L'Italia come laboratorio nei rapporti tra Stato e Chiesa: Cavour e la Chiesa

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Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 10:12
Cavour e il suo amico francescano

La confessione
di uno scomunicato


Si apre il 5 novembre a Villa Cagnola di Gazzada (Varese) un convegno sul tema "Libertà religiosa e laicità dello Stato", organizzato dall'Istituto Superiore di Studi Religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana Paolo VI. Pubblichiamo la conclusione dell'intervento del rettore della Pontificia Università Lateranense.

di Rino Fisichella

Nel suo Il Tevere più largo Giovanni Spadolini riporta un fatto storico che riguarda Cavour, il grande teorico della formula "libera Chiesa in libero Stato". "Una mattina del 1856, entrando nello studio di Cavour, il conte Ruggero Gabaleone di Salmour lo trova di un umore eccezionalmente buono, quasi con una punta di ostentata allegria. "Camillo, perché tu sia così allegro stamane bisogna che tu abbia concluso un buon affare", gli dice col suo tono affettuosamente confidenziale, il valoroso funzionario. "Sì, il migliore affare della mia vita", ribatte pronto Cavour. "Ho avuto la parola d'onore del mio curato, il padre Giacomo, che quando lo chiamerò al mio letto di morte verrà ad amministrarmi i sacramenti, senza esigere nulla che io non possa consentire con onore"".

La testimonianza è dello stesso Salmour, l'uomo che aveva accompagnato l'ascesa di Cavour dal ministero delle Finanze a quello degli Esteri. Ed è una testimonianza insospettabile, che acquisterà tutto il suo significato e valore solo cinque anni più tardi, in quel tragico crepuscolo del 5 giugno 1861 in cui padre Giacomo varcherà il portone del palazzo Cavour e somministrerà al grande statista morente il viatico portato da Santa Maria degli Angeli, dietro una folla salmodiante e piangente; folla di semplici, folla di umili e di credenti. Com'è che il conte pensa alla morte? Se lo domanda, stupito, lo stesso fedelissimo conte di Salmour. "Davvero:  tu mi burli (...) pensare adesso alle precauzioni religiose!"; sono le precise parole con cui il Salmour risponde alle confidenze del grande ministro. E il conte, perdendo per un momento la piega di sorriso che illumina il suo volto abitualmente così teso:  "No, non ti burlo; ma non voglio che mi accada come al nostro povero Santa Rosa".


L'ombra di Santa Rosa perseguita "milord Camillo", lo statista cosmopolita e scettico che ha abbandonato le pratiche religiose fin da giovanissimo ma senza mai rinunciare all'ispirazione cristiana - inseparabile per lui dalla stessa visione liberale del mondo. Santa Rosa è uno dei ministri che nel gabinetto D'Azeglio del 1850 ha sottoscritto la legge sull'abolizione del foro ecclesiastico, la famosa "legge Siccardi"; è uno dei ministri, un tipico moderato del vecchio Piemonte, che per l'adesione a quell'atto di governo si è visto rifiutati i sacramenti religiosi pochi mesi più tardi, in ossequio alle censure ecclesiastiche che con lui avevano colpito tutti i membri del ministero.

"Non voglio espormi a uno scandalo simile - confidava Cavour al Salmour - sono cattolico e voglio morire nella mia religione". Nel 1856, quando il conte pronunciava quelle parole, nessuno poteva certo prevedere che di lì a un lustro, proprio il 25 marzo 1861, Cavour sarebbe stato colpito dalla scomunica maggiore del Pontefice Pio IX insieme "a tutti gli autori, promotori, consiglieri e complici dell'attentato commesso contro la Santa Sede" (per l'annessione delle Marche e dell'Umbria seguita a quella delle legazioni romagnole). Ma una istintiva fiducia lo accompagnava. "Ora eccomi tranquillo - diceva sempre al Salmour - il curato è un santo e un galantuomo, e manterrà la sua parola".

Quel povero e candido francescano, che conosceva l'altezza morale del conte, manterrà infatti la sua parola. Quando la nipote, la prediletta Giuseppina Alfieri di Sostegno, accennò allo zio ormai agonizzante che padre Giacomo era arrivato e gli domandò con voce discreta e sommessa:  "Desiderate riceverlo un momento?", il conte capì immediatamente e, dopo un momento di raccoglimento, strinse la mano della pupilla e le rispose con tono inconsuetamente fermo:  "Fallo entrare". La voce di Cavour si era già fatta fioca e quasi rauca; momenti di allucinazione si alternavano a pause di lucidità. Le sofferenze erano crescenti; le cure inutili. Gli assurdi salassi lo avevano ulteriormente sfibrato; neppure il suo "medico" collega di governo e di lotte politiche, l'amico Luigi Carlo Farini, gli aveva potuto consigliare un rimedio adatto. Eppure il conte trovò la forza per restare solo, mezz'ora, con padre Giacomo, per prepararsi, attraverso la confessione, alla somministrazione del viatico che poche ore più tardi gli sarà portato dalla sua chiesa prediletta, dalla chiesa che lo aveva visto fanciullo e non lo aveva mai perduto.

Cosa si siano detti in quella mezz'ora padre Giacomo e Cavour, non fu mai rivelato. Il povero frate francescano subì, per quell'atto di suprema misericordia cristiana, i fulmini della curia papale, i rimbrotti spietati di Antonelli e dell'entourage antonelliano; ma non violò neppure per un attimo il sigillo sacramentale consacrato nella confessione. Chiamato a Roma, il giorno successivo alla morte del conte, per rendere ragione di quell'assoluzione concessa a uno scomunicato maggiore senza chiedergli la solenne ritrattazione delle colpe commesse verso la Chiesa - la stessa ritrattazione che era stata domandata invano al ministro Santa Rosa - ribatté con assoluta fermezza che egli era vincolato a un segreto, a un segreto che poteva sciogliere solo davanti a Dio.

Perfino Pio IX, il Papa che pur aveva in grande stima Cavour, chiamò al redde rationem il parroco di Santa Maria degli Angeli, perse la sua calma paterna, si abbandonò a uno dei non rari momenti di collera. Nulla piegò l'intrepido sacerdote:  né il Papa né il tribunale dell'Inquisizione davanti al quale fu tradotto il giorno successivo. Resistenza che disarmò tutti, che piegò lo stesso cardinale Antonelli. Ad evitandum scandalum majus, la Santa Sede consentì al povero frate di tornare a Torino, non senza avergli imposto - e fu amara punizione - la rinuncia al ministero di parroco, l'abbandono della cura di anime.

