LA MESSA e la vera Riforma Liturgica.... come la voleva davvero il Concilio....

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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 22:58

La Messa come la voleva il Concilio

 

di Joseph Fessio *

Preambolo

Nella riforma della Sacra Liturgia promossa dal Concilio Vaticano II, vengono suggerite diverse scelte che il celebrante della Messa o, in alcuni casi, i fedeli possono fare. Alcune, tra cui diverse di antica consuetudine nella Chiesa, raramente si scelgono e sono virtualmente scomparse dalla celebrazione ordinaria della Messa celebrata nelle parrocchie.

Da molti anni celebro il Divino Sacrificio, tanto che il mio modo di pensare e di esercitare sono maturati, alcuni dicono regrediti, in parte per l’influenza di due amici sacerdoti che sono tra i liturgisti più rispettati del XX secolo: Padre Louis Bouyer e il Cardinale Joseph Ratzinger.

I partecipanti alle Messe che celebro sono forse sconcertati da certe cose che vedono. Ogni tanto cerco di spiegare le ragioni per questa o quella scelta che faccio. Ma non è questo il modo adeguato per rispondere alle domande dei fedeli, dal momento che solo coloro che stanno a ogni Messa ascoltano tutte le spiegazioni. E’ per questo che ho deciso di descrivere e spiegare le ragioni di alcune scelte che regolarmente od occasionalmente introduco nelle Messe che celebro.

In questa sede lo posso fare solo brevemente, ma c’è un principio generale che posso affermare: tutto ciò che vedete nella Messa del Cancelliere è permesso dalle norme liturgiche della Chiesa. Non solo non si richiede alcun permesso speciale per le scelte che faccio, ma neppure un Vescovo potrebbe proibirle anche se lo volesse (un Vescovo ci ha provato, solo per sentirsi severamente rimproverato dalla Santa Sede).



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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 22:59

Ciborio all’ingresso della Cappella

A chi desidera ricevere la Comunione, si chiede di depositare una particola nel ciborio al momento in cui entra nella cappella. C’era una ragione pratica all’inizio: il tabernacolo nella cappella per l’adorazione non era abbastanza capiente per contenere molte ostie, per cui questa prassi ci dà esattamente il numero delle ostie richieste per ogni Messa.

Ma c’è anche una ragione più importante. Tra i pochissimi cambiamenti nella Messa disposti in modo specifico dalla “Costituzione sulla Sacra Liturgia” Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II, (ce ne sono nove, cfr. Sacrosanctum Concilium nn. 50-58), uno, il n.55, comincia così: “Si raccomanda molto quella partecipazione più perfetta alla Messa, nella quale i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevono il corpo del Signore con i pani consacrati in questo sacrificio”. Vale a dire, la Chiesa incoraggia i fedeli a ricevere le ostie consacrate nella Messa alla quale partecipano.




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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 23:00

Messa “ad Orientem”

Tale scelta sembra causare il maggior sconcerto. Molto si deve dire al riguardo, io ne traccerò i punti più salienti.

1. Fin dai tempi antichi e perfino durante e dopo il Concilio Vaticano II, la Messa rivolta “ad oriente” era la norma. Non c’è legislazione liturgica autorevole che l’abbia mai abolita. Il Messale Romano (il libro liturgico ufficiale che guida nella celebrazione della Messa) non soltanto la permette, ma anzi le rubriche la presuppongono (ad esempio, si dice al celebrante di “volgersi verso il popolo” all’Orate Fratres (“Pregate, fratelli …”).

2. Da tempo immemorabile, questa è stata la prassi dell’intera Chiesa, all’est come all’ovest. Contrariamente all’idea prevalente erronea (anche di molti liturgisti), non c’è riscontro di Messe celebrate coram populo (dinanzi al popolo) nei primi diciannove secoli della storia della Chiesa, salvo rare eccezioni (cfr. Introduzione allo spirito della liturgia del Cardinale Ratzinger, pp. 74-84). La scelta di ridurre l’altare ad una tavola per una liturgia con il popolo davanti, iniziò nel XVI secolo con Martin Lutero.

“Malgrado tutte le variazioni nella prassi che hanno avuto luogo nel secondo millennio ben inoltrato, una cosa rimane chiara per l’intera cristianità: pregare verso oriente è una tradizione che risale ai primissimi tempi. Inoltre, è un’espressione fondamentale della sintesi cristiana del cosmo e della storia il radicarsi negli eventi della storia della salvezza accaduti una volta per tutte, mentre si esce per andare incontro al Signore che ritornerà” (Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p.75).

