LA MESSA NON E' FINITA....

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Caterina63
00giovedì 21 gennaio 2010 12:29
Sulla scia di questo thread:
MESSA CATTOLICA E RITO PROTESTANTE, ATTENTI ALLE DIFFERENZE

il sito della Milizia san Michele Arcangelo (che ringrazio per la stima e la considerazione) :
http://www.miliziadisanmichelearcangelo.org/index.php


mi ha pubblicato il seguente testo  che avevo inviato a padre Marcello Stanzione come contributo alle varie discussioni sulla Liturgia....

Il testo lungo, porrò qui a più riprese.....AGGIORNANDO ALCUNE PARTI

Invito pertanto a quanti leggono a non estrapolare singole parti per usarle contro l'insegnamento della Chiesa, si tenga sempre conto di tutto il contesto e se qualche errore verrà individuato, esso è attribuile esclusivamente ai miei limiti e mai al Magistero al quale ripongo ogni giudizio sull'argomento da me trattato!



La Messa non è finita! La Messa

Vetus e Novus Ordo nell'unica Messa sempre valida!

Viviamo nell’epoca degli slogan e di grande confusione, agli slogan si attribuiscono niente meno che verità dottrinali che spesse volte, però, non sono affatto conosciute da chi li grida o li pronuncia! In ambiente fondamentalista cattolico, per esempio, per accusare il Novus Ordo Missae il dire “La Messa è finita” si intende proprio in senso dispregiativo come a voler dire appunto: è finita! Così come ci sono altri tipi di fondamentalisti (modernisti) i quali accusano ingiustamente il Rito san Pio V per dire che la Messa “ERA” finita… In verità la frase “La Messa è finita”, nella sua originale composizione, non ha mai voluto intendere il concetto di “fine” bensì è un segno di congedo, di dimissione per iniziare la propria testimonianza, avviare la missione. Il termine stesso "Messa",  deriva dalla locuzione finale "ite, missa est", ossia "andate, atto di congedare = dimissione",  che col tempo ha assunto il significato, non propriamente corretto, di "la messa è finita" per indicare la fine della celebrazione.

La parola "messa"  nasce, dunque, come atto di "dimettere" è vero, ma si usava per i catecumeni e i penitenti i quali, come suggerito dalla stessa Didachè, non essendo ancora Battezzati (e i penitenti dovevano scontare la loro penitenza) non prendevano parte all'Eucarestia e dunque venivano congedati, dimessi prima della celebrazione Eucaristica, dopo la lettura delle Scritture. Con il tempo, e siamo già circa al III sec. si perfeziona "ite missa est", ossia dal "rendimento di grazie (gr. eukaristein) che avete ricevuto, l'assemblea è sciolta, è dimessa, per portare Cristo nel mondo" .

Così la spiega Benedetto XVI nella Sacramentum Caritatis:

Il congedo: « Ite, missa est »

51. Infine, vorrei soffermarmi su quanto i Padri sinodali hanno detto circa il saluto di congedo al termine della Celebrazione eucaristica. Dopo la benedizione, il diacono o il sacerdote congeda il popolo con le parole: Ite, missa est. In questo saluto ci è dato di cogliere il rapporto tra la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo. Nell'antichità « missa » significava semplicemente « dimissione ». Tuttavia essa ha trovato nell'uso cristiano un significato sempre più profondo. L'espressione « dimissione », in realtà, si trasforma in « missione ». Questo saluto esprime sinteticamente la natura missionaria della Chiesa. Pertanto, è bene aiutare il Popolo di Dio ad approfondire questa dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia. In questa prospettiva può essere utile disporre di testi, opportunamente approvati, per l'orazione sul popolo e la benedizione finale che esplicitino tale legame.(154)

***

Il termine "Eucaristia", tanto per restare in campo storico e culturale, designava quindi tre realtà:
la "conoscenza delle Scritture mediante l'ascolto della Parola";
la "condivisione delle offerte che i fedeli portavano o in danari o in vestiario o in cibo";
la "comunione" con  la preghiera eucaristica (altrimenti detta Canone).
La Messa, appunto, che si faceva la Domenica, ogni Domenica, mentre i presbiteri la facevano più volte durante la settimana,  insieme al vescovo a seconda delle necessità.
Presto la preghiera eucaristica, a partire all'incirca da Tertulliano (II sec.), verrà chiamata "sacrificiorum orationes", preghiere del/i sacrificio/i, ciò che poi venne chiamato “Canone”.

Vale la pena ora leggere come insegna la Chiesa attraverso il noto Catechismo:

IV. La celebrazione liturgica dell'Eucaristia
La Messa lungo i secoli

1345 Fin dal secondo secolo, abbiamo la testimonianza di san Giustino martire riguardo alle linee fondamentali dello svolgimento della celebrazione eucaristica. Esse sono rimaste invariate fino ai nostri giorni in tutte le grandi famiglie liturgiche.
Ecco ciò che egli scrive, verso il 155, per spiegare all'imperatore pagano Antonino Pio (138-161) ciò che fanno i cristiani:
« Nel giorno chiamato del sole ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne.
Si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei profeti, finché il tempo consente.
Poi quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi
buoni esempi.
Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere » 173 « sia per noi stessi [...] sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché, appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti, e di conseguire la salvezza eterna.
Finite le preghiere, ci salutiamo l'un l'altro con un bacio.
Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d'acqua e di vino temperato.
Egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell'universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie, per essere stati fatti degni da lui di questi doni.
Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: Amen.
Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l'acqua "eucaristizzati" e ne portano agli assenti ». 174

1346 La liturgia dell'Eucaristia si svolge secondo una struttura fondamentale che, attraverso i secoli, si è conservata fino a noi. Essa si articola in due grandi momenti, che formano un'unità originaria:
— la convocazione, la liturgia della Parola, con le letture, l'omelia e la preghiera universale;
— la liturgia eucaristica, con la presentazione del pane e del vino, l'azione di grazie consacratoria e la Comunione.
Liturgia della Parola e liturgia eucaristica costituiscono insieme « un solo atto di culto »; 175 la mensa preparata per noi nell'Eucaristia è infatti ad un tempo quella della Parola di Dio e quella del Corpo del Signore. 176

1347 Non si è forse svolta in questo modo la Cena pasquale di Gesù risorto con i suoi discepoli? Lungo il cammino spiegò loro le Scritture, poi, messosi a tavola con loro, « prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro » (Lc 24,30). 177

Lo svolgimento della celebrazione

1348 Tutti si riuniscono. I cristiani accorrono in uno stesso luogo per l'assemblea eucaristica. Li precede Cristo stesso, che è il protagonista principale dell'Eucaristia. È il Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza. È lui stesso che presiede in modo invisibile ogni celebrazione eucaristica. Proprio in quanto lo rappresenta, il Vescovo o il presbitero (agendo in persona Christi Capitis – nella persona di Cristo Capo) presiede l'assemblea, prende la parola dopo le letture, riceve le offerte e proclama la preghiera eucaristica. Tutti hanno la loro parte attiva nella celebrazione, ciascuno a suo modo: i lettori, coloro che presentano le offerte, coloro che distribuiscono la Comunione, e il popolo intero che manifesta la propria partecipazione attraverso l'Amen.

1349 La liturgia della Parola comprende « gli scritti dei profeti », cioè l'Antico Testamento, e « le memorie degli Apostoli », ossia le loro lettere e i Vangeli; all'omelia, che esorta ad accogliere questa parola come è veramente, quale Parola di Dio 178 e a metterla in pratica, seguono le intercessioni per tutti gli uomini, secondo la parola dell'Apostolo: « Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere » (1 Tm 2,1-2).

1350 La presentazione dei doni (l'offertorio): vengono recati poi all'altare, talvolta in processione, il pane e il vino che saranno offerti dal sacerdote in nome di Cristo nel sacrificio eucaristico, nel quale diventeranno il suo Corpo e il suo Sangue. È il gesto stesso di Cristo nell'ultima Cena, « quando prese il pane e il calice ». « Soltanto la Chiesa può offrire al Creatore questa oblazione pura, offrendogli con rendimento di grazie ciò che proviene dalla sua creazione ». 179 La presentazione dei doni all'altare assume il gesto di Melchisedek e pone i doni del Creatore nelle mani di Cristo. È lui che, nel proprio sacrificio, porta alla perfezione tutti i tentativi umani di offrire sacrifici.

1351 Fin dai primi tempi, i cristiani, insieme con il pane e con il vino per l'Eucaristia, presentano i loro doni perché siano condivisi con coloro che si trovano in necessità. Questa consuetudine della colletta, 180 sempre attuale, trae ispirazione dall'esempio di Cristo che si è fatto povero per arricchire noi: 181
« I facoltosi e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa; e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno ». 182

1352 L'anafora. Con la preghiera eucaristica, preghiera di rendimento di grazie e di consacrazione, arriviamo al cuore e al culmine della celebrazione:

Nel prefazio la Chiesa rende grazie al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo, per tutte le sue opere, per la creazione, la redenzione e la santificazione. In questo modo l'intera comunità si unisce alla lode incessante che la Chiesa celeste, gli angeli e tutti i santi cantano al Dio tre volte Santo.

1353 Nell'epiclesi essa prega il Padre di mandare il suo Santo Spirito (o la potenza della sua benedizione 183) sul pane e sul vino, affinché diventino, per la sua potenza, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo e perché coloro che partecipano all'Eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito (alcune tradizioni liturgiche situano l'epiclesi dopo l'anamnesi).

Nel racconto dell'istituzione l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte.

1354 Nell'anamnesi che segue, la Chiesa fa memoria della passione, della risurrezione e del ritorno glorioso di Gesù Cristo; essa presenta al Padre l'offerta di suo Figlio che ci riconcilia con lui.

Nelle intercessioni, la Chiesa manifesta che l'Eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa del cielo e della terra, dei vivi e dei defunti, e nella comunione con i Pastori della Chiesa, il Papa, il Vescovo della diocesi, il suo presbiterio e i suoi diaconi, e tutti i Vescovi del mondo con le loro Chiese.

1355 Nella Comunione, preceduta dalla preghiera del Signore e dalla frazione del pane, i fedeli ricevono « il pane del cielo » e « il calice della salvezza », il Corpo e il Sangue di Cristo che si è dato « per la vita del mondo » (Gv 6,51).
Poiché questo pane e questo vino sono stati « eucaristizzati », 184 come tradizionalmente si dice, « questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato ». 185
 
***
continua............ 

Caterina63
00giovedì 21 gennaio 2010 12:30

La Messa dunque….non è mai finita, tanto meno può dirsi “finita” a causa  delle varie Riforme che si sono succedute nel tempo poiché sempre la Chiesa, che è Mater et Magistra e cammina con i tempi, è in continua riforma. Disse così Giovanni Paolo II:
La Liturgia e la vita sono realtà indissociabili. Una Liturgia che non avesse un riflesso nella vita diventerebbe vuota e certamente non gradita a Dio.

3. La celebrazione liturgica è un atto della virtù di religione che, coerentemente con la sua natura, deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a Colui che è tre volte santo e trascendente. Di conseguenza l’atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali dinanzi al roveto ardente? Non nasceva forse da questa consapevolezza l’atteggiamento di Mosè e di Elia, che non osarono guardare Iddio facie ad faciem?
Il Popolo di Dio  ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale Romano, detto di San Pio V, come in diverse Liturgie orientali, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia.
La celebrazione liturgica presieduta dal sacerdote è un’assemblea orante, radunata nella fede e attenta alla Parola di Dio. Essa ha come scopo primario quello di presentare alla divina Maestà il Sacrificio vivo, puro e santo, offerto sul Calvario una volta per sempre dal Signore Gesù, che si fa presente ogni volta che la Chiesa celebra la Santa Messa per esprimere il culto dovuto a Dio in spirito e verità.
- «MESSAGGIO»  di Sua Santità Giovanni Paolo II all’Assemblea Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (21 settembre 2001)

Sant’Alfonso Maria de Liguori, il quale non potrà essere associato di certo ad una scelta tra il Vetus e il Novus Ordo, ebbe a scrivere ai sacerdoti sciatti quanto segue:

LA MESSA STRAPAZZATA

<< Non mai alcun sacerdote dirà la messa colla divozione dovuta, se non ha la stima che merita un tanto sacrificio. È certo che non può un uomo fare un'azione più sublime e più santa, che celebrare una messa: Nullum aliud opus, dice il concilio di Trento, adeo sanctum a Christi fidelibus tractari posse, quam hoc tremendum mysterium1. Dio stesso non può fare che vi sia nel mondo un'azione più grande, che del celebrarsi una messa.
 Tutti i sacrificj antichi, con cui fu tanto onorato Iddio, non furono che un'ombra e figura del nostro sacrificio dell'altare. Tutti gli onori che han dati giammai e daranno a Dio gli angeli co' loro ossequj, e gli uomini colle loro opere, penitenze e martiri, non han potuto né potranno giungere a dar tanta gloria al Signore, quanta glie ne dà una sola messa; mentre tutti gli onori delle creature sono onori finiti; ma l'onore che riceve Iddio nel sacrificio dell'altare, venendogli ivi offerta una vittima d'infinito valore, è un onore infinito. La messa dunque è un'azione che reca a Dio il maggior onore che può darsegli: è l'opera che più abbatte le forze dell'inferno; che apporta maggior suffragio all'anime del purgatorio; che maggiormente placa l'ira divina contro i peccatori, e che apporta maggior bene agli uomini in questa terra.>>

Non è mai finita la Messa, piuttosto sono venute meno certe “regole” (le famose NORME Ecclesiali) non perché “qualcuno” le abbia tolte, ma semplicemente perché “qualcuno” ha pensato bene (magari anche in buona fede, ma illudendosi) di usare la propria creatività per cercare di rendere SVELABILE IL MISTERO DELLA MESSA…. Si! La Messa contiene un MISTERO che NON è possibile svelare, non perché non lo si voglia  svelare, ma perché è impossibile essendo l’Eucarestia non solo il Mistero dei Misteri, ma anche il prodigio più grande, unico e soprattutto che si perpetua per mezzo delle parole e della promessa di Gesù nostro Signore! Se la Messa fosse spiegabile fin dentro il mistero che la compone, allora non sarebbe più un dono di Dio, ma bensì una CREAZIONE umana, infatti ciò che l’uomo crea ed inventa può e deve essere spiegabile, al contrario ciò che riguarda Dio è la ragione stessa che conduce ad ACCOGLIERE IL MISTERO stesso di questo rapporto fra il mondo materiale e quello soprannaturale….

Dice san Paolo nella 1Cor. 13

9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.
13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!

E poco prima, al capitolo 4 della medesima Lettera, san Paolo dice:
1 Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. 2 Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele.

Dunque vi è una richiesta indiscutibile: “ognuno risulti fede”  e di considerare gli Apostoli “Ministri di Cristo e amministratori dei MISTERI di Dio”….


La Messa è pertanto è quell’Ufficio Divino e Sacro nella quale sono contenuti i misteri e il Mistero per eccellenza, per questo la Messa NON, in tema dottrinale, può essere fatta oggetto di modifiche da nessuno, neppure dal Papa, diverso è parlare di Riforma per rendere la MEDESIMA DOTTRINA che si è ricevuta, più comprensibile.

