L'Umanesimo Cristiano: di p. Raimondo Spiazzi O.P.

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Caterina63
00lunedì 22 dicembre 2008 21:36
                                                      


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L'Umanesimo Cristiano (P.Raimondo Spiazzi O.P.)

L'UMANESIMO CRISTIANO
Rev. Prof. Raimondo Spiazzi, O.P.
Pontificia Accademia Romana di
San Tommaso d'Aquino e di religione cattolica


I. Contributo a un nuovo umanesimo cristiano

Per assolvere uno dei compiti statutari assegnati all'Accademia di San Tommaso d'Aquino e di Religione Cattolica, ossia la ricerca, lo studio, la cooperazione intellettuale, bisognerà tener presente che tra i temi e i problemi che il terzo millennio riproporrà e imporrà ai pensatori cristiani vi è quello di un umanesimo capace di realizzare in nuove forme storiche l'ideale di un equilibrio di valori che rispecchi il Vangelo della verità, dell'amore e della giustizia, qual è nelle aspirazioni e nelle richieste di molti nostri contemporanei, cristiani e non cristiani, che da molte sponde, anche apparentemente lontane tra loro, si appellano a una nuova realtà di unità e di pace. Fin d'ora si può affermare che compito principale degli studiosi e degli operatori dell'apostolato cristiano sarà di riaccendere il senso di Dio nelle intelligenze e nelle coscienze di uomini che hanno creduto o finto di credere che si potesse creare un mondo senza Dio. Forse si dovrà dimostrare su basi storiche e teologiche la verità di quanto disse una volta Paolo VI, cioè che "senza Dio l'uomo può vivere, ma non può essere felice". Forse si dovrà approfondire e spiegare il realismo dei ripetuti messaggi di Giovanni Paolo II a un rinnovamento sociale intorno al cardine di un riconoscimento dei valori assoluti, che si identificano con Dio e si rivelano e incarnano in Cristo.

In un lavoro così impegnativo, ci potrà soccorrere San Tommaso, il cui pensiero su questo punto è stato trattato più volte nelle riunioni di studio dell'Accademia a lui intitolata: un umanesimo inteso non certo nel senso storico-letterario, ma in quello di una humanitas che riflette nell'uomo l'humanitas Salvatoris nostri Dei apparsa nel mondo con l'Incarnazione, come dice San Paolo (Tit 2,11), e che San Tommaso ha tradotto in tesi fondamentali del suo De Homine, sicché a lui, che è passato alla storia come un eminente Doctor Divinitatis, "ben si può attribuire anche la qualifica di Doctor Humanitatis in stretto collegamento e con una essenziale relazione alle fondamentali premesse e alla stessa struttura della Scienza di Dio" come ha detto Giovanni Paolo II nel discorso conclusivo del IX Congresso Tomistico Internazionale, organizzato dalla nostra Accademia su "San Tommaso Doctor Humanitatis" (24-29 settembre 1990).

Nel mondo d'oggi e in quello di domani (diciamo pure nel mondo del terzo millennio) si presenteranno con nuova imponenza i temi e i problemi che nel dopoguerra appassionarono molti di noi che leggevamo ciò che scriveva il P. Enrico De Lubac nel Problema dell'umanesimo ateo. In quegli anni (1945-1947) eravamo studenti all'Angelicum, dove vedevamo sedersi nei banchi dell'Aula minor dei giovani preti d'oltrecortina, tra i quali si trovava il polacco Karol Wojtyla, che non sapevamo chi fosse e ancor meno potevamo immaginare che cosa sarebbe diventato. Alla scuola del grande teologo P. Garrigou-Lagrange non sentivamo certo parlare di umanesimo, ma imparavamo ciò che San Tommaso ci offriva del suo spirito aperto e generoso sulla concezione della natura umana in rapporto alla grazia e quindi sulla capacità di un rinnovamento e di una elevazione dell'umanità a livello personale e sociale, come cercammo di esporre in una tesi sul Carattere perfettivo del soprannaturale, svolta in base alla Sacra Scrittura, ai Padri della Chiesa e specialmente a San Tommaso. La questione era di attualità, e l'opera pubblicata con il testo della tesi ebbe varie edizioni, a Torino e a Milano, riprese poi circa trent'anni dopo a Bologna. Oggi la questione continua ad essere fondamentale, e costituisce il primo punto sul quale San Tommaso potrà dare luce e la sua Accademia dovrà promuovere nuove chiarificazioni, dare nuovi orientamenti sulla base del patrimonio antico.

Sia lecito, qui, offrire alcuni spunti del pensiero che si può attingere da San Tommaso come orientativo di un buon umanesimo.

1) Oggi è frequente sentir lanciare appelli a una nuova etica politica. Si tratta anzitutto, noi crediamo, della richiesta di un principio di unità e di solidarietà, ma essa include, a pensarci bene, il bisogno dell'antico e solido terreno dell' essere, su cui poter costruire qualcosa di stabile. Sarebbe certo ardito affermare che si cerchi consapevolmente un'ontologia della società, una sapienza; ma forse è lecito, nel decifrare quegli appelli, vedervi un'antica postulazione di valori reali e permanenti, che, anche senza identificarsi in una qualche forma di neotomismo o di neo-aristotelismo, non possono non riproporre la questione della "filosofia perenne" riscritta, riletta e rivissuta quanto si vuole, ma non prescindibile nel suo contenuto essenziale, che è e rimane "forte", come diceva San Tommaso della Verità, che anzi è sempre "la più forte" pur tra le alterne vicende di accettazione e di rifiuto che attraversa(1).