3. Il Concilio Vaticano II non ha detto nulla sulla direzione del celebrante durante la Messa, poiché presuppone che la Messa sia ad orientem.

4. Un felice ritorno alla tradizione più antica e, credo, in armonia con l’intento della Sacrosanctum Concilium, è stato quello di portare l’altare più vicino alla navata, separandolo dai suoi paliotti e dossali, e proclamare le letture dall’ambone, benché il Vaticano II non disponga e non menzioni nulla al riguardo. Tuttavia, la Messa coram populo, pur essendo certamente permessa (ho celebrato 10.000 Messe in questo modo) e sia divenuta quasi universale, di fatto priva la Messa del suo simbolismo cosmico ed escatologico.

Le chiese sono state costruite tradizionalmente dinanzi al sole nascente. Il sole, naturalmente, è un simbolo cosmico della luce, dell’energia e della grazia che vengono a noi dal Padre attraverso il Figlio. Il sole è il segno cosmico del Cristo Risorto, luce del mondo. Volgendoci ad oriente, ci volgiamo in attesa verso il Signore che viene (escatologia) e manifestiamo di essere partecipi di un atto che va oltre la chiesa e la comunità in cui celebriamo, ma raggiunge il mondo intero (cosmos). Nelle chiese non rivolte all’oriente geografico, la Croce e il Tabernacolo divengono “l’oriente liturgico”. (Incidentalmente, le rubriche richiedono che il celebrante della Messa stia davanti al Crocifisso durante la preghiera eucaristica. Ciò ha condotto, se non alla semplice inosservanza delle norma liturgica, all’anomalia di avere due crocifissi nel presbiterio – uno dinanzi al popolo e un altro piccolo sull’altare dinanzi al sacerdote – o perfino alla scelta grottesca di una Croce con un Corpo da entrambe le parti!).

5. Il dramma della storia della salvezza è potentemente simboleggiato nella liturgia rinnovata, quando si celebra ad orientem. Il sacerdote sta davanti al popolo quando chiama alla preghiera. Poi si volta per guidarlo nell’intercessione comune per la misericordia (Kyrie eleison). Prega a nome del popolo, continuando a stare dinanzi al Signore. Si volge verso il popolo per proclamare la Parola e istruire. Dopo aver ricevuto i doni, si volge di nuovo al Signore per offrirgli i doni, che prima sono solo pane e vino, e poi, dopo la consacrazione, sono il Corpo e il Sangue di Cristo. Quindi si volge verso il popolo per distribuire al banchetto eucaristico il Cristo Risorto, nelle forme di pane e vino.

Se c’è qualche simbolismo positivo nella Messa coram populo, vi è anche però un simbolismo assai negativo. “Il prete che si pone dinanzi al popolo trasforma la comunità in un cerchio racchiuso su di sé. In tale posizione esteriore, essa non si apre più su ciò che le sta davanti e in alto, ma è chiusa in se stessa” (Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 80).

6. Papa Giovanni Paolo II celebra regolarmente la Messa ad orientem nella sua cappella privata.





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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 23:01

Il canto di parti della Messa in latino

Anche quando celebro la Messa in inglese, normalmente intono un canto gregoriano specifico al Kyrie, al Gloria, al Credo, al Sanctus e all’Agnus Dei. Intono in latino pure l’introduzione al prefazio (Dominus vobiscum, Sursum corda, ecc.) e il grande Amen (Per ipsum …).

Anche se molti non lo sanno, il latino è una delle poche cose incoraggiate esplicitamente dal Concilio Vaticano II: ” .. Si abbia cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della Messa che spettano ad essi” (Sacrosanctum Concilium, n.54). Il canto gregoriano è raccomandato ancora più fortemente: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale” (Sacrosanctum Concilium, n.116).

Queste parti della Messa sono facili da imparare e il fatto di cantarle unisce i fedeli cattolici non solo nel tempo (insieme a tutte le generazioni che lungo i secoli hanno elevato a Dio questi canti) ma anche nello spazio (anche oggi, in molte parti del mondo – soprattutto a Roma – i fedeli cattolici cantano in gregoriano). Questi canti in latino aggiungono sacralità alla Messa in due modi: è musica sacra (cioè messa da parte), intesa infatti per finalità sacre e quasi esclusivamente usata per tali finalità; e il latino non è solamente una lingua antica ma è espressione del sacro, grazie alla sua storia nella Chiesa.





