperare il sacerdozio autentico, l’una richiama l’altro, in maniera ineludibile. Ecco, infatti, che Benedetto XVI dopo il Motu proprio Summorum Pontificum ha indetto l’anno sacerdotale (2009-2010), indicando come modello per i sacerdoti il Santo Curato d’Ars (1786-1859) e san Giuseppe Cafasso (1811-1860), due ministri di Dio che non si occuparono di dialogare con il mondo, ma ruotarono intorno all’altare, al confessionale e al pulpito.
In un mondo in cui si comprende soltanto più il linguaggio dell’ “esperienza” e dove non esistono più certezze, ma soltanto dubbi e miriadi di interpretazioni, viene in soccorso Newman:

«Ci avviciniamo alla verità grazie all’esperienza acquisita con l’errore; i nostri successi sono frutto di fallimenti. Non conosciamo il modo giusto di agire se non dopo aver sbagliato… Sappiamo distinguere il bene solo negativamente: non vediamo subito la verità e ci dirigiamo verso di essa, ma inciampiamo, scegliamo l’errore e ci accorgiamo che non è la verità. Procediamo a tentoni, senza vedere e, una penosa esperienza dopo l’altra, esauriamo gradualmente le azioni possibili finché non ne rimane nessuna, se non la verità. È questo il processo che ci permette di riportare la vittoria, camminando a ritroso verso il regno dei cieli» 15).

1. J. Ratzinger, La mia vita [Titolo originale dell’opera: Aus meinem Leben Erinnerungen 1927-1977], San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, pp. 113-115.
2. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia, Cantagalli Edizioni,
Firenze 2009, p. 148.
3. www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2007/documents/hf_ben-xvi_let_20070707_lettera-vescovi...
4 J. Robinson, Messa e modernità. Un cammino a ritroso verso il regno dei cieli, Cantagalli, Siena 2010, p. 39.
5. Lindau, Torino 2011.
6. J. Robinson, Messa e modernità. Un cammino a ritroso verso il regno dei cieli, Cantagalli, Siena 2010, p. 48.
7. Ivi, p. 84
8. Ibidem.
9. Ivi, p. 85.
10. Ep. 54,1,1.
11. Contra Julianum VI,5,11.
12. Commonitorium II.
13. Ivi.
14. B. Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Lindau, Torino 2011, p. 170.
15. Parochial and Plain Sermons


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Caterina63
00domenica 11 marzo 2012 09:13

Padre De Pauw: perché "la Messa in latino"?

Dopo un primo articolo, alimentiamo il dibattito e proseguiamo la nostra riflessione su mons. Gommar DePauw (1918-2005), difensore della liturgia tradizionale e fondatore del Catholic Traditionalist Movement fin dal 1964-65 (quando ancora non era terminato il Concilio Vaticano II), presentando qui sotto un suo intervento del 1977.

Foto: don DePauw celebra la sua Prima Messa il 14 aprile 1942

PERCHÉ LA MESSA IN LATINO?

L'ovvia domanda che nasce quando si sente parlare o si assiste alla nostra Messa per la prima volta è: PERCHÉ LA VECCHIA MESSA IN LATINO? In realtà è una triplice domanda che richiede tre risposte.

1. Perché la Messa?

L'unica ragion d'essere della Chiesa, il motivo delle sue attività, è la salvezza eterna di tutti gli uomini, creati per la felicità eterna in Paradiso. Quella salvezza eterna è diventata accessibile a tutti dal giorno in cui Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, si è immolato sulla Croce sul Calvario. È attraverso il sacrificio della Messa che le grazie e i meriti di quella Croce possono raggiungere noi a distanza di diciannove secoli di tempo e spazio da quel Venerdì Santo. Il sacrificio della Messa, la RINNOVAZIONE INCRUENTA DEL SACRIFICIO DELLA CROCE, è perciò non solo il punto centrale della preghiera cattolica, ma, ancor più importante, è il vero cuore della Chiesa senza il quale la Chiesa non può sopravvivere. La situazione attuale nella Chiesa dimostra quanto tragicamente avesse ragione il cardinal Newman quando scriveva: "Tolle Missam, tolle Ecclesiam!" distruggete la Messa, e distruggerete la Chiesa!

2. Perché la Messa IN LATINO?

In cima alla Croce sulla quale Nostro Signore si è immolato, la causa della sua morte - "Gesù di Nazareth, re dei giudei" - era scritta in ebraico, greco e latino. A conferma di questo fatto storico, la Messa della Chiesa Cattolica, anche conservando sempre certe espressioni greche ed ebraiche, è stata portata fin dal primo secolo verso il latino, lingua dell'antica Roma, la sede di san Pietro e dei Papi che gli si sono succeduti. Preservare il latino nel culto pubblico della Chiesa significa preservare la connessione tra la Chiesa di oggi e la Chiesa del passato.

Perciò, pur essendo così un segno di CONTINUITÀ storica, la lingua latina è anche un segno di UNIVERSALITÀ. Nessuno insistette su questo punto più fortemente di papa Giovanni XXIII, il Papa più mistificato e disobbedito dei tempi moderni, che fece sue le parole di Pio XI: "Una Chiesa universale deve avere una lingua universale". Così come tra cattolici ci si aspetta un credo comune in tutto il mondo, per lo stesso motivo i cattolici hanno il diritto di trovarsi "a casa" in ognuna delle loro chiese sparse per il mondo. Questo hanno sempre fatto e fanno quando vengono correttamente educati ad usare i messali "bilingui" contenenti da un lato la traduzione nella propria lingua e dall'altro lato quelle familiarissime sonorità in latino che li hanno accompagnati fin dalla fanciullezza come se fossero una seconda lingua madre, quella della loro Madre Chiesa.

3. Perché la Messa TRADIZIONALE in latino?

La Messa che è stata ininterrottamente tenuta viva dal Catholic Traditionalist Movement fondato nel 1964, è veramente "tradizionale" nel senso che risale a diciannove secoli di storia precedente. Riferirsi a questa Messa come la "Messa Tridentina" o "Messa di san Pio V" è storicamente errato e tatticamente poco saggio. Tutto ciò che fecero papa Pio V e il Concilio di Trento fu solo di eliminare dalla Messa dei loro giorni alcune preghiere lunghe e pesanti di recente introduzione, restaurando la Messa Cattolica nella sua PUREZZA ORIGINALE e nella sua semplicità.

Il fatto che Pio V, in una di quelle storicamente rare occasioni in cui un Papa utilizza la sua suprema autorità per emanare un decreto "IN PERPETUO", rese intoccabile l'antica Messa restaurata ("indulto perpetuo"), gli guadagnò non solo la sua successiva canonizzazione come santo, ma anche l'immensa gratitudine di tutti i cattolici romani oggi che sulla scorta del suo decreto Quo Primum sono giustificati davanti a Dio e davanti agli uomini nel dire "No!" a chiunque tenti di rimpiazzare l'Ordo Missae di tutti i secoli passati e futuri col "Nuovo Ordine" di un oggi vacillante e destinato a morire.

Westbury, New York
19 luglio 1977
407esimo anniversario della bolla "Quo Primum"

padre Gommar A. De Pauw, J.C.D.,
ex Decano accademico del Seminario Maggiore
professore di Teologia e Diritto Canonico
Fondatore-Presidente del Catholic Traditionalist Movement, Inc.

[SM=g1740771]


Caterina63
00domenica 1 aprile 2012 16:28

Radicati nella fede

 
Pubblichiamo in un unico post gli ultimi tre editoriali di "Radicati nella fede", il foglio di collegamento della chiesa di Vocogno e della cappella dell'Ospedale di Domodossola (Provincia di Verbania, Diocesi di Novara), dove si celebra la Santa Messa tradizionale.
Sono un vero e proprio "Manifesto" sulla Messa di sempre e sulla Tradizione, quella Tradizione che i due sacerdoti, don Alberto Secci e don Stefano Coggiola, vogliono trasmettere ai fedeli e vivono in prima persona, certi che dalla Messa tradizionale viene tutta un'opera di edificazione delle anime.
Vi invitiamo anche a visitare il sito nel quale troverete tutti i numeri del foglio di collegamento "Radicati nella fede" e numerosi video di una vita semplice nella Tradizione.
 
 
 
Radicati nella fede di febbraio 2012: LIBERTA' VIGILATA
La Messa “antica”, quella che amiamo chiamare la “Messa di sempre”, è stata ormai da quattro anni liberalizzata. Con un atto senza precedenti, il Santo Padre ha dichiarato che “non fu mai abolita”. Da quella dichiarazione è nata tutta la nostra storia.
Resta un problema: questa libertà è “vigilata”, e questo non ha senso. Sappiamo bene che una libertà vigilata non riconosce il pieno valore di ciò che libera. Nelle Diocesi rimane una mentalità negativa o sospettosa al riguardo del rito tradizionale. Si pensa che questo ritorno al rito antico sia una concessione, un indulto, un atto di bontà del Santo Padre a favore di quei cattolici, Sacerdoti e fedeli, che non si sono ancora adattati alla modernità. Se le cose stessero così, sarebbe un falso indicare che la Messa tradizionale non fu mai abolita!
Una libertà vigilata viene vista sempre come un male minore, come qualcosa di sopportato per evitare rischi più grandi. Ma uno sguardo così non ha niente a che vedere con ciò che il Papa ha riconosciuto con il Motu proprio Summorum Pontificum.
Ogni sacerdote può, senza chiedere a nessuno, celebrare secondo il Messale tradizionale. Questa affermazione sembra rimasta chiusa nelle stanze delle curie, per paura che “un simile male si diffonda”. Il rito tradizionale deve invece, in modo salutare, influenzare positivamente la Chiesa tutta, caduta in una delle sue crisi più spaventose, forse a causa di una terribile crisi liturgica, come anni fa' affermò lo stesso Cardinal Ratzinger. Ma come fa' ad influenzare positivamente la Chiesa se resta in libertà vigilata, ristretta, agli “arresti domiciliari”? Di cosa si ha ancora paura?
In quali seminari si insegna la Tradizione liturgica della Chiesa ai chierici? Perché si continua a non insegnare la Messa tradizionale ai seminaristi? Perché di fatto si vieta loro di assistere alla Messa tradizionale? Ha del tragicamente ridicolo il far assistere ai riti della Chiesa orientale, invitare i preti ortodossi, e vietare la presenza di quei preti che hanno abbracciato la Tradizione. Se è un valore la Tradizione liturgica della Chiesa latina, diamola ai seminaristi perché un domani la dispensino ai fedeli.
Si danno le chiese alle comunità ortodosse, separate da Roma non solo per insignificanti motivi disciplinari ma per questioni dogmatiche, e non si concedono Parrocchie personali di rito tradizionale, sperando che i fedeli e i sacerdoti si stanchino di domandarle. Tutto questo gioco che non esce allo scoperto non è cattolico, non viene da uno spirito di fede. Si è ecumenici con tutti, tranne con il proprio passato che esiste nel presente.
Tutta questa triste situazione crea un penosissimo blocco che impedisce un vero lavoro apostolico. Dalla Messa tradizionale deve venire tutta un'opera di edificazione delle anime, tutta una educazione cristiana, tutta un'opera di santificazione, di cui il mondo ha estremamente bisogno. La Messa tradizionale esiste per lo scopo stesso per cui esiste la Chiesa: salvare le anime. Non ha senso concederla per “intrattenere” i fedeli, per dare loro un brivido estetico! No: la Messa tradizionale c'è per santificare gli uomini, per edificare la Chiesa, per far rinascere le parrocchie, per ricostruire le scuole, per curare gli ammalati, per ridare speranza agli afflitti... in una parola per fare il Cristianesimo. Non può restare agli “arresti domiciliari”.
Una libertà piena sarà inoltre la migliore garanzia perché chi si accosta alla Tradizione non lo faccia per una vuota nostalgia, ma per un impeto di fede operosa.
 