Dice infatti la Sacrosanctum Concilium:

L'ordinamento liturgico compete alla gerarchia

22.
1. Regolare la sacra liturgia compete unicamente all'autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo.
2. In base ai poteri concessi dal diritto, regolare la liturgia spetta, entro limiti determinati, anche alle competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite.
3. Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica.

Dice infatti ancora san Paolo:

"Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Ciascuno, pertanto - ammonisce Paolo - esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna" (1Cor 11,26. 28-29). Però chi riconosce il corpo del Signore, questo Corpo… sarà a sua volta riconosciuto dal Signore come suo amico, e come tale sarà presentato al Padre che saprà onorarlo come a Lui conviene. Così come se colui che riconoscendo questo Corpo lo prenderà in modo INDEGNO, ne subirà le conseguenze perché Dio se è vero che è misericordioso è anche vero che è giusto Giudice e per questo ci ha donato con l’Eucarestia il Sacramento della RICONCILIAZIONE…
 
Tito 1:5-6
5 Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato

…la Messa non è mai finita…. Né “era” finita come dicono coloro che hanno creduto, illudendosi,  di SVELARE LA MESSA per tentare di”comprenderla” meglio…. Non era questa l’intenzione del Concilio! Vaticano II quando si parlò di “Riforma”.

Il Concilio cercò solamente di rendere la Messa più “partecipativa”  ossia, aiutare i fedeli a ritrovarsi in quella offerta unitamente al Sacrificio di Cristo per mezzo del Presbitero, nulla di più.

Scrive così Benedetto XVI nel MP Summorum Pontificum nella Lettera ai Vescovi che lo accompagna:

<< Al riguardo bisogna innanzitutto dire che il Messale, pubblicato da Paolo VI e poi riedito in due ulteriori edizioni da Giovanni Paolo II, ovviamente è e rimane la forma normale – la forma ordinaria – della Liturgia Eucaristica. L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà, invece, essere usata come forma extraordinaria della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero "due Riti". Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito.

Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso. Al momento dell’introduzione del nuovo Messale, non è sembrato necessario di emanare norme proprie per l’uso possibile del Messale anteriore. Probabilmente si è supposto che si sarebbe trattato di pochi casi singoli che si sarebbero risolti, caso per caso, sul posto. Dopo, però, si è presto dimostrato che non pochi rimanevano fortemente legati a questo uso del Rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro diventato familiare. Ciò avvenne, innanzitutto, nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la forma anteriore della Celebrazione liturgica.
 
Tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità. Molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa.>>

Benedetto XVI dice: Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo … E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa ….. molti di noi possono dire queste  frasi, usare la medesima espressione, molti l’hanno detto ma venivano “messi da parte” venivano guardati male, definiti con disprezzo “lefebvriani-tradizionalisti” … a questo stillicidio si associa appunto lo slogan “ma quella Messa ERA FINITA, era superata, era vecchia….” Oggi altri dicono, perché erroneamente si soffermano sulle deformazioni e creatività sottolineate dal Papa, “la Messa è finita” scuotendo il capo in senso di profondo dolore…

Nell’uno né l’altro, la Messa è più viva che mai e Benedetto XVI ce lo sta dimostrando!

Inoltre è in uscita  il libro di mons. Nicola Bux (di recente nominato dal Santo Padre nel gruppo che si occupa delle Cerimonie Liturgiche del Pontefice con a capo mons. Guido Marini) “La Riforma di Benedetto XVI” ,  - quello che papa Ratzinger vuol fare nella sua paziente opera di riforma è rinnovare la vita del cristiano – i gesti, le parole, il tempo del quotidiano – restaurando nella liturgia un sapiente equilibrio tra innovazione e tradizione. Facendo con ciò emergere l’immagine di una Chiesa sempre in cammino, capace di riflettere su se stessa e di valorizzare i tesori di cui è ricco il suo scrigno millenario - .

La Messa non è dunque finita, ma è un congedo da ciò che abbiamo appreso per mezzo della Parola udita e da ciò che abbiamo preso, attraverso la Santa Eucarestia, per portarlo nel mondo, per viverlo noi stessi e donarlo a nostra volta al nostro Prossimo.

 È tradizione che Beith-el , la casa di Dio, la pietra eretta da Giacobbe (cf Gen 28,17-19), sia divenuta Beith-lehem, la casa del pane, Betlemme.

Per la nascita del Messia, la casa di pietra è trasformata in casa del pane (e del pane eucaristico), non di un pane materiale ma spirituale; e questo contro il tentatore di ogni tempo. Gesù non si rifiutò di moltiplicare il pane materiale, però respinse sempre, senza esitazione, ogni tentativo di trasformare la comunità dei credenti in una società di beneficenza, e non era questa la sua intenzione quando istituì l’Eucarestia ampiamente spiegata in Giovanni cap.6; Gesù spezzò il pane, perché egli per primo si lasciò spezzare dalla nostra miseria. Si legge (una citazione del Vangelo tra le molte possibili) che, "essendoci molta folla che non aveva da mangiare, Gesù chiamò a sé i discepoli e disse loro: "Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi sta dietro e non ha da mangiare. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono da lontano"" (Mc 8,1-3). È questa compassione, vera partecipazione alla nostra sofferenza, che gli fa moltiplicare il pane e diventa LUI stesso NUTRIMENTO nell’Eucarestia. Si direbbe che per spezzare il pane, secondo lo stile e lo spirito di Gesù, è necessario lasciarsi prima spezzare il cuore da chi è nell'indigenza, ossia, provare anche noi quella com-passione che spinse Gesù a diventare EUCARESTIA=GRAZIA per noi.

continua.................

Caterina63
00giovedì 21 gennaio 2010 12:31

La Messa è perciò la PARTECIPAZIONE di questa folla per la quale Gesù prova com-passione.
 

La Riforma in sé, dunque, non ha modificato affatto l’assetto della Messa, è stata piuttosto la sua applicazione (come appunto denuncia spesso lo stesso Pontefice e Giovanni Paolo II prima di lui nella Ecclesia de Eucharestia) a spezzare con la Tradizione, lasciandosi andare alla creatività, all’abusivismo, alla disobbedienza delle Norme e peggio ancora, per tentare di SPIEGARE IL MISTERO CONTENUTO NELLA MESSA: Ciascuno, pertanto - ammonisce Paolo - esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna" (1Cor 11,26. 28-29).

Riconoscere questo “Corpo” non significa “svelarlo” o modificare l’essenza della Messa per renderla più “comprensibile”, San Tommaso d’Aquino, il cantore dell’Eucarestia parla di FEDE: l’Eucarestia può essere capita e “vista” solo attraverso l’umiltà e la fede anzi, dice il Dottore angelico, l’Eucarestia sviluppa il settimo senso, quello della FEDE, quello del soprannaturale e non a caso il Vetus Ordo Miassae che si è sempre celebrato, ha sempre generato Santi e Sante, Dottori, e Martiri, Beati ed ha sempre dato la spinta a molte persone di dare origine a fondazioni di opere di Carità, sostegno ai poveri, alle vedove e a gli orfani. Non a caso l’epoca in cui si perfezionò e si affermò il Rito detto san Pio V, fu una delle epoche più ricche e rigogliose di vita devota, sia religiosa quanto laica. Questo non vuol dire che il Novus Ordo non abbia portato o non porti frutti di santità, al contrario, anch’esso proprio perché non proviene da una invenzione umana ma semplicemente da una Riforma, tale Novus Ordo è indissolubile dal Vetus, sono entrambi inseparabili dalla Messa, il dramma è semmai nell'aver tentato di sbarazzarsi del Vetus, di abolirlo, eliminarlo, minando così la credibilità e la stabilità dello stesso NOM il quale, senza il VOM non avrebbe radici, non avrebbe Tradizione....

Dice giustamente Benedetto XVI nella Lettera che accompagna il Summorum Pontificum:

<< Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero "due Riti". Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito.>>

Così ci ricorda sant’Ambrogio quando, nel commento al Padre nostro, applica all’Eucaristia la richiesta "Dacci oggi il nostro pane quotidiano": "Se il pane è quotidiano, perché lo riceveresti dopo un anno...? Ricevi ogni giorno ciò che ti deve giovare ogni giorno! Vivi in modo tale da meritare di riceverlo ogni giorno. Chi non merita di riceverlo ogni giorno, neppure merita di riceverlo dopo un anno... Dunque, tu senti dire che ogni volta che viene offerto il sacrificio, viene annunziata tramite segno la morte del Signore, la risurrezione del Signore, l’ascensione del Signore e la remissione dei peccati; e poi non ricevi ogni giorno questo pane di vita? Chi ha una ferita, cerca la medicina. La ferita è che siamo sotto il peccato; la medicina è il celeste e venerabile sacramento" (De sacramentis 5,25).

Riguardo dunque agli abusi  di coloro che strumentalizzando la Riforma modificando la Messa, dandogli significati interrotti dalla Tradizione ed inseriti in una nuova tradizione come ad esempio le catechesi sulla Messa del Cammino Neocatecumenale (un esempio fra i tanti perché è l’unico gruppo cattolico che abbia modificato la Messa a tal punto da  aver modificato anche l’assetto di alcune Chiese eliminando il Presbiterio e cambiando l’Altare… dando origine ad una nuova tradizione culturale della Messa apparecchiando l’altare in modo NUOVO E DIVERSO dalla Tradizione) nelle quali il fine e lo scopo della Messa non appartengono alla Tradizione che abbiamo ricevuto, risponde Benedetto XVI senza mezzi termini che dice nella Lettera ai Vescovi che accompagna la Summorum Pontificum:

<< La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale.>>

…… in conformità alle prescrizioni … la Messa NON è finita, è venuta meno l’obbedienza a queste prescrizioni, si è arrivati fin anche a cambiarle abusivamente il termine con: LA CENA DEL SIGNORE per modificare la Tradizione che ci riporta invece AL SENSO DEL SACRIFICIO e non semplicemente al banchetto. Se è vero che l’uno NON esclude l’altro, anzi sono COMPLEMENTARI E INDIVISIBILI, INDISSOCIABILI, in molte catechesi non cattoliche si è data invece maggior enfasi al banchetto nascondendo il senso del Sacrificio…. si sono fatte liturgie omettendo queste prescrizioni ed inserendone di nuove, distaccandosi così (forse anche in buona fede) dalle vere intenzioni della Riforma, dando origine ad una nuova tradizione che “aiuti a spiegare meglio la Messa” … La sparizione degli inginocchiatoi ha fatto venire meno quella riverenza dovuta, tanto per fare un altro esempio….


Al momento io ripeto le parole del cardinale Arinze nella sua Lettera del dicembre 2005 ancora in vigore perchè nessuno prelato l'ha ritenuta superata, rivolta al noto CN, e che dice:

5. Sul modo di ricevere la Santa Comunione, si dà al Cammino Neocatecumenale un tempo di transizione (non più di due anni) per passare dal modo invalso nelle sue comunità di ricevere la Santa Comunione (seduti, uso di una mensa addobbata posta al centro della chiesa invece dell’altare dedicato in presbiterio) al modo normale per tutta la Chiesa di ricevere la Santa Comunione. Ciò significa che il Cammino Neocatecumenale deve camminare verso il modo previsto nei libri liturgici per la distribuzione del Corpo e del Sangue di Cristo. 

Disatteso richiamo, mentre il Papa invita il Cammino ancora nel 10.1.2009 a GUARDARE ROMA COME MODELLO E A SEGUIRE LE DIRETTIVE DELLA SANTA SEDE...

la Lettera del cardinale Arinze è UFFICIALE ufficializzata dallo stesso Pontefice

PAROLE DI BENEDETTO XVI DOPO LA LETTERA: 12.1.2006

Proprio per aiutare il Cammino Neocatecumenale a rendere ancor più incisiva la propria azione evangelizzatrice in comunione con tutto il Popolo di Dio, di recente la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti vi ha impartito a mio nome alcune norme concernenti la Celebrazione eucaristica, dopo il periodo di esperienza che aveva concesso il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Sono certo che queste norme, che riprendono quanto è previsto nei libri liturgici approvati dalla Chiesa, saranno da voi attentamente osservate. Grazie all'adesione fedele ad ogni direttiva della Chiesa, voi renderete ancor più efficace il vostro apostolato in sintonia e comunione piena con il Papa e i Pastori di ogni Diocesi. E così facendo il Signore continuerà a benedirvi con abbondanti frutti pastorali.



ergo il CN fino a quando non obbedirà alle richieste del Pontefice celebra una messa con dei modi "fantozziani" perchè non corrispondenti alle richieste del Pontefice...
Ma questo attenzione riguarda TUTTI....

Il Santo Padre, nell'inviare una Lettera al cardinale Josef Cordes per i suoi 75 anni, il 17.12.2009. ha elegiato la sua intuizione in favore dei Movimenti, citandone tre per la precisione:

il Movimento Carismatico del Rinnovamento, Comunione e Liberazione e il Cammino Neocatecumenale...

Ma attenzione, il Papa aggiunge queste parole:

"Certo, questi Movimenti devono essere ordinati e ricondotti all'interno della totalità...devono imparare a riconoscere i loro limiti e a diventare parte della realtà comunitaria della Chiesa nella sua costituzione propria, insieme con il Papa e i Vescovi.
Hanno pertanto bisogno di guida e anche di purificazione per poter raggiungere la forma della loro vera maturità
"

Le parole del Santo Padre sono chiarissime: nel mentre siamo invitati ad ACCOGLIERE questi Movimenti (il Papa li chiama MOVIMENTI) con la carità della Verità che è il riconoscimento per vederci davvero come Fratelli e Sorelle, dall'altra parte Benedetto XVI riepiloga un pò (in modo del tutto meraviglioso e certamente migliore) il fine e lo scopo di questo thread...offre anche a noi UNA GUIDA....

Egli infatti riconosce I PROBLEMI che rendono questi Movimenti soggetti ad una IMPERFEZIONE per la quale, dice il Pontefice, " hanno bisogno di una guida e anche di purificazione"....

Il Cammino Neocatecumenale pertanto, come gli altri due Movimenti citati CL e RnS ricorda il Pontefice necessitano di essere "ORDINATI E RICONDOTTI" alla totalità....leggiamo con attenzione, il Papa non dice "condotti", ma RI-CONDOTTI....

Chi ama davvero il Papa, lo ascolta e fa di tutto per applicare quanto da Lui richiesto, fa di tutto per favorire ogni PURIFICAZIONE, fa di tutto per evitare ogni divisione...

La Messa non si “spiega” nel senso comune del termine, piuttosto per lei e in lei CI SI PIEGA …. Si può trasmettere quello che abbiamo ricevuto aiutando alla COM-PRENSIONE del Rito e dei segni, dice infatti Benedetto XVI nella Sacramentum Caritatis:

40. L'attenzione e l'obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell'Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono.

41. Il legame profondo tra la bellezza e la liturgia deve farci considerare con attenzione tutte le espressioni artistiche poste al servizio della celebrazione.(122) Una componente importante dell'arte sacra è certamente l'architettura delle chiese,(123) nelle quali deve risaltare l'unità tra gli elementi propri del presbiterio: altare, crocifisso, tabernacolo, ambone, sede.