2) Senonché la "filosofia perenne" non solo non trova facilmente consensi, o anche solo disponibilità al riesame, alla ripresa di contatto, nel mondo culturale odierno, compresi larghi settori di quello cattolico ed ecclesiastico, ma si scontra con l'eredità etica di Kant, padre di un pensiero senza dubbio "forte", dal quale è stata generata una morale senza Dio. Per Kant, infatti, Dio non è la norma del bene, ma semmai ne è il rimuneratore nell'aldilà: la norma del bene nell'aldiqua e la stessa legge morale immanente all'uomo, alla quale devono essere conformati gli atti umani perché abbiano un valore morale(2). L'eredità di Kant è dunque un'etica che rifiuta ogni fondazione in una Verità trascendente, ogni derivazione e dipendenza e ispirazione dall'Ens-Unum-Verum-Bonum sussistente, dal Dio creatore e Signore del cielo e della terra, e dunque anche causa prima e legge suprema del pensiero e dell'azione, principio, guida e fine della storia.

In base a questo presupposto filosofico ed etico, è difficile concepire una politica che non sia a-religiosa e - se si vuol ripetere l'abusata ed equivoca parola - laica, come è stato il liberalismo generato da Kant, e il socialismo che, sotto questo aspetto, ne è parente. L'uno e l'altro sistema, infatti, fondava la liberazione dell'uomo, il rinnovamento della società, il raggiungimento di una maggiore giustizia sulla pura politica, la quale, a sua volta, includeva un'antropologia dell'autosufficienza e autonomia umana, nettamente intramondana, svincolata da ogni riferimento e condizionamento di una legge divina. L'illuminismo, il razionalismo, l'idealismo, il marxismo e le loro propaggini hanno questo comune denominatore e prescindono quindi da quella realistica considerazione della natura umana, della sua essenziale insufficienza, del suo radicale bisogno, della sua fondamentale apertura a un "Di più" che è propria del tomismo.

3) Probabilmente è da ritenersi valida la svolta del pensiero che, con Heidegger, Jaspers, Husserl, Scheler, Hartmann e forse ancor più con il personalismo di Martin Buber, sembra aver segnato un ritorno alla metafisica; ma resta aperto il problema di quel "Di più" di quell'"Oltre", di quell'Ens trascendente eppure immanente che San Tommaso, filosofo-teologo tutt'altro che chiuso in una logica schematica e preconfezionata, ha considerato nella sua concezione della natura e della grazia come entità ben distinte e distanti nella loro essenza, ma costitutive del "tutto" umano nella sua unità esistenziale finalizzata alla vita eterna(3): tesi espressa nel famoso adagio: "la grazia suppone e perfeziona la natura umana"(4). Non è questa la sede per illustrare questa stupenda dottrina. Vorrei piuttosto segnalare alcuni altri punti dottrinali di San Tommaso che possono servire di orientamento per una risposta agli odierni appelli a un'etica politica adeguata a risolvere nella teoria e nella pratica i problemi della situazione storica da cui si levano quegli appelli di fine millennio. Sono tre, e riguardano la radice della norma politica, la finalità definitiva della società e del potere, il valore politico della virtù.

II. Principi-base di un'etica sociale conforme al Vangelo

A) La legge della natura e la grazia dello Spirito Santo. - Esiste una legge universale (lex naturae) radicata nella percezione interna dell'opposizione tra il bene e il male, al di sopra delle differenze di tempi, luoghi, popoli, culture, religioni, come fondo di saggezza comune a tutti gli uomini, identificabile in alcuni principi difficilmente negabili, anche se intorno ai suoi derivati (anche immediati) possono esserci obnubilamenti indotti dalle consuetudini e soprattutto dalle cattive abitudini (come per il furto, o la bugia, forse persino per certe forme di omicidio). In quella legge è la radice, il punto di riferimento, il principio unificativo di tutte le leggi umane, come pure dell'etica, in tutte le sue dimensioni (anche in quella politica).

San Tommaso però aggiunge che la lex naturae appare fallibile, non solo in singoli uomini ma anche al livello di una visione storica e sociologica del genere umano. Non esclude quindi una certa drammaticità nel comportamento umano in rapporto alla legge naturale, come sappiamo che appare nell'Antigone di Sofocle, anche se è vero che, con Aristotele e Platone, egli delinea un quadro di idealità etica nel quale i conflitti sono risolvibili senza ricorso al deus ex macchina dei tragici greci. Ma il principio risolutivo è interiore all'uomo: sia per il senso morale (sinderesi) in lui operante già a livello naturale, sia per la presenza di una lex addita che, nella concretezza esistenziale della condizione umana inserita nel piano della vocazione divina, è necessaria, come dono di un "Di più" di un principio non violante ma perfezionante l'umana capacità di giudizio, come rivelazione e come grazia(5). Questo dono sovraggiunto (superadditum) non si identifica con le strutture storiche della Chiesa, e nemmeno con i dati scritti e orali del cristianesimo (tutto ciò rientra nella "Legge Nuova" con un ruolo relativo e ministeriale, anche se imprescindibile); ma con la Gratia Spiritus Sancti (essenza della Lex Nova) che trascende tutto il visibile e tutto il leggibile(6) per penetrare nelle menti e nei cuori e portarli al bene, a Dio, in Cristo(7).