 
Radicati nella fede di marzo 2012: VALIDA NON E' BUONA
Se avessimo ritenuto che la Messa com'è celebrata nella quasi totalità delle chiese andasse bene, non avremmo deciso di passare totalmente al rito antico.
Sia ben chiaro: non stiamo dicendo che la Messa nel Novus ordo (la Messa di Paolo VI, riformata dopo il Concilio Vaticano II) non sia valida! Ci mancherebbe! Affermare questo sarebbe non ragionare più in modo cattolico! Certo che la Messa di Paolo VI è valida, certo che è una vera Messa, solo che è così ridotta nel suo esprimere il senso cattolico del Santo Sacrifico di Cristo, da non educare compiutamente i fedeli ed anche i sacerdoti che la celebrano.
Molti diranno: “Ma se è una vera Messa, se è valida, di che cosa vi preoccupate?”.
Ci preoccupiamo di crescere in un senso cattolico della vita, vogliamo vivere integralmente una vita cristiana, per questo vogliamo vivere con la Messa della Tradizione.
Non c'è niente da fare: la crisi impressionante del Cattolicesimo nel nostro mondo, la confusione dottrinale e spirituale nella quale siamo immersi da troppi anni, l'abbandono imponente della pratica cristiana nei nostri paesi e città, ha la sua causa centrale in una riforma liturgica che ha stravolto il baluardo della fede e della vita cristiana. Il nuovo rito della Messa, fatto per piacere anche ai fratelli separati delle altre confessioni cristiane (innanzitutto ai Protestanti e agli Anglicani), tacendo sugli aspetti principali della concezione cattolica della Messa, ha fatto sì che la liturgia non sia più la roccia sicura su cui fondare la vita cristiana, personale e sociale.
Il nuovo rito ha indebolito nei fedeli il senso di Dio, l'adorazione di Cristo presente nelle specie eucaristiche, la centralità del sacrificio espiatorio, la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Non vogliamo fare un elenco dei “vuoti” del nuovo rito della Messa, ci basta sottolinearne gli effetti devastanti. Solo degli ideologizzati del post-concilio o della modernità a tutti i costi possono non vedere l'esito penoso, drammaticamente penoso, della riforma liturgica. Esito penoso che coinvolge tutti, sacerdoti e fedeli.
Nel migliore dei casi la nuova Messa, quando è celebrata con rispetto e dignità, lascia i fedeli che vi assistono così come sono: se questi sono già profondamente cattolici, probabilmente lo resteranno, ma se sono deboli nella fede e in uno sguardo cattolico sulla vita, in questa nuova Messa non troveranno una provocazione alla conversione profonda, anche culturale; saranno invece “cullati” nel loro modo ridotto di considerare il Cristianesimo.
La Messa tradizionale no! Non è così! È una Messa “difficile”, non per il latino, ma per le provocazioni che lancia.
Sul subito, per un cristiano “piccino” nella mente e nel cuore, può risultare un pugno nello stomaco, ma un pugno salutare. Ti mette in crisi, mette in crisi le false certezze di un cristianesimo troppo umanizzato che mette l'uomo al centro e dimentica Dio. Mette in crisi un cristianesimo che si è imbevuto della mentalità dominante e che è sempre più una scuola di agnosticismo.
La Messa tradizionale mette in crisi, ma dopo la crisi costruisce, edifica. In chi vi assiste con fedeltà, la Messa di sempre inizia un'opera di educazione alla fede profonda, totale, solida. Se un fedele non si scandalizza delle difficoltà iniziali, nel tempo scopre tutta la ricchezza della liturgia secondo la Tradizione, e grazie ad essa vede edificare nella santità e nell'intelligenza della fede tutta la propria vita.
Per questo abbiamo voluto vivere solo con la Messa tradizionale. Per questo pensiamo che sia il ritorno ad essa il migliore sostegno alla Missione urgente di riportare il Cattolicesimo nella vita normale del popolo.
Chissà che, dopo le polemiche, si possa riaprire una proficua riflessione su questi punti.
 
 
Radicati nella fede di aprile 2012: SCELSERO DIO E SALVARONO LA CHIESA
 
Ripartire dalla semplicità. Ne siamo sempre più convinti: più la crisi della fede si fa sentire, più occorre ripartire dalla semplicità di una vita cristiana vissuta quotidianamente. Lo vogliamo ribadire, speriamo di riuscirci, con altrettanta semplicità.
Assisteremo purtroppo ad anni ancora molto complicati. Un mondo cattolico già profondamente in crisi, pensiamo alla confusione di questi ultimi decenni, sarà tentato di affrontare il vertiginoso calo della pratica cristiana, con mezzi terribilmente umani e perciò inutili se non dannosi. Vedremo il moltiplicarsi delle trovate degli stanchi “pastoralisti”, figli di quei “pastoralisti” che nell'epoca del Concilio Vaticano II hanno portato la Chiesa alla perdita della coscienza di se stessa. Ascolteremo il risuonare di frasi spaventosamente stanche che nascondono il vuoto della fede. Siccome i preti non ci sono più, arriveranno a dire che occorre una Chiesa più ministeriale, dove i laici tirano avanti la “baracca”, dove il sacerdote non è più la guida ma il valorizzatore di carismi. Vedremo l'intersecarsi di commissioni e sottocommissioni, giunte e quant'altro, per promuovere le unità pastorali, che non si sa mai cosa siano di preciso... la verbosità di incontri per riflettere sulla situazione alla luce del Vangelo, le tecniche per conquistare le persone che hanno abbandonato la vita delle parrocchie... e intanto la tua vita passa... nella nostalgia di una vita semplicemente santa, come Dio comanda.
Occorre stare molto lontani da tutte queste cose umane che non hanno mai fatto il Cristianesimo. Il Cristianesimo è sempre stato fatto da Dio in anime che lo hanno ascoltato. E per fare questo ci vuole un lavoro semplicissimo: una Chiesa aperta, che sia veramente luogo di preghiera, la Messa veramente cattolica, un prete che ascolta le confessioni, la consegna di una dottrina sana che dica subito tutta la verità della Rivelazione. Il resto è la vita da vivere non secondo il mondo, ma secondo Dio.
È un lavoro grande, sì, ma semplicissimo. È il lavoro di sempre.
Siamo convinti che questo sarà il futuro. Più la crisi si farà sentire, più i preti mancheranno, più bisognerà tenere aperti dei luoghi, magari piccoli, dove la fede sia vissuta intensamente: saranno questi luoghi i fari nella notte della nostra cristianità scomparsa.
Saranno i luoghi di Dio che illumineranno questa terribile notte.
Siamo ancora in tempo, non sappiamo per quanto, nel garantire questa vita semplice, semplicemente cristiana. Occorre avere dei luoghi della grazia, della fede, della misericordia di Dio.
Ci saranno se molti sacerdoti, lasciando un mondo complicato dalle moderne inutilità anche “ecclesiastiche”, abbracceranno una vita interamente sacerdotale, di preghiera – studio – apostolato. Come fece il monachesimo nell'epoca delle invasioni barbariche: scelse Dio e salvò la Chiesa.
Scelse Dio e salvò la Chiesa: chi invece sceglie le molte attività per la Chiesa, perde le anime e allunga un'agonia che sta intristendo i cuori.
 
 
 
Caterina63
00sabato 7 aprile 2012 12:06

[SM=g1740733]Perchè si dice la Messa "di sempre" per sottolineare , oggi, la forma nel rito antico liberalizzata da Benedetto XVI con il Summorum Pontificum?

 

"L'espressione Messa "di sempre" è molto più corretta di quella di "tridentina" o di "san Pio V", che ancorché consacrata dall'uso, è del tutto fuorviante.

Ecco che cosa scriveva il card. Ratzinger nella sua autobiografia "La mia vita":  
"Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli.

Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. [SM=g1740733]

C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica [..] Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti".   
La Messa antica risale, come sa bene, almeno al Papa Gregorio Magno, come ha spiegato Benedetto XVI nel Summorum Pontificum, nei suoi elementi essenziali, tanto che il card. Castrillòn proponeva l'espressione 'messa gregoriana', 1500 anni di applicazione ininterrotta (con crescita e modifiche, ma sempre gradualissime e 'organiche') che il Concilio di Trento non fece altro che difendere dalla devastante riforma Protestante, da qui il termine di Messa "tridentina", questi secoli di affermazione e vita della Chiesa, rappresentano di sicuro un tempo immemorabile che giustifica appieno l'espressione Messa "di sempre".