Catechesi mistagogica

64. La grande tradizione liturgica della Chiesa ci insegna che, per una fruttuosa partecipazione, è necessario impegnarsi a corrispondere personalmente al mistero che viene celebrato, mediante l'offerta a Dio della propria vita, in unità con il sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo intero. Per questo motivo, il Sinodo dei Vescovi ha raccomandato di curare nei fedeli l'intima concordanza delle disposizioni interiori con i gesti e le parole. Se questa mancasse, le nostre celebrazioni, per quanto animate, rischierebbero la deriva del ritualismo. Pertanto occorre promuovere un'educazione alla fede eucaristica che disponga i fedeli a vivere personalmente quanto viene celebrato. Di fronte all'importanza essenziale di questa participatio personale e consapevole, quali possono essere gli strumenti formativi adeguati? I Padri sinodali all'unanimità hanno indicato, al riguardo, la strada di una catechesi a carattere mistagogico, che porti i fedeli a addentrarsi sempre meglio nei misteri che vengono celebrati.(186)

In particolare, per la relazione tra ars celebrandi e actuosa participatio si deve innanzitutto affermare che « la migliore catechesi sull'Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata ».(187) Per natura sua, infatti, la liturgia ha una sua efficacia pedagogica nell'introdurre i fedeli alla conoscenza del mistero celebrato. Proprio per questo, nella tradizione più antica della Chiesa il cammino formativo del cristiano, pur senza trascurare l'intelligenza sistematica dei contenuti della fede, assumeva sempre un carattere esperienziale in cui determinante era l'incontro vivo e persuasivo con Cristo annunciato da autentici testimoni. In questo senso, colui che introduce ai misteri è innanzitutto il testimone. Tale incontro certamente si approfondisce nella catechesi e trova la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione dell'Eucaristia. Da questa struttura fondamentale dell'esperienza cristiana prende le mosse l'esigenza di un itinerario mistagogico, in cui devono sempre essere tenuti presenti tre elementi.

a) Si tratta innanzitutto della interpretazione dei riti alla luce degli eventi salvifici, in conformità con la tradizione viva della Chiesa. In effetti, la celebrazione dell'Eucaristia, nella sua infinita ricchezza, contiene continui riferimenti alla storia della salvezza. In Cristo crocifisso e risorto ci è dato di celebrare davvero il centro ricapitolatore di tutta la realtà (cfr Ef 1,10). Fin dall'inizio la comunità cristiana ha letto gli avvenimenti della vita di Gesù, ed in particolare del mistero pasquale, in relazione a tutto il percorso veterotestamentario.

b) La catechesi mistagogica si dovrà preoccupare, inoltre, di introdurre al senso dei segni contenuti nei riti. Questo compito è particolarmente urgente in un'epoca fortemente tecnicizzata come l'attuale, in cui c'è il rischio di perdere la capacità percettiva in relazione ai segni e ai simboli. Più che informare, la catechesi mistagogica dovrà risvegliare ed educare la sensibilità dei fedeli per il linguaggio dei segni e dei gesti che, uniti alla parola, costituiscono il rito.

c) Infine, la catechesi mistagogica deve preoccuparsi di mostrare il significato dei riti in relazione alla vita cristiana in tutte le sue dimensioni, di lavoro e di impegno, di pensieri e di affetti, di attività e di riposo. È parte dell'itinerario mistagogico porre in evidenza il nesso dei misteri celebrati nel rito con la responsabilità missionaria dei fedeli. In tal senso, l'esito maturo della mistagogia è la consapevolezza che la propria esistenza viene progressivamente trasformata dai santi Misteri celebrati. Scopo di tutta l'educazione cristiana, del resto, è di formare il fedele, come « uomo nuovo », ad una fede adulta, che lo renda capace di testimoniare nel proprio ambiente la speranza cristiana da cui è animato.

Per poter svolgere all'interno delle nostre comunità ecclesiali un tale compito educativo occorre avere formatori adeguatamente preparati. Certamente tutto il Popolo di Dio deve sentirsi impegnato in questa formazione. Ogni comunità cristiana è chiamata ad essere luogo di introduzione pedagogica ai misteri che si celebrano nella fede. A questo riguardo, i Padri durante il Sinodo hanno sottolineato l'opportunità di un maggior coinvolgimento delle Comunità di vita consacrata, dei movimenti e delle aggregazioni che, in forza dei loro propri carismi, possono arrecare nuovo slancio alla formazione cristiana.(188) Anche nel nostro tempo lo Spirito Santo non lesina certo l'effusione dei suoi doni per sostenere la missione apostolica della Chiesa, a cui spetta di diffondere la fede e di educarla fino alla sua maturità.(189)

Unirsi a Gesù Eucaristia

PREGHIERA DI OGNI GIORNO

O Gesù, io ti credo presente in tutte le chiese del mondo, dove t’immoli Vittima al Padre per noi, e vi rimani come nostro Cibo e nostro Ospite divino.

In questo tuo stato di offerta, Gesù, ti vedo corrisposto con tanta indifferenza e ingratitudine, che desidero risarcire con la mia riparazione di amore.

A tale scopo, Gesù, mi unisco alla tua Messa, ti ricevo nel mio cuore, e con te voglio trascorrere questo giorno inserendo le mie continue azioni nel tuo ininterrotto Sacrificio.

O Maria, con la tua ispirazione materna, previeni e accompagna tutte le mie azioni affinché, presentate sulle tue mani, siano pure e accette al momento del Sacrificio santo e immacolato del tuo Gesù.

Amen.

La Messa NON finirà dunque, fino quando resterà un Tabernacolo ed un Sacerdote legittimamente Ordinato!

Ma viene spontaneo chiederci: ci sono ancora Tabernacoli nelle nostre Chiese? E se ci sono, come vengono trattati?

Senza ripercorrere tutta la storia sul Tabernacolo che qui sarebbe lunga, concentriamoci sull’insegnamento della Chiesa che ci lega alla Tradizione.

L'Eucaristia non è solo l'Assemblea
L'Eucaristia non è solo la lettura della Parola
L'Eucaristia non è solo la Comunione
L'Eucaristia è il Sacrificio della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo che viene reso presente e attuale sull'altare
( dal Catechismo della Chiesa Cattolica n.1362, 1364, 1366 ).

L'errore più comune che si fa da dopo il Concilio, in termini dottrinali, è quello di dire che la Messa E' IL MEMORIALE DELL'ULTIMA CENA.... nulla di ciò è più devastante e deteleterio, ambiguo perchè non è vero! La Messa NON è la ripetizione dell'Ultima Cena ma è il MEMORIALE DELLA CROCIFISSIONE E' IL CALVARIO!
Nell'Ultima Cena Gesù istituisce il Sacerdozio e pone le basi alla Messa, ma il compimento del Memoriale è il Calvario
. Non a caso parliamo di un CUORE Eucaristico, il banchetto viene dopo ossia, ci uniamo a questa Mensa dove Gesù dopo il Calvario, si offre a noi nel Cibo di salvezza. Infatti l'Eucarestia è detta anche "viatico" ossia, accompagna il morente nel compimento salvifico, l'Eucarestia è cibo di salvezza (cfrGv.6) e non una semplice comunione fra amici!

Dunque l’Eucarestia è anche ADORAZIONE, SILENZIO, MEDITAZIONE, CONTEMPLAZIONE è per tanto a nostra disposizione per essere Adorato, ascoltato, meditato, contemplato ….
E questo è possibile solo davanti al Tabernacolo o quando Gesù viene esposto in forma solenne nell’Ostensorio…. A tal proposito suggerisco di leggere le Omelie dei Pontefici (almeno recenti) durante la Processione del Corpus Domini!

Lasciamoci istruire dalle parole di Benedetto XVI tratte dalla Sacramentum Caritatis:

66. Uno dei momenti più intensi del Sinodo è stato quando ci siamo recati nella Basilica di San Pietro, insieme a tanti fedeli per l'adorazione eucaristica. Con tale gesto di preghiera, l'Assemblea dei Vescovi ha inteso richiamare l'attenzione, non solo con le parole, sull'importanza della relazione intrinseca tra Celebrazione eucaristica e adorazione. In questo significativo aspetto della fede della Chiesa si trova uno degli elementi decisivi del cammino ecclesiale, compiuto dopo il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II. Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l'intrinseco rapporto tra la santa Messa e l'adorazione del Ss.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un'obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato.
In realtà, alla luce dell'esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: « nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo ».(191)

Nell'Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l'adorazione eucaristica non è che l'ovvio sviluppo della Celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d'adorazione della Chiesa.(192) Ricevere l'Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste. L'atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto s'è fatto nella Celebrazione liturgica stessa. Infatti, « soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri ».(193)

La pratica dell'adorazione eucaristica

67. Insieme all'Assemblea sinodale, pertanto, raccomando vivamente ai Pastori della Chiesa e al Popolo di Dio la pratica dell'adorazione eucaristica, sia personale che comunitaria.(194) A questo proposito, di grande giovamento sarà un'adeguata catechesi in cui si spieghi ai fedeli l'importanza di questo atto di culto che permette di vivere più profondamente e con maggiore frutto la stessa Celebrazione liturgica. Nel limite del possibile, poi, soprattutto nei centri più popolosi, converrà individuare chiese od oratori da riservare appositamente all'adorazione perpetua. Inoltre, raccomando che nella formazione catechistica, ed in particolare negli itinerari di preparazione alla Prima Comunione, si introducano i fanciulli al senso e alla bellezza di sostare in compagnia di Gesù, coltivando lo stupore per la sua presenza nell'Eucaristia.
Vorrei qui esprimere ammirazione e sostegno a tutti quegli Istituti di vita consacrata i cui membri dedicano una parte significativa del loro tempo all'adorazione eucaristica. In tal modo essi offrono a tutti l'esempio di persone che si lasciano plasmare dalla presenza reale del Signore. Desidero ugualmente incoraggiare quelle associazioni di fedeli, come anche le Confraternite, che assumono questa pratica come loro speciale impegno, diventando così fermento di contemplazione per tutta la Chiesa e richiamo alla centralità di Cristo per la vita dei singoli e delle comunità.

Forme di devozione eucaristica

68. Il rapporto personale che il singolo fedele instaura con Gesù, presente nell'Eucaristia, lo rimanda sempre all'insieme della comunione ecclesiale, alimentando in lui la consapevolezza della sua appartenenza al Corpo di Cristo. Per questo, oltre ad invitare i singoli fedeli a trovare personalmente del tempo da trascorrere in preghiera davanti al Sacramento dell'altare, ritengo doveroso sollecitare le stesse parrocchie e gli altri gruppi ecclesiali a promuovere momenti di adorazione comunitaria. Ovviamente, conservano tutto il loro valore le già esistenti forme di devozione eucaristica. Penso, ad esempio, alle processioni eucaristiche, soprattutto alla tradizionale processione nella solennità del Corpus Domini, alla pia pratica delle Quarant'ore, ai Congressi eucaristici locali, nazionali e internazionali, e alle altre iniziative analoghe. Opportunamente aggiornate e adattate alle circostanze diverse, tali forme di devozione meritano di essere anche oggi coltivate.(195)

Il luogo del tabernacolo nella chiesa

69. In relazione all'importanza della custodia eucaristica e dell'adorazione e riverenza nei confronti del sacramento del Sacrificio di Cristo, il Sinodo dei Vescovi si è interrogato riguardo all'adeguata collocazione del tabernacolo all'interno delle nostre chiese.(196) La sua corretta posizione, infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento. È necessario pertanto che il luogo in cui vengono conservate le specie eucaristiche sia facilmente individuabile, grazie anche alla lampada perenne, da chiunque entri in chiesa. A tale fine, occorre tenere conto della disposizione architettonica dell'edificio sacro: nelle chiese in cui non esiste la cappella del Santissimo Sacramento e permane l'altare maggiore con il tabernacolo, è opportuno continuare ad avvalersi di tale struttura per la conservazione ed adorazione dell'Eucaristia, evitando di collocarvi innanzi la sede del celebrante.

Nelle nuove chiese è bene predisporre la cappella del Santissimo in prossimità del presbiterio; ove ciò non sia possibile, è preferibile situare il tabernacolo nel presbiterio, in luogo sufficientemente elevato, al centro della zona absidale, oppure in altro punto ove sia ugualmente ben visibile. Tali accorgimenti concorrono a conferire dignità al tabernacolo, che deve sempre essere curato anche sotto il profilo artistico. Ovviamente è necessario tener conto di quanto afferma in proposito l'Ordinamento Generale del Messale Romano.(197) Il giudizio ultimo su questa materia spetta comunque al Vescovo diocesano.

***

Di proposito non ho voluto aggiungere, né aggiungerò nulla, alle parole del Santo Padre perché un altro danno che abbiamo fatto è stato quello di INTERPRETARE anche il Magistero Pontificio a seconda delle nostre necessità …  Come abbiamo letto, invece, le parole del Papa sono chiarissime e non necessitano di interpretazioni, tanto meno di “aggiustamenti” per giustificare magari dei personali dissensi o avvalorare personali interpretazioni liturgiche.

Una cosa va spiegata invece:
quando il Papa dice “spetta al Vescovo diocesano” è ovvio che anche il Vescovo deve attenersi all’obbedienza delle Norme stabilite dalla Chiesa, ossia, in queste decisioni che spetta Lui prendere, non sono contemplate iniziative che non sono in comunione con TUTTA la Chiesa.
Le stesse “concessioni” che un Vescovo diocesano può dare in determinati casi, devono tenere conto della Tradizione ed in comunione con la Sede Apostolica.

Infine diamo uno sguardo al PRECETTO DELLA DOMENICA…. Sempre attraverso la Sacramentum Caritatis

« Iuxta dominicam viventes » – Vivere secondo la domenica

72. Questa radicale novità che l'Eucaristia introduce nella vita dell'uomo si è rivelata alla coscienza cristiana fin dall'inizio. I fedeli hanno subito percepito il profondo influsso che la Celebrazione eucaristica esercitava sullo stile della loro vita. Sant'Ignazio di Antiochia esprimeva questa verità qualificando i cristiani come « coloro che sono giunti alla nuova speranza », e li presentava come coloro che vivono « secondo la domenica » (iuxta dominicam viventes).(204) Questa formula del grande martire antiocheno mette chiaramente in luce il nesso tra la realtà eucaristica e l'esistenza cristiana nella sua quotidianità. La consuetudine caratteristica dei cristiani di riunirsi nel primo giorno dopo il sabato per celebrare la risurrezione di Cristo – secondo il racconto di san Giustino martire(205) – è anche il dato che definisce la forma dell'esistenza rinnovata dall'incontro con Cristo.
 
La formula di sant'Ignazio – « Vivere secondo la domenica » – sottolinea pure il valore paradigmatico che questo giorno santo possiede per ogni altro giorno della settimana. Esso, infatti, non si distingue in base alla semplice sospensione delle attività solite, come una sorta di parentesi all'interno del ritmo usuale dei giorni. I cristiani hanno sempre sentito questo giorno come il primo della settimana, perché in esso si fa memoria della radicale novità portata da Cristo. Pertanto, la domenica è il giorno in cui il cristiano ritrova quella forma eucaristica della sua esistenza secondo la quale è chiamato a vivere costantemente. « Vivere secondo la domenica » vuol dire vivere nella consapevolezza della liberazione portata da Cristo e svolgere la propria esistenza come offerta di se stessi a Dio, perché la sua vittoria si manifesti pienamente a tutti gli uomini attraverso una condotta intimamente rinnovata.