Sennonché padre Giacomo conservò con sé il suo segreto:  il segreto che squarciava il futuro del secolo nuovo. Col suo atto, il silenzioso frate di Santa Maria degli Angeli aveva impedito che la frattura fra coscienza cattolica e coscienza nazionale diventasse completa e insanabile, proprio in quel momento supremo del Risorgimento che fu segnato dalla morte di Cavour. Con quel suo gesto di cristiana carità, il "frate galantuomo", di cui, solo, Cavour si fidava, aveva le vie al superamento dell'opposizione cattolica e dell'intransigenza laicista, aveva anticipato il periodo di quella "conciliazione silenziosa".

All'indomani mattina, alle cinque e mezzo del 6 giugno, dopo la visita notturna del re, quando le condizioni del conte erano ormai disperate, padre Giacomo tornò ancora una volta al capezzale del morente. È Giuseppina Alfieri di Sostegno che racconta:  "Il conte lo riconobbe, gli strinse la mano e disse:  "Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!". Furono le sue ultime parole. Il curato gli amministrò il sacramento dei moribondi in mezzo ai singhiozzi della famiglia, degli amici, dei domestici". "Oggi - commenta Spadolini - a cent'anni dalla morte di Cavour, è giunta l'ora di riaprire quei testi, di rimeditare quelle toccanti parole. C'è dentro tutto il segreto della storia italiana. Della storia di ieri ma anche di quella di domani. Il segreto per cui l'Italia diventò una libera nazione e potrà continuare a restarlo. A patto di non dimenticare quegli insegnamenti, di non smarrire quei valori supremi. Valori di coscienza:  più forti di ogni retorica, più tenaci di ogni oblio" (pp. 33-42).

Il racconto, se mai ce ne fosse bisogno, è un inno alla coscienza che niente e nessuno potranno mai debellare tanto è radicato nell'intimo di ogni persona come sigillo della presenza di Dio. La Chiesa ha codificato la coscienza come principio cardine di ogni genuina verità e coerente libertà. Mantenere vivo e dinamico questo richiamo sarà sempre, in ogni caso e nonostante tutto, la vera conquista nel rispetto della dignità della persona e di ogni individuo. Questa coscienza che deve essere rispettata e formata alla libertà, nutrendosi di verità e vivendo di carità, è quanto la Chiesa chiede che venga mantenuta libera come condizione di progresso e di autentico futuro carico di senso.


(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2009)

Caterina63
00venerdì 4 dicembre 2009 18:33
L'Italia come laboratorio nei rapporti tra Stato e Chiesa

Distinzione e collaborazione
nel solco della Costituente




La presenza al Senato della Repubblica italiana del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, alla presentazione, il 3 dicembre, del volume di Roberto Pertici Chiesa e Stato in Italia dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984) - (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 896, euro 55 - dimostra "come il rapporto tra Italia e Santa Sede sia solido, stabile e rappresenti per tutti una ricchezza da salvaguardare". Lo ha sottolineato il presidente del Senato, del quale pubblichiamo l'intervento, dopo avere letto un messaggio di saluto del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano.



di Renato Schifani

L'iniziativa di oggi - che si svolge nella stessa sala dove l'allora cardinale Ratzinger tenne la lectio magistralis sulle radici cristiane dell'Europa, il 13 maggio 2004 - segna, in una qualche misura, l'evento di chiusura dell'ottantesimo anno dalla conclusione dei Patti lateranensi e del venticinquesimo anno dalla sottoscrizione dell'Accordo di modifica del Concordato. Ed è questo anche il novantesimo anno dalle intese realizzate nel 1919 a Parigi dal presidente del consiglio Orlando e dall'inviato di Benedetto XV, monsignor Cerretti.

Intese che hanno rappresentato un fattore decisivo per la successiva sottoscrizione dei Patti lateranensi e che, a distanza di tempo, possiamo affermare siano state il vero punto di saldatura tra l'eredità, la cultura dello stato liberale e la futura Repubblica, ossia la cerniera con quel prologo risorgimentale, del quale Roberto Pertici ripercorre nel libro le fasi storiche più significative.
La tappa del 1919 non va dimenticata, né circoscritta come fatto isolato. In realtà, è proprio la storia a sfatare l'equivoco di considerare la cultura liberale e il liberalismo come filosofie alternative o incompatibili con il sentimento religioso. Anzi, con una novità significativa rispetto al passato, è proprio Benedetto XVI a condividere il ragionamento per il quale "all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio" e lo stesso "liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento".

Il legame tra Stato e Chiesa, che in Italia si è sviluppato lungo la traiettoria del doppio binario della distinzione e della collaborazione, è patrimonio di tutti i cittadini, dell'intera Nazione.

Il momento più alto del percorso di saldatura e sintesi dell'esperienza nazionale è rappresentato dal dibattito costituente. La civile convivenza fu in quella circostanza un valore fondamentale che ispirò i padri costituenti e venne alimentata da un senso di appartenenza dove, nel reciproco riconoscimento e rispetto delle diverse sensibilità, si sviluppò la piena consapevolezza della propria identità. Palmiro Togliatti, nel motivare il proprio voto sull'inserimento in Costituzione del richiamo ai Patti lateranensi, usò parole coraggiose e lungimiranti: "La nostra lotta è la lotta per la rinascita del nostro Paese, per il suo rinnovamento politico, economico e sociale (...) vogliamo si realizzi l'unità politica e morale di tutta la Nazione. Disperdiamo le ombre le quali impediscono la realizzazione di questa unità! (...) Siamo convinti (...) di compiere il nostro dovere (...) verso il popolo italiano, verso la democrazia e la Repubblica, verso la nostra Patria". E in un passaggio precedente, legò "le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa" intese come "libertà democratiche fondamentali", alla soluzione definitiva della Questione romana data dai Patti lateranensi.

Il sentirsi parte di una comunità, considerare la storia del proprio Paese come la propria storia, il suo destino come il proprio destino, non significa fare dell'identità un vessillo contro qualcuno, ma un ponte gettato verso le future generazioni per la costruzione di una duratura e reale pacificazione, capace di superare steccati ideologici e pregiudizi.