La Messa celebrata dal Sacerdote, dunque,  è la ri-novazione del Sacrificio della Croce, che da fatto storico unico si fa' perpetuo ogni volta che viene celebrato , ossia il "Semel",(una volta) diventa "Semper"(per sempre) ...  RI-NOVARE infatti non è un "ricordo" di quell'evento, ma da "novare" e "ri" significa proprio "novabile-ripetere-rifare-ri-novare, addirittura deriva proprio da NOVELLO-NUOVO, RIFARE....ogni Messa è dunque un ripetere, in modo incruento, quanto avvenne 2000 mila anni orsono, la Messa "di sempre" è ciò che intende dire l'etimologia della parola stessa: da sempre, da quel Giovedì Santo, giorno dell'Istituzione sacerdotale con il mandato a ri-novare "fate questo IN MEMORIA DI ME" e da quel Venerdì Santo quando Gesù renderà effettiva quella istituzione sacramentale "TUTTO E' COMPIUTO", da qui la Messa comincia la sua missione terrena.... [SM=g1740733]

e questa Messa "di sempre" ce ne applica i meriti.

Nella Messa è Gesù stesso che:
a) per noi Adora Dio degnamente e a nome nostro;
b) Ringrazia Dio dei benefici che ci ha concessi. La Ven. Fran­cesca Farnese era desolata per non saper come ringraziare Dio. Le apparve la Vergine e ponendole fra le braccia il Bambino le disse: Offrilo a Dio in ringraziamento. Egli farà ciò che tu non puoi fare e Dio sarà soddisfatto. I ringraziamenti di Gesù sono in mano nostra ascoltando e più ancora facendo celebrare la Messa.
c) Soddisfa per noi la divina giustizia. Senza la Messa il mondo sarebbe già sprofondato mille volte sotto il peso dei suoi delitti.
d) Prega per noi, presentando a Dio il prezzo di tutte le grazie.

Tutto l'onore reso a Dio dagli Angeli e dai Beati con i loro omaggi, quello reso dai Santi viventi sulla terra con le loro virtù, penitenze, e buone opere, non è da mettersi in paragone con la gloria che si rende a Dio con una sola Messa: perchè gli omaggi di tutte le crea­ture insieme sono sempre cosa limitata, mentre l'onore dato a Dio da Gesù Cristo nella Messa è di valore infinito. - Il martirio stesso non è da paragonarsi alla Messa; perchè esso è il sacrificio dell'uomo per amor di Dio: la Messa è il sacrificio d' un Dio per amor dell'uomo.  

Benedetto XVI, ancora cardinal Ratzinger, rilevò con estrema acutezza mista a preoccupazione quanto l’idea del Sacrificio stesse divenendo estranea alla moderna liturgia omologandola al Credo luterano. [SM=g1740733]

Per Martin Lutero, infatti, parlare di Sacrificio era “il più grande e più spaventoso abominio” nonché una “maledetta empietà”. Una parte non trascurabile di liturgisti sembra praticamente giunta al risultato di dare sostanzialmente ragione a Lutero contro il concilio di Trento nella disputa del XVI secolo che alla fine schiaccio' il Protestantesimo bollandolo come eresia . Il nuovo illuminismo oltrepassa però di gran lunga Lutero . Ritorniamo ad un quesito fondamentale: è giusto qualificare l’Eucarestia come Divin Sacrificio o è questa una maledetta empietà?  La Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile, ed è questo che Lutero non ha potuto vedere.

Uno degli errori più semplici da comprendere del dopo Concilio Vaticano II, è la nuova definizione della Messa: abbiamo solo bisogno di confrontare la definizione fornita dal Catechismo di San Pio X e la nuova definizione data dal Concilio. San Pio X definisce la Santa messa come "il sacrificio del Corpo e Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, sono offerti dal sacerdote a Dio sull'altare in memoria e rinnovamento del sacrificio della Croce". Si può ammirare la chiarezza e la precisione di questa definizione. Che cosa dice il Concilio Vaticano II? "la celebrazione eucaristica è il centro dell'Assemblea dei fedeli presieduta dal sacerdote. Pertanto, i sacerdoti insegnano ai fedeli ad offrire la vittima divina a Dio Padre nel sacrificio della Messa e con la vittima a fare un'offerta di tutta la loro vita" (Presbyterorum ordinis - § 5) -Si noterà che la funzione del sacerdote è ridotta a "presiedere" e "insegnare". L'idea di una con-celebrazione tra il sacerdote e il popolo si manifesta qui; ,(cosi' come Lutero affermava che tutti i fedeli sono sacerdoti ) un'idea espressamente condannata dal Magistero preconciliare.

Per 20 secoli la Messa per la Chiesa è, dunque, il Sacrificio del Calvario attualizzato sui nostri altari. La celebrazione eucaristica secondo il Vetus Ordo Missæ con evidenza solare manifesta l’idea del Sacrificio in ogni sua parola, in ogni gesto, in ogni cerimonia che vi si compie. «L’Augusto Sacrificio dell’altare – si legge nell’enciclica Mediator Dei del Sommo Pontefice Pio XII di venerata memoria – non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima». «Una e identica è la vittima; Egli medesimo, che adesso offre per il ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l’offerta». Questo – e non altro – è la Messa "di sempre".

[SM=g1740733] - Santa Messa o Santa Cena?

 

Dalla Riforma Protestante è invalso l'uso, ma con motivi diversi non propriamente cattolici, di rinominare il Divino Sacrificio con un termine di per sé antico: santa Cena.

Imperciocchè è da annotare, a quanto abbiamo detto fino a qui, che per insegnare tutto sulla Santa Messa è più indicato parlare di Oblazione, Sacrificio di Adorazione e Ringraziamento, senza aver timore di usare il termine amato dai Padri: Santa Messa.

La voce "Messa" la troviamo usata già da St.Ambrogio nel IV secolo (Epistola 20, n.4) e deriva dal latino Missa che significa "mandata, licenziata", ed è stata sempre intesa sia per il Sacrificio Eucaristico "il mandato di celebrare questi Misteri", sia ch'abbia a sott'intendere l'Oblatio, l'offerta, il Sacrificio espiatorio che, mandato da Dio, include anche al "licenziarsi" del popolo dopo l'adorazione del Sacrificio stesso e dopo aver consumato la Vittima nella Comunione fraterna. Inoltre, Messa, indica la "missius", l'atto del mandare, del congedare dopo aver affidato qualcosa, una missione. L'Ite Missa est significa, appunto: andate, l'adunanza è sciolta, licenziata.

Santa Cena: seppur con tal termine si è sempre inteso, nella Chiesa, indicare il momento specifico della Comunione dei fedeli al comando di Gesù di "essere accolto-ricevuto, prefigurazione della Mensa Celeste ed eterna", si è ritenuto sempre valido e più corretto parlare di Santa Messa dal momento che tale Funzione Sacra non racchiude solamente il momento della Comunione dei fedeli, ma anzi, sott'intende principalmente il Sacrificio della Croce, l'offerta della Vittima, i Divini Misteri e che si conclude con il rendimento di grazie colla distribuzione della Santa Comunione.

La Riforma Protestante avendo rigettato la sacralità della Messa, per essi è solo spirituale, la Presenza reale di N.S. Gesù Cristo nella Transustanziazione, e avendo essa rinnegato il Sacerdozio come Sacramento specifico dei Ministri di Dio e conservato esclusivamente il sacerdozio comune a tutti i battezzati, ha ritenuto "normale" modificare anche il termine, non più "Santa Messa" ma una santa Cena, con un pane e vino distribuiti senza la Transustanziazione, di conseguenza essi celebrano solo la comunione, una Cena santa nelle intenzioni, ma in una forma non sacramentale bensì solo spirituale, imperciocchè imperfetta, poiché anche se lo chiamano "sacramento", avendo tolti i segni sacramentali, essa è solo un ricordo spirituale.

 

La Messa detta "Paolo VI" è, pertanto, la medesima Messa, SANTA, il Sacrificio, ma l'uso di certi termini ha fuorviato dalla sana Dottrina, inoltre i tanti abusi compiuti che hanno fatto della Messa "moderna" una sorta di TEATRO nella quale le comunità si sbizzarriscono rendendola piacevole secondo i propri gusti, ha penalizzato la vera Dottrina, per questo Benedetto XVI ha portato molte correzioni su questa Forma Ordinaria della Messa [SM=g1740733] egli non ha portato cambiamenti nella Forma detta Straordinaria, ma in quella Ordinaria, entrambe sono UN UNICO RITO della Messa "di sempre" ma con due forme diverse: quella Straordinaria (antica) è la forma "di sempre", quella Ordinaria lo è nella sostanza, ma non nella sua applicazione che in molte parrocchie ancora si procede con abusi, stravaganze, personalizzazioni, interpretazioni private della liturgia... per potera definire "di sempre" occorre celebrare come sta facendo il Papa Benedetto XVI.... questa è la Messa "di sempre"... chi non si attiene alle disposizioni del Pontefice, commette abusi, stravaganze, ed opera LA DIVISIONE, la confusione, l'ambiguità, fino a rischiare di penalizzare l'efficacia della Santa Messa...

[SM=g1740717] [SM=g1740720]

 

 

Caterina63
00lunedì 16 aprile 2012 16:51

Padre Pio, il Purgatorio e la Messa

Un monaco, liberato dal Purgatorio anche grazie alle preghiere di San Bernardo, apparso ad un confratello del santo, indicando l'altare sul quale in quel momento si stava celebrando la Messa, disse: «Ecco il prezzo della mia liberazione, mi fanno entrare in Paradiso le Messe celebrate per me».
 
La Messa ha un valore infinito, ma non ha un valore infinito la sua applicazione. Una sola Messa potrebbe aprire le porte del Paradiso a tutte le anime del Purgatorio, ma il frutto del sacrificio eucaristico si divide ordinariamente in tre parti: una parte si riversa nel tesoro della Chiesa (grazie alla comunione dei santi va a vantaggio di tutti i suoi membri), una va a beneficio del sacerdote celebrante, una va a profitto dell'anima in suffragio della quale si celebra la Messa. Tutto, ovviamente, nella misura che Dio determina e conosce.
 