Vivere il precetto festivo

73. I Padri sinodali, consapevoli di questo principio nuovo di vita che l'Eucaristia pone nel cristiano, hanno ribadito l'importanza per tutti i fedeli del precetto domenicale come fonte di libertà autentica, per poter vivere ogni altro giorno secondo quanto hanno celebrato nel « giorno del Signore ». La vita di fede, infatti, è in pericolo quando non si avverte più il desiderio di partecipare alla Celebrazione eucaristica in cui si fa memoria della vittoria pasquale. Partecipare all'assemblea liturgica domenicale, insieme a tutti i fratelli e le sorelle con i quali si forma un solo corpo in Cristo Gesù, è richiesto dalla coscienza cristiana e al tempo stesso forma la coscienza cristiana. Smarrire il senso della domenica come giorno del Signore da santificare è sintomo di una perdita del senso autentico della libertà cristiana, la libertà dei figli di Dio (206). Rimangono preziose, a questo riguardo, le osservazioni fatte dal mio venerato predecessore, Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Dies Domini (207), a proposito delle diverse dimensioni della domenica per i cristiani: essa è Dies Domini, in riferimento all'opera della creazione; Dies Christi in quanto giorno della nuova creazione e del dono che il Signore Risorto fa dello Spirito Santo; Dies Ecclesiae come giorno in cui la comunità cristiana si ritrova per la celebrazione; Dies hominis come giorno di gioia, riposo e carità fraterna.

Un tale giorno, pertanto, si manifesta come festa primordiale, nella quale ogni fedele, nell'ambiente in cui vive, può farsi annunziatore e custode del senso del tempo. Da questo giorno, in effetti, scaturisce il senso cristiano dell'esistenza ed un nuovo modo di vivere il tempo, le relazioni, il lavoro, la vita e la morte. È bene, dunque, che nel giorno del Signore le realtà ecclesiali organizzino, intorno alla Celebrazione eucaristica domenicale, manifestazioni proprie della comunità cristiana: incontri amichevoli, iniziative per la formazione nella fede di bambini, giovani e adulti, pellegrinaggi, opere di carità e momenti diversi di preghiera. A motivo di questi valori così importanti – per quanto giustamente il sabato sera sin dai Primi Vespri appartenga già alla Domenica e sia permesso adempiere in esso al precetto domenicale – è necessario rammentare che è la domenica in se stessa che merita di essere santificata, perché non finisca per risultare un giorno « vuoto di Dio ».(208)

***

Appare evidente così che le catechesi riguardanti la Domenica hanno la precedenza ASSOLUTA, la concessione che viene fatta della Messa al Sabato sera non può costituire la catechesi PRINCIPALE di nessun gruppo che voglia definirsi cattolico….

La Messa NON è finita! La Messa è più viva che mai e ci spinge ad impegnarci concretamente nelle Promesse Battesimali, nell’adempimento della Parola ASCOLTATA, nella missione resa forte dall’Eucarestia appena adorata e ricevuta, nell’obbedienza alla Professione di Fede pronunciata nel Credo, fino all’umile servizio nell’accogliere quanto abbiamo ricevuto dalla Tradizione e nel donarlo a nostra volta senza nulla aggiungere, né togliere, ma nella costante applicazione delle prescrizioni ricevute per donare a noi stessi e al prossimo la Verità!

Fraternamente CaterinaLD

Caterina63
00martedì 16 novembre 2010 21:09
 Si ringrazia  il Blog: Sacris Solemniis




Come servire la Santa Messa nella Forma Ordinaria del Rito Romano: parte I


Questa serie di articoli è dedicata a tutti quei ragazzi e fanciulli che hanno desiderio di imparare a Servire Messa nella maniera più corretta e dignitosa possibile. Nel mio intento vuole essere un aiuto a tutti quei chierichetti che fanno ancora fatica a destreggiarsi tra messali e ampolline.


Caro chierichetto: innanzitutto è buona norma che tu arrivi in chiesa per tempo, vale a dire mezz’ora prima dell’inizio della celebrazione.

Per prima cosa ti rivestirai della talare e della cotta; oppure della veste bianca o della tarcisiana se nella tua chiesa vige quest’uso. È altresì conveniente fare il segno di croce prima di indossare le vesti, accompagnando quest’atto con una breve preghiera

 

Indue me, Dómine, novum hóminem, qui secúndum Deum creátus
est in iustítia et sanctitáte veritátis.


Rivestimi, Signore, dell'uomo nuovo che è stato creato secondo Dio
nella giustizia e nella santità della verità.


Dopo di ciò raccogliti in silenzio a pregare e a prepararti per l’alto compito a cui sei chiamato.

Prima della Messa, quando il Sacerdote avrà indossato i sacri paramenti farete un inchino al crocifisso o altra immagine sacra presente in sacrestia, dopodiché, al suono della campanella vi incamminerete in processione, tu davanti e il Sacerdote dietro.

Ecco come servire correttamente la S. Messa, ad uso di un solo ministrante:

Giunti processionalmente in presbiterio, farai assieme al sacerdote una genuflessione nella direzione del tabernacolo. Successivamente farete un inchino verso l’altare (se l’altare è lo stesso sopra cui è presente il tabernacolo si fa solo la genuflessione.) e prenderai posto alla sede, davanti allo sgabello posto alla destra del celebrante.

Il Sacerdote poi comincerà i riti di introduzione, in questo momento della Messa devi ricordarti di fare alcune cose:

1) chinerai il capo ogni volta che verrà menzionato il nome Santissimo di Gesù, cosa che dovrai continuare a fare per tutto l’arco della celebrazione.

2) Al “confesso” ti batterai leggermente il petto per tre volte alle parole: "Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.

3) Al momento del kyrie (Signore Pietà) risonderai dopo il Celebrante: Signore pietà, - Cristo pietà, -Signore pietà.

4) Reciterai il Gloria assieme al Sacerdote, ricordandoti di fare un segno di croce alle parole: “Nella gloria di Dio Padre. Amen.”

5) Farai un leggero inchino alle parole: “Preghiamo” e alla fine dell’orazione.


Finita l’orazione, comincia la liturgia della Parola. In questo momento ti siederai sullo scranno, non prima di aver sollevato leggermente la casula o la pianeta del Celebrante, di modo che non abbia a stropicciarsi contro lo schienale della sede.

Risponderai: “rendiamo grazie a Dio” alla fine della prima e della seconda lettura e ripeterai assieme ai fedeli il ritornello del salmo responsoriale.

Finita la seconda lettura ti alzerai assieme al Celebrante e ai fedeli per il canto dell’alleluia.

Dopo il canto dell’alleluia, il celebrante o un altro sacerdote o diacono se presenti, daranno inizio alla proclamazione del vangelo con le parole: “Il Signore sia con voi” a cui tu risponderai “e con il tuo spirito” poi continuerà:”Dal Vangelo secondo (N…)” e tu risponderai: “Gloria a te o Signore” facendoti al contempo tre piccoli segni di croce sulla fronte, sulle labbra e sul petto con il pollice della mano destra.

Finito il vangelo risponderai :“Lode a te o Cristo” e ti porrai a sedere sullo scranno durante l’omelia.

Finita l’omelia, dopo che il celebrante avrà ripreso posto sullo scanno e fatto una breve pausa di silenzio ti alzerai assieme a lui per la recita del Credo. Durante questa preghiera devi ricordarti di inchinarti (genufletterti il giorno di Natale e il 25 Marzo) dalle parole: “discese dal cielo” alle parole “si è fatto uomo”.


Finita la recita del Credo inizierà la preghiera universale, comunemente detta “preghiera dei fedeli".

Finita questa, anche la liturgia della Parola si è conclusa e inizia l’offertorio.

Appena finita la preghiera universale ti recherai alla credenza dove prenderai il messale e lo porterai sull'altare, posizionandolo leggermente a sinistra rispetto al centro; poi, tornato alla credenza, prenderai il Calice con la mano destra all’altezza del nodo e la sinistra leggermente posata sulla sommità e lo poserai sull’altare, in modo che il celebrante possa prenderlo.

Dopo aver posato il calice, prenderai le pissidi, se ci sono e le porterai nello steso modo all’altare. Poi, prenderai il manutergio, se non lo hai già in mano, e lo stenderai vicino al bordo dell’altare, in modo da poter appoggiarci sopra le ampolline che andrai a prelevare dalla credenza non prima di aver tolto loro il tappo e posato sulla credenza stessa. Una volta che il Sacerdote avrà versato il vino nel calice, prenderai l’ampollina e la riporterai alla credenza, Poi tornerai per prendere anche l’ampollina dell’acqua e il manutergio.

Fatto questo prenderai con la mano sinistra il piattino delle ampolline tenendo contemporaneamente tra le dita un angolo del manutergio, in modo che penda sotto la mano e con la destra l’ampollina del’acqua. In questo modo ti avvicinerai al Sacerdote, verserai delicatamente l’acqua sulle sue mani tenendo sotto il piattino. Solleverai leggermente la mano sinistra in modo che il sacerdote possa asciugarsi con comodo le mani con il manutergio e, fatto un leggero inchino tornerai alla credenza dove ripiegherai il manutergio, verserai l’acqua del piattino nell’apposito vasetto e rimetterai a posto le ampolline, prenderai il campanello e ti posizionerai alla destra del sacerdote, leggermente indietro.

Quando il sacerdote dirà: pregate fratelli perché questo sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente, tu risponderai: Il Signore riceva dalle tu mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa chiesa.

Quando terminerà il canto o la recita del Sanctus e comincerà il Sacro Canone: darai un segnale con il campanello e ti metterai in ginocchio. Suonerai il campanello tre volte alla elevazione dell’Ostia e tre volte all’elevazione del Calice. Dopo che il Sacerdote ha dette le parole: “Mistero della fede”, darai un ultimo segnale con il campanello e ti alzerai in piedi prima di rispondere: “ Annunciamo la tua morte Signore… etc.” (Sarebbe buona norma, ma non obbligatorio che rimanessi in ginocchio per tutta la durata del canone, in tal caso, non suonerai il campanello a “Mistero della Fede” ma alla fine: Per Cristo, con Cristo e in Cristo……Amen.” Dopo di che ti alzerai.)

Terminato il Canone reciterai o canterai assieme al Sacerdote e alla Congregazione dei fedeli il Padre nostro. Dopo che il Celebrante pronuncerà una breve invocazione e tu risponderai: “tuo è il regno, tua è la potenza e la gloria nei secoli.

Quando il Sacerdote distribuisce la comunione, tu prenderai l'apposito piattino e ti metterai alla destra del Sacerdote e posizionerai il piattino sotto il mento del fedele che si comunica, affnchè briciole di Ostia contenenti lapresenza Reale di Nostro Signore non cadano per terra; altrimenti ritirati a lato del presbiterio, presso la credenza. Li, prega il Signore e ringrazialo per il dono che ha fatto nella SS. Eucarestia.

Quando il Sacerdote, dopo aver distribuito la comunione sarà rientrato nel presbiterio e avrà riposto le Particole avanzate nel tabernacolo, tu avvicinati a lui reggendo l’ampollina dell’acqua e versagliene un po’ nel Calice che lui ti porgerà, in modo che possa purificarlo. Fatto questo, riporta l’ampollina alla credenza.

Quando il Sacerdote avrà finito di purificare il calice e avrà ripiegato il corporale sopra di esso, tu prendilo e riportalo alla credenza, assieme alle eventuali pissidi vuote. Finito ciò, torna alla sede facendo prima un inchino verso l’altare.

Alla fine della messa, dopo il canto finale, assieme al Sacerdote avvicinati all’altare e fai un inchino, poi, sempre assieme al Sacerdote farai una genuflessione verso il Tabernacolo e ritornerai in sagrestia sempre precedendo il Sacerdote.

In sagrestia farai un inchino al crocifisso assieme al Sacerdote e pronuncerai la parola “Prosit” o in alternativa: “proficiat” entrambe queste parole significano: [questa messa] ti sia di giovamento.

Completato anche ciò, puoi andare a riporre la veste.




Caterina63
00martedì 16 novembre 2010 21:12

Come servire la Santa Messa nella Forma Ordinaria del Rito Romano: parte II



Oggi tratteremo della Messa servita da due ministranti.

Innanzitutto, già in sacrestia bisognerà dividersi i compiti: servirà un primo ministrante e un secondo ministrante:

  • Il primo ministrante sta sempre alla destra del Sacerdote, il secondo alla sinistra.
  • Per tutta la prima parte della Messa si seguiranno le istruzioni riportate nel precedente articolo riguardante la Messa servita da un solo ministrante.
  • Giunti all'offertorio il 2° ministrante porterà il messale sull'altare e il 1° il calice. Poi il 1° porterà l'ampollina del vino e il 2° quella dell'acqua, entrambi torneranno alla credenza e il 2° passerà l'ampollina dell'acqua al primo e prenderà il manutergio mentre il 1°, tenendo l'ampollina nella mano destra prenderà il piattino con la sinistra ed entrambi raggiungerete il Celebrante per il lavabo.
  • Alla consacrazione sarà compito del 1° ministrante suonare il campanello, mentre il 2° amministrerà il piattino durante la comunione dei fedeli. Al ritorno all'altare il 1° verserà l'acqua nel calice e il 2° riporterà il calice alla credenza. 
  • Per il resto della Celebrazione, si seguiranno le solite norme.

  Si ringrazia  il Blog: Sacris Solemniis

Caterina63
00martedì 28 dicembre 2010 10:29

digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono soffermati solo sulla reintroduzione del latino, riducendo la differenza tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua.

La liturgia tradizionale
di Francesco Agnoli


(...) il 7 luglio 2007 è stato reso pubblico il motu proprio "Summorum pontificum cura" con cui Benedetto XVI ha liberalizzato la cosiddetta "Messa in latino", o "messa tridentina" o "messa di san Pio V".

I mass media nazionali e mondiali hanno dato grande risalto all'evento, senza però comprendere veramente il cuore e il senso di questa iniziativa del pontefice. Digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono soffermati solo sulla reintroduzione del latino, riducendo la differenza tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua. Così si sono sprecate le dichiarazioni sulla Chiesa che non sa stare al passo coi tempi, che rimane sempre indietro, che non sa parlare alla gente di oggi, che va a rispolverare vecchie abitudini e linguaggi ormai incomprensibili. In realtà questo provvedimento con cui la messa latina torna ad avere piena cittadinanza nel mondo cattolico, ha un'importanza straordinaria, che va ben al di là di un semplice discorso linguistico. E che si può comprendere solo attraverso un breve esame storico e liturgico, che illustri le vere differenze tra i due riti e lo spirito che li anima.