Anche la politica ha bisogno di quest'anima trascendente, di questo "supplemento d'anima" per il suo stesso svolgimento connaturale in ordine al bene comune: altro che mito illuministico del "buon selvaggio", altro che neo-pelagianesimo con firma liberale, o marxista, o addirittura "cattolica"! C'è da sperare che la grazia della Lex Nova operi in tutti i responsabili del governo politico, anche in quelli non anagraficamente cristiani, anche fuori dei confini visibili del cristianesimo. C'è da pregare per ottenere il dono non solo della grazia preveniente e operante, ma anche della grazia che rende docili gli uomini, disposti cioè a recepire e assecondare l'impulso divino e, in definitiva, sì, l'azione dello Spirito Santo (Gratia Spiritus Sancti) nei cuori umani.

B) Il fine ultimo dell'uomo e della società.

- Il discorso sulla "Legge Nuova" include ovviamente quello sul Fine ultimo dell'uomo: un Bene comune trascendente l'ambito del bene comune terreno e temporale, a cui è ordinata la società, l'autorità, la legge. Se non si accetta il dato rivelato su Dio e sulla "vita eterna" in Lui come fine a cui tutti gli uomini sono chiamati e ordinati, è difficile ammettere che ci sia nella vita e nella storia un ordine di cose, di pensieri, di costumi, di preghiere che vada oltre la soglia di ciò che la ragione umana può conoscere e animare, se non come constatazione del fatto storico che un certo numero di persone lo ammettono. E' difficile e anzi impossibile, allora, ogni riferimento al "soprannaturale", che si cerca di rimuovere o svuotare di significato.

Per San Tommaso tutto l'ordine della fede e della vita, e quindi anche della teologia e dell'etica cristiana, dipende dal fatto della vocazione dell'uomo al fine soprannaturale, e quindi della elevazione a un piano di realtà e di valori trascendenti, che concretizzano la partecipazione umana alla vita divina. L'ordinamento pratico e la elaborazione dottrinale di ciò che concerne il raggiungimento di quel fine non rientrano nella competenza della società e dell'autorità politica, né di una cultura che si evolve dalla pura ragione, ma appartengono alla competenza della religione e, nella concretezza storica della "Nuova Legge" fondata sul Vangelo, della Chiesa. Alla società e all'autorità politica compete la cura del bene comune temporale: e in questo il potere temporale è sovrano e, si può dire, autonomo(8).

C'è da chiedersi, però, se di fatto il potere politico sia veramente autosufficiente in ordine anche solo alla cura del bene comune temporale. Si osserva, a questo proposito, che gli uomini politici difficilmente si pongono il problema del fine del potere e, anche quando ammettono che esso consiste nel bene comune temporale, è difficile che seguano una via di rettitudine per ordinarvi e subordinarvi i mezzi più adatti. Ancora più difficile è che si preoccupino dei riflessi anche politici che comporta la subordinazione del bene comune temporale al bene comune trascendente. Di qui l'essenziale necessità della religione e, in concreto, dell' autorità sacerdotale nella società politica anche solo in ordine al fine proprio di questa: appunto per ricordare che c'è un fine, che in ordine ad esso occorre impiegare i giusti mezzi, che nell'impiego di questi mezzi e nel governo della cosa pubblica non si può ignorare né impedire l'ordinazione al Bene comune trascendente, al Fine ultimo che, al contrario, è doveroso assecondare e facilitare.

Ma ancora una volta bisogna dire che questo discorso ha un senso se si accetta (o almeno si riconosce) il fatto che molti condividono l'ordinazione o l'aspirazione al Fine trascendente, e si ammette la validità dell'aureo principio di San Tommaso, secondo il quale "homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua; sed totum quod homo est et quod potest et habet ordinandum est ad Deum"(9): "l'uomo non è ordinato alla comunità politica secondo tutto se stesso e secondo tutto ciò che può e possiede ma tutto ciò che l'uomo è e può e possiede deve essere ordinato a Dio". Se il totum non è ordinato e dato a Dio, quasi inevitabilmente viene ricondotto entro i limiti del bene comune temporale, concepito a sua volta come un totum superiore alle parti, che ad esso devono subordinarsi secondo la dottrina aristotelica ripresa da San Tommaso(10), sì, ma da lui ridimensionata proprio in virtù del riferimento a Dio, che esclude ogni panteismo statale di marca hegeliana, ogni assolutismo del potere politico. In mancanza di questo riferimento, il passo al totalitarismo è quasi inevitabile.

Possiamo dunque conchiudere anche questo punto sottolineando che, nell'etica politica invocata, più che di neo-aristotelismo, si dovrà parlare di derivazione dalla concezione evangelica del valore dell'uomo, che, interpretata nella chiave tomista, ci permette di spiegare che l'ordinamento al Fine divino salva la consistenza creaturale, la dignità, la superiorità dell'uomo sullo Stato, e fonda i diritti della persona umana. Un altro caposaldo dell'antropologia cristiana messo a base della politica.

C) La valorizzazione delle virtù.

- Il terzo punto che possiamo rilevare da San Tommaso - come esponente e perfezionatone della "filosofia perenne" anche riguardo all'etica politica - è quello della valorizzazione delle virtù, come in qualche modo ha tentato di fare Mc Intyre nel suo libro After vertue(11), con l'intento di ricuperare l'etica aristotelica, forse in contraddizione - come gli ha rimproverato Larmore(12) - con il liberalismo moderno, e in particolare con il principio del pluralismo ideologico, etico, politico. Varrebbe la pena di riprendere in considerazione la teoria aristotelica che colloca la virtù e le virtù al centro della vita attiva, che ha la sua suprema espressione nella politica. Ma, anche a prescindere dagli esiti storici sia del liberalismo che delle altre ideologie che hanno portato alla crisi etico-politica contemporanea, va detto che proprio il liberalismo - in ciò che ha di valido, cioè il rispetto delle libere scelte - potrebbe trovare conferma, chiarificazione e riequilibrazione nell'etica delle virtù offerta dalla "filosofia perenne" e specialmente da San Tommaso.