La storia del nostro Paese rappresenta un modello da seguire. Rispetto e reciprocità non significano abbandono della propria tradizione, della propria cultura, della propria storia, ma al contrario identità. Non una identità chiusa in se stessa e autoreferenziale, ma un'identità arricchita, che sa dialogare e confrontarsi proponendo i propri valori ed esperienze, e sa anche ascoltare, accogliere, migliorare. Il rischio è quello di voler dimenticare e di offuscare le proprie radici, confondendo il rispetto con l'indifferenza. Quando l'incontro con una cultura diversa, che mantiene una propria caratterizzazione forte, contrasta con quel tentativo di accantonare le ragioni storiche della propria identità, si ingenerano reazioni confuse.

Lo scontro tra campanili e minareti non si sviluppa infatti dentro l'ambito religioso, ma entro un campo prevalentemente politico. Non serve criticare il giorno dopo, ma è necessario dapprima comprendere come al fondo della questione, per nulla banale, vi sia proprio quel disconoscimento forzato al simbolo religioso, da ultimo il crocifisso, del suo valore religioso, storico e culturale. Nel tempo, può portare alla cecità lo strabismo del quale sembriamo talvolta affetti noi europei, quando ci allarmiamo per il referendum in Svizzera sui minareti e restiamo invece silenti rispetto alle pronunce sul crocifisso nelle scuole.

Quando si disconosce il valore storico e culturale di un simbolo religioso si rischia oggettivamente di farne un simbolo politico, oltrepassando la linea di confine fondamentale tra religione e Stato che sta alla base della stessa libertà religiosa. È proprio dall'affermazione della reciproca autonomia tra mondo politico e religioso, che, con le parole di Benedetto XVI, "l'identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, (...) quasi necessaria per dare stabilità allo Stato", è stata superata nella prospettiva delle libertà individuali e collettive.

Riconoscere che "non esiste un'opinione politica che sia l'unica giusta", che non c'è una dottrina o progetto politico, per così dire, "assoluto", significa comprendere come "il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo Stato". Rifuggire dalla tentazione di contrapporre il realismo dei politici all'utopismo degli intellettuali è allora indispensabile, per costruire uno spazio che sia aperto al confronto, senza diventare per questo uno spazio vuoto.

L'esperienza italiana è preziosa, perché non ha mai negato il significato pubblico del fatto religioso e ha inteso la reciproca indipendenza e autonomia di Stato e Chiesa come il criterio fondativo di una solida convivenza. La laicità delle istituzioni non può essere interpretata come separatismo, né in una visione antagonistica o di indifferenza.

Anzi, come afferma il Santo Padre, è proprio dalla "distinzione tra l'ambito politico e quello religioso" che è possibile "tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, d'altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, assieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo della società".
Il senso di una laicità positiva risiede nel rispetto verso ogni sensibilità che sappia offrire ragioni, per così dire, pubbliche, con un linguaggio fondato sulla comune appartenenza al genere umano.
Confondere pertanto il tema delle radici spirituali dell'Europa con la pretesa di separazione della sfera pubblica da quella religiosa è di per sé ingannevole, anzi può rivelarsi nel tempo foriera di scontri e contrapposizioni politiche, rispetto ai quali dobbiamo tutti interrogarci.

La separazione tra Stato e religione non è messa in alcun modo in discussione.

Con le parole del presidente Giorgio Napolitano, serve proporre un "senso della laicità dello Stato (...) che abbraccia il riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso", ricordando che la religione non è soltanto un fenomeno di culto, ma anche un elemento di identità culturale. Solo in questo modo si può evitare di "dare all'umanità la sensazione di essere sola nell'universo", permettendo a ogni cittadino di sentirsi non semplice spettatore, ma protagonista e responsabile del proprio e dell'altrui destino.



(©L'Osservatore Romano - 5 dicembre 2009)



Caterina63
00lunedì 3 maggio 2010 18:44
Per costruire una memoria davvero condivisa

La questione cattolica
nell'Italia che cambia


Introdotto dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova, il 3 maggio si svolge nella città ligure il seminario di studio "L'unità nazionale:  memoria condivisa, futuro da condividere" organizzato in vista della celebrazione della prossima settimana sociale dei cattolici italiani che si terrà a Reggio Calabria a ottobre. Pubblichiamo ampi stralci della relazione inaugurale.

di Gianpaolo Romanato

La riflessione non può non partire dal famoso discorso che Giovanni Battista Montini tenne in Campidoglio il 10 ottobre 1962, alla vigilia dell'apertura del concilio Vaticano ii e un anno dopo la celebrazione del centenario dell'unità d'Italia. Con quel periodare che gli era caratteristico, che nella elaborata complessità delle espressioni quasi rifletteva la complessità dei problemi in discussione, l'arcivescovo di Milano, che meno di un anno dopo sarebbe diventato Papa, sostenne che il 20 settembre del 1870 la "Provvidenza" aveva ingannato tutti, credenti e non credenti.

Aveva ingannato i credenti, che dalla fine del potere temporale temevano il crollo dell'istituzione ecclesiastica, e aveva ingannato i non credenti, che dopo la presa di Roma quel crollo desideravano e attendevano. Accadde infatti, osservò Montini, che perduta "l'autorità temporale", ma acquistata "la suprema autorità nella Chiesa", il papato riprese "con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo". Non avvenne, dunque, il disastro annunciato - temuto o sperato che fosse - ma si schiuse al Papato una stagione di ritrovata credibilità e alla Chiesa tutta un capitolo di profondo rinnovamento.

Chi vi sta parlando - cioè uno studioso laico, che è abituato a ragionare laicamente - non può far ricorso alla parola Provvidenza come categoria interpretativa dei fatti storici. E si trova quindi spiazzato davanti all'evidente paradossalità di quanto accadde un secolo e mezzo fa. Da un evento che la Chiesa del tempo, sia pure con significative eccezioni, visse come catastrofico, e che alimentò una drammatica e annosa rottura con lo Stato italiano, nacque una stagione di vitalità cattolica e di prestigio per il papato indubbiamente più felice e rigogliosa di quella che ci si era lasciati alle spalle.

Un caso esemplare, potremmo dire, di eterogenesi dei fini. C'è dunque un risultato positivo del 20 settembre, che va ricordato. Il papato si liberò dell'ingombrante fardello del potere temporale ed entrò nella modernità finalmente libero da un impaccio che rendeva la Chiesa, in piena epoca liberale, un'anacronistica sopravvivenza dell'ancien régime prerivoluzionario.