Come prima brevissima considerazione si può solo dire che la messa latina attrae ancora molti fedeli per il suo potente senso del sacro: sacra e fascinosa, per la sua antichità e universalità, la lingua; sacri e spirituali, ben più delle canzonette con la chitarra o con i tamburi, i canti gregoriani, le polifonie e un immenso patrimonio di brani poetici accumulatisi nei secoli; solenni e maestosi i vecchi altari medievali, incorniciati dal ciborio, o gli altari barocchi, slanciati verso il cielo; densi di significato alcuni momenti della liturgia, contrassegnati dal silenzio, dal senso del mistero, da un profondo spirito di adorazione espresso anche fisicamente nella consuetudine di inginocchiarsi in più occasioni e soprattutto nel momento più importante, quello dell'incontro eucaristico con Gesù… Di tutto questo si è tornati a parlare subito dopo l'elezione di Benedetto XVI: si è tornati a discutere su quale sia il modo più giusto, o più bello, o più opportuno, di pregare, di rivolgersi a Dio. In molti infatti hanno rispolverato alcuni scritti passati, del Cardinal Ratzinger, e vi hanno trovato una quantità abbondante di riflessioni, di ricordi, di annotazioni a margine di abusi liturgici, di canto gregoriano e di fascinose tradizioni dimenticate.



L'autobiografia stessa di Benedetto XVI, "La mia vita", accenna alle liturgie naziste, con quegli alberi innalzati nelle piazze, come durante la Rivoluzione Francese, o come ai tempi dell'Irminsur, l'albero sacro ai Sassoni pagani; ma soprattutto ricorda la liturgia cattolica, che scandiva il tempo e il ritmo della sua vita di fanciullo: "un misterioso intreccio di testi e di azioni", "cresciuto nel corso dei secoli dalla Fede della Chiesa", che "portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme, molto di più che un prodotto della storia umana". Eppure quella liturgia, continuava il Cardinal Ratzinger, era stata dimenticata, accantonata, con troppa fretta, e troppa superficialità, creando in lui, e in molti altri Padri conciliari, un certo disagio, la paura di dover assistere, addirittura, alla "autodistruzione della liturgia", e la tristezza di vedere "certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i brividi…"

Ebbene, a queste ed altre riflessioni del Cardinal Ratzinger, hanno fatto seguito il Sinodo dei vescovi del 2006, in cui Benedetto XVI ha preso la parola, all'improvviso, per ribadire con forza il carattere anche sacrificale della Santa Messa, l'esortazione sinodale a ridare impulso alle adorazioni eucaristiche, e una serie di articoli di personalità laiche, impegnate a dibattere, come osservatori, o come fedeli, sulla cosiddetta lex orandi: hanno parlato di liturgia, confrontando quella tridentina e quella attuale, tra gli altri, Geminello Alvi, Alberto Melloni e Paolo Isotta, sul "Corriere della sera", e Antonio Socci, alcune volte, sul "Giornale" e su "Libero". Proprio quest'ultimo ha ricordato come la nuova liturgia in volgare, il cosiddetto "Novus Ordo Missae", introdotto ufficialmente nel 1970, avesse sollevato le perplessità, oltre che di molti fedeli, e di importantissimi ecclesiastici come i cardinali Ottaviani e Bacci, anche di numerosi intellettuali e scrittori dell'epoca: Cristina Campo, Ettore Paratore, Massimo Pallottino, De Chirico, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Giorgio Bassani, Guido Piovene, Gianfranco Contini, Agatha Christie, Graham Greene, Augusto del Noce, Maritain e Mauriac, Tito Casini, Giovannino Guareschi…

Tutti costoro si schierarono a difesa della liturgia tradizionale convinti di dover salvaguardare un patrimonio religioso e culturale, di canti, di preghiere e di gesti, antichi e solenni, in cui vedevano incarnati, al massimo grado, senso estetico, spirito di devozione e contemplazione del Mistero. E del resto quanti personaggi famosi, atei o miscredenti intemerati, si sono convertiti, nei secoli, proprio di fronte alla bellezza della liturgia, e dei templi per essa costruiti? Non si era appassionato alla Fede, soprattutto grazie alla bellezza della liturgia latina, un esteta decadente come Joris Karl Huysmans? "Solo la Chiesa - aveva scritto in "Controcorrente" - ha raccolto l'arte, la forma perduta dei secoli; ha fissato, perfino nella vile riproduzione moderna, il disegno dei lavori di oreficeria, ha conservato il fascino dei calici slanciati come petunie, dei cibori dai fianchi puri; ha mantenuto perfino nell'alluminio, nei finti smalti, nei vetri colorati, la grazia delle creazioni di una volta?". E non era stato Paul Claudel a lasciarsi affascinare, e convertire, con la stessa travolgente immediatezza di Andrè Frossard, dal canto del Magnificat dei bambini di Notre Dame e di Saint Nicolas du Chardonnet: "in un istante il mio cuore fu toccato e io credetti… Improvvisamente ebbi il sentimento lacerante dell'innocenza, dell'eterna infanzia di Dio: una rivelazione ineffabile!…Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l'emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell'Adeste Fideles".

Non serve essere esperti liturgisti, per chiedersi, semplicemente: dov'è finito, dopo la riforma liturgica, il senso artistico della Chiesa? Dove la bellezza della sua arte? Dove la possibilità di commuoversi e di piangere, liberamente, come un bambino che si sente felice ed amato, per un canto sacro? E dove sono spariti i turiboli, gli incensi, i paramenti fioriti e colorati, gli altari barocchi, i tabernacoli, i cibori e i baldacchini, gli organi immensi, che creavano nei cattolici del passato, come avviene ancora nel mondo ortodosso, l'idea di poter assaporare, nella liturgia, l'atmosfera del Paradiso? La realtà è che la riforma liturgica del Novus Ordo Missae del 1970 rappresenta per alcuni aspetti una rottura con la tradizione liturgica della Chiesa, un avvicinamento alle posizioni protestanti, ed anche una trascrizione non fedele persino delle prescrizioni conciliari: è lo stesso Monsignor Annibale Bugnini, già allontanato da Giovanni XIII dalla Commissione conciliare della liturgia ("mi si accusa di iconoclastia"), poi richiamato da Paolo VI, a definire la sua opera "una vera creazione", "un'immagine completamente diversa da quel che essa era in passato" (conferenza stampa del 4/1/'67).

Questo Benedetto XVI lo sa bene anche per un fatto: è un tedesco, e conosce, quindi, quanto la nuova liturgia sia nata per influenza protestante e quanto sia importante invece ritrovare il senso di un rito, quello cattolico, che esprime una fede ben diversa da quella riformata. Per capire questo occorre tornare brevemente a Lutero.

Messa cattolica e messa protestante

Di fronte alla crisi che nel quattro-cinquecento attanaglia la Chiesa cattolica, i suoi vescovi “vagabondi” e parte del suo clero, la riforma proposta dal monaco agostiniano Lutero viene a toccare il concetto stesso di sacerdozio, di gerarchia. L’attacco al papa, non nella singola persona, ma nell’istituzione in quanto tale, all’“idolo”, si accompagna alla proclamazione del sacerdozio universale e quindi alla negazione del Sacramento dell’Ordine.

A proposito di questo, a livello pratico, non si tralascia di far leva sull’anticlericalismo, particolarmente presente in un’epoca in cui il popolo cristiano poteva assistere alla confusione fra potere spirituale e potere temporale, alla bramosia di mondanità rappresentata, al sommo livello, da varie figure di principi vescovi, ma anche da sacerdoti intenti ad accumulare incarichi e prebende, più che alla cura animarum. È evidente che una nuova concezione del sacerdozio, unita alla dottrina della “sola fides”, porti con sé, consequenzialmente, la riforma di ciò che è compito precipuo del sacerdote, cioè l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione della Messa. “Io dichiaro - scrive Lutero nell’Omelia della I di Avvento - che tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e gli adulteri sono meno malvagi di quell’abominazione che è la messa papista” .

E nel “Contra Henricum”: Quando la messa sarà distrutta, penso che avremo distrutto anche il papato... Infatti il papato poggia sulla messa come su una roccia. Tutto questo crollerà necessariamente quando crollerà la loro abominevole e sacrilega messa” . Comprendere la riforma liturgica proposta da Lutero significa allora cogliere le radici profonde, teologiche, della sua polemica. Poco serve il solito impelagarsi in una trattazione storica che si riduca ad una elencazione cronachistica, settoriale - che non coglie l’essenza - delle preghiere della messa cattolica mantenute e di quelle tolte, dei cambiamenti accennati e non realizzati, delle tappe successive e talora contraddittorie di un lento e progressivo delinearsi del rito... Fin da subito infatti Lutero ha presente il cardine, lo spirito della sua azione, ma chiaramente i “dettagli”, gli aspetti “secondari” tardano ad allinearsi, a chiarirsi nella sua mente, ad essere conformati in modo consequenziale. Talora è il conflitto coi discepoli, talora la volontà di non turbare le “coscienze deboli” che determinano ripensamenti, passi indietro, la non applicazione di principi teorici già espressi, o riforme realizzate tacitamente ma non esplicitate, non dichiarate .

Talora infine è la grande libertà nelle cerimonie, che Lutero ammette in linea di principio, a rendere poco proficua una analisi solo anatomica e diacronica della messa protestante. Per tutti questi motivi occorre identificare originari fili conduttori, immediatamente presenti al riformatore, ma che saranno dipanati nel tempo, un nucleo, lo spirito stesso, e non i dettagli, della riforma liturgica, che consiste principalmente nei tre aspetti della condanna della nozione di sacrificio, dell’altare versus populum e dell’uso del volgare.

CONDANNA DELLA NOZIONE DI SACRIFICIO

Ciò contro cui il monaco riformatore viene precipuamente a scontrarsi è la tradizionale nozione cattolica di messa, intesa sì come memoriale e banchetto, ma, prima e soprattutto, come rinnovazione incruenta del sacrificio della croce, come rievocazione - riattuazione mistica dell’offerta che Cristo fece di sé al Padre, per la salvezza degli uomini. Sacrificio che, come nel mondo ebraico, greco, romano... aveva anche una funzione di ringraziamento, sottomissione e di impetrazione alla divinità, dando luogo solo in un secondo momento alla consumazione e alla compartecipazione. “Vi è un rapporto sorprendente - scrive J.Hani - fra l’altare di Mosè e il nostro (cattolico, nda.) altare. Mosè costruisce un altare ai piedi del Sinai, offre il sacrificio e fa due metà con il sangue: una è data al Signore (più esattamente: è versata sull’altare che Lo rappresenta) e l’altra la asperge sul popolo...”.

Per Lutero, invece, “la messa non è un sacrificio, o l’azione del sacrificatore... Chiamiamola benedizione, eucarestia, mensa del Signore o memoriale del Signore. Le si dia qualunque altro nome, purché non la si macchi col nome di sacrificio” . Il sacrificio quotidiano, rinnovato più volte ogni giorno nella Messa, toglierebbe infatti valore all’unico sacrificio di Cristo, avvenuto in un preciso momento storico e sufficiente da solo a cancellare i peccati del mondo, definitivamente. Questa concezione porta, soprattutto ne “L’abominio della messa silenziosa. Il cosiddetto canone”, del 1525, a modificare la parte essenziale del rito, eliminando i vari accenni al sacrificio presenti: soprattutto il “Te igitur”, nel quale si dice “haec dona, haec munera, haec sancta sacrificia illibata” ed il riferimento ad Abele. “Ora va rimosso anche il secondo scandalo, che è molto più esteso e appariscente, cioè la convinzione, diffusa un po’ dappertutto, che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio. Anche le parole del Canone sembrano orientate in questo senso, dove dice «questi doni, queste offerte, questi santi sacrifici», e poi «questa offerta».

E ancora, si chiede in modo chiarissimo che il sacrificio sia gradito come quello di Abele, eccetera. Perciò Cristo è chiamato vittima dell’altare” . Nell’insegnamento cattolico, che Lutero trova riassunto in Pietro Lombardo, infatti, il sacrificio dell’agnello fatto da Abele, la morte di Cristo, “agnus Dei” sulla croce, e Cristo come vittima, “hostia”, nella Messa, sono collegati, in quanto il primo non è che la prefigurazione veterotestamentaria dei secondi. Da un punto di vista esteriore, tangibile, occorrerà allora abolire la lettura silenziosa del canone, in quanto essa esclude i fedeli, anch’essi sacerdoti, dalla partecipazione, e soprattutto mette in evidenza l’idea della messa come “azione del sacrificatore”. Implica infatti che il prete, e solo lui, sia concepito come “altro Cristo”, e quindi ad un tempo il sacerdote e la vittima: per questo legge silenziosamente il canone, separando nettamente, col cambiamento di tono di voce e di atteggiamento, la parte della narrazione (“Il quale nella vigilia della passione prese...”), da quella della consacrazione (“Questo è infatti il mio corpo”), e cioè il memoriale, cui tutti devono far riferimento, dalla azione attuale, reale ri-attuazione mistica del sacrificio. Con Lutero così il canone silenzioso perde di significato, divenendo tutta la cerimonia esclusivamente banchetto e memoriale, e come tale atto comunitario legato all’ascolto e alla rievocazione di un avvenimento storico e non più evento precipuamente soprannaturale, il sacrificio, intrinsecamente efficace (non necessitando della presenza dei fedeli), cui assistere, comunque, da silenziosi e adoranti spettatori, come ai piedi del Golgota.

“Atto comunitario”, si è detto, opposto ad un rito che può essere “privato”, ma che non vuole esserlo in senso assoluto: è il significato del termine “comunità” a mutare, ad assumere connotazioni diverse. Nel concetto protestante esso implica una presenza fisica, concreta, l’incontrarsi reale, attuale, che permette la con-celebrazione e l’ascolto. “L’idea basilare del Protestantesimo - così sintetizza Laura Ferrari - è la convinzione che Dio si manifesta nella comunità, in ciascuno dei suoi membri, convocati attorno alla Santa Mensa per celebrare la Cena e ascoltare la Parola...” .

Il rito cattolico, invece, sacrificale e solo secondariamente conviviale, comporta la supposizione dell’esistenza, sempre, della comunione fra Chiesa militante, purgante, negata dai protestanti, e trionfante, che si realizza, anche in assenza del popolo, per i meriti di Colui “che è il capo del corpo, che è la Chiesa”, attraverso la ricaduta benefica che ha la celebrazione, come la morte del Venerdì santo, sull’universo intero. La messa cattolica, scrive John Bossy, era intessuta di “preghiere di intercessione in vernacolo per le autorità... i frutti della terra, per gli amici” e “non faceva altro che unire i vivi coi morti nell’atto del sacrificio”: E papa Gregorio Magno (Dial. IV 58.2), scriveva: “nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote i Cieli si aprono... a questo Mistero partecipano anche i cori angelici... l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”.


CELEBRAZIONE VERSUS POPULUM; tavola al posto dell'altare.