Nella critica di Larmore a Mc Intyre vi è la riaffermazione del relativismo liberale, ma anche il riconoscimento della necessità del giudizio nell'esercizio delle virtù. Il che significa libertà, ma non necessariamente esclusione di una regola, almeno interiore. Il giudizio richiede dei criteri, delle norme, nel cui rispetto è la garanzia della bontà della scelta (e dunque del bene morale) e il principio di una unità come radice prima e punto di confluenza delle libere scelte: in definitiva la lex naturae, da cui derivano le leggi positive elaborate dalla ragione e applicate secondo coscienza. In questo senso, San Tommaso, dopo aver sostenuto - in armonia con la migliore tradizione filosofica ed etica classica (ellenica, latina e cristiana) - che la virtù è una stabile propensione al bene, scoperto, dettato e misurato dalla ragione (medium rationis)(13), aggiunge che l'opera di un buon legislatore e di un buon governante consiste nell'aiutare i cittadini al bene vivere, cioè a vivere secundum virtutes(14), a realizzare il bene comune, a raggiungere il fine temporale della società, a cui si perviene con le virtù della vita attiva: virtù che raggiungono la perfezione nella loro dimensione politica, specialmente la prudenza del governo e la giustizia(15).

Questo concetto delle virtù "civili" che San Tommaso riceve dalle fonti classiche (Plotino, Macrobio...)(16) anche se non è da lui sviluppato in modo formale e approfondito nelle sue implicanze per la vita politica, spiega però in quale ampiezza va intesa sia la sua dottrina della vita secundum virtutes come scopo della politica, sia quella sulla virtus boni viri che in un regime di libertà coincide con la virtus principis, essendo tutti i membri della società (reggitori e governati) - in quanto esseri capaci di automuoversi, di autodeterminarsi - tenuti a essere bene mobiles, a operare bene, come le virtù, appunto, spingono a fare(17).

Il che non gli impedisce di vedere e di riconoscere l'apertura sull'infinito, che si trova sempre - come nello spirito umano così nella vita della società - dove qualcosa di perennemente incompiuto, di non conseguito, di non attuato rimanda a un al di là di tutto, anche della politica e della stessa etica delle virtù civili che ne è la struttura interiore. Egli parla infatti, col plotiniano Macrobio, anche delle virtù esemplari (che noi diremmo eroiche) a cui sono chiamati i cittadini, e specialmente i cristiani che sanno di essere invitati a tendere alla perfezione del Padre celeste (cfr. Mt 5,48) e di dover quindi rispecchiare in sé, nella propria condotta e nei propri comportamenti la luce delle divine sembianze. Parla altresì della contemplazione come superiore attuazione di perfezione umana già nella vita temporale e come termine al quale tutto deve essere ordinato nella città terrena: "omnia negotia... videntur ordinata contemplantibus veritatem"(18).

Oggi - dopo la caduta non solo delle ideologie, ma, purtroppo, anche degli ideali che davano slancio alla politica - sta forse venendo l'ora di riproporre la verità (che è giustizia, fraternità, pace) come forza liberatrice, come principio vitale di un'etica che stabilisca una proporzione tra tutto quello che si fa, tra le cose di quaggiù in ordine a quelle di lassù, tra quelle che la verità illumina perché siano fatte bene (consulendis) e quelle che si contemplano per trovarvi il riposo e la gioia dell'anima (conspiciendis).

La politica dovrebbe rientrare nel raggio della sapienza pratica, che - secondo Sant'Agostino e San Tommaso - "intendit rationibus supernis consulendis ... secundum quod divina iudicat de humanis, per divinas regulas dirigens actus humanos": "si occupa a considerare e a consultare le ragioni supreme, cioè divine: a considerarle in quanto contempla le cose divine in se stesse; a consultarle in quanto giudica con esse le cose umane, guidando gli atti umani con criteri divini"(19).

Specialmente per i cristiani, questa non è un'utopia, ma un ideale. Abbracciarlo e attuarlo, per noi tutti, può significare una salvaguardia dagli errori e un contributo decisivo a far sì che sul nostro pianeta si veda spuntare una società un po' più perbene....

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NOTE

1) Contra Gentes, IV, c. 10, n. 3460/b. Il testo originale dice: "Veritas in seipsa fortis est et nulla impugnatione compellitur"

2) Cf. Larmore, Le strutture della complessità morale, tr. it. Milano 1990, p.87 ss. (originale inglese, London 1987).

3) I, q. 1, a. 1; II-II, q. 2, aa. 3,4; Contra Gentes, I, cc. 4,5; De Veritate, q.14, a. 10.

4) I, q. 1, a. 8, ad 2.

5) Cf. I-II, q. 106, a. l; q. 108, aa. 1,3; q. 109, a. 4.

6) Cf. I-II, q. 106, a. l.

7) Cf. I-II, q. 106, aa. 1,2.

8) Cf. De regimine principum, I, c. 16.

9) I-II, q. 21, a. 4, ad 3.

10) Cf. Contra Gentes, I, c. 86; III, c. 11; De regimine principum, I, c. 16; In I politicorum Aristotelis, q. I, n. 31.

11) Mc Intyre, After Vertue, London 1981; tr. it. Milano 1988.

12) Le strutture della complessità morale, tr. it. Milano 1990; originale inglese, London 1987.

13) Cf. I-II, q. 64, aa. 1,2.

14) De regimine principum, 1, c. 16; I-II, q. 61, a. 5.