Ma ricordando questo risultato, non possiamo fare a meno di riflettere sul fatto che a produrlo fu la pressione degli eventi italiani, cioè un fattore esterno e contrapposto alla Chiesa, e non un'autonoma scelta ecclesiastica. Né possiamo ignorare che ciò che Montini chiamerà evento provvidenziale e liberatorio, la Chiesa del tempo lo visse in tutt'altro modo:  come un dramma di proporzioni apocalittiche che alimentò una frattura politica e sociale le cui conseguenze non si sono ancora, a ben guardare, del tutto e totalmente rimarginate. Non possiamo fare a meno di notare, insomma, negli eventi che accompagnarono il compimento dell'unificazione, un aspetto contraddittorio che fatichiamo anche oggi, a distanza di quasi un secolo e mezzo, a comprendere.

È vero, potremmo aggiungere, che alla dimensione statuale la Santa Sede non ha mai rinunciato, e l'ha riottenuta con gli accordi del 1929 e la conserva tuttora saldamente. Ma è evidente che ciò non può essere in alcun modo una giustificazione a posteriori della grande rottura ottocentesca. Tra lo Stato pontificio anteriore al 1870 e quello Stato reale ed effettivo, ma territorialmente simbolico e sostanzialmente privo del potere civile che è l'odierna Città del Vaticano, corre una differenza immensa, che a nessuno può sfuggire.
Perché, dunque - questa, credo, è la domanda che un secolo e mezzo dopo non possiamo non porci, portando a conclusione il ragionamento del cardinale Montini - perché la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?

Non ho risposte da dare a questo interrogativo, che ripropone, in tutta la sua drammatica e irrisolta complessità, il nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata, e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno.
Il pensiero corre quasi per forza agli eventi tristi di queste ultime settimane. Anche oggi è la pressione esterna, probabilmente tutt'altro che disinteressata, che ha fatto emergere la piaga della corruzione morale di una parte del clero e ha costretto l'istituzione a voltar pagina. Oggi però a capo della Chiesa c'è un Pontefice il quale, anziché subire gli eventi, quasi li precorre, imponendo alla Chiesa universale una linea di condotta, non di arroccamento attorno alla propria giurisdizione ma di totale rispetto e adeguamento alle giurisdizioni pubbliche e civili. La svolta che Benedetto XVI sta oggi imprimendo all'istituzione ecclesiastica costituisce una rivoluzione di portata epocale, una svolta che non tutti hanno ancora compreso, né dentro né fuori della Chiesa.

Una rivoluzione che suggerisce qualche interrogativo circa l'esito che avrebbero potuto avere gli eventi risorgimentali se anche un secolo e mezzo si fossero anticipati i fatti anziché subirli. Interrogativo naturalmente senza risposta, ma che serve a farci capire come una memoria condivisa del nostro passato debba necessariamente passare attraverso un serio ripensamento critico, anche da parte cattolica, dei fatti che accompagnarono l'unificazione nazionale.
Ripensamento critico che se dovesse coinvolgere anche l'altro dei due contendenti di allora, cioè lo Stato, non potrebbe tralasciare di affrontare il nodo rappresentato dalla guerra alla Chiesa che si volle ingaggiare allora. Guerra che produsse l'effetto di demolire l'unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero:  il sentimento religioso, il senso di appartenenza alla Chiesa. A me pare che il vuoto, anche civile, che si è aperto allora, non sia stato ancora colmato.

E ripensando i fatti di allora c'è un secondo problema sul quale vale la pena di soffermarsi. L'arroccamento attorno alla protesta del papato isolò il cattolicesimo italiano, quasi lo staccò dal flusso degli eventi nazionali, lo rinchiuse dentro le proprie istituzioni. All'ombra della cultura intransigente nacquero in Italia giornali, scuole, istituti di credito ed enti con finalità sociali, nuove congregazioni religiose e inedite proiezioni missionarie, mentre le vecchie forme religiose cambiavano e si rinnovavano in profondità. La parrocchia, da luogo di culto devozionale divenne un centro propulsore di molteplici attività e il sacerdote, per così dire, scese dall'altare entrando nel vivo delle questioni del tempo.

I cattolici si abituarono a pensarsi come una realtà civile e politica distinta e separata dal resto del Paese, protetti e riparati dalle proprie istituzioni, dalla propria ideologia, da una cultura dell'assedio che dava forza ma limitava inesorabilmente gli orizzonti. E dalla separazione alla contrapposizione il passo fu breve. Fu una grande trasformazione, che riceverà ulteriori impulsi quando l'enciclica Rerum novarum, nel 1891, aprirà all'azione del cattolicesimo organizzato gli spazi sterminati della questione sociale.
Il risultato di tutto ciò fu una generale politicizzazione dei cattolici i quali, loro malgrado, si trovarono a essere un partito, cioè una parte rispetto al tutto della nazione, inevitabilmente contrapposta alle altre, e una parte che scendendo nell'agone politico diventava antagonista e competitrice nella lotta per il potere.

La trasformazione fu colta perfettamente da Luigi Sturzo nel celebre discorso che pronunciò a Caltagirone nel 1905, ben prima della fondazione del popolarismo, allorché affermò:  "Io suppongo i cattolici non come congregazione religiosa (...) né come l'autorità religiosa (...) né come la turba dei fedeli (...) né come un partito clericale (...), ma come una ragione di vita civile informata ai principi cristiani nella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello sviluppo del pensiero fecondatore, nel concreto della vita pubblica". E aggiunse che i cattolici erano ormai "i rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del vivere civile". Erano diventati cioè un partito, che attendeva solo il momento opportuno per costituirsi come tale e scendere nell'agone parlamentare. Ciò avverrà, come sappiamo, dopo la Prima guerra mondiale, evento che aprì una fase nuova, interrotta dall'irruzione del fascismo e ripresa alla caduta del regime per durare fin quasi alla fine del secolo scorso.

Anche questa quasi secolare vicenda - una vicenda definitivamente conclusa o solo interrotta? propongo un interrogativo che credo non sia privo di qualche aspetto di interesse - si presta a diverse letture, a un ripensamento critico che finora è stato troppo condizionato dalla conclusione ingloriosa in seguito alle ben note vicende di Tangentopoli. L'esperienza partitica dei cattolici presenta indubbiamente un bilancio positivo che è doveroso ricordare, a partire dal giudizio che un grande storico, Federico Chabod, diede della nascita del popolarismo:  "L'avvenimento più notevole della storia italiana del xx secolo".