Un’altra riforma “esteriore”, che è però conseguenza di premesse teologiche, è l’abolizione dell’altare “ad Deum”, inteso come ara sacrificale su cui un pontefice, nel senso etimologico, realizzi la consacrazione; così Lutero condanna l’usanza di porre le reliquie dei martiri, immagine del sacrificio degli uomini che si unisce a quello di Cristo, all’interno dell’altare, in quanto esso va ora inteso non più come luogo di immolazione, del “martirio” rinnovato di Gesù, ma come semplice tavola su cui si realizza la “Cena del Signore”. “...nella vera messa - scrive nel 1526 - fra puri cristiani, l’altare non dovrebbe rimanere così e il sacerdote dovrebbe sempre rivolgersi verso il popolo, come ha fatto senza dubbio Cristo nell’Ultima Cena.

Ma attendiamo che il tempo sia maturato per ciò” . Quasi chiosando il suo pensiero (che non fu però realizzato in tutti i gruppi protestanti) il riformatore anglicano Thomas Cranmer, 25 anni dopo, spiegherà che “la forma di tavola è prescritta per portare la gente semplice dalla idea superstiziosa della Messa papista al buon uso della Cena del Signore. Infatti, per offrire un sacrificio occorre un altare; al contrario, per servire da mangiare agli uomini occorre una tavola” . Ciò a maggior ragione nell’ottica luterana per cui “il sacerdozio non è niente altro che servizio” di predicazione della S. Scrittura e quindi un servizio rivolto al popolo (versus populum): la centralità dell’azione sacrificale del sacerdote, altro Cristo che si rivolge a Dio Padre, propria del rito cattolico, viene sostituita con la centralità della Parola, la “sola scriptura”. “Tutta la terra - sostiene polemicamente nel trattato intitolato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa” - è piena di sacerdoti, di vescovi, di cardinali, di ecclesiastici, ma nessuno di loro ha il compito di predicare, a meno che non riceva una nuova chiamata speciale” . Questo stesso concetto, la preminenza della Parola e dell’ascolto scritturale, porta ad esclamare, nel medesimo scritto: “Perché deve essere lecito celebrare la Messa in greco, latino o ebraico e non anche in tedesco o in qualsiasi altra lingua?”

L'INTRODUZIONE DEL VOLGARE

L’introduzione del volgare al posto del latino è invero un’altra capitale innovazione, che risulterà funzionale anche alla formazione delle Chiese nazionali e ad accelerare la separazione del mondo protestante da Roma, della Germania dal suo passato latino, nella religione, nelle lettere e nella cultura in genere. Come l’evangelizzatore S. Bonifacio del Wessex, “Grammaticus Germanicus” e il vescovo Rabano Mauro, autore dell’inno liturgico “Veni Creator Spiritus” e soprannominato “praeceptor Germaniae”, avevano portato ai tedeschi, tramite il latino, la Fede cattolica e la cultura romana antica, “conquistando quella terra alla romanità”, è ancora in buona parte attraverso la lingua adottata nella liturgia e nei testi sacri che Lutero e Melantone, giustamente ribattezzati anch’essi “precettori della Germania”, attuano una rottura con il passato e danno vita ad una diversa stagione non solo religiosa, ma anche culturale e politica .

In ultima analisi l’adozione del volgare appare funzionale, in genere, a tutta la concezione della messa luterana, che potremmo definire orizzontale, contrapposta a quella verticale - dall’uomo a Dio, attraverso il sacerdote mediatore - del culto sacrificale cattolico, esteriorizzata, quest’ultima, negli altari notevolmente rialzati di molte chiese romaniche, nello slancio di quelle gotiche, con le loro vetrate vertiginose e i trittici dorati, nell’uso dell’incenso, nell’abbondanza delle luci, nella lussuosa ricchezza dei paramenti che distinguono notevolmente i ministri di Dio dai fedeli... L’“orizzontalità” del culto luterano, invece, nasce da precise convinzioni teologiche: la messa come cena; il sacerdozio universale comunitario, che si manifesta soprattutto nell’abolizione della messa privata : il rito non ha più valore intrinseco - come nel caso in cui, come sul Golgota, il vero attore sia Cristo, tramite il sacerdote, e non i fedeli - ma necessita, per la sua stessa validità, della presenza umana, ne è protagonista l’uomo di fede. Come a dire che la morte di Gesù non sarebbe servita a nulla, se non vi avesse assistito qualcuno.

È quindi il carattere soprannaturale e divino della cerimonia, completamente predominante nella concezione cattolica, che viene, per così dire, ridotto, a favore della dimensione umana, ancor più con riformatori come Zwingli e Carlostadio che ne assolutizzano il carattere memorialistico, negando ogni reale presenza divina nella particola. Questa orizzontalità, forse non completamente slegata dal pensiero antropocentrico degli umanisti, porta con sé, un po’ come l’architettura classicheggiante di un Brunelleschi, la ricerca di semplicità esteriore, che diviene freddezza, nell’addobbo dell’altare, nelle luci e nelle immagini. Una grande consequenzialità, ancora una volta, guida Lutero nell’istituire un legame fra Cena e semplicità, concezione sacrificale e solennità.

Scrive infatti: “Così quanto più la Messa è vicina e somigliante a quella prima messa che Cristo compì nella cena, tanto più è cristiana. Orbene, la messa di Cristo fu semplicissima, senza nessuna pomposità di paramenti, di gesti, di canti, di cerimonie: se fosse da offrire come un sacrificio, parrebbe che Cristo non l’avesse istituita in forma completa” . I tedeschi della Controriforma, ben più delle altre popolazioni cattoliche, risponderanno con la ricchezza e la pomposità dello stile barocco, con gli immensi altari centrali “ad Deum” e l’adozione, più che in passato e più che altrove, di altari laterali con sfondo dorato, del colore, cioè, che meglio di ogni altro poteva trasmettere l’idea della Divinità realmente presente; altri elementi architettonici, come il baldacchino e le balaustre, verranno usati abbondantemente per enfatizzare la centralità e la sacralità dell’altare, non tavola, ma Golgota. Una qualche opposizione ci fu, comunque, anche fra gli stessi seguaci della riforma.

Nel trattato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa”, del 1520, infatti, Lutero propone di “eliminare... le vesti, gli ornamenti, i canti, le preghiere, la musica, le luci e tutto quell’apparato abbagliante”; sei anni dopo invece, nel volumetto citato, “Messa Tedesca...” scrive: “Conserviamo dunque i paramenti della Messa, l’altare, le luci finché si perdono da sé...”. Evidentemente il popolo rimaneva in parte legato alle tradizioni, ai suoi aspetti più visibili, e si ritenne più efficace e indolore una applicazione graduale delle innovazioni. Che comunque non furono sempre percepite, se è vero che ancora oggi, viaggiando nella Germania protestante, si incontrano chiese estremamente semplici e spoglie ed altre dove, per quanto possa sembrare incongruente con lo spirito protestante, rimangono ancora numerose immagini e statue di santi e Madonne. Il confronto fra i due passi sopra citati dimostra anche che il progetto di eliminare i “canti” e “la musica”, presente nel testo del 1520, era già stato abbandonato almeno a partire dal 1526. In un primo tempo infatti il monaco riformatore ritiene che “canti” e “musica” nuocciano alla semplicità e alla sobrietà del rito, come inutili orpelli, finché, scrive Ernesto Buonaiuti, non “sente istintivamente di dover fare qualcos’altro per ravvivare il culto e renderlo atto a riscaldare il cuore della massa credente. Ed ecco che egli scopre improvvisamente in sé delle inattese qualità poetiche e si dà a scrivere, dal 1523, canti sacri..." . La sua primitiva convinzione, che sopravvive solo nella personale avversione per l’organo, è però accolta da alcuni collaboratori e successori, come Zwingli, Calvino, Zwick: si va dalla riduzione delle parti cantate e della musica, al canto esclusivo di melopee salmodiche più o meno elaborate, dalla condanna della polifonia alla soppressione e distruzione degli organi .

La riforma liturgica non è dunque qualcosa di isolato e limitato, ma diventa, è bene ribadirlo, anche linguistica, culturale, musicale e soprattutto architettonica.

LA RIVOLUZIONE ARTISTICA

Non che Lutero abbia contrapposto “una sua nuova concezione architettonica a quella già esistente, ma automaticamente con la sua predicazione vennero posti in particolare rilievo determinati spazi architettonici (pulpito, altare), mentre altri diventavano inutili (cappelle laterali) o venivano utilizzati non più in ordine alla finalità per cui erano stati originariamente previsti, ad esempio il coro come luogo privilegiato riservato al clero” . Le differenze liturgiche si cristallizzano in differenze fisiche, materiali.

L’edificio cattolico è concepito come Domus Dei: tutto deve parlare di Lui, la grandiosità, la luminosità, la stessa posizione dell’edificio, spesso rivolto ad Oriente verso il “Sol Iustitiae” della parusia, e la sua pianta a croce; è Cristo stesso ad abitarla, nel Tabernacolo, rendendola Casa di Dio proprio per una presenza stabile e continua. In essa si rinnova, tramite il sacerdozio gerarchico, il sacrificio della Croce: “l’abside, con la cattedra episcopale e i seggi per il clero, è l’affermazione architettonica della gerarchicità della Chiesa; la centralità dell’altare sotto l’arco trionfale e sotto la solennità del ciborio è la dottrina plasticamente resa del primato del culto e perciò del sacrificio augusto su tutti gli altri interessi della comunità” .

La chiesa protestante è invece essenzialmente la casa dell’uomo-credente, del popolo, dell’assemblea egualitaria che si riunisce per la Cena del Signore. Scompare il tabernacolo, segno della Presenza divina; scompaiono spesso reliquie, santi e Madonne, abitatori della simbolica città di Dio, la Gerusalemme Celeste; non servono più, a rigore, la pianta a croce, la posizione ad Oriente, l’abside, il coro, il ciborio... Paradigmatiche a questo proposito la chiesa del Paradiso, il tempio di Rouen (1601), di Amsterdam (1630) e i settecenteschi templi di Wadenswill, Horgen e Kloten: sono infatti le prime costruzioni veramente aderenti allo spirito liturgico dei riformatori, che per lo più si erano dovuti servire di edifici cattolici preesistenti, limitandosi a singole modifiche e alla reinterpretazione degli spazi, come, ad es., l’esclusione dell’abside. “Un’ordinanza della chiesa di Hesse del 1526 esorta «tutti i fedeli a partecipare alla preghiera e alla lettura... e alla Cena del Signore. Questi atti non saranno più compiuti nel coro, ma in mezzo alla chiesa...»” .

Anche l’altare perde il vecchio significato e la vecchia forma: diviene mensa, solitamente semplice tavola, non più sopraelevata, distaccata da scalinate e balaustre, bensì posizionata in modo da creare un rapporto più diretto, partecipativo, comunitario, fra celebrante e popolo (a questo fine si abbandona anche la divisione in navate, che potrebbe impedire una visuale completa). Evidentemente a questi mutamenti materiali viene dietro l’attenuazione, la scomparsa o il mutamento dei valori simbolici da essi espressi; valori che tentano di esprimere l’ineffabile grandezza del Mistero e del sacro della creazione e del rito. L’edificio propriamente protestante, senza abside, senza tabernacolo, a pianta rettangolare circolare o ellittica, deve ricordare una casa umana, il salone dell’Ultima Cena e non assume quindi più il triplice significato di immagine dell’universo, dell’uomo, tempio vivente della divinità, e di Dio stesso, come sostenevano ad es. S. Massimo Confessore e Onorio d’Autun. Costui, nel suo “Specchio del mondo” - richiamandosi anche alla frase evangelica “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò” (Gv. 2,19) - sostiene che, come la Chiesa-comunità dei fedeli è il Corpo mistico di Cristo, così la chiesa-edificio ne rappresenta la fisicità: il coro è la testa, il transetto le braccia, la navata il busto e l’altare, centro di irradiazione e di convergenza di tutte le linee architettoniche, rappresenta il cuore.

Ancor più, esso è anche immagine di tutto il Corpo di Cristo, definito nella Bibbia “pietra di scandalo”, “la pietra che i costruttori hanno scartato”, “pietra” da cui sgorgarono il cibo e la bevanda “spirituale” per gli ebrei nel deserto (I Cor, 10,4). Per questo viene riverito, baciato, incensato. È il centro del mondo, come stanno a significare la semisfera perpendicolare del ciborio e quella del catino absidale, simboli dell’immensità della volta celeste sopra la terra: non così può essere per l’altare-tavola luterano, e soprattutto zwingliano, la cui centralità non è autonoma, ma dipende dall’essere il supporto dell’assemblea, vero centro e cuore del rito . Sono i riformatori stessi, come Carlostadio e Zwingli, a comprendere il profondo legame fra credenze ed esteriorizzazione, didascalismo visivo, e quindi a promuovere la distruzione di cori, altari, chiese intere, e la costruzione di nuove, di cui le più antiche e tipiche sono “Fleur-de-lys”, “Paradis” e “Terraux”, a Lione .

In questo quadro si inseriscono anche le tendenze iconoclaste variamente diffusesi nel mondo protestante, dalle posizioni moderate di Erasmo, alla forte avversione per le immagini di Zwingli, Calvino e Carlostadio. Quest’ultimo, proprio a Wüttenberg, la città delle 95 tesi, “inaugurò la “messa evangelica” abbattendo e bruciando le immagini” e dando così inizio ad un movimento iconoclasta “serpeggiante in tutta l’Europa del nord” . Benché l’atteggiamento di Lutero fosse alquanto più prudente, “quasi ovunque il primo sintomo visibile dell’incipiente grande trasformazione del cristianesimo fu il ripudio dei santi, espresso in forma di sistematica distruzione delle loro immagini su tela, su tavola o scolpite in pietra, intraprese per iniziativa della pubblica autorità, o di una folla inferocita reduce dai sermoni del cristianesimo riformatore” .

Ripudio dei santi, è bene ricordarlo, che nasce dal terribile pessimismo antropologico luterano, secondo il quale l'uomo non è capace di compiere alcunché di buono, ma è solo e soltanto un peccatore, senza libertà, conteso tra Satana e Dio.

LA COSIDDETTA MESSA DI S. PIO V (o messa latina)

La questione liturgica fu posta all’attenzione dei padri conciliari riuniti a Trento in diverse occasioni e sotto varie angolature. Ma l’aspetto essenziale del “carattere sacrificale della messa” fu definito solo nella XXII sessione, il 17 settembre 1562. In sostanza non si faceva che riproporre la dottrina che Lutero aveva rifiutato, secondo cui nel “divino sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offrì una volta in modo cruento sull’altare della croce”, trattandosi “di una sola e identica vittima” che “lo stesso Gesù offre ora per ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. Si ribadiva la liceità del canone a bassa voce, della messa privata, offerta per i vivi e per i morti, e la non convenienza (“non expedire”) dell’uso esclusivo del volgare.

Quasi ripercorrendo fedelmente le critiche luterane, al capitolo V si passa agli aspetti esteriori, si afferma l’importanza di “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”, inducendo attraverso “segni visibili... alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio”. Al capitolo VIII pur escludendo l’uso del volgare nel rito, si chiede però ai pastori di “spiegare e far spiegare durante la celebrazione delle messe qualche cosa di quello che ivi si legge”, condannando implicitamente, ma chiaramente, la consuetudine dei sacerdoti, di tralasciare l’esegesi biblica; altrove si proscrivono la frivolezza di alcune “musiche in cui, o con l’organo, o col canto, si mescola qualcosa di lascivo e di impuro”, e “quelle richieste di elemosina che sembrano piuttosto esazioni insistenti e indecorose”.