15) Cf. II-II, q. 58, a. 12; q. 47, a. 10, ad 1,2.

16) Cf. I-II, q. 61, a. 5.

17) Cf. II-II, q. 47, a. 10, ad 1,2; aa. 11,12.

18) Contra Gentes, III, cc. 30-37; 48, nn. 2258,2261; 63; IV, c. 50.

19) Cf. II-II, q. 45, a. 3; S. Agostino, De Trinitate, XII, c. 14: PL 42,1009.


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Un grazie a:

http://www.vatican.va/roman_curia/po...ii_it.html#a16




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"Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (Santa Caterina da Siena)
Caterina63
00lunedì 22 dicembre 2008 21:38
L'Umanesimo Cristiano di san Tommaso D'Aquino

L'UMANESIMO CRISTIANO

Mons. Prof. Brunero Gherardini

Pontificia Accademia Teologica Romana

Quando, esattamente 50 anni fa, un vescovo impose le sue mani sulla mia testa per costituirmi prete di Cristo e della sua Chiesa, non potevo neanche lontanamente immaginare che l'esercizio del mio sacerdozio sarebbe stato così lungo, e ricco, e vario; né che un giorno, forse fra i miei ultimi, l'avrei coronato con la commovente esperienza di parlar alla presenza del Papa. Grato al Signore per tanta accondiscendenza, m'accingo a verificare quale fondamento abbia la non rara negazione d'una qualche forma d'umanesimo cristiano in san Tommaso, anzi d'un umanesimo come tale.

E poiché assertore d'una tale negazione fu, tra gli altri, un tomista di caratura mondiale, l'indimenticato Cornelio Fabro(
1) che mi degnò della sua stima e della sua amicizia, son ben lungi dal dar alla verifica il significato d'una polemica. Mio unico intento è quello d'una onesta lettura dell’Aquinate. Tenterò, anzitutto, di precisare la nozione d'umanesimo, anche nella sua versione cristiana e ne ricercherò poi le tracce, supposto che ci siano, nel Corpus Thomasianum.


1 - L'umanesimo.

Ognuno conosce, o avverte, l'ambiguità dell'espressione. Per la cultura rinascimentale, fu sinonimo d'autonomia del conoscere, di adogmatismo metodologico e di ricupero del pensiero classico. Ma anche d'innesto sul ceppo cristiano di quanto i paradigmi pagani offrissero di buono, di bello e di vitale.
Da emblema di libertà, l'umanesimo, sotto la pressione dello sviluppo scientifico, divenne presto naturalismo, pragmatismo e riflessione antropologica. In tempi più recenti, è tornato alla forma estetizzante già assunta nel ‘400 e ‘500, e alla concezione dell'uomo come armonia e misura dell'universo (Winkelmann e Wolf, Lessing e Goethe, Schiller e von Humbolt).

Ma, per incontrar un umanesimo meno ambiguo, sarebbe opportuno partire dalla nozione ciceroniana d'humanitas, parente stretta del mondo classico, la quale pertanto dà ad humanus il senso di colto, erudito, ben educato. Da humanitas l'idea di litterae humanae come sintesi d'una cultura umanistica nella quale il moderno indirizzo filologico-filosofico si sposa con le premesse estetizzanti dell'umanesimo classico (Jaeger, Stenzel). Se non che, come nel ‘400-’500 la sapienza cristiana fu un non secondario coefficiente del primo umanesimo, così alcune forme umanistiche del presente attingono alla tradizione cristiana i loro valori più nobili, quali quelli riguardanti Dio-l'uomo-il mondo, per convogliarli nelle maglie della civiltà tecnologica, non sempre ricettiva, e spoglia d'orizzonti metafisici.

La nozione d'umanesimo cristiano va ulteriormente determinata, anche per non confonderlo con la filosofia cristiana. Russel, Heidegger, Jaspers e quanti s'oppongono perfino alla possibilità di essa, denotano la fragilità o la prevenzione ideologica dei loro argomenti. Ma ciò non dà una patente di legittimità all'umanesimo cristiano. Esso infatti non s'identifica con la filosofia cristiana, non ne è nemmeno una parte, ma apre prospettive più ampie di civiltà e di cultura.

2 - San Tommaso e l'umanesimo.

L'Aquinate, ovviamente, non conobbe alcuna sfaccettatura del fenomeno umanistico quattro e cinquecentesco, essendo vissuto più d'un secolo prima (1225ca-1274). Non ignorò, tuttavia, la pregnanza d'humanitas e studiò l'uomo in tutt'i suoi risvolti, come ben pochi altri prima e dopo di lui. Contrariamente a quanto gli si rimprovera, di procedere cioè astrattamente, egli mise a fuoco una visione dell'uomo, sotto ogni punto di vista completa: sul piano storico non meno che su quello metafisico, come spirito incarnato e socialmente correlato non meno che come essere intelligente e libero. In libros politocorum, De regimine principum, Secunda secundae, De perfectione vitae spiritualis, buona parte della Summa contra Gentiles, Quaestiones disputatae, Lectiones, Distinctiones, Expositiones: son gli scritti ai quali l'Angelico affidò un'antropologia filosofico-teologica, attenta ai valori dell'humanitas, del diritto naturale e della singola persona non meno che a quelli della Parola rivelata. Costruzione grandiosa, la sua, supportata da una logica stringente, aperta alle acquisizioni del passato nella stessa misura che alla "metafisica delle cose divine"
(2).

Non c'è dubbio che, in tale metafisica, consiste gran parte della filosofia cristiana; ma è anche sufficiente a dar vita ad una forma d'umanesimo cristiano?