Perché quel giudizio è ancora valido, benché pronunciato mezzo secolo fa? Per dirla in breve:  perché allora si sanò una frattura drammatica; perché si ricompose il rapporto fra corpo sociale e rappresentanza politica, cioè fra Paese legale e Paese reale, come si diceva nell'Ottocento, significando con tale espressione come una parte cospicua del Paese vero, quello che vive concretamente la vita d'ogni giorno, dall'Unità fino al 1919 fosse rimasta esclusiva, priva di rappresentanza e di voce; perché furono immesse nel circuito politico idee destinate a fare molta strada. Ricorderò le principali:  la riforma agraria e la necessità di creare la piccola proprietà contadina; l'adozione della proporzionale in luogo del maggioritario; il decentramento amministrativo e la valorizzazione dell'ente locale, inclusa la regione; la riforma tributaria fondata sulla progressività delle imposte; il superamento del nazionalismo e l'avvio di un ordinamento internazionale capace di imbrigliare gli stati-nazione.

Poche di queste idee si realizzarono allora. Bisognerà attendere il secondo dopoguerra e l'assunzione del governo da parte della Democrazia Cristiana, alla fine del 1945, per vedere attuato più largamente quel programma. Io credo che a questo partito, del quale oggi, con poca equanimità, si ricordano le infelici circostanze della morte più che la lunga vita, tutto sommato operosa e positiva, si debbano riconoscere almeno due meriti.
Il primo è quello di aver reso la democrazia costume diffuso, pratica accettata e condivisa, di aver superato quella cultura politica delle separazioni e delle contrapposizioni - di classe, di ceto, di interessi, di ideologie - che aveva segnato la storia nazionale tanto nel periodo liberale quanto nel tragico quadriennio prefascista quanto poi nel ventennio del fascismo.

Per più di ottant'anni c'erano state due Italie che si erano contrapposte, quella del potere e quella dell'antipotere, democratico, mazziniano, garibaldino, cattolico, socialista, fascista o antifascista che fosse. Il sogno di un'Italia diversa ha alimentato la fantasia di generazioni di italiani. Con i giudizi dei delusi e degli sconfitti - giudizi critici, sprezzanti, frustrati, dolenti, arrabbiati - si potrebbe riempire un'antologia, da Alberto Mario, il vecchio garibaldino repubblicano, uno dei padri del Risorgimento, secondo il quale (siamo nel 1880) "sussistono più relazioni tra la luna e la terra che fra Montecitorio e l'Italia, perché alla luce del pensiero nazionale non riesce mai di penetrare nell'atmosfera che avvolge Montecitorio", a Giovanni Amendola, che su La Voce, la rivista di Prezzolini, sentenziava lapidario nel 1910, un anno prima delle celebrazioni cinquantenarie:  "L'Italia come è oggi non ci piace", aggiungendo che "la nazione è poco più di un mito che tramonta e di una speranza che sorge". Insomma:  un mito infranto e una vaga speranza nel futuro. Perché stupirci allora dello scarso entusiasmo che suscitano le prossime celebrazioni centocinquantenarie? È una vecchia storia che si ripete.

Se vogliamo parlare concretamente e non astrattamente della memoria storica che ha costruito la nostra identità non possiamo prescindere dal ricordare questa secolare divisione fra le due Italie, né dobbiamo stupirci davanti al fatto che anche oggi essa riaffiori.


(©L'Osservatore Romano - 3-4 maggio 2010)
Caterina63
00sabato 15 maggio 2010 22:32
La religione e gli ordinamenti dello Stato moderno

Dove poggia
la ragnatela del diritto


Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate alla giornata di studio su "La libertà di religione. Un diritto umano che sta cambiando?" che si è svolta nel Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell'Anima.

di Ottavio De Bertolis

Pontificia Università Gregoriana

Secondo una metafora notissima, ogni ordinamento giuridico ha la fisionomia di una piramide a gradini, una sorta di ziqqurat giuridica:  a partire dalle norme inferiori, quelle a noi immediatamente accessibili, regredendo di norma in norma, giungiamo alla norma fondamentale, la Grundnorm, al vertice della piramide, dalla quale tutte le altre fondano la loro validità.

Vale la pena sottolineare come in tal modo l'ordinamento, e dunque lo Stato che è metafora logica della sua unità, si presenta come un tutto, circoscritto e conchiuso, in sé sussistente e perfetto, un vero "dio mortale", o secolarizzato, secondo l'espressione hobbesiana. Dalle leggi ordinarie fino all'ultimo regolamento comunale e agli usi del commercio, tutte le norme sono riassunte e ricapitolate nella norma fondamentale, in essa virtualmente contenute, come una geometria è contenuta negli assiomi di partenza. Ma come ogni geometria si basa su postulati detti "evidenti", così nel fenomeno giuridico la validità logico-formale dell'ordinamento, cioè la sua deducibilità dalle norme sulla produzione poste dalla Grundnorm, dipende dal fatto che l'ordinamento sia effettivamente osservato, ossia che la norma fondamentale sia percepita come cogente, ossia degna di essere obbedita
.
Il tessuto dell'ordinamento si poggia su una base, non posta ma presupposta, accettata e condivisa, che rende perciò stesso l'ordinamento non solo valido, ma anche effettivo. In tal modo, siamo in presenza di una sorta di ragnatela:  essa si appoggia su dei punti-forza che come tali non appartengono alla ragnatela, ma sulle pareti esterne, alle quali la ragnatela si appoggia. Possiamo chiamare queste pareti i valori condivisi in una determinata comunità, a loro volta influenzati da molti fattori, come l'etica, le religioni, l'economia, le stesse scienze con la percezione del mondo che esse inducono, le strutture umane familiari e sociali, e molti altri ancora.

In questo senso, ogni ordinamento giuridico nasce all'interno della cultura umana, essendo esso stesso nient'altro che cultura umana, storica, mutevole e perciò relativa. Fuor di metafora, ogni ordinamento si appoggia su altri ordinamenti, non giuridici ovviamente ma valoriali, pertinenti ad altri saperi. Il diritto è un sapere tra altri saperi, un'interpretazione del mondo che si affianca, e anche appoggia, su altre, che lo supportano e dal quale a loro volta sono supportate. Così i diritti fondamentali, quelli che sono dichiarati tali nelle moderne Costituzioni, non sono altro che prodotti della nostra storia giuridica occidentale e sono il modo che noi abbiamo per tradurre giuridicamente alcuni valori che condividiamo.