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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 23:02

Celebrazione della Messa in latino

Sorprenderà molti, ma non occorre alcuna autorizzazione per celebrare in latino. Infatti, non è possibile proibirlo, in quanto è ancora la lingua ufficiale della Chiesa cattolica romana e sempre adatta per la Santa Messa.

Alcuni motivi li ho scritti nei paragrafi precedenti. La mia prassi (che sono convinto fosse la vera intenzione dei Padri conciliari del Vaticano II) è di cantare o recitare in inglese le parti della Messa che variano di giorno in giorno (orazioni, prefazio) e di cantare o recitare in latino le parti invariabili (l’”Ordinario” della Messa). Si impara facilmente, soprattutto quando si usa in tutte le Messe la stessa Preghiera Eucaristica e le opzioni.

Ministranti e lettori

Questo è un argomento delicato e non posso farvi giustizia in questa sede. In breve: La Messa è essenzialmente nuziale, Cristo Sposo abbraccia la Chiesa Sposa e i due diventano una sola carne. Il sacerdote agisce non solo in persona Christi, ma in persona Christi Capitis et Sponsi (in persona di Cristo Capo e Sposo). Il presbiterio, che per norma liturgica deve essere chiaramente separato dalla navata (nella nostra cappella una delle funzioni degli inginocchiatoi è proprio quella di servire da balaustra), è il luogo dello Sposo (e dei “testimoni dello Sposo”). La navata è il luogo della Sposa, la Chiesa.

Il sacerdote agisce in persona di Cristo Figlio, che è l’icona e il Verbo del Padre. La relazione del Padre con la creazione (come quella di Cristo con la Chiesa, che è compimento nell’ordine della Redenzione) è nuziale o sponsale. Il sacerdote offre allo stesso tempo il Sacrificio di Cristo al Padre. Le donne non possono partecipare simbolicamente all’azione di Cristo, ma ciò non significa affatto che gli uomini siano più santi, superiori o più degni delle donne. Dipende, almeno in parte, dal fondamento teologico della ininterrotta tradizione della Chiesa di oltre due millenni che permette che siano solo gli uomini o i giovani a servire all’altare o a proclamare la Parola di Dio.

Ci sono anche conseguenze pratiche nell’avere ministranti donne. Molte vocazioni al sacerdozio hanno la loro origine o maturazione proprio servendo all’altare. Più donne all’altare porta ad avere meno uomini ministranti. In genere poi gli uomini frequentano la chiesa meno delle donne, per cui l’incentivo a servire all’altare controbilancia la “femminizzazione”, come l’hanno chiamata, della Chiesa. Inoltre, nell’età dell’adolescenza, le ministranti ragazze inibiscono i ragazzi dal parteciparvi.

Sono invece meno insistente per avere solo uomini lettori. (Non sono sicuro perché, forse perché la liturgia della Parola è la parte didattica della Messa, mentre la liturgia eucaristica è la parte sacrificale). Ma lo preferisco, senza offesa per le donne. La Beata Vergine Maria non ha mai letto le Scritture nella sinagoga.

Omelie lunghe

E’ una prassi che non è ordinata né proibita dal Concilio Vaticano II, né da nessun altro. Ma avviene. Parte della colpa, la attribuisco alla Parola di Dio, così ricca. E un po’ è dovuto al fatto che da venticinque anni faccio omelie alle stesse persone, ma su testi che si sono ripetuti molte volte in tutti quegli anni. Le omelie si sono progressivamente accorciate (mi pare), poiché non riesco più a trovare nuovi spunti dalle stesse pericopi. Con assemblee nuove, riesco ad attingere alle omelie degli anni precedenti (per fortuna, ne ricordo solo una minima parte).

Il Canone Romano

Avrete notato che io faccio uso costante del “Canone Romano” (Preghiera Eucaristica I). Le ragioni sono molte di più di quante ne possa menzionare qui.

Fino alla seconda metà del XX secolo, non c’era alcuna tradizione di scelte diverse per il Canone. il Vaticano II non ha richiesto tale innovazione, e nemmeno ne ha accennato. (Dice invece nella Sacrosanctum Concilium n.23: “…non si introducano innovazioni se non quando lo richiedano una vera e accertata utlità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”. Non ho mai avuto una spiegazione convincente su come l’introduzione di nuovi canoni non costituisca una violazione del divieto conciliare).