La risposta coglie, in prima istanza, quell'analogia entis ch'è un intreccio armonico tra "scitum" (o sapere dialettico) e "creditum" (o sapere rivelato). Tale analogia attesta che c'è una proporzione tra la perfezione dell'ente e la sua attualità e risale, di perfezione in perfezione, all'Atto puro
(3) come ricchezza infinita e originaria di essere; donde, per partecipazione, la gamma indefinita ed indefinibile degli enti. Analogicamente all'Atto puro, ognuno di codesti enti ha la sua perfezione nell’actus essendi che ne determina l'importanza, l'intelligibilità e la verità come emergenza ontica da ogni indeterminatezza potenziale e come riflesso analogico dell'attualità assoluta(4).

Nella gamma dei valori che gli spiriti eletti della Rinascenza chiameranno umanesimo, l'Angelico pone dunque, sul piano ontologico, la relazione analogica al divino e la dipendenza genetica da Dio. Una dipendenza che rende l'ente partecipe allo stesso "actus essendi" di Dio, costituendolo nel proprio creaturale "actus essendi" come sussistenza singola, collegata all’Ipsum esse subsistens" non per continuità ed identità di essere, né per emanazione panteistica, ma per creazione e quindi per partecipazione analogica.

Ne consegue che l'uomo tomasiano, in quanto ha, "aliter tamen ac aliter", 1'"actus essendi" in comune con Dio ed in codesto atto ha tutta la sua perfezione, esprime se stesso, non diversamente dall'uomo dell'umanesimo, come sintesi e misura d'ogni forma creaturale inferiore.

3 - L'onnicomprensività dell'uomo.

C'è una gerarchia che, secondo san Tommaso, connota la distribuzione dell'essere secondo il principio del più e del meno
(5). Tutto l'essere partecipato è raccolto e coordinato da tale gerarchia; al suo vertice, l'uomo, perfezione d'ogni perfezione, che assomma in sé ed unifica, centralizza e spiritualizza, nobilita e razionalizza tutte le perfezioni inferiori. Aristotele aveva subordinato l'uomo ai mondi superiori immutabili; l'Angelico subordina tutto all'uomo, attesa la maggiore nobiltà della natura umana rispetto a qualunque altra natura creata(6).

Tale nobiltà scaturisce dall'anima. Nell'anima si riassumono, e tutti essa li trascende, i valori creaturali; essa è "comprensiva di tutto l'essere"
(7). Giustamente può dirsi perciò "quodammodo omnia"(8). E n'è chiaro il motivo: "fit quodammodo omnia secundum sensum et intellectum"(9): "Sicut sensus recipit species omnium sensibilium, et intellectus recipit species omnium intelligibilium"(10). Qualcosa d'infinito, dunque, risalta nell'anima dell'uomo, e quindi nell'uomo come soggetto d'attribuzione, il quale, attingendo intellettualmente l'essere in quanto essere, attinge il tutto e lo assume in sé, divenendo in certo senso e misura (si ricordi il "quodammodo") questo medesimo tutto.

L'Angelico risolve la dialettica uomo-tutto alla luce della natura attivo/passiva dell'intelletto umano
(11). Come "intellectus patiens", esso "recipit formas aliquas a rebus"; ma come "intellectus agens", rende intelligibili e per così dire immateriali le forme recepite, determinandone un passaggio qualitativo da particolari ad universali, da molteplici ed estese ad unificate e semplici, dall'attualità del loro limite creaturale a quella intellettuale ed onnicomprensiva del soggetto umano(12).

4 - Uomo: perfezione e creaturalità.

Ho detto che, l’"actus essendi" è tutta la perfezione dell'uomo e ch'egli è capace di recepire, per via intellettuale, tutte le perfezioni inferiori, conferendo loro significato ed importanza. Ma ciò né idealizza l'uomo, né sopprime gli evidenti limiti della sua natura. Anche l'uomo, infatti, come tutte le perfezioni che gli son inferiori, è segnato dal finito e contingente della creaturalità; allo stesso modo di tutto ciò che non è Dio, anche l'uomo è per ciò stesso da Dio creato
(13). Lungi dall'autoctisi, soggiace anch'egli a quell'atto creativo, ch'è produzione assoluta dell'essere(14): "secundum totam suam substantiam, nullo praesupposito subiecto". Vale a dire "ex nihilo sui", perché prima non era, "et ex nihilo subiecti" perché non dipendente da una sostanza (o materia, o soggetto) previa, né da una sua o accidentale o sostanziale trasformazione(15).
Anche per l'uomo, pertanto, la creaturalità è la nota primordiale, donde altre note discendono:
a) l'esser partecipato, o in-dipendenza, rispetto al Sussistente-per-se-stesso, ch'è l'Uno, l'Identico, il Semplice, il Creatore(16);
b) l'esser contingente, in totale e radicale dipendenza sia dal Necessario, sia dalla distinzione reale tra essenza ed atto, che è il segno della partecipazione
(17);
c) l'essere storicizzato, temporalizzato, imprigionato nel prima e nel poi, in una cornice di tempo e di spazio, dalla medesima circoscritto e misurato, lui, centro e misura di tutto e tuttavia incapace di dominar il fluire della temporalità, della parzialità, della successione, non essendo titolare di quella pienezza di essere che trascende in sé e per sé tutt'i limiti dell'essere partecipato e storicizzato
(18). E' "quodammodo omnia", ma nel "quodammodo" s'inscrivon tutt'i limiti predetti.
5 - L'uomo ed il limite morale.