Possiamo capire il senso profondo della nota affermazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per la quale lo Stato moderno, secolarizzato, vive di presupposti che esso non può garantire, proprio perché ne sono la premessa, non la conseguenza. Tra questi presupposti indubbiamente la religione ha un posto non insignificante, sebbene non sia la sola, ma concorrano altre etiche e i vari altri saperi. Questo non significa, come paventato da alcuni, che in tal modo la religione venga invocata non per la salvezza dell'anima, ma per la fondazione o lo stabilimento dello Stato; né tale proposta si risolve in una nuova e strana alleanza tra l'altare e i Governi, in una sorta di moderno giurisdizionalismo per la quale lo Stato si trovi a tutelare con i propri mezzi valori e proposte che non gli competono. Dovrebbe essere ovvio che questo non significa nemmeno che i chierici occupino ruoli non loro, surrogandosi a compartecipi istituzionali della vita dello Stato, quasi moderne assemblee del secondo Stato.

È invece assolutamente vero che non sono politici i fondamenti della politica, proprio come non sono scientifici i fondamenti della scienza:  potremmo dire, sviluppando la stessa linea di pensiero, che non sono nemmeno giuridici i fondamenti del diritto. E questo non per un postulato confessionale, come tale non necessariamente condivisibile, né per una sorta di verità metafisica, ma per il fatto che il procedere razionale, ossia deduttivo-sillogistico delle nostre dimostrazioni, che è l'unico sapere accettato nella moderna ragion pubblica, richiede l'accettazione previa di un ubi consistam teorico, delle premesse che non sono dimostrate, ma fondano ogni possibile dimostrazione.

E questo è, mi sia consentita l'espressione, il sempiterno "sgusciar fuori" della metafisica dalle dita della scienza che pretende di rinserrare la realtà nelle proprie interpretazioni. Questo dice semplicemente l'insopprimibilità della domanda sul "perché" delle cose - qui dell'ordinamento giuridico - che sempre si accompagna a quella, legittima, ma non unica, sul "come" del loro funzionamento.
Questa posizione non ha nulla di confessionale:  al contrario, è la constatazione che i diritti umani sono il prodotto della nostra storia giuridica occidentale, che è così indelebilmente segnata dal cristianesimo. Eppure la storia del diritto non è storia della cristianità o del cristianesimo, e può perfino darsi che nella storia secolare dell'Europa le vicende dei diritti umani si siano sviluppate anche indipendentemente dalle Chiese, come se, almeno in alcuni settori, il lievito evangelico sia fermentato in forme inaspettate e al di là delle stesse istituzioni.

Così è sterile, almeno secondo il punto di vista da me sostenuto, dibattere sul problema se i diritti dell'uomo derivino e in che misura dalle radici cristiane dell'Europa:  la domanda (o l'affermazione che vi è implicita) è significativamente posta in un contesto, come quello odierno, in cui con il tramonto delle ideologie pare tramontato anche l'unico modo di concepire i valori evitando di cadere nella pura sudditanza del mercato e delle sue logiche.

In realtà tale domanda nasce innegabilmente dalla paura, di fronte a quanti sono percepiti come nemici della nostra civiltà, e può in effetti sembrare equivoco vedere invocato il cristianesimo come collante o supporto di un'identità, quella europea, che sembra affondare, specie se in funzione oppositiva o non inclusiva, il che contraddice alla sua stessa cattolicità. Viene osservato giustamente che in tal modo si tematizza un uso politico della religione, in fondo un suo svilimento, o una miscomprensione del suo significato più profondo, diventando un "ingrediente necessario a ogni forma di governo".

Le religioni sono fonte di cultura, ossia di pensiero, anche giuridico, e queste operano a partire dal linguaggio e dalle categorie culturali in cui vivono, ma non sono esse stesse immediatamente cultura, e cultura giuridica in particolare. Il concetto di diritti dell'uomo - al di là del fatto se questi diritti siano dell'uomo o del cittadino, cioè se la politica venga prima o dopo del diritto, o se lo Stato preceda o no la società - non postula immediatamente quello di persona, che è concetto filosofico, nato all'interno del dibattito teologico cristiano, ma quello di soggetto di diritto, che è una creazione della cultura giuridica occidentale e che dice al contempo la coincidenza dell'individuo, concetto più propriamente empirico, con la soggettività giuridica, creazione propria del sapere giuridico.

Potremmo dire che esso declina in termini giuridici il concetto filosofico, e non giuridico, di persona come essere relazionale, lo dice in modo ad esso proprio, in particolare predicandolo - e questa è la novità - ad ogni individuo. E questo è stato reso possibile certamente dal cristianesimo:  secondo la lezione di Hegel, se nel mondo orientale uno solo, il sovrano, è libero, in quello greco e romano lo sono solo alcuni, i migliori, in quello moderno invece, ossia in quello cristiano, tutti sono liberi, perché lo Spirito è dato a tutti e a ognuno.

D'altra parte è fuor di dubbio che il cristianesimo, precisamente attraverso l'epopea meravigliosa delle vicende degli ordini religiosi, ha reso possibile storicamente la stessa esperienza della democrazia e delle sue stesse tecniche elettorali. Potremmo dire che il cristianesimo è stato fonte di riflessione, cioè di cultura, permettendo di torcere il significato delle parole antiche, qui quella di "persona", riempiendolo di significati nuovi. Infatti, come tutte le religioni, anche il cristianesimo veicola simboli - qui quello dell'uomo come "figlio di Dio" - e questi "danno a pensare", cioè creano cultura, anche giuridica. Con le parole di Bernanos, con il cristianesimo ogni uomo, anche il più vile, vale il sangue di Dio:  queste parole, messe insieme, esplodono al primo contatto, e di fatto hanno trasformato la cultura antica. E questo continua ad accadere:  il lievito continua a fermentare.

Vorrei osservare che rendersi conto di tutto questo non significa necessariamente uscire dal positivismo giuridico, ma piuttosto assumerlo responsabilmente:  è vero che le leggi sono dei "nomodotti", potenzialmente adatti ad assumere o a farvi scorrere qualsiasi contenuto - la storia lo dimostra dolorosamente - ma rimane vero che le stesse Costituzioni, e i diritti umani che vi sono precipitati, ci mostrano che all'interno della stessa prospettiva positivista non cadiamo necessariamente nel nichilismo giuridico.