Dopo lunga riflessione ed esperienza, sono persuaso che: 1) la stabilità è molto più importante della varietà in questa preghiera centrale della Messa; 2) il Canone Romano è superiore a tutti gli altri canoni in ogni aspetto (eccetto quello della brevità, che è il motivo per cui credo che la seconda Preghiera Eucaristica sia divenuta predominante nelle Messe quotidiane).

Il Canone Romano ci unisce tutti con gli altri cattolici – tutti i santi e tutti i peccatori – da almeno il VI secolo fino al 1969. E’ rimasto virtualmente immutato in tutto questo periodo. E’ l’unico Canone che menziona gli angeli, le donne (Felicita, Perpetua, ecc.), grandi prototipi storici (Abele, Abramo, Melchisedech) per farci ricordare concretamente la saga della storia della salvezza, e che allude alla liturgia celeste del libro dell’Apocalisse (i ventiquattro apostoli e santi che evocano i ventiquattro vegliardi). Contiene preghiere di insuperabile bellezza, potenza ed antichità.





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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 23:03

“Ministri eucaristici”

Ho messo le virgolette al titolo del paragrafo, perché il titolo ufficiale è “Ministri straordinari della Comunione”. Si intende che siano “straordinari”, cioè che non corrispondano alla consuetudine normale. La prassi attuale in molte parrocchie è un abuso. E’ talmente un abuso che – questo sì è davvero “straordinario” – i capi di oltre otto dicasteri della Santa Sede hanno emanato un decreto per porre fine all’abuso. Il decreto è stato largamente ignorato.

La norma liturgica prevede che siano solo i ministri ordinati (Vescovo, prete, diacono) ad essere ministri “ordinari” dell’Eucaristia. Se nessuno di questi è disponibile, allora può assistere una persona laica ufficialmente istituita come ministro straordinario dell’Eucaristia. Uno dei ruoli importanti che hanno in parrocchia è quello di assistere i sacerdoti e i diaconi a portare la Comunione ai fedeli infermi a casa.

Di tanto in tanto si può avere bisogno di questi ministri straordinari, ma noi speriamo che il Signore ci benedica con il dono di molti preti e diaconi.

Una considerazione importante: molti di noi hanno bisogno di dedicare più tempo alla preghiera personale e alla contemplazione. Si ha anche bisogno di prepararci a ricevere il Signore nella Santa Comunione e dell’intimo ringraziamento dopo averlo ricevuto. Un’ottima opportunità per farlo è un tempo prolungato di silenzio o un canto orante prima e dopo la Comunione. Non è facile sapere dove stia il giusto equilibrio, ma non dobbiamo cercare una maggiore “efficienza” al momento della Comunione moltiplicando i ministri straordinari.

Il bacio della pace

Si tratta di un gesto tradizionale, per quanto piuttosto oscure siano la sua nascita, sviluppo e trasformazioni lungo la storia liturgica. Nelle liturgie più antiche, avveniva al momento in cui i doni venivano portati all’altare, richiamo dell’ingiunzione biblica a riconciliarsi con il fratello prima di presentarsi al giudice.

Nel Medio Evo, si usava una “pax brede” (instrumentum pacis, o osculatorium); una tavoletta di legno che il sacerdote e altri ministri baciavano e che veniva passato ai membri dell’assemblea. In seguito e fino ad oggi, tra i ministri dell’altare ci si scambiava un gesto formale di abbraccio in alcune forme del Rito Romano.

Il bacio della pace è stato inserito nel Novus Ordo Missae del 1969, ma solo facoltativo e non obbligatorio. Il sacerdote che scendeva dal presbiterio e offriva il bacio della pace ai fedeli, era sempre un abuso liturgico. L’invito è: Offerte vobis pacem (scambiatevi un segno di pace). Questa rubrica era chiara nella precedente versione dell’Istruzione generale per il Messale Romano, ma è stata resa ancora più chiara nell’ultima versione.