Quelli già segnalati costituiscon lo sfondo ed il teatro d'un limite maggiore, la cui drammaticità si coglie in ambito più teologico che filosofico. E' il limite morale, il peccato. Di fronte ad esso, la considerazione tomasiana dell'uomo non si ferma sul gradino della creaturalità partecipata, contingente e storicizzata, ma affronta i gradini ulteriori: dalla creatura, alla creatura peccatrice, decaduta e ri-creata.
In effetti, l'uomo non si capisce solo nel quadro della causalità e della partecipazione. Causalità e partecipazione ne rivelano sì, la perfezione ontica unitamente ai suoi limiti, ma il vero volto dell'uomo è quello che delinea i suoi contorni "ad immagine e somiglianza di Dio" (Gn 1,26.27; 9,6; Sir 17,3). San Tommaso lo tratteggia così:
a) riconoscibile dai tratti analogici che ne rivelano l'origine da Dio e dal suo amore diffusivo di sé;
b) capace a sua volta di conoscer attraverso quei tratti Dio come suo Creatore;
c) soprannaturalizzato dalla Grazia che ne cancella il peccato, ne assicura il destino eterno e lo anticipa;
d) perfezionato, dopo la sua vicenda terrena, dal c.d. "lumen gloriae"
(19).
La figura dell'uomo peccatore non vien certo banalizzata dall'Angelico, ma egli è perentorio: il peccato non cancella l'immagine di Dio. La ragione è semplice: la giustizia originale, nel cui possesso l'uomo era stato collocato dal suo Creatore e nella cui realtà confluivan insieme Grazia, elevazione all'ordine soprannaturale e doni preternaturali (quelli cioè che perfezionavan la natura nel suo stesso ordine) non fu dal peccato annullata, ma solo indebolita. Il peccatore fu infatti privato della Grazia e dei doni preternaturali, ma non del suo ordinamento naturale, né della sua finalizzazione al Creatore(20).

Su questa base, l'Angelico analizza la sostanziale "restitutio in integrum" prevista dal progetto del Padre e compiuta dal suo Verbo incarnato. Con i segni del peccato sul volto dell'uomo egli riconosce così anche gli effetti di un'azione ricreante (la redenzione) e giustificante (il perdono dei peccati e la costituzione d'un organismo soprannaturale). E' l'azione che, sottraendolo a Satana, mette l'uomo in rapporto con Dio UniTrino; che manifesta la sovrana libertà dell'amore redentore; e che fa del peccatore redento la dimora del Padre Figlio e Spirito Santo. Un'azione profondamente innovatrice, anzi una "creazione nuova" ed una nuova partecipazione ontica: l'innesto della sopranatura sulla natura ferita: quel medesimo Dio che, nella sua infinita realtà di "Ipsum esse subsistens", partecipa l'essere e fa sbocciar il creato, è anche Colui che partecipa la sua stessa vita e fa sbocciare l'ordine della Grazia
(21).

6 - L'umanesimo "cristiano" di san Tommaso d'Aquino.

La cultura contemporanea è satura d'immanenza e mal sopporta l'accostamento cristiano ad umanesimo. D'altra parte, ho detto all'inizio che nemmeno san Tommaso parla d'umanesimo. Dando per scontata l'aberrazione critica dell'ubriacatura immanentistica, mi domando se la strada verso una risoluzione umanistica dell'Angelico sia o no percorribile.
In assenza d'una forma ben articolata d'umanesimo, si trova in lui un'antropologia integrata, comprensiva cioè dei valori naturali e soprannaturali dell'uomo. Ad essa l'umanesimo immanentistico contrappone un sistema soggettivistico e sostanzialmente ateo, che decreta il fallimento dell'uomo anche quando lo esalta, abbandonandolo alla mercé del collettivo, della razza, della nazione, del mondo, della storia.