Che i benefici delle Messe vegano ripartiti e goduti secondo un criterio che solo Dio stabilisce ne ebbe conferma santa Margherita Maria Alacoque: un giorno, mentre stava pregando per il riposo eterno di due potenti personaggi del suo tempo, le venne rivelato che uno di essi, condannato ad un lungo Purgatorio, non avrebbe beneficiato dei suffragi perché le numerosissime Messe celebrate per lui venivano, dalla giustizia di Dio, applicate ai membri di alcune famiglie che il defunto, quando era in vita, aveva danneggiato mancando di carità e di giustizia.

Questo episodio venne raccontato da padre Pio a padre Atanasio da Teano:
Una sera, mentre, solo, ero in coro a pregare, sentii il fruscìo di un abito e vidi un giovane frate trafficare all'altare maggiore, come se spolverasse i candelabri e sistemasse i portafiori. Convinto che a riordinare l'altare fosse fra Leone, poiché era l'ora della cena, mi accosto alla balaustra e gli dico: «Fra Leone, vai a cenare, non è tempo di aggiustare e spolverare l'altare». Ma una voce, che non era quella di fra Leone, mi risponde: «Non sono fra Leone». «E chi sei?» - chiedo io. «Sono un vostro confratello che qui feci il noviziato. L'ubbidienza mi dette l'incarico di tenere pulito e ordinato l'altare maggiore durante l'anno di prova. Purtroppo più volte mancai di rispetto a Gesù sacramentato passando davanti all'altare senza riverire il Santissimo conservato nel tabernacolo. Per questa grave mancanza sono ancora in Purgatorio. Ora il Signore, nella sua infinita bontà, mi manda da voi perché sarete voi a stabilire fino a quando dovrò soffrire in quelle fiamme di amore. Mi raccomando...»

Io -(è sempre padre Pio che racconta)- credendo di essere generoso verso quell'anima sofferente, esclamo: vi starai fino a domattina alla Messa conventuale (la Messa della comunità che si celebrava al mattino).
 
Quell'anima urlò: «Crudele!» Poi cacciò un grido e sparì. Quel grido-lamento mi produsse una ferita al cuore che ho sentito e sentirò per tutta la vita. Io, che per delega divina avrei potuto mandare quell'anima immediatamente in Paradiso, la condannai a rimanere un'altra notte nelle fiamme del Purgatorio.
Quest'altro fatto anche è stato raccontato da padre Pio a più persone diverse. A me lo fece una sera, dopo le funzioni del pomeriggio, nell'agosto del 1964:
Nel corso della prima guerra mondiale molti cappuccini avevano dovuto lasciare i conventi perché richiamati alle armi. Nel convento di San Giovanni Rotondo c'erano soltanto pochi novizi, il superiore padre Paolino da Casacalenda e padre Pio. Anno 1918. Una sera padre Pio stava riposando in una stanza, a pianterreno del convento, adibita a foresteria. Era solo e si era da poco disteso nella branda quando, improvvisamente, ecco comparirgli un uomo avvolto in un nero mantello a ruota (un tipo di mantello in voga nell'ultimo decennio dell'800 e nel primo del '900). Padre Pio, sorpreso, alzandosi, chiese all'uomo chi fosse e cosa volesse. Lo sconosciuto rispose di essere un'anima del Purgatorio. "Sono Pietro Di Mauro. Sono morto, in un incendio, il 18 settembre 1908, in questo convento adibito, dopo l'espropriazione dei beni ecclesiastici, ad un ospizio per vecchi. Morii fra le fiamme, nel mio pagliericcio, sorpreso nel sonno, proprio in questa stanza. Vengo dal Purgatorio: il Signore mi ha concesso di venirvi a chiedere di applicare a me la vostra Santa Messa di domattina. Grazie a questa Messa potrò entrare in Paradiso". Padre Pio gli assicurò che avrebbe applicato a lui la sua Messa, poi... Ma ecco le parole di padre Pio:
 
«Io, essendo stato sempre un uomo beneducato, volli accompagnarlo alla porta del convento. Mi resi pienamente conto di aver parlato con un defunto soltanto quando, appena usciti nel sagrato, l'uomo, che era al mio fianco, scomparve improvvisamente. Devo confessare che rientrai in convento alquanto spaventato. A padre Paolino da Casacalenda, superiore del convento, al quale non era sfuggita la mia agitazione, chiesi il permesso di celebrare la Santa Messa in suffragio di quell'anima, dopo, naturalmente, avergli spiegato quanto m'era accaduto».
 
Qualche giorno dopo, padre Paolino, incuriosito, volle fare un controllo. Recatosi all'anagrafe del Comune di San Giovanni Rotondo richiese e ottenne il permesso di consultare i registri dei deceduti nell'anno 1908. Il racconto di padre Pio corrispondeva a verità. Nel registro relativo ai decessi del mese di settembre, padre Paolino rintracciò il nome, il cognome e la causale della morte: «In data 18 settebre 1908, nell'incendio dell'ospizio, è perito Pietro Di Mauro fu Nicola».
 
[SM=g1740733]
 
 
Caterina63
00martedì 17 aprile 2012 22:54
[SM=g1740717] [SM=g1740720] L'ultima Santa Messa di san Padre Pio da Pietralcina
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Caterina63
00sabato 5 maggio 2012 12:09

Traditio Liturgica: Liturgia e intangibilità .... un post semplicemente magnifico....

Liturgia e intangibilità


 
 
Una delle prime testimonianze scritte del Vangelo (II sec).
Nel IV-V secolo si fissò un poco ovunque il Canone biblico e,
contemporaneamente ad esso, si fissarono le linee di fondo della liturgia.
Non è un caso che, similmente alla Bibbia, la liturgia sia stata considerata
intangibile fino al punto che, in Occidente, si riunirono in un libro solo
- il Messale - le letture bibliche con quelle liturgiche.

Una delle caratteristiche proprie ad ogni liturgia tradizionale è quella d'essere intangibile, ossia di non essere manipolabile, modificabile, cambiabile.

E' notorio che la liturgia nelle comunità cristiane si è formata contemporaneamente a loro. San Paolo, nelle sue lettere, testimonia l'esistenza di liturgie primitive nelle quali i cristiani cantavano "salmi, inni e cantici spirituali" (Ef 5,19).

Gli odierni sostenitori cattolici delle improvvisazioni liturgiche guardano a quest'epoca, ritenendo che qui ci fosse quello spontaneismo in grado di "vivificare" la preghiera, altrimenti "stancamente ripetitiva". Essi dimenticano che la Chiesa ha voluto, prima possibile, fissare delle forme perché ben poco può essere manipolato (1) pena la decadenza dello spirituale nel puro temporale. L'antico motivo fondamentale dell'intangibilità di testi e orientamenti liturigici sta, infatti, nel mantenere intatto un percorso di tipo ascetico e spirituale, disposto non da intellettuali e studiosi ma da uomini spirituali.

Perciò con l'affiorare delle eresie, mentre pian piano si strutturava il vocabolario teologico, la liturgia assunse sempre maggiori elementi intangibili fino a divenire, dopo alcuni secoli, totalmente intangibile e stabile (IX-X sec).



Celebrazione di una Messa latina in un oratorio.
Fac-simile di una miniatura in un manoscritto del IX secolo (Ambroise Firmin Didot).
Si noti come il celebrante incensi con una mano sola come nella consuetudine bizantina.
 

Questo non ha proibito le Chiese locali d'avere delle consuetudini, di stabilire delle liturgie particolari (che in seguito furono denominate "riti").

Quando il motivo ascetico non fu più chiaro, soprattutto con la decadenza del monachesimo in Occidente (XI-XII sec), si mantenne un rigoroso rispetto per quanto si riceveva dalla tradizione poiché s'era radicata la mentalità di conservare le cose com'erano.

Nella storia della liturgia romana se notiamo lo stesso fenomeno dell'intangibilità, notiamo pure che, lungo il tempo, avvengono aggiunte, piccoli adattamenti, qualche soppressione.

E' noto come il messale del 1570 sopprimesse gran parte delle sequenze medioevali. In quello stesso messale si fecero piccoli ritocchi.


Ricordiamo quello della preghiera "Fiat commixtio et consecratio" che diviene "Haec commixtio et consecratio", per indicare semplicemente l'azione liturgica in corso nel momento in cui il sacerdote getta nel calice parte della particola consacrata poco prima della comunione (2).


Ricordiamo pure la soppressione della penultima strofa della sequenza "Victimae paschali laudes", nella quale, esaltando la fede nelle pie donne la si contrappone alla fallace disposizione verso Cristo delle masse giudee: "Credendum est magis soli Mariae veraci, quam Judaeorum turbae fallaci". Il testo completo di questa sequenza cercò di permanere a lungo, nonostante la soppressione di questo versetto nel messale romano del 1570. Lo ritroviamo, ad esempio, nel "Libro delle Ore" in uso nella diocesi di Lione (3).

Questo fatto dimostra come le Chiese locali fossero tutt'altro che disponibili ad adattarsi ad una seppur piccola soppressione avvenuta a Roma. Nella seconda metà del XIX secolo a Lione si continuava a cantare la sequenza dell'XI secolo nella sua forma integrale laddove a Roma si aveva preferito una forma abbreviata nella quale non compariva più la frase contro l'incredulità giudaica.



Il Concilio di Trento (1545-1563) stabilì che i riti autorizzati nella Chiesa dovessero avere almeno 200 anni di vita, com'era il caso per il rito domenicano. La garanzia per una liturgia, dunque, non era data dalla novità ma da una lunga prassi, tale da potersi ascrivere in una tradizione radicata.