Anzi, i diritti dell'uomo, come la laicità delle istituzioni, il costituzionalismo, la promozione della cultura - compito certamente non assunto né dallo Stato né dai privati, con la conseguenza del panorama certamente spettrale che ci circonda - sono una risorsa contro di esso. In questo senso, la sfida oggi è di rimanere nella modernità senza rimpiangere un passato, facile solo perché da noi non vissuto, e di abitare la complessità che viviamo, evitando il pensiero unico o le irreali semplificazioni che un laicismo sempre più becero e gridato o un rinnovato clericalismo possono fare proprie.



(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2010)
Caterina63
00martedì 28 settembre 2010 19:45
Scoperta nell'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede la lettera inedita scritta nel 1882 da fra Giacomo da Poirino

E il confessore di Cavour
chiese clemenza a Leone XIII


di Francesco Castelli

Il confessore di Cavour frate Giacomo da Poirino alla fine chiese perdono. È quanto emerge dalla supplica inedita firmata nel 1882 dal religioso, francescano riformato, al secolo Luigi Marocco, che invocava la clemenza di Leone XIII per il comportamento tenuto nel 1861 e per il quale era stato sospeso a divinis.

Gli antefatti sono noti. Alla fine del maggio 1861, colto da un malore improvviso, il conte Camillo Benso di Cavour si ritrovò in fin di vita. A un passo dalla morte, il 5 giugno, fu chiamato al suo capezzale fra Giacomo, rettore della parrocchia della Madonna degli Angeli a Torino, vicina alla casa dei Cavour, per l'amministrazione dei sacramenti.

C'erano, però, dei problemi.

Il conte era irretito dalla scomunica con la quale, il 26 marzo 1860, Pio IX aveva colpito quanti avevano cooperato all'invasione dello Stato Pontificio. Secondo la bolla papale, per essere autenticamente assolto in punto di morte e sciolto dalle conseguenze della sanzione che rendeva nulla la ricezione dei sacramenti, ogni penitente doveva compiere una pubblica ritrattazione dei gravi atti compiuti contro la Chiesa. Solo allora la confessione sarebbe stata valida e l'assoluzione efficace.

Dinanzi al morente, però, fra Giacomo non si attenne alle norme pontificie. Anziché chiedere la ritrattazione, decise di procedere subito con la confessione, impartendo l'assoluzione e amministrando, per il tramite di un suo vicecurato, il sacramento dell'Eucarestia. All'indomani, 6 giugno 1861, il conte morì.

La notizia dell'assoluzione di Cavour in punto di morte provocò subito clamore. Molti erano interessati alle ultime ore dell'uomo di Stato e si chiedevano se, alla fine, il conte avesse ritrattato. Voci non confermate lo sostenevano, altre lo smentivano risolutamente. Quando la vicenda era sul punto di far scoppiare una polemica, l'intervento di Gustavo Benso, fratello di Camillo, pose fine alle discussioni:  la ritrattazione non c'era stata.

Giunse eco dell'accaduto anche a Pio IX che, per vederci chiaro, convocò a Roma fra Giacomo. Dalla bocca del religioso il Pontefice dovette constatare che né il conte aveva fatto alcuna dichiarazione, né il frate l'aveva richiesta. Pio IX apprese la notizia con un vivo disappunto:  la normativa sacramentale era stata disattesa con tutte le conseguenze, pastorali e non solo, che un simile fatto, ormai così noto, poteva provocare. Papa Mastai invitò, pertanto, il francescano a riparare al suo errore riconoscendo, con una dichiarazione scritta, di non aver rispettato le norme emanate l'anno precedente.

Alla richiesta del Pontefice, che interpose i buoni uffici di altri ecclesiastici per vincere le resistenze di fra Giacomo, il religioso si oppose dicendo di aver  compiuto  il proprio dovere. Preso atto della sua irriducibile volontà, Pio IX decise di sospenderlo a divinis.

La sanzione di Pio IX, dunque, non fu tesa a colpire un frate che aveva assolto Cavour. Era stato piuttosto il rifiuto di fra Giacomo di riconoscere il suo grave errore a spingere Pio IX verso quel provvedimento. Lo si evince chiaramente dal tenore della lettera scritta l'8 agosto 1861 dallo stesso Pontefice all'arcivescovo di Torino Luigi Franzoni.

La sanzione a carico di fra Giacomo non va pertanto intesa né come persecuzione né come una punizione comminata sic et simpliciter per l'assoluzione impartita a Cavour. Chi scorre il carteggio tra Pio IX e Vittorio Emanuele ii può d'altra parte vedere facilmente - come ha osservato Giovanni Spadolini - che al Papa stava profondamente a cuore l'anima di ogni cattolico e che, prima di essere sovrano dello Stato Pontificio, egli si sentiva dal più profondo pastore e padre dei suoi figli nella Chiesa. Che un uomo si pentisse e si confessasse, chiunque egli fosse e qualsivoglia atto avesse compiuto, era per Pio IX la principale premura.

Quanto a fra Giacomo, nella sua supplica - che qui viene pubblicata per la prima volta - il religioso riconosceva ora che Pio IX "giustamente" lo aveva punito con la "meritata pena":  e perciò, ora contrito, esprimeva il desiderio di non "morire così", senza essere riammesso al ministero sacerdotale.
"La Santità Vostra, per pura bontà sua, ascolti la calda preghiera di perdono che fa a Vostra Santità un povero vecchio afflitto e pentito", diceva fra Giacomo. E concludeva:  "Oh! Quale consolazione proverebbe [il supplicante] quando la Santità Vostra credesse di favorirlo di perdono colla concessione di amministrare i SSmi Sacramenti, come qualsiasi altro sacerdote!".

La riammissione, come apprendiamo da una relazione scritta dallo stesso interessato, fu concessa nei primi mesi del 1884, circa un anno prima della morte del francescano. Si concludeva così, con una riconciliazione, la vicenda terrena del confessore di Cavour.
 