Con il passare degli anni, le mie riserve sull’appropriatezza di questo gesto in quel preciso momento della Messa, sono aumentate. Può darsi che sia semplicemente perché sto invecchiando, ma non credo che sia questo. Penso che introdurre qualcosa che in origine e nella pratica era una prassi laica – molto buona e umana, certamente – al momento che precede l’atto più sacro che una persona può compiere – ricevere nel proprio cuore lo “Sposo dell’anima” – è stato uno dei tanti cambiamenti che ha condotto alla mancanza di rispetto verso il Santissimo Sacramento e a una perdita del senso di riverenza dinanzi al Signore Eucaristico.

Le Missionarie della Carità della Beata Teresa di Calcutta hanno trovato, secondo me, la miglior soluzione. Il saluto laico in India consiste in un inchino con le mani giunte. E’ un bellissimo gesto che non disturba il sacro silenzio che precede la Santa Comunione. Forse sto protestando troppo. Il bacio della pace è certamente permesso ed è diffuso.



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Caterina63
00lunedì 16 luglio 2012 23:05

La Santa Comunione

Ai fedeli è permesso di ricevere la Comunione sulla mano o sulla lingua, in piedi o in ginocchio. C’è molta confusione al riguardo, poiché i Vescovi degli Stati Uniti hanno recentemente emanato un documento che dichiara normativa in America la postura eretta. Ciò ha causato costernazione in molti fedeli e a Roma, alla Congregazione del Culto Divino e alla Disciplina dei Sacramenti. Quest’ultima ha chiarito che i fedeli hanno il diritto di ricevere la Comunione in tutti i modi approvati, compreso l’inginocchiarsi e che, nell’esercitare tale diritto, non sono affatto disobbedienti.

In una lettera del 2 luglio 2002 da parte della Congregazione a un Vescovo americano, pubblicata nel bollettino pubblico della Congregazione, Notitiae, il Prefetto stabiliva: “La Congregazione è preoccupata per il grande numero di doglianze simili ricevute negli ultimi mesi da vari luoghi, e considera che il rifiuto della Santa Comunione a motivo della postura inginocchiata, sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti dei fedeli cristiani, quello in particolare di essere assistiti dai propri Pastori per la ricezione dei Sacramenti (Codice di Diritto Canonico, can.213).

Dopo che la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha richiesto e ricevuto la recognitio (termine canonico per “riconoscimento”) per rendere normativa in tutti gli Stati Uniti la postura eretta per la Santa Comunione, qualche Vescovo ha tentato di imporla, pretendendo che chi non l’avesse seguita, sarebbe stato disobbediente al Papa stesso. La Congregazione per il Culto Divino ha rigettato con forza questa interpretazione, scrivendo: “Per l’autorità ricevuta dalla recognitio che ha ottenuto la forza di legge, questo Dicastero è competente per specificare la maniera per comprendere la norma per una appropriata applicazione …”.

“… questa Congregazione, pur avendo concesso la recognitio alla norma desiderata dalla Conferenza Episcopale del vostro Paese per ricevere in piedi la Santa Comunione, lo ha concesso a condizione che ai comunicandi che scelgono di inginocchiarsi, non sia negata la Santa Comunione per questi motivi. E ancor più, i fedeli non devono essere obbligati né accusati di disobbedienza e di agire in modo illecito quando si inginocchiano per ricevere la Santa Comunione”.

Nella nostra cappella, i comunicandi possono stare in piedi o in ginocchio. Io rispetto il vostro diritto di riceverla nel modo che scegliete, e tutti devono rispettare le scelte degli altri. La prassi è che si proceda lungo il corridoio centrale e in piedi riceverla quando si giunge alla testa della fila, o andare ad uno degli inginocchiatoi e riceverla in ginocchio. Qualcuno va all’inginocchiatoio e rimane in piedi. E’ accettabile. In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (nelle cose necessarie unità, nelle cose discutibili libertà, in tutte carità).  © 2003 CatholicCulture.org, tramite Diocesi di Porto Santa Rufina – trad. it. di D. Giorgio Rizzieri. Si ringrazia missagregoriana.it 




[SM=g1740758] * Padre Joseph Fessio SJ è membro della Compagnia di Gesù. Nel 1975 ha conseguito il dottorato in teologia a Ratisbona con J. Ratzinger. Pubblicista, docente di filosofia e teologia, è stato fondatore, tra l’altro, del St. Ignatius Institute a San Fancisco in California e della casa editrice Ignatius Press. L’articolo risale al periodo del suo cancellierato presso l’Ave Maria University, in Florida.