E' importante che il lettore comprenda la mentalità di fondo soggiacente a questo apparente "immobilismo" liturgico. Secondo la mentalità tradizionale, le formule della liturgia non sono elementi lasciati all'interpretazione e al gusto del soggetto. Clero e laici non hanno alcuna libertà d'intervenire per manipolarli a piacimento (4). Questo perché la liturgia, in se stessa, non veicola solo una fede ma un modo di credere, un'atmosfera spirituale. Per fare un'analogia, la liturgia non solo "inclina" il credente verso una direzione ma stabilisce pure "il modo" in cui egli s'inclina. E tutto ciò contribuisce, a livello generale, a dare un'identità precisa ad una Chiesa. L'intangibilità, lo abbiamo appena visto, non significa che, nei secoli, qualcosa non sia stato ritoccato. Significa, invece, che l'insieme della liturgia ha mantenuto il suo aspetto originale.

Lo studioso Klaus Gamber paragonava la liturgia ad un albero al quale, lungo il tempo, possono essere stati tagliati dei rami. Tale, però, è sempre rimasto. Gamber osservava, pure, che questo non era il caso per la riforma liturgica voluta recentemente nella Chiesa cattolica. In quella riforma, infatti, scompare pure il tronco e, con pezzi del suo legno, assieme ad altri di eterogenea provenienza, è stato fatto qualcosa di totalmente nuovo, prescindendo completamente da ogni sviluppo organico della liturgia, come tradizionalmente è sempre avvenuto. Tale rito, egli concludeva, non si può chiamarlo romano se non molto impropriamente. Si dovrebbe, infatti, chiamarlo semplicemente "moderno". Il vero rito romano o è morto o non è affatto questo.

Ci si chiede se il "rito moderno" è legittimo.

Dal momento che la liturgia trasmette qualcosa di sopra-individuale (5) può, una commissione di studiosi per quanto sostenuta dalle più alte autorità, rifondare tutto un ordinamento liturgico? Sono convinto di no. Anch'essi devono comprendere che c'è un limite alla loro azione: la custodia, la chiarificazione o la semplificazione della liturgia può essere consentita. Una sua rifondazione no, dal momento che la liturgia è paragonabile ad un atto fondativo come la Costituzione di uno Stato. La Costituzione può avere chiarificazioni o semplificazioni ma cambiarla nella sua essenza significa, in definitiva, cambiare lo Stato. Se questo vale per il mondo laico perché non dovrebbe valere per quello ecclesiastico?

Analogamente, cambiare la Liturgia con riforme radicali - com'è successo nella Chiesa cattolica da qualche decennio a questa parte - significa cambiare la Chiesa stessa. E' difficile sostenere il contrario ribadendo artificialmente e a tutti i costi una continuità, pure a dispetto della reale difformità dall'ordine tradizionale.

Martin Lutero, all'inizio della riforma da lui propugnata, non aveva alcuna intenzione di rompere la comunione ecclesiale. Questo lo si nota dal fatto che, inizialmente, mantenne l'ordine liturgico che lui stesso aveva ricevuto. Nacque una nuova Confessione nel momento in cui egli decise d' abolire la "Messa papista", com'egli la definiva, riducendo, in seguito, il numero dei Sacramenti e stabilendo una nuova funzione per il sacerdote, da allora denominato "pastore".

La variazione della liturgia, anche in Inghilterra, stabilì l'effettiva nascita di una nuova Chiesa per quanto gli anglicani non raggiunsero mai l'assetto luterano, mantenendo un tenore liturgico assai simile a quello dell'attuale Cattolicesimo.

A differenza di questi ultimi esempi, tutte le Chiese tradizionali avvertono la liturgia come qualcosa d'intangibile. Così era sentito pure nel mondo cattolico fino a 70 anni fa.



Dom Prosper Gueranger (1805-1875), il fondatore dell'abbazia di Solesmes, nella sua opera Institutions liturgiques, si scagliava con veemenza contro gli innovatori liturgici, coloro, cioè, che osavano introdurre variazioni alla liturgia. Ogni innovatore, così sosteneva, ha l'intenzione più o meno recondita di modificare il modo di credere. Egli concludeva che la liturgia romana si era mantenuta al riparo da certi errori nei quali era caduta quella gallicana, proprio perché manifestava un'istintiva avversione per ogni innovazione.


La fiera opposizione a ciò che cambia sostanzialmente l'identità ecclesiastica fu quello che attirò John Henry Newmann verso la Chiesa cattolica nella seconda metà dell' 800. Egli, a differenza degli uomini attuali, non sentiva tedio per la perennità delle formule liturgiche e, anzi, scriveva: "Io potrei assistere eternamente alla Messa senza mai stancarmi; infatti non si tratta di una semplice formulazione di parole, ma di un grande atto, del più grande atto che possa aver luogo sulla terra" (6).



Breviario Romano nell'edizione torinese del 1827, precedente alla riforma di Pio X
Agli inizi del '900, quando Pio X modificò il Breviario romano, ci fu qualche liturgista che si scandalizzò. Papa Sarto non aveva fatto altro che abbreviare il Mattutino, da 12 salmi a 9, distribuendo quelli rimanenti nella Compieta che, così, da allora ebbe ogni giorno dei salmi differenti. Per i liturgisti che ben avevano capito il senso dell'intangibilità, non si doveva ritoccare neppure questo libro. Che direbbero oggi costoro, osservando l'inconsistente leggerezza della Liturgia Horarum? Tale libro è così "leggero" che alcuni sacerdoti mi hanno candidamente confidato di non aprirlo più.

Purtroppo dal momento in cui s'iniziano ad introdurre sempre maggiori modifiche, si ha l'impressione che venga demolito dalla Chiesa un muro di cinta; si lancia un implicito messaggio che suggerisce l'inesistenza di limiti o l'estrema relatività di essi: se il testo liturgico può essere ampiamente elaborato (seppur da commissioni autorizzate), allora perché il soggetto non lo può ritoccare? Ecco, dunque, che si è costretti a dare un certo spazio pure al singolo sacerdote il quale, da semplice trasmettitore, diviene "creatore". Ufficialmente gli si concedono ampi spazi nelle cosiddette "monizioni" durante la Messa ma molti vanno ben più in là, facendo interpolazioni o modifiche personali al testo liturgico. Le cosiddette "comunità di base", ai margini ma pur sempre nel mondo cattolico, ancor oggi compongono delle preghiere eucaristiche.

Perciò lo stesso fatto che il sacerdote, nel Messale cattolico riformato, abbia un'ampia scelta di anafore, piuttosto che vederla come una "ricchezza", a me pare essere come "caramelle" gettate a chi è animato da continue voglie di cambiamenti; sembra un disperato tentativo di placare questo fenomeno concedendo un contentino, come se ciò bastasse a frenare le originalità che continuano a germinare! Questi atteggiamenti innovativi paiono rimandare ad un'inquietudine, che sembra d'origine prettamente spirituale. Essa si dovrebbe placare con ben altri mezzi, di origine ascetica, in mancanza dei quali non conosce sosta.


Si ricordano, a tal proposito, tutte le liturgie ad experimentum avvenute nel periodo postconciliare e che ancora avvengono, soprattutto all'interno di certi gruppi. L'idea di una liturgia come "ripetizione solenne di gesti e parole", stomaca la maggioranza dei chierici cattolici attuali, formati più per essere degli intrattenitori-animatori (7) che dei sacerdoti nel senso forte del termine.

Se è possibile l'improvvisazione per il testo liturgico, allora anche lo spazio liturgico può essere stravolto. Ed ecco spiegata l'inesistenza di spazi recintati e intangibili ai laici o le squallide "chiese-garages" odierne. Se il testo liturgico ha perso l'intangibilità perché la dovrebbe conservare lo spazio adibito alla liturgia?

Tutte le ininterrotte improvvisazioni e cambiamenti liturgici non sono altro che logiche conseguenze discendenti dagli orientamenti presi dal mondo cattolico 50 anni fa con l'abolizione di fatto dell'intangibilità liturgica (8). Gli stessi libri liturgici odierni sono effettivamente aperti ad ulteriori variazioni dettate da luoghi e tempi diversi. Tutto ciò supera di molto un semplice adattamento di testi preesistenti a nuove condizioni. E' l'intangibilità che è venuta meno. Ne ha tratto certamente vantaggio l'editoria con la vendita di ulteriori nuove edizioni, non certo chi, nella Chiesa, cerca una stabilità spirituale.

Ma quando l'idea stessa d'intangibilità della Liturgia viene meno, con essa viene meno l'identità stabile di una Chiesa. E dov'è, allora, la roccia ferma della fede di Pietro? Stando così le cose, rimane un puro asserto verbale!


Concelebrazione del patriarca greco-ortodosso di Alessandria con i russi-ortodossi.
Alcuni anni fa, il Sacro Sinodo russo condannò il tentativo di tradurre in russo moderno la Divina Liturgia, appellandosi alla consuetudine liturgica. Questa condanna, per quanto eccessiva, affonda le sue ragioni
nel concetto d'intangibilità della Liturgia, concetto che in Oriente è particolarmente sentito.
L'Occidente cristiano, venendo meno in quest'aspetto,
ha interposto un ulteriore muro di divisione con l'Oriente.
______________
 

(1) In questo, il processo di assestamento e fissazione dei testi liturgici sembra seguire quello del Canone scritturistico. E' noto come ogni Chiesa avesse un suo elenco di libri biblici e che, solo attorno al IV-V secolo, si stabilì un elenco preciso. Se si dovesse stare al principio dei sostenitori dell'improvvisazione liturgica, si dovrebbe, dunque, rimettere in discussione il Canone biblico stesso favorendo, nel corso della Messa, letture di vario genere. Coerentemente a tale principio, ciò è già avvenuto: in Olanda, nei primi anni '70, alcune chiese cattoliche avevano la consuetudine di leggere, assieme alla Bibbia, stralci tratti dai quotidiani dell'epoca.


(2) Vedi Michael Kunzler, La liturgia della Chiesa, 10, Milano, 2003, p. 341.
Questo gesto è simile a quello che avviene nella Divina Liturgia bizantina quando il sacerdote getta nel calice tutti i frammenti di pane consacrato che compongono l' "Agnello". La differenza con l'Occidente è che, mentre qui la comunione avviene sotto le due specie (per cui tutto il pane va nel calice dove s'imbeve di vino), in Occidente è solo una parte della particola ad imbeversi di vino poiché solo il sacerdote si comunica con entrambe le specie.