Perfino un Heidegger ne prese le distanze, spaventato, e parlò di "Weltkatastrophen"
(22). Esito fatale e catastrofe inevitabile. Non c'è, infatti, altro sbocco all'identità dialettica tra l'uomo e Dio, all'idealismo metafisico dell'autocoscienza o dell’"essere di coscienza", nonché al panteismo irrisolto ed ambiguo, dove tutto perde la propria identità: l'uomo, il mondo, Dio.
Ad impedir una tale catastrofe s'erge il baluardo dell'umanesimo cristiano. Al suo interno concorre allo scopo la lettura umanistica dell'antropologia integrata che, con l'Aquinate, possiam opporre:
a) all'umanesimo classicheggiante che volge a ritroso la ricerca, la sostanzia d'estetismo formale e la blocca sui modelli antichi;
b) all'umanesimo razionalistico, da quello storico di Cartesio e Leibniz, Spinoza e Malebranche, Kant e Fichte, a quello "teologico" di Hegel che, nella sinistra del suo sistema (Feuerbach, Marx) sottopone l'umanesimo stesso alla "lotta di classe";
c) all'umanesimo esistenzialista che, in ognuno dei suoi indirizzi (ontologico, con M. Heidegger; ateistico, con J.P. Sartre; e religioso-teologico con K. Barth e R. Bultmann, e l'unica felice eccezione di S. Kierkegaard), resta invischiato nell'unilateralità delle sue premesse.
Nel suo aspetto integrato e complementare, l'antropologia tomasiana può ben esser risolta in umanesimo, ed ovviamente cristiano, accentuando due valori di fondo:
l. la creaturalità con tutto ciò che comporta di storicità e dipendenza, temporalità e partecipazione;
2. la redenzione o "creazione nuova", con la sua vis liberatrice dal peccato e dispensatrice della vita nuova in Cristo
(23).
Il suo punto di forza, però, sta tutto nel prolungamento speculativo della partecipazione dall'ambito naturale dell'essere a quello soprannaturale dell'essere per grazia. Una partecipazione, questa, più intensa, più profonda, sott'alcuni aspetti nuova: arricchisce l'essere creaturale di quel "qualcosa in più" che non gli è dovuto a titolo naturale e l'innalza a livelli, sempre ovviamente partecipati, non solo d'appartenenza, ma anche di comunione con la Trinità sacrosanta. E' quell’"in più che definisce l'uomo senza strapparlo alla sua condizione di creatura ed in lui realizza più compiutamente, in virtù della "similitudo divinitatis"(24), l'immagine che Dio gli aveva impresso creandolo.
Logica la conclusione. Quello di san Tommaso d'Aquino è un vero umanesimo, perché:
l. spiega col ricorso alla partecipazione la creazione e ricreazione dell'uomo, distinguendone "in re" i livelli ontologico-operativi;
2. costituisce in esso il centro e la misura dell'universo, la sintesi di tutte le forme create, l'"horizon et confinium omnium corporeorum et incorporeorum"
(25);
3. lo riscatta dalla colpa d'origine a prezzo del Sangue redentore;
4. lo pone in comunione, ammembrandolo nel Corpo di Cristo, col Padre e lo Spirito Santo;
5. gli affida il compito di costruire la città terrena come concrezione di valori naturali e soprannaturali, per una cultura ed una civiltà commensurate sull'uomo, e quindi in armonia col progetto originario di Dio Creatore e Redentore.
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NOTE
1) L'anima. Introduzione al problema dell'uomo, Roma 1955, p. 340-341 (310-346).
2) S.TOMMASO, CG I,4,1-2.
3) STh I,4,1.
4) II Sent I,1,1; STh I,44,1c: "Relinquitur ergo quod omnia alia a Deo non sint suum esse, sed participent esse. Necesse est igitur omnia quae diversificantur secundum díversam participationem essendi, ut sint perfectius vel minus perfecte, causari ab uno primo ente, quod perfectissime est".
5) STh I,76,2: "secundum perfectius et minus perfectum"; cf I,3,3; I,57,1; I,78,1.
6) III Sent I,1 ad 2.
7) CG III,112.
8) De anima III,3; CG III,112; De verit. XVIII, 4 ad 6.
9) STh I,80,1; De anima XIII,12-13.
10) STh I,80,1; cf I,7,2 ad 2; De verit. XVIII,4 ad 6.
11) De anima III,10; Ethic. VI, l.
12) STh I,87,1c; CG II,60.
13) STh I,44-45,2c; I,65,1-4; I/2,79,2c; I Sent I,1,2-3.17; CG II,6.15.16; Opusc. III,68,69; XV,19.
14) STh I,45,5.
15) STh I,45,1; De Poten. III,1 ad 7.
16) III Physic. I; cf FABRO C., La nozione metafisica di partecipazione, Torino 1969 , p. 421-448; Elementi per una dottrina della partecipazione, in "Divinitas" 2 (1967) 559-586, poi in Esegesi tomistica, Roma 1969, p. 421-448.
17) S.TOMMASO, De divinis nomin. II,3; De Poten. II,5 ad 6; V,3c et 8.9.12; St I,27,2 ad 3; I,104,1 ad l; 1/2,93,4 ad 4. Cf. FABRO C., La nozione tomistica di contingenza, in "Rivista di Filos. neoscolatica" XXX(1938)132-149, poi in Esegesi, cit. p. 49-69.
18) S.TOMMASO, III Physic. IX, 368; IV Physic. VIII,491; VIII Metaphysic. 1742; XI Metaphysic. X, 2339; Cf. BOGLIOLO L., L'uomo nel mondo. Antropologia filosofica, Roma 1971, p. 160-173.
19) Tutta l'antropologia tomasiana ruota attorno a questi valori. Cf. STh I, 3 ad 2; I, 4, 3c; I, 35, 2 ad 3; I, 45, 7c; I, 91, 4 ad 1 et 2; I,93,1 ad 3.
20) De malo IV, 2 ad 17; V, 1 ad 13; STh I, 95, 1; I, 100, 1 ad 2; I/2,81,3; I/2,83,2 ad 2.
21) STh III,3 et 4 ad 3; III,7,13; I,43; CG IV,34; De divinis nomin. I,2; In Symb. Apost. III; In ep. ad Rm. I,3; In ep. ad Eph. I,l; In ep. ad Haebr. II,3; In Joann. ev. I,8; III Sent X,2,l et 2; De Poten. II, 4c.
22) HEIDEGGER M., Nietzsches Wort "Gott ist tot", in Holzwege, Francoforte s. M. 1957, p. 200ss; Die Zeit des Weltbildes, ivi p. 100 n. 9.
23) Si veda con quale e quanta acutezza l'Angelico esplori il mistero dell'anima in De spirit. creat. I; cf STh I/2,50,4 ad 2 et 5; I/2,110 4c; I,77,1; I,79,3c et 5c; I,76,1c; I,87,1c; sull'approfondimento tomasiano della "scientia fidei" e della "libertas" nell'atto di fede, cf STh I,1,2 ad 2; I,1,7; I,5,4 ad 3; I/2,74,1; I/2,87,6; I/2,19,6; II/2,1.
24) STh I,13,9 ad 1; I/2 prol.
25) Cf. III Sent., Prol.; De Verit. XVIII, 4 ad 6.; CG III,59.112: De Anim. 13; De Causis Prop. IX. et alibi.

FONTE
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