Soprattutto, in conformità con lo spirito generale del Concilio, anche in questa sessione si danno indicazioni in generale sul comportamento del clero, sottolineando l’importanza per il popolo dell’ “esempio di coloro che si sono dedicati al divino maestro” . Non può sfuggire infatti che il protestantesimo aveva aderito in buona parte per la trascuratezza e l’indegnità degli stessi sacerdoti e che “l’anticlericalismo e l’odio verso i preti divenne un movente molto forte dei movimenti evangelici e della guerra contadina del 1525” . Il compito specifico dell’attuazione pratica delle prescrizioni conciliari finì così per essere delegato al papa Pio V. Al suo nome è infatti legato il messale rimasto “in uso sostanzialmente fino al nostro secolo” . In realtà il messale detto di S. Pio V non fu che la ripresa, con rare correzioni, del messale in uso nella Curia romana”: “non si trattava di un nuovo rito, ma del ripristino di antiche tradizioni” .

Il Messale Romano fu promulgato nel 1570, con lo stesso spirito e le stesse preghiere che Lutero aveva considerato inaccettabili. L’unica, grande novità era contenuta nella Bolla “Quo Primum Tempore” dello stesso anno, nella quale si concedeva “l’indulto perpetuo di poter seguire in qualunque chiesa, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena” il nuovo messale. La novità consisteva nell’estendere il rito romano a tutte le diocesi e agli ordini religiosi che non possedessero un proprio messale da oltre duecento anni: “poiché nella Chiesa di Dio uno solo è il modo di salmodiare, così sommamente conviene che uno solo sia il rito di celebrare la Messa”. Come nel campo giuridico il Concilio aveva provveduto a ristabilire e precisare i rapporti gerarchici, restituendo ai vescovi prerogative e potere sugli inferiori, così sul piano del rito Pio V diede vita ad una unità liturgica, espressione di uno spirito antitetico rispetto a quello protestante. L’esistenza, infatti, di una Chiesa docente, di una fede dogmatica, uguale per tutti, in cui la lex credendi determina la lex orandi, tende di per sé , più o meno, a unificare il rito, laddove la credenza nel libero esame e il soggettivismo protestante comportavano, già a detta di Lutero, una sostanziale libertà, che diviene subito confusione e anarchia, nella realizzazione delle cerimonie.

Il Messale Romano imposto all’orbe cattolico da Pio V consacrava dunque la Liturgia di Roma, “rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma”, e alla cui configurazione avevano contribuito in particolar modo papa Damaso (366 - 384) e S. Gregorio Magno (590 - 604). Sarebbe rimasta pressoché invariata fino a Pio XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa . Come già Lutero, anche per i protagonisti della Controriforma esiste un rapporto profondo fra arte e liturgia: solo che questi ultimi, diversamente da Lutero, ma soprattutto dall’iconoclastico Calvino, si rivolsero all’arte per farne l’alleata e il mezzo espressivo più evidente di convinzioni teologiche. “L’immagine sacra poteva contemporaneamente arrivare alla mente attraverso i suoi contenuti catechistici, al sentimento mediante la bellezza della forma, alla devozione per il suo inserimento nel contesto liturgico” (biblia pauperum). È soprattutto nella rappresentazione dell’Ultima Cena, dell’Istituzione dell’Eucarestia, fonte ed origine della Messa, che possiamo scorgere i frutti di questa alleanza, la volontà di ribadire attraverso il linguaggio delle immagini la teologia sacrificale affermata dal Concilio di Trento. A partire dalla Controriforma infatti la rappresentazione dell’Ultima Cena si sforza di acquisire una maggiore sacralità e a risaltare con più evidenza la sua connessione, spirituale, col sacrificio della croce.

Grande appare così la distanza fra la celeberrima, ma anteriore, opera di Leonardo da Vinci o del Veronese, e l’Istituzione dell’eucarestia commissionata a Federico Barocci e posizionata, non a caso, dietro l’altare. In essa infatti “l’artista sostituisce all’evento storico descritto nei vangeli - la cena intorno al tavolo - la raffigurazione di un rito: gli apostoli inginocchiati e Cristo che, con gesto sacerdotale, solleva l’ostia dalla patena e sembra pronunciare le parole consacratorie. L’intenzione è chiaramente quella di suggerire una continuità tra questa prima comunione eucaristica e la S. messa celebrata nella stessa cappella Aldobrandini” . Una tale interpretazione era già stata, è vero, del Beato Angelico, ma a quest’epoca il significato si fa nuovo, assume quasi una sfumatura polemica nei confronti della concezione protestante della messa come semplice cena. Un altra rappresentazione esemplare, ancor più evidente nel suo significato è la “Messa Miracolosa di S. Gregorio Magno” di Cesare Aretusi e Gabriele Fiorini: sull’altare vi è il messale aperto su un disegno della crocifissione e dietro, in posizione frontale rispetto agli astanti, è rappresentato Gesù che tiene in mano la Croce. Si crea così un collegamento spontaneo e ineludibile fra Eucarestia e Crocifissione, legame negato da Lutero, e tra Eucarestia e presenza reale del Corpo e sangue di Cristo, estraneo alla visione esclusivamente memorialistica e simbolica di Zwingli e Calvino.

Stesso significato assumono l’immagine usuale del Cristo raffigurato in piedi sull’altare, il cui sangue sgorgante dalle piaghe confluisce nel calice, e la nuova consuetudine di posizionare direttamente sull’altare la scultura del corpo di Cristo, deposto dalla croce e affiancato di solito da un grande calice eucaristico. Quasi che la messa dovesse essere celebrata sull’orlo del sepolcro aperto, davanti al cadavere. Ne è un esempio notevole il “Cristo morto” di Baccio Bandinelli, collocato sull’altare di S. Croce, a Firenze, nove mesi dopo la pubblicazione del Decreto tridentino sull’Eucarestia. Alla polemica conciliare contro l’iconoclastia protestante seguono l’interessamento di diversi pastori alla questione artistica in genere. Nel 1594 viene pubblicato il “Trattato sulle sante Immagini” del Molano; nello stesso anno l’arcivescovo di Bologna, Gabriele Paleotti, compone un “Discorso intorno alle Immagini sacre e profane” cui segue, nel 1624, il “De Pictura sacra” di Federico Borromeo. L’opera forse più importante, e di più ampi orizzonti, rimane però le “Istructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae” di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, del 1572.

A costui, infatti, si deve la diffusione di una norma che sarà gravida di conseguenze e sul piano della fede e su quello puramente artistico e architettonico: quella di conservare obbligatoriamente l’eucarestia in un tabernacolo posto sull’altar maggiore. “L’uso di conservare una parte dell’eucarestia dopo la messa è antico quanto il cristianesimo”, ma il luogo apposito “poteva essere nella sacrestia o nella chiesa stessa; oppure, indifferentemente, la riserva era posata sull’altare, oppure sospesa (colombe) o infine, conservata nelle cosiddette torri eucaristiche, o anche in nicchie o edicole murali” . Il riformismo protestante più estremo, che attribuisce all’ostia un valore puramente simbolico, non può che criticare radicalmente la riserva eucaristica. D’altra parte Lutero, che credeva nella presenza reale, negava però il perdurare di questa al di fuori della comunione e della messa.

L’adorazione del SS. Sacramento in chiesa e nelle processioni, svincolata dal rito e affermatasi sempre di più dopo l’istituzione della festa del Corpus Domini, nel 1264, gli appariva assurda ed idolatrica. Si capisce allora come da parte cattolica imporre la conservazione, peraltro non nuova, dell’ostia nel tabernacolo dell’altare centrale, equivalesse a sottolineare la fede in una Presenza Reale costante, capace di favorire anche l’adorazione extra-liturgica. “Fu subito chiaro - scrive Carlo degli Esposti - che posto in quel punto centrale e visibilissimo della chiesa e con la possibilità di aumentare a piacimento le dimensioni, il tabernacolo rappresentava certamente la presenza reale di Gesù Cristo nel luogo sacro” .

Diveniva anche, da un punto di vista artistico e consequenzialmente al suo ruolo, il luogo privilegiato per esplicare l’estro e la capacità creativa; specie nei casi in cui si presentasse sotto forma di edificio miniaturizzato, di splendida “Domus Dei” con colonne, cupole, fregi e decorazioni. Altrimenti, l’altra tipologia del tabernacolo prevedeva “un luogo della riposizione più basso e meno ornato”, paragonato al Sepolcro, e “sormontato da un luogo dell’esposizione, quasi sempre un aereo padiglione, sorretto da colonne, chiamato anche a dare evidenza all’intero complesso” . Da qui, dunque, alla controversia sulla presenza reale e sulla liceità dell’adorazione, nasce la caratteristica essenziale dell’architettura e dell’arte sacra di età barocca; a questa centralità corrisponde, sul piano della religiosità popolare, un incremento della devozione Eucaristica al di fuori della Messa, nelle processioni del Corpus Domini, nell’adorazione delle cosiddette “Quarantore”, il tempo trascorso da Gesù nella tomba, nella pia pratica dei sette Sepolcri, la sera del Giovedì santo. Queste devozioni assumono un ruolo fondamentale nella vita del popolo, dopo la Controriforma.

Lo coinvolgono nella lunga preparazione degli addobbi; nella disposizione dei damaschi sulle colonne, di veli e drappi colorati a mo’ di padiglione nelle volte della navata centrale; di composizioni floreali che in questi particolari momenti dell’anno cambiano il volto stesso dell’altare e della chiesa. Anche la città, in occasione delle processioni eucaristiche, specie del Corpus Domini, si rinnova, si veste a festa. Tappeti fioriti, luminarie, drappi svolazzanti dalle finestre delle case salutano il corteo, aperto da un grande carro con raffigurazioni allegoriche, dalle confraternite con i propri gonfaloni, dagli ordini religiosi, da trombettieri e tamburini; dal baldacchino solenne sotto il quale viene portato il SS. Sacramento, seguito dal popolo e dalle autorità politiche in una dimensione sociale di armonia e compenetrazione fra vita religiosa e vita civile.

DOPO LA RIFORMA DEL 1970 (Novus ordo missae)

Il Messale di san Pio V, con il suo corollario di devozioni e di manifestazioni artistiche e popolari, rimarrà pressoché invariato fino a Pio XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa, e, come si ricordava, alle riforme realizzate dalla Commissione di Annibale Bugnini. Di fronte a quest'ultime, come si è detto, vi fu lo sconcerto di parecchi cattolici, ma l'approvazione, al contrario, di molte comunità protestanti, che vedevano rimosse, senza veri motivi teologici, alcune sostanziali differenze tra il loro culto e quello cattolico, consacrate dal Concilio di Trento.

Il Novus Ordo Missae, infatti, come dichiarato anche da Jean Guitton, si avvicina in diversi punti alla cena protestante, in quanto pone l'accento più sul carattere memorialistico del rito, che su quello sacrificale; abolisce di conseguenza la celebrazione ad Deum, sostituita con quella versus populum, e la comunione in ginocchio; elimina l'uso del latino, il canone a bassa voce, la messa anche in assenza dei fedeli, il canto gregoriano, “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”… Infine, privilegiando la liturgia della Parola rispetto all'Eucarestia, il tabernacolo viene accantonato, e nel contempo muta completamente l'aspetto fisico ed artistico dell'edificio chiesastico. Proprio come le prime chiese veramente protestanti, disadorne, tristi e spoglie, quelle di Rouen, Wadenswill, Horgen e Kloten, anche le chiese cattoliche costruite dopo la riforma del 1970, e improntate ad essa, diverranno più simili ad un "teatro totale" che ad un tempio, ad una casa di uomini che alla Domus Dei.

E' inevitabile, in quest'ottica, che l'altare perda la sua centralità, legata all'idea della Messa come sacrificio: non è più di pietra, "la pietra che i costruttori hanno scartato", e non è più il "centro del mondo", delimitato dalle balaustre, sormontato dalla cupola, simbolo del cielo, e dal baldacchino. E' il "centro di gravità", insomma, che perde importanza, e con esso, spesso, ciò che vi gira intorno: il senso del sacro, del mistero e del bello. Alla luce di quanto si è detto, dunque, si comprende la necessità di ridare cittadinanza da un rito, quello latino, o di San Pio V, capace di esprimere con forza e fascino, le verità di fede cattoliche, secondo un patrimonio di secoli di storia. A questo patrimonio liturgico appartiene anche il canto gregoriano, ingiustamente abbandonato da troppi anni.

Eppure il canto è una preghiera fondamentale, tanto che i grandi santi ne hanno spesso composto qualcuno: si pensi al "Jesu, dulcis memoria" di san Bernardo, o al "Pange Lingua" di Tommaso, o a canti popolari di immensa dolcezza, come "Tu scendi dalle stelle" e "Quanno nascette ninno", del moralista Alfonso de Liguori. Sant'Agostino, nelle sue "Confessioni", scrive: "Quante lacrime sparsi sentendomi abbracciare il cuore dalla soave melodia degli inni e dei cantici risonanti nella tua casa!". E aggiunge: "Chi canta prega due volte". Col canto, infatti, lo spirito si acquieta e si eleva, chiede e ringrazia, contempla ed esulta, con la totalità della persona, quasi trascinando con sé il corpo, costretto a seguire, ad ergersi in elegante postura e a protendersi, in una tensione analoga a quella dell'anima. L'esperienza religiosa è infatti esperienza d'amore, che nasce interiormente, per poi sfociare all'esterno: "dentro non po' celare, tanto grande è il dolzore", poetava Iacopone da Todi, descrivendo l'amore mistico per Dio. Ma per assorbire l'animo, per raccoglierlo, ed innalzarlo al cielo, proprio come una vertiginosa vetrata gotica o un altare barocco, il canto deve essere sacro: gioioso e giubilante, senza scompostezza, poetico e nobile, senza artificio, dolce e soave, senza affettazione né sentimentalismo.

Per generare vera gioia, che si imprima nell'animo, e non solo emozioni passeggere, deve armonizzarsi con la natura dell'uomo, parlare non solo ai sensi, ma a tutte le facoltà, secondo la loro gerarchia. Deve saper esprimere la forza e la soavità della fede, ma anche la sua semplicità e chiarezza; la storicità degli avvenimenti divini, ed il loro carattere misterioso; la coralità dell'esperienza comunitaria, ma anche l'individualità dell'anima personale. Troppe volte, invece, nelle cerimonie odierne, si cantano facili motivetti - forse con l'illusione di attirare i giovani-, in cui prevalgono il ritmo, la sdolcinatezza delle parole, quando non, addirittura, l'utopia e l'orizzontalità mondana. Sono, spesso, canzoni che si potrebbero cantare in un prato, con la chitarra e gli amici, o sotto il balcone di una ragazza, per una serenata: non preghiere, ma composizioni di cantautori di musica leggera. Parlano di "pace", di un "mondo nuovo", di "onde del mare", di pane, non più "angelicus", e di "strade del mondo". Non vi è più il cielo, né il senso religioso, ma un vago umanesimo, insipido, degno di futuri Templi dell'Uomo. Non canti che affidino il quotidiano all'eterno, il divenire all'Essere, la miseria, degna di misericordia, dell'uomo, alla grandezza e bontà di Dio, ma espressioni di un cristianesimo decadente e perbenista, fatto di boy-scuots e "buone azioni".