(3) Heures à l'usage du Diocèse de Lyon, Gauthier Libraire-éditeur, Lyon, 1864, p. 285. In questo libro, la sequenza compare collocata nei Vesperi assieme al graduale.



(4) Questo è sostenuto pure da papa Benedetto XVI, ammiratore di Klaus Gamber. Purtroppo una tale affermazione, in un contesto quasi totalmente anti-tradizionale, è come cercare di mettere una pezza di stoffa buona in un vestito totalmente logoro. Quello che poi pare mancare, dietro a quest'affermazione papale, è una ragione più profonda e spirituale che la possa sostenere in mancanza della quale è inevitabilmente sentita come un'imposizione autoritaria e, conseguentemente, rigettata. L'attuale forte resistenza episcopale alle pur timidissime proposte tradizionali del papa è un chiarissimo segno di contrarietà a tale principio.


(5) Questa caratteristica della liturgia, la sua "sopra-individualità", è equivocata con il termine di "comunitaria". Non è affatto così. La liturgia comunitaria è quella celebrata da tutta la comunità come se fosse un corpo solo, un solo individuo e, in quanto tale, può sempre rimanere individuale, gestita e plasmata da chi la conduce e la anima.
La liturgia "sopra-individuale", invece, è un insieme di testi e disposizioni che, pur composti in tempi e luoghi particolari, vogliono prescindere da individui o comunità specifiche, ai quali, però, individui e comunità specifiche si sintonizzano. Si tratta, in buona sostanza, di qualcosa che ha lo scopo di far uscire le persone dal loro individualismo in vista di una comunione e di un'esperienza mistica in Cristo. Così mentre la liturgia odierna tende ad essere sempre individualista, piuttosto chiusa in senso antropocentrico, quella "sopra-individuale", che corrisponde alla liturgia tradizionale, è aperta al Cielo, è verticale, relazionale in senso trascendente. La liturgia "sopra-individuale" è quella tradizionale e antica, quella "individuale" è, molto spesso, quella sgorgata dalla cultura odierna.La liturgia "sopra-individuale" è ecclesiale tanto quanto la liturgia individualista è anti-ecclesiale.
Ma essa è praticamente assente in Occidente, proprio perché è totalmente equivocato il significato di "tradizione" e "tradizionale", piegato pure questo in senso individualistico e antropocentrico. Il rischio di molti mondi tradizionalisti cattolici è quello di recuperare la tradizione liturgica ma di non uscire mai da quell'individualismo che contraddistingue generalmente l'attuale cultura. La tradizione liturgica, così, diviene una delle tante "divinità" nel Pantheon dell'attuale Chiesa, uno dei tanti gusti e propensioni nel "mercato del sacro". Quest'idea è indirettamente instillata dalla stessa gerarchia episcopale quando, per motivi pure comprensibili ma a mio avviso non giustificabili, adagia le Messe tradizionali sullo stesso piano di qualsiasi altra liturgia attualmente praticata, favorendo una specie d'intercambiabilità, se non proprio d'indifferentismo (= "questo o quello per me pari sono!"). Ma questo è profondamente ingiusto e sbagliato. A tale argomento sarà bene dedicare un post apposito.


(6) J.-H. Newmann, Loss and Gain. The story of a Convert, London, 1848-1858, p. 265.


(7) Il concetto stesso di "animazione liturgica" rasenta, secondo me, il blasfemo. Se una preghiera è intensamente vissuta, non ha bisogno d'essere teatralizzata. Dei credenti in silenziosa contemplazione, per gli "animatori liturgici", sono persone quasi inutili. E' necessario agitarsi, schiamazzare, partecipare esteriormente, per manifestare una liturgia vivente. Qui si scambia per vita ciò che è puro vitalismo, nonostante Cristo abbia chiaramente indicato dei criteri regolatori per la preghiera (Cfr Mt 6,6).
Recentemente mi è capitato di chiedere ad un sacerdote di mezza età cosa pensasse all'idea d' "intangibilità" della Messa. Per ben tre volte ha risposto: "Non riesco a capire cosa sia l'intangibilità. La liturgia dev'essere vissuta con i fedeli ed aiutarli a farla comprendere. L'idea dell'intangibilità mi lascia di stucco". Lo stesso, però, aggiungeva d'essere rimasto amareggiato davanti a giovani preti i quali avevano celebrato una messa totalmente inventata. "Solo le parole della consacrazione erano prese dal Messale, ma il vangelo era letto da un laico", aggiunse. Evidentemente, per quanto questo prete non capisca la funzione dell' "intangibilità", ha ricevuto comunque qualcosa di più rispetto alle ultime generazioni che portano alle estreme conseguenze i presupposti stabiliti già 50 anni fa.


(8) L'accelerazione dei cambiamenti nel messale romano poco prima e durante il Concilio Vaticano II è simile all'assedio di una città, sempre più stringente, poco prima del crollo di quest'ultima. L'inserzione del nome di san Giuseppe, all'interno del Canone Romano, voluto nel 1962 da papa Giovanni XXIII, turbò alcuni. Il Canone Romano o Anafora, era infatti rimasto intatto da tempo immemorabile e non parve ad alcuni saggio fare tale inserzione, neppure per motivi devozionali. Per costoro la tradizione era superiore ai voleri del singolo papa. Nonostante ciò, la cosa passò ma ebbe un pesante significato simbolico: se un papa, con la sua autorità, poteva intervenire nello stesso Canone Romano, il cuore della Messa, un testo venerabile e intangibile, allora, con il permesso papale, sarebbe stato possibile modificare molto più. Così infatti avvenne. Si rimane molto meravigliati di come, nel giro di pochissimi anni, la mentalità nel Cattolicesimo si sia addirittura rovesciata. Evidentemente da tempo erano stati posti molti presupposti perché ciò avvenisse, primo fra tutti l'aver anteposto l'autorità alla tradizione. Infatti, cosa dice il fedele medio? "Cosa ne pensa il papa, il vescovo, il prete?". Non dice: "Qual'è l'atteggiamento della tradizione?", come ancor oggi si dice in Oriente in chi vuol saperne di più
 
Caterina63
00venerdì 11 maggio 2012 00:03
12PORTE - 12 maggio 2011: La Chiesa bolognese e l'ordine domenicano celebrano oggi la memoria liturgica della Beata Imelda Lambertini, la fanciulla dodicenne che San Pio X proclamò patrona dei bambini della Prima Comunione.

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Caterina63
00giovedì 17 maggio 2012 18:19

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE  

 

Il sacerdote nei Riti di Conclusione della Santa Messa

 

1. I Riti di Conclusione nelle due forme della Messa di Rito Romano

1.1 I Riti di Conclusione della Santa Messa si svolgono, in entrambe le forme del Rito Romano - l'ordinaria e la straordinaria - una volta terminata l'orazione dopo la Comunione. Per la forma ordinaria (o di Paolo VI), l'Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR) al n. 90 si esprime in questi termini:

«I Riti di Conclusione comprendono:

a) Brevi avvisi, se necessari;

b) Il saluto e la benedizione del sacerdote, che in alcuni giorni e in certe circostanze si può arricchire e sviluppare con l'orazione sul popolo o con un'altra formula più solenne.

c) Il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio;

d) Il bacio dell'altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l'inchino profondo all'altare da parte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri»(1).

Il ruolo del sacerdote, dunque, consiste nel dare brevi avvisi ai fedeli, nel salutarli con la formula liturgica «Dominus vobiscum» e nel benedirli con formula semplice o solenne. Il sacerdote, se manca il diacono, pronuncia anche la formula di congedo «Ite, missa est»(2). I Riti terminano con il bacio dell'altare e con un inchino profondo ad esso, come all'inizio della Messa.

1.2 Possiamo confrontare questa struttura con quella stabilita dalle rubriche del Messale di forma straordinaria (o di san Pio V, nella revisione operata dal beato Giovanni XXIII). Gli elementi fondamentali sono comuni alle due forme del rito, ma si notano anche delle differenze. Il congedo «Ite, Missa est» qui è anteposto alla benedizione(3). Ricevuta la risposta «Deo gratias», il sacerdote si volge di nuovo verso l'altare e, profondamente inclinato, con le mani giunte e appoggiate su di esso, dice la preghiera Placeat, che san Pio V fece aggiungere nel suo Messale (1570). Si tratta di una bella preghiera con la quale il ministro ordinato chiede alla Trinità di accettare il sacrificio eucaristico in favore suo e di tutti coloro per i quali il sacerdote lo ha offerto. Ecco il testo:

Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meæ: et præsta, ut sacrificium quod oculis tuæ maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile; mihique et omnibus pro quibus illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen(4).

Recitata con devozione questa preghiera, il sacerdote bacia l'altare, eleva gli occhi al cielo mentre apre e chiude le braccia elevandole e riabbassandole davanti al petto, inclina il capo verso la croce e dice: «Benedicat vos omnipotens Deus»; poi si volta verso il popolo e lo benedice con il segno di croce semplice nel nome della Trinità (lo stesso gesto che si compie nella forma ordinaria)(5).

I Riti di Conclusione della forma straordinaria prevedono ancora una lettura biblica: il sacerdote, infatti, benedetto il popolo, si volge di nuovo all'altare, al lato del Vangelo, e proclama il Prologo del Vangelo di Giovanni, introducendo la lettura con le stesse formule e i medesimi gesti che si usano per la proclamazione del Vangelo all'interno della Liturgia della Parola. Nel leggere «Et Verbum caro factum est», egli genuflette. L'ultimo Vangelo è sempre Gv 1,1-14, che si omette in alcune celebrazioni(6). Il Prologo del Vangelo di Giovanni veniva apprezzato già dal sec. XIII come formula di benedizione, in particolare per ottenere il bel tempo, e perciò fu inserito da san Pio V nel suo Messale(7). Questa lettura, pertanto, va intesa come parte della benedizione.