Santità non vorrei morire così


Dall'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (Rev. Var. 1882, n. 49, f. 2-3) pubblichiamo la lettera scritta nel 1882 da fra Giacomo da Poirino a Papa Leone XIII
 
 
Beatissimo Padre
Fra' Giacomo da Poirino, dei Minori Riformati, al secolo Luigi Marocco, colla umiltà e colla ubbidienza alla S. Sede, che debbono essere in un figlio di s. Francesco di Assisi, si rivolge alla Santità Vostra. Il supplicante, già amministratore della parrocchia che è unita al convento dei Minori Riformati e che ha per titolo - La Madonna degli Angeli -, in Torino, nel dì 5 giugno 1861 fu chiamato dal Conte Camillo Benso di Cavour, gravemente infermo, allora suo parrocchiano.
L'illustre infermo fu confessato dal supplicante; e dall'attuale amministratore, fra' Teodoreto ricevette il SSmo Viatico.

Morto il detto Conte, il S. Padre Pio IX, di felice e santa memoria ordinò che si portasse a Roma e da lui il supplicante, il quale, prostrato ai piedi di Sua Santità, fu giustamente rimproverato perché non ebbe chiesto al Sig. Conte la ritrattazione dei mali da lui cagionati alla S. Madre Chiesa, e, a voce, giustamente privato della amministrazione della parrocchia e dei SSmi Sacramenti.

Il supplicante, con tutta la sottomissione dovuta al Vicario di Gesù Cristo, accettò la meritata pena e d'allora al presente piange il fallo commesso, procurando di dare buon esempio. Prima d'ora ha desiderato di rivolgersi a Vostra Santità per implorare la grazia di nuovamente amministrare i SSmi Sacramenti come qualsiasi altro sacerdote; ma non osò fare palese alla Santità Vostra il suo desiderio, pure volendo subire la pena con rassegnazione e con vera penitenza.

Adesso osa manifestare il desiderio suo perché non vorrebbe morire così e però supplica affinché la Santità Vostra, per pura bontà sua, ascolti la calda preghiera di perdono che fa a Vostra Santità un povero vecchio afflitto e pentito. Egli ha 74 anni compiti. Oh! Quale consolazione proverebbe quando la Santità Vostra credesse di favorirlo di perdono colla concessione di amministrare i SSmi Sacramenti, come qualsiasi altro sacerdote!

Il supplicante si mette pienamente nella mani di Vostra Santità, e, colla migliore disposizione di animo, accetta anche la ripulsa di questa sua domanda, poiché si riconosce indegno di benigna compassione.
Baciando i S. Piedi, desidera ancora che l'Apostolica benedizione lo sorregga nel vicino passaggio alla eterna vita.


Pio IX temeva false interpretazioni della vicenda


Dall'Archivio Segreto Vaticano (Epistulae ad Principes, 276, 1861, n. 234) pubblichiamo nell'originale in latino e nella traduzione italiana la lettera inviata l'8 agosto 1861 da Papa Pio IX all'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni sui motivi dei provvedimenti presi per fra Giacomo da Poirino.
 
Venerabili Fratri Aloisio Archiepiscopo Taurinensi
Lugdunum in Gallia
Venerabilis Frater, salutem et apostolicam benedictionem. Cum per pubblicas ephemerides noverimus, Gustavum Marchionem da Cavour palam publiceque declarasse, nullam a defuncto germano suo frate Camillo retractationem factam vel ei iniunctam fuisse, Romam arcessendum curavimus Religiosum virum Jacobum a Poirino administratorem paroeciae Mariae Sanctae Angelorum  qui  eidem defuncto sanctissima sacramenta ministraverat.
Atque huismodi consilium cepimus ut idem Religiosus vir scandalum repararet scripto declarans, se contra Ecclesiae praescripta egisse cum Sacramenta contulerit quin ullo modo necessariam ab aegrotante exposceret, et obtineret retractationem ob gravissima damna Ecclesiae illata, et exinde orta pubblica scandala.
Verum cum memoratus Religiosus vir id peragere recusaverit idcirco illum a Sacramentorum administratione omnino interdicendum esse censuimus. Dum igitur de hac re Te, Venerabilis Frater, certiorem facimus, Tuae curae, et prudentiae erit commemoratae paroeciae procurationi contulere. Atque interim opportunum erit ut suscepti Nostri consilii rationem pro Tua prudentia manifestes ad falsas super hac re interpretationes et commentationes amovendas. Hanc vero occasionem libentissime amplectimur ut iterum testemur et confirmemus praecipuam Nostram in Te benevolentiam. Cuius quoque certissimum pignus esse volumus Apostolicam Benedictionem quam intimo cordis affectu Tibi ipsi, venerabilis Frater, et gregi Tuae curae commisso peramanter impertimus.
 
  (traduzione)

Al Venerabile Fratello Luigi, arcivescovo di Torino, presso la città di Lione, Francia
 
Salute e benedizione apostolica, Venerabile Fratello.
Avendo appreso dai giornali che il Marchese Gustavo di Cavour ha apertamente e pubblicamente dichiarato che dal suo defunto fratello Camillo non fu fatta alcuna ritrattazione, né fu a lui richiesta, provvedemmo a far venire a Roma Giacomo da Poirino, Religioso, amministratore della Parrocchia di S. Maria degli Angeli, il quale aveva amministrato i santissimi sacramenti allo stesso defunto.

E prendemmo una decisione di questo tipo, che lo stesso Religioso ponesse rimedio allo scandalo dichiarando per iscritto di aver agito contro le norme della Chiesa, quando concesse i sacramenti senza richiedere in alcun modo e ottenere dal malato la necessaria ritrattazione per i gravissimi danni arrecati alla Chiesa e quindi per i pubblici scandali derivati.

In verità, poiché il summenzionato religioso si rifiutò di eseguire ciò, per tale ragione ritenemmo che egli dovesse essere assolutamente interdetto dall'amministrazione dei Sacramenti. Dunque, mentre di tale vicenda informiamo Te, Venerabile Fratello, sarà Tua cura e prudenza di provvedere all'amministrazione della summenzionata parrocchia. E, intanto, sarà opportuno che manifesti secondo la tua prudenza la ragione della decisione che abbiamo preso per rimuovere false interpretazioni e dicerie su tale vicenda.

Facciamo nostra volentieri questa occasione, per attestarti e confermarti di nuovo la Nostra particolare benevolenza nei tuoi riguardi. Di tale benevolenza vogliamo anche che sia certissima prova l'apostolica benedizione che comunico con affetto del cuore a Te stesso, Venerabile fratello, e impartiamo sentitamente al gregge affidato alla tua sollecitudine.






(©L'Osservatore Romano - 29 settembre 2010)

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