Sino al punto di cantare il Padre nostro, preghiera insegnata da Gesù stesso, sull'aria di “Sound of silence”, o di rispolverare, per un congresso eucaristico, la canzone di John Lennon, "Imagine", in cui si augura un mondo senza cielo nè religione. Di essa, forse, piacevano la musichetta, l'idea di pace, senza fondamento né sostanza, e l'atmosfera sognante: come se per contrastare l'illuminismo, il cinismo, il materialismo e la miscredenza odierni, occorresse rifugiarsi in una retorica romantica dei "buoni sentimenti", in un languido infiacchimento dei sensi e della mente, che in realtà nulla ha che vedere con la dolce fortezza delle virtù evangeliche. L'esito? Un popolo che non canta più, e che nello stesso tempo, protestantizzato, ha spesso perso l'idea stessa di cosa sia l'Eucarestia, l'incontro carnale, fisico e spirituale, con Cristo, convinto che la Messa si riduca all'ascolto della Parola e ad un fare memoria di un fatto antico e ormai passato per sempre…



(tratto da La liturgia tradizionale. Le ragioni del motu proprio, Fede & Cultura, I parte)

Caterina63
00martedì 28 dicembre 2010 17:42

La musica sacra a servizio della verità


Di padre Paul Gunter, O.S.B.*

ROMA, mercoledì, 1° dicembre 2010 (ZENIT.org).- Al tempo in cui sant’Agostino scrisse «Qui cantat, bis orat – chi canta prega due volte», si poteva riconoscere facilmente quanto il carattere proprio della musica sacra la rendesse essenzialmente diversa da un semplice canto di gruppo, o da un’elegante performance da parte di un musicista esperto, ma di ambito secolare. La convinzione del fatto che la preghiera raddoppia se cantata invece che recitata, non era basata tanto sui meriti dello sforzo umano, quanto piuttosto sulla necessità di descrivere la dimensione numinosa all’interno della musica sacra, i suoi aspetti emotivi ed artistici, in quanto interfaccia dello scambio tra Dio, Datore di ogni dono, e la risposta d’amore dell’essere umano all’amore onnipotente del Signore.

Un amore più grande cercherà una qualità più alta e non soltanto una quantità più abbondante, e ciò avviene quando la perseveranza di un singolo o di un gruppo ha ottenuto un progresso in ambito musicale e ha sperimentato per ciò stesso la bellezza delle sue consolazioni spirituali. Sacrosanctum Concilium (SC) afferma che «la sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa» (n. 9) e aggiunge molto acutamente che «prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione»; inoltre al n. 10 chiarisce che «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa». La liturgia, pertanto, è precisamente la fonte della forza necessaria ad ogni opera apostolica. Lì dove la vita liturgica della Chiesa è lasciata al caso, la mancanza di coerenza nei suoi frutti diviene evidente. I musicisti liturgici devono essere valorizzati e supportati in tutti i modi possibili, se essi devono raggiungere un livello tecnico tale che permetta loro di comunicare, attraverso la musica sacra, la relazione con il mistero tremendo che è Dio. È questa percezione della santità di Dio, specificamente tratta dalla musica sacra, che forma un ponte che permette alle persone di far incontrare il loro desiderio di Dio col desiderio di conformare la loro vita alla Sua.

La musica sacra è preghiera ordinata a far elevare i cuori e le menti verso Dio. Al di là delle sfide rappresentate dalle preferenze personali o culturali, lo scopo della musica sacra è sempre la lode di Dio. La partecipazione attiva dell’assemblea dovrebbe essere ordinata a questo fine, in modo che non venga né compromessa la dignità della liturgia, né vengano oscurate le possibilità per un’effettiva partecipazione al culto divino. La actuosa participatio non esclude diversi livelli di partecipazione che, di per se stessi, indicano che la “partecipazione nell’atto” non è diminuita dal fatto che uno potrebbe non stare cantando ogni cosa in ogni momento. La musica sacra deve conformarsi ai testi liturgici e la musica devozionale deve ispirarsi a testi biblici o liturgici, curando in ogni caso di non nascondere le realtà ecclesiologiche della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II lo ha spiegato ad alcuni vescovi degli USA, in occasione della loro visita ad limina nel 1998: «La partecipazione piena non significa che ognuno fa ogni cosa, poiché questo porterebbe a clericalizzare il laicato e a laicalizzare il sacerdozio; e questo non è ciò che il Concilio aveva in mente. La liturgia, come la Chiesa, deve essere gerarchica e polifonica, rispettando i diversi ruoli assegnati da Cristo e permettendo a tutte le diverse voci di convergere in un unico grande inno di lode». La musica sacra, perciò, nelle sue espressioni di fede religiosa, fedeltà testuale e misurata dignità, deve diventare un simbolo di comunione ecclesiale.

Il carattere di musica sacra non è diminuito quando essa è semplice, nella misura in cui la sua semplicità è nobile piuttosto che banale. L’uso diffuso, benché proibito, di musica secolare registrata e di canzoni “pop” ai funerali giustifica la presa di distanza di molti fedeli, che si mostrano estranei alla vita musicale della Chiesa. Canti “cultuali” dottrinalmente insipidi, che spesso prendono il posto di tesori liturgici con valore catechetico, con l’effetto che la cultura di musica ecclesiale in molte parrocchie è stata «condotta in un vicolo cieco nel quale si può dire sempre di meno circa il suo quo vadis» – questo è il modo in cui J. Ratzinger descrive la separazione della cultura moderna dalla sua matrice religiosa (A New Song for the Lord. Faith in Christ and liturgy today, Crossroad, New York 1996, p. 120).

Sacrosanctum Concilium ha detto che al canto gregoriano dovrebbe essere riservato «il posto principale» (n. 116) e che l’organo a canne «è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti» (n. 120). Mentre gli effetti delle interpretazioni antropologiche post-moderne sono intolleranti nei confronti di ogni tendenza a rifarsi al passato, le verità senza tempo e universali sono di beneficio alle persone di tutti i tempi e luoghi.

È necessaria un’efficace catechesi liturgica al centro della Nuova Evangelizzazione per favorire l’immersione dei fedeli nei misteri celebrati per ritus et preces – attraverso i riti e le preghiere (cf. SC 48). Il Motu Proprio del 2007, Summorum Pontificum, ha offerto un’opportunità determinante per il revival del canto gregoriano, in quei luoghi in cui esso era stato precedentemente praticato, nonché per il suo inserimento in contesti nei quali ancora non fosse conosciuto. Sarebbe triste, però, se per brama di comprendere tutto, l’uso del canto gregoriano nelle parrocchie fosse limitato alla celebrazione in «forma straordinaria», relegando così l’antico idioma di questo canto alla storia della Chiesa e a simbolo di polarizzazione. Tra le opportunità pastorali, non è chiedere troppo che le persone possano fare esperienza dell’universalità della Chiesa a livello locale, essendo capaci di cantare le parti che loro competono in latino (cf. SC 54). Questa è stata l’intenzione dei padri del Concilio. Con la dovuta moderazione e sensibilità pastorale, questa pratica si unirebbe armonicamente alle ricche espressioni della fede cattolica in vernacolo.

Infine, l’armonia ed ortodossia della musica sacra per un’efficace predicazione del deposito rivelato dipende dalla fedeltà del cristiano alla vita di grazia, in una più grande dedizione al vivere coerente, come la Regola di san Benedetto afferma tanto chiaramente: «Consideriamo, perciò, come dovremmo comportarci alla presenza di Dio e dei suoi angeli e manteniamoci […] in forma tale che le nostre menti siano in accordo con le nostre voci» (19,6-7).

[Traduzione dall’inglese di don Mauro Gagliardi;]
*Padre Paul Gunter, O.S.B., è professore al Pontificio Istituto Liturgico di Roma e consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.
Caterina63
00martedì 4 gennaio 2011 10:56

Melloni "tradizionalista"

Un interessante articolo di Alberto Melloni, la voce più scomposta del progressismo ecclesiale, apparso sul Corriere della Sera del 2 gennaio.

La liturgia, rifugio della fede emarginata e oppressa
di ALBERTO MELLONI

A chi chiedesse che cosa ha tenuto viva la fiammella della fede nella Russia durante i decenni sovietici dell’ateismo di Stato, o ha preservato la fisionomia spirituale dell’ortodossia nei territori conquistati dall’Islam, si potrebbe rispondere telegraficamente: la liturgia, anzi la divina liturgia. Un gigantesco archivio di teologia dei padri, di formule antichissime, di segni e di simboli che possono essere praticati in modo meccanico senza consumarsi, oppure possono alimentare una intera vita di fede con la stessa eleganza e la medesima sobrietà. Su questo patrimonio immenso si concentrano dall’Ottocento in poi anche gli occhi di quegli studiosi così speciali che sono i «liturgisti» : dotti che hanno bisogno di tutta l’erudizione del filologo e del codicologo, delle grandi biblioteche di studio, del polpastrello fine che sa sentire perché in uno scriptorium dell’VIII secolo colui che detta ai suoi copisti una preghiera— così nel post communio dell’Epifania del sacramentario gelasiano — muta una vocale e scambi affectu con effectu, convinto di raddrizzare un errore e non di mutare il corso di un testo.

Oggi i liturgisti però hanno anche bisogno dei computer: si sono messi anche loro sulla scia di quel pioniere che è padre Roberto Busa, che a suon di messe per la defunta moglie convinse il patron di quella che negli anni Cinquanta era un’aziendina dal nome corto, Ibm, a fare la concordanza degli scritti di Tommaso d’Aquino prima su grandi macchine, su schede, su nastri, su dvd e ora pronta per passare su iPhone; e usando di quella scienza che è la linguistica computazionale scompongono i libri liturgici in frequenze, contesti, occorrenze, e svelano l’architettura profonda di queste fonti. Da qualche settimana due liturgisti di prima grandezza come Manlio Sodi, presidente della Pontificia accademia teologica, e Alessandro Toniolo, docente di liturgia e webmaster di liturgia. it, hanno completato l’ultimo tratto della doppia serie di volumi editi dalla Libreria editrice vaticana sulla liturgia riformata dal Concilio di Trento: ai dieci tomi dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini e ai Monumenta Liturgica Piana, che fornivano l’edizione anastatica dei libri pubblicati fra la fine del Concilio e il papato di Clemente VIII, aggiungono ora Liturgia Tridentina. Fontes, indices, concordantia 1568-1962 (pp. 126, € 49). Un’opera specialistica, a dir poco: impreziosita dalla riedizione di un introvabile strumento di padre Placide Bruylants, una delle figure di spicco del movimento liturgico, sulle fonti che trasmettono tutte le preghiere contenute nel messale edito da san Pio V.

Ma a suo modo un’opera di severa attualità. Il vociante mondo lefebvriano cerca oggi di impossessarsi di una convinzione di Benedetto XVI.
 
Dagli anni Settanta l’allora professor e cardinal Ratzinger sostenne che imporre il messale del Vaticano II era un errore, perché la continuità ontologica della Chiesa universale, che è al centro della sua posizione, non poteva non manifestarsi al livello della Chiesa orante. Ma egli, come tutti, sapeva bene che c’è più tradizione — tradizione orientale, mozarabica e anche latina— nel messale che Paolo VI «sostituì» a quello di Pio V, che nel suo immediato predecessore. Giacché, come documentano le analisi di Sodi e Toniolo, il messale tridentino voleva creare un linguaggio liturgico uniforme, che permettesse ai fedeli di riconoscere immediatamente la natura del culto che «ascoltavano» : e oggi la moltiplicazione dei riti «romani» pone il problema opposto.

Evitare cioè che la liturgia diventi un fatto de gustibus, nel quale ciascuno si scelga la comunità, l’ambiente, la lingua, lo sfondo musicale e l’iconografia che più gli aggrada e perda il senso della liturgia come disciplina e grammatica della fede che educa e custodisce chi la ama.


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breve riflessione.....

A Melloni che ragionevolmente afferma :  
 
A chi chiedesse che cosa ha tenuto viva la fiammella della fede nella Russia durante i decenni sovietici dell’ateismo di Stato, o ha preservato la fisionomia spirituale dell’ortodossia nei territori conquistati dall’Islam, si potrebbe rispondere telegraficamente: la liturgia, anzi la divina liturgia.  
 
..... rispondiamo anche che mons. Athanasius Schneider, rispose con la sua personale testimonianza nel brillante tascabile: Dominus est..... Smile  
 
Poi Melloni dice:  
 Il vociante mondo lefebvriano cerca oggi di impossessarsi di una convinzione di Benedetto XVI. Dagli anni Settanta l’allora professor e cardinal Ratzinger sostenne che imporre il messale del Vaticano II era un errore, perché la continuità ontologica della Chiesa universale, che è al centro della sua posizione, non poteva non manifestarsi al livello della Chiesa orante. Ma egli, come tutti, sapeva bene che c’è più tradizione — tradizione orientale, mozarabica e anche latina— nel messale che Paolo VI «sostituì» a quello di Pio V, che nel suo immediato predecessore.  
 
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ma questo non è esattamente così.... innanzi tutto, spiace dirlo, ma è onesto farlo, è Benedetto XVI che ha trovato nel mondo lefebvriano UN FORTE SOSTENITORE PER RIPORTARE IN LIBERTA' QUELLA LITURGIA ABUSIVAMENTE VIETATA..... Embarassed  è lui stesso che spiega nel Summorum Pontificum di come L'INSISTENZA DI QUESTI GRUPPI fedeli all'antica Liturgia ED UMILIATI  E PERSEGUITATI lo hanno spinto a rilegittimare quella forma Liturgica....  
 
Caro Melloni, NON può esserci "più tradizione" in qualche cosa che si priva delle propria FONDAMENTA che portano con sè la Tradizione.... Wink  
la "liturgia DE GUSTIBUS", caro Melloni, l'abbiamo avuta nel momento in cui è stata data mano libera alla CREATIVITA' della NUOVA FORMA penalizzando l'antica, VIETANDOLA..... "imporre" QUEL Messale fu veramente un abuso!! tanto è vero che quel Messale ha subito ben cinque revisioni in 40 anni.... "imporlo" fu un abuso soprattutto perchè veniva sottointeso che quello antico era FINITO, CESSATO, SUPERATO.....  
Il Messale Tridentino non fu un'invenzione di quel momento storico.... non fu UNA MODA.... ma fu una barriera a difesa della devastazione PROTESTANTE SUL SACERDOZIO E SULLA MESSA.... san Pio V NON inventò nulla, ma RACCOLSE LA TRADIZIONE liturgica, rassettandola, riordinandola, DANDOLE UNA FORMA DEFINITIVA PER TUTTA LA CHIESA di rito latino....  
 
Mentre il Messale san Pio V divenne IL SEGNO DISTINTIVO DEL CULTO CATTOLICO contro la riforma Protestante.... il Messale Paolo VI, a torto o a ragione, divenne il SIMBOLO DELLA CONTESTAZIONE ALLA TRADIZIONE....  




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