1.3 Notiamo che la continuità nei Riti di Conclusione tra la forma straordinaria e la forma ordinaria del Rito Romano sta in questi elementi: la benedizione del popolo, la formula di congedo, il bacio e la venerazione dell'altare. Le differenze tra le due forme si riscontrano per alcune soppressioni nel passaggio dal Vetus al Novus Ordo e in un'aggiunta operata da quest'ultimo. Il Novus Ordo ha cambiato la struttura di svolgimento dei Riti di Conclusione, sia invertendo l'ordine tra congedo e benedizione, sia eliminando la preghiera Placeat e l'ultimo Vangelo. L'aggiunta che esso fa consiste invece nell'indicazione dell'IGMR, n. 90/a, che prevede la possibilità di dare brevi avvisi all'inizio dei Riti di Conclusione(8). Altra aggiunta (ripresa dalla prassi antica) è la possibilità di utilizzare formule di benedizione più solenni.

2. Le due colonne portanti dei Riti di Conclusione: benedizione e congedo

2.1 Da quanto detto, risulta che le due colonne portanti dei Riti di Conclusione della Messa sono la benedizione ed il congedo. Nella Sacra Scrittura(9), la parola «benedire/benedizione» ha un significato molto ampio. Nell'ebraico dell'Antico Testamento, la radice brk indica la fortuna di quegli uomini a cui tutto riesce, ma indica anche la fecondità, l'abbondanza, la ricchezza e persino l'umidità delle nuvole (vera e propria ricchezza e benedizione nel deserto!). Oltre a questi significati, brk viene usata nel senso verbale di «rendere omaggio», «lodare», «glorificare», «esprimere riconoscenza» e anche «parlare bene di qualcuno». Infine, siccome in Israele qualsiasi saluto era un augurio di benedizione, brk significa anche semplicemente «salutare». Il significato più vicino al nostro modo di intendere la «benedizione», si trova espressa nei testi che trattano di auguri di benedizione dei padri ai figli, o dei sacerdoti ai partecipanti del culto, o ancora riguardo a promesse fatte da Dio in favore degli uomini. Si trovano anche formule liturgiche fisse, ad esempio Nm 6,23-26.

Nell'Antico Testamento, la benedizione, al pari della maledizione, ha una forza che realizza quanto le parole esprimono. Ad esempio, «benedizione» è una forza che si trasmette a qualcuno mediante l'imposizione delle mani (cf. Gen 48,14.17) o pronunciando una parola su qualcuno (cf. Gen 27,27-29; 49,1-28). Una volta ricevuta mediante la benedizione, la forza non può essere tolta da un uomo (cf. Gen 27,33.35; Nm 22,6). Anche quando Dio non viene esplicitamente menzionato, è sempre sottinteso che la forza della benedizione viene da lui. Oltre che sul popolo eletto e sui singoli, l'Antico Testamento conosce una benedizione divina anche su oggetti (cf. Es 23,25; Dt 7,13; 28,4-5; Ger 31,23; Pro 3,33), sebbene non venga presentato un rito liturgico corrispondente.

Tra i vari personaggi che nell'Antico Testamento benedicono, vi sono anche i sacerdoti che benedicono le singole persone che si recano al tempio (cf. 1Sam 2,20), i pellegrini (cf. Sal 118,26) nonché il popolo radunato (cf. Lev 9,22). Anzi si dice che, strettamente parlando, JHWH ha designato solo i sacerdoti e i leviti per benedire nel suo nome (cf. Dt 21,5; 10,8).

Al tempo di Gesù, nel tempio di Gerusalemme i sacerdoti, nel compiere la liturgia mattutina, pronunciavano la «benedizione di Aronne», ossia il già citato Nm 6,23-26. Il Nuovo Testamento fa propri gli usi e le concezioni della benedizione anticostestamentaria e giudaica(10). La Lettera agli Ebrei ricorda la benedizione di Melchisedec ad Abramo e quella di Isacco a Giacobbe (cf. Eb 7,1; 11,20). Secondo san Paolo, la benedizione divina ad Abramo giunge anche a coloro che non sono sua discendenza per via carnale: necessaria, però, è la fede (cf. Gal 3,8-9). Interessante è ancora un'altra annotazione di Ebrei che, prendendo spunto dalla benedizione di Melchisedec, nota che «senza dubbio è l'inferiore che è benedetto dal superiore» (Eb 7,7): quindi, chi benedice è stato costituito da Dio in una posizione superiore rispetto a colui che è benedetto(11). Gesù stesso benedice mediante imposizione delle mani: i bambini (cf. Mc 10,16) e i discepoli (cf. Lc 24,50). Rileggendo la vita di Gesù dopo la risurrezione, san Pietro dirà che Dio ha mandato il Figlio a benedirci (cf. At 3,26) e san Paolo preciserà che si tratta di una eulogía pneumatiké, una benedizione spirituale (Ef 1,3). Il cristiano è chiamato a imitare Cristo e a benedire sempre: «Benedite (anche) coloro che vi maledicono» (Lc 6,28; cf. Rm 12,14).

2.2 Da questi elementi biblici discende l'uso liturgico cristiano di benedire, che ha il significato di «chiedere a Dio i suoi doni sulle sue creature, e rendergli grazie per i doni già ricevuti»(12). Prosper Guéranger ha sostenuto che la benedizione deve risalire in qualche modo alle istituzioni liturgiche dettate dagli stessi apostoli(13). A livello rituale, essa si compie con l'imposizione delle mani sui singoli oppure, per le assemblee, allargando le braccia e rivolgendo le palme delle mani sui presenti. Il segno cristiano di benedizione per eccellenza è però il segno della croce e perciò giustamente il Rito Romano fa iniziare e concludere l'Eucaristia con questo segno.

«"Diventerai una benedizione", aveva detto Dio ad Abramo al principio della storia della salvezza (Gen 12,2). In Cristo, figlio di Abramo, questa parola è pienamente compiuta. Egli è benedizione per l'intera creazione e per tutti gli uomini. La croce, che è il suo segno nel cielo e sulla terra, doveva dunque diventare il vero gesto di benedizione dei cristiani»(14).

Al termine della Messa, la benedizione può svolgersi in diversi modi: come benedizione semplice, come tripla benedizione solenne, o come preghiera di benedizione sul popolo(15).

Il sacerdote celebrante deve tener presente il ruolo di mediatore che egli svolge anche nell'impartire ai fedeli la benedizione finale della Messa, che non è solo un atto dovuto, o un modo come un altro per concludere la celebrazione. Nella benedizione finale (come in tutta la Messa) si incrociano due dinamiche: quella dal basso, per la quale l'uomo rende grazie a Dio, «bene-dice» Dio per i doni già ricevuti; e quella dall'alto, per cui Dio stesso effonde i suoi beni sui fedeli. Il sacerdote è proprio al centro di questo flusso di preghiera e di grazia.

2.3 Dalla natura teologica della benedizione conclusiva, deriva anche il carattere proprio del congedo. Anche qui non si tratta semplicemente di un saluto di cortesia ai presenti, ma dell'esplicitazione di un mistero di grazia. Benedetto XVI ci ricorda che nel saluto «Ite, missa est»,

«ci è dato di cogliere il rapporto tra la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo. Nell'antichità "missa" significava semplicemente "dimissione". Tuttavia essa ha trovato nell'uso cristiano un significato sempre più profondo. L'espressione "dimissione", in realtà, si trasforma in "missione". Questo saluto esprime sinteticamente la natura missionaria della Chiesa. Pertanto, è bene aiutare il popolo di Dio ad approfondire questa dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia»(16).

Il congedo da parte del sacerdote costituisce, pertanto, un ultimo ammonimento a vivere ciò che si è celebrato. Si tratta di custodire la grazia ricevuta nel sacramento, affinché porti frutti nella vita cristiana di ogni giorno. Perciò con il tema del congedo è collegato il grande tema del rapporto tra liturgia ed etica, intendendo quest'ultima nel senso più ampio possibile (vita morale nella carità, testimonianza, annuncio, missione, martirio). Il fatto che il congedo non sia a sé stante, ma che sia collegato e derivi dalla benedizione, ci dice che in questo impegno non siamo soli: il Signore ci accompagna ed «opera con noi» (cf. Mc 16,20) e perciò la nostra vita può essere il «culto logico» gradito a Dio (cf. Rm 12,1-2; 1Pt 2,5). «Il congedo, atto presidenziale, dichiara sciolta l'assemblea. Come ci si raduna su convocazione divina (Rm 8,30), così il presidente, che agisce "in persona Christi", invia i fedeli alle azioni usuali della vita, per compierle in modo nuovo, trasformandole in materiale di salvezza; perciò l'assemblea risponde: "Rendiamo grazie a Dio"»(17).

Lo storico cattolico Henri Daniel-Rops, in un libretto in cui medita sul significato della Santa Messa nel rito di san Pio V, così riassume il senso della benedizione finale e del congedo:

«Proprio quando la Messa sta per finire, e noi stiamo per riprendere il lavoro di ogni giorno tra affanni e pericoli, la Chiesa ci ricorda che dobbiamo vivere sotto la mano di Dio e che è sotto la sua mano che saremo guidati e protetti. In questo modo tutta l'essenza della Messa sarà, in un certo senso, incorporata al nostro essere e continuata nella nostra vita d'ogni giorno. [...] L'Ite Missa est, o formula di congedo, può essere spiegata come un annuncio solenne della conclusione della funzione, ma ci avvisa anche che il nostro personale servizio di Dio non è che all'inizio. Con il Placeat [...] siamo guidati a contemplare l'onnipresenza del Dio Uno e Trino, nel cui Nome è invocata su di noi la Benedizione finale. Con un bellissimo gesto liturgico, il celebrante alza le mani in alto come per tirar giù dal Cielo la grazia che ci accompagnerà per proteggerci e guidarci»(18).

Da sponda ortodossa, gli fa eco lo ieromonaco Gregorio del Monte Athos, che in un libro in cui commenta la divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, così interpreta il congedo:

«La divina liturgia è un cammino. Un cammino il cui scopo, il cui fine è l'incontro con Dio, l'unione dell'uomo con lui. Tale meta è già stata attinta. Siamo giunti al termine del nostro percorso. Abbiamo visto la luce vera. Abbiamo visto il Signore trasfigurato sul Tabor. Ci siamo accostati al suo santo corpo e al suo sangue immacolato. E mentre osiamo balbettare al nostro illustre visitatore: "È bello per noi restare qui" (Mt 17,4), la madre Chiesa ci ricorda che il termine del nostro cammino liturgico deve diventare l'inizio del nostro cammino di testimonianza: Procediamo in pace! Dobbiamo lasciare il monte della trasfigurazione per ritornare nel mondo e percorrere la via del martirio della nostra vita. Questo cammino diviene la testimonianza del credente in ordine alla Via e alla Vita che egli ospita in sé. Nella divina liturgia abbiamo ricevuto in noi Cristo. Ora siamo chiamati a portarlo al mondo. A diventare i testimoni della vita di lui nel mondo: i testimoni della nuova vita. [...] Dopo esserci accostati all'Eucaristia dobbiamo uscire nel mondo quali "cristofori" - portatori di Cristo - e "pneumatofori" - portatori dello Spirito -. In seguito dobbiamo lottare per far sì che non si estingua la luce ricevuta»(19).

3. Conclusioni e prospettive

3.1 Il sacerdote nei Riti di Conclusione della Santa Messa sta ancora svolgendo un compito sacerdotale, ossia di mediazione tra Dio e il popolo fedele. Non si tratta solo di salutarsi e di darsi appuntamento alla volta successiva, ricordando magari gli impegni infrasettimanali. Il sacerdote qui invoca sul popolo la benedizione divina, mentre a nome del popolo ringrazia Dio per i doni già ricevuti dalla sua bontà. Anche qui egli agisce in persona Christi. Perciò egli non dice, al plurale, «ci benedica Dio onnipotente...», né «la Messa è finita, andiamo in pace». Egli parla a nome e nella Persona di Cristo e come ministro della Chiesa, perciò imparte la benedizione, mentre la invoca, e invia i fedeli alla missione quotidiana della vita: «vi benedica Dio...», «andate in pace». Attraverso di lui, Cristo e la Chiesa incaricano i battezzati di questa testimonianza quotidiana da rendere al Vangelo.

3.2 La revisione dei Riti di Conclusione operata dal Messale di Paolo VI segna alcuni elementi di progresso: a) Le distinte modalità di benedizione esprimono con più completezza il messaggio della Scrittura e della Tradizione liturgica; b) La soppressione dell'ultimo Vangelo non rappresenta un danno grave, dato il carattere di benedizione che esso aveva nel Vetus Ordo; c) L'inversione di congedo e benedizione manifesta che solo con la grazia di Dio noi possiamo essere fedeli al Signore ogni giorno.

Su questi punti, non c'è da lamentarsi dei cambiamenti operati. Si potrebbe riflettere sull'opportunità di reintrodurre il Placeat. Bisogna però soprattutto riconoscere l'impoverimento teologico e celebrativo dovuto all'inserimento, nel Novus Ordo, degli avvisi ai fedeli come parte propria, ufficialmente normata, dei Riti di Conclusione. Sebbene la più recente IGMR sottolinei che tali avvisi devono essere brevi e che bisogna darli solo se sono necessari, ciò non toglie che si è introdotto ufficialmente un elemento di per sé estraneo alla liturgia, che poi di fatto è diventato molto spesso il vero elemento centrale dei Riti di Conclusione della Messa. Mentre, pertanto, va suggerito ai sacerdoti di ridurre al minimo, anzi possibilmente di eliminare del tutto questa pratica, si deve sperare che in una futura riforma dell'IGMR l'attuale concessione venga ritirata. Non c'è dubbio che la prassi degli avvisi finali abbia preceduto la normativa; nondimeno non appare opportuno riconoscere de iure quanto prima si era operato de facto, allo scopo di non favorire ulteriormente tanto l'abitudine in sé quanto l'estensione della sua pratica. È chiaro che una comunità cristiana, soprattutto parrocchiale, ha bisogno di forme di comunicazione interna, ma particolarmente ai nostri giorni esse non mancano, ragion per cui non appare necessario inserirle nella liturgia.


Note

(1)Citiamo l'IGMR nella editio typica tertia emendata (2008).

(2) Nell'ultima edizione del Messale di forma ordinaria sono state inserite alcune formule alternative: «Ite, ad Evangelium Domini annuntiandum»; «Ite in pace, glorificando vita vestra Dominum»; «Ite in pace» (cf. Missale Romanum, Reimpressio emendata dell'Editio typica tertia [2008], n. 144, p. 605).

(3) Nella Messa «in Cena Domini» e in ogni Messa cui segue una processione, l'«Ite» è sostituito con la formula «Benedicamus Domino»; nelle Messe per i defunti si sostituisce l'«Ite» con «Requiescant in pace». Infine, come è anche nella forma ordinaria, durante l'ottava di Pasqua alla formula ordinaria «Ite, missa est», come pure alla risposta «Deo gratias», si aggiunge due volte l'alleluja.

(4) «Ti sia gradito, o santa Trinità, l'ossequio del mio servizio: e concedi che il sacrificio che io - sebbene indegno agli occhi della tua divina maestà - ho offerto, sia a te accetto; e, per la tua misericordia, sia propizio per me e per tutti coloro per i quali l'ho offerto. Per Cristo Nostro Signore. Amen».

(5) Si benedice in questo modo anche nelle Messe solenni. Nelle Messe in cui «Ite, missa est» si sostituisce con altre formule (cf. supra, nota 3), non si dà la benedizione. Se si è detto «Requiescant in pace», si passa direttamente dalla preghiera Placeat alla lettura dell'ultimo Vangelo. Se si è detto «Benedicamus Domino», si omette anche l'ultimo Vangelo.

(6) L'ultimo Vangelo si omette: a) nelle Messe in cui l'«Ite» è sostituito da «Benedicamus Domino»; b) nella terza Messa di Natale; c) nella Dominica II Passionis seu in Palmis; d) nella Messa della Veglia Pasquale; e) nelle Messe dei defunti cui segue l'assoluzione al feretro, al tumulo o al drappo; f) in alcune Messe celebrate in occasione di consacrazioni o di benedizioni. La Domenica in Palmis si omette l'ultimo Vangelo se si è tenuta la benedizione dei rami di palma. Altrimenti, l'ultimo Vangelo si legge, ma la pericope giovannea è sostituita con Mt 21,1-9.

(7) Cf. M. Kunzler, La liturgia della Chiesa, Jaca Book, Milano 20032, p. 347.

(8) Cf. anche IGMR (2008), n. 166. L'IGMR (1969-1970) e l'IGMR (1975), ossia l'editio typica prima e l'editio typica altera del Messale post-conciliare, non parlavano della possibilità di dare avvisi al n. 57 (corrispondente al n. 90 dell'attuale editio typica tertia), però ne parlavano al n. 123 (corrispondente all'attuale n. 166).

(9) Per quanto segue, cf. J. Guillet, «Bénédiction», in X. Léon-Dufour (ed.), Vocabulaire de Théologie Biblique, Cerf, Paris 1962, coll. 91-98; J. Scharbert, «Benedizione», in J. Bauer (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 178-189.

(10) Si può ricordare che anche a Qumran la benedizione aveva una funzione importante, ad esempio al momento di essere ammessi nella comunità (cf. 1QS II,1-4).

(11) È ovvio che ciò si applica alla benedizione che Dio riversa su un uomo attraverso un altro uomo, scelto ed elevato da Dio ad una condizione superiore. Non si applica ai casi in cui l'uomo biblico «benedice Dio», dove il termine benedire viene usato nella sfumatura di dire-bene, lodare, onorare, ringraziare, ecc.

(12) R. Berger, Kleines liturgisches Lexikon, Herder, Freiburg im Br. 1987: qui nell'edizione italiana Liturgia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 19973, p. 25.

(13) «La Liturgia stabilita dagli Apostoli deve aver contenuto necessariamente tutto ciò che era essenziale alla celebrazione del Sacrificio cristiano, all'amministrazione dei Sacramenti (sia dal punto di vista delle forme essenziali, che da quello dei riti richiesti per la dignità dei misteri), all'esercizio del potere di Santificazione e di Benedizione che la Chiesa ottiene da Cristo per mezzo degli stessi Apostoli...»: P. Guéranger, Institutions liturgiques, Société Générale de Librairie Catholique, Paris 18782, I, 38 (traduzione nostra).

(14) J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, p. 180.

(15) Questa triplice opportunità si manifesta più chiaramente nel nuovo Messale, anche se il Vetus Ordo già prevedeva la triplice benedizione per le Messe pontificali e, almeno in Quaresima, presentava un'orazione sul popolo introdotta con la formula humiliate capita vestra Deo.

(16) Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 22.02.2007, n. 51. A. Nocent in passato ha contestato lo slittamento semantico di missa da «congedo» a «missione» e perciò ha lamentato le cattive traduzioni in lingua nazionale dell'«Ite, missa est»: cf. il suo «Storia della celebrazione dell'Eucaristia», in S. Marsili (ed.), Anàmnesis, 3/2: La Liturgia, eucaristia: teologia e storia della celebrazione, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983, pp. 189-190; 269-270.

(17) A. Sorrentino, L'Eucaristia: rito e vita, Dottrinari, Pellezzano (SA) 2008, p. 138.

(18) H. Daniel-Rops, Questa è la Messa. Riflessioni e meditazioni sulla Messa di san Pio V, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV) 2009, pp. 150-151.

(19) G. Chatziemmanouil, La Divina Liturgia. "Ecco, io sono con voi... sino alla fine del mondo" (A. Ranzolin, ed.), LEV, Città del Vaticano 2002, pp. 247-248.

 

Caterina63
00mercoledì 23 maggio 2012 15:57







SANTA COMUNIONE


cosa vedono gli atei ************ cosa vedono i protestanti


Cosa vedono i Cattolici **************** Cosa è veramente


***

Un'immagine presa da Facebook molto eloquente e che, con quattro semplici frasi, trasmette un messaggio vero, corretto e immediato.
Non c'è altro da aggiungere.
Roberto da MIL


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