[SM=g1740733]






Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 09:13

[SM=g1740733] Siamo sicuri che sia stato il Concilio Vaticano II ad avere riformato la Liturgia ? Un prezioso documento del 1949.

Lo studio che gradatamente ci accingiamo a pubblicare, è di una specie “manifesto programmatico” del Padre Lazzarista Annibale Bugnini (1912-1982) protagonista assoluto delle sorti liturgiche della Chiesa Cattolica, dalla Riforma della Settimana Santa ( 1951-56) all'immediato post Concilio Vaticano II fino al 1976 quando fu promosso Nunzio Apostolico a Teheran .



La Rivista Ephemerides Liturgicae aveva consultato nel 1948 sia pur “in forma del tutto privata e riservata” … “ professori universitari, insegnanti di seminario, clero in cura d'anime, direttori di opere, religiosi di diversi ordini e congregazioni, missio­nari, ecc. In particolare … conferenzieri, direttori di case d'esercizi, ecc. sono a contatto frequente con molti ecclesiastici. Si èanche conto delle varie nazioni, in modo che tutte, grosso modo, vi fossero rappresentate” per analizzare le diverse opinioni in vista di una riforma liturgica.
Il Documento va letto solo come testimonianza storica di un processo di rinnovamento liturgico iniziato fin dal sec.XIX che ha avuto il tragico epilogo della distruzione del venerando rito romano , risalente all'epoca apostolica, tradendo le equilibrate e legittime aspirazioni dell'antico "movimento liturgico".
Ringraziamo un nostro amico e Lettore, attento studioso e storico della Liturgia, per averci gentilmente inviato questo prezioso documento.



PARTE PRIMA - PER UNA RIFORMA LITURGICA GENERALE
Roma, marzo 1949.A. Bugnini, C M.

« L'anno scorso la direzione della nostra Rivista, facendo qualche rilievo su recenti avvenimenti interessanti la liturgia, auspicava che fosse ripresa la riforma iniziata da Pio X per continuarla e portarla a termine secondo il pro­gramma assegnatogli dal Santo Pontefice (cfr. Ephem. Ut. 62 [1948] 3-4).
Al­cuni indizi, come la nuova traduzione del Salterio ordinata dal Santo Padre Pio XII f. r. e autorizzata per l'uso nella recita pubblica e privata dell'Ufficio divino, come pure gli incoraggiamenti ripetutamente espressi, davano buone speranze per una ripresa del lavoro, che avrebbe dovuto avere una tendenza più spiccatamente pastorale (come si poteva arguire dalle varie concessioni e indulti degli ultimi tempi) in vista d'un alleggerimento dell'apparato li­turgico e d'un adeguamento più realistico alle esigenze concrete del clero e dei fedeli nelle mutate condizioni d'oggi.
Questi motivi indussero la direzione della Rivista ad invitare i suoi collaboratori ed amici ad esprimere il loro pen­siero in proposito.
L'invito, in forma del tutto privata e riservata, fu diramato in modo che si potesse avere un'idea abbastanza esatta delle reali aspirazioni del clero delle varie categorie: professori universitari, insegnanti di seminario, clero in cura d'anime, direttori di opere, religiosi di diversi ordini e congregazioni, missio­nari, ecc. In particolare s'.invitarono le persone che per il loro ministero, come la predicazione al clero, conferenzieri, direttori di case d'esercizi, ecc. sono a contatto frequente con molti ecclesiastici.
Si tenne anche conto delle varie nazioni, in modo che tutte, grosso modo, vi fossero rappresentate.
Le risposte furono numerose e varie qualificate; le proposte vanno dalle posizioni più tradizionaliste alle più avanzate.
Alcuni si sono semplicemente attenuti al questionario inviato, altri hanno intessuto delle vere e proprie dissertazioni.
C'è chi ha tentato di imperniare una riforma su dei principi, e chi si è limitato ai particolari trascurando l'insieme.
Per evidenti ed ovvie ragioni, come s'era già avvertito espressamente nella circolare d'invito, non possiamo pubblicare le risposte integralmente.
Dovremmo stampare un grosso volume, con l'inconveniente di vedere ripetute diecine di volte in termini diversi le stesse cose.
Tenteremo di darne una relazione quanto mai sintetica, cercando di non perder nulla di quanto è stato proposto, anche se più d'un suggeri­mento mostri dei lati deboli, difettosi e inaccettabili.
Ne trarremo quindi, via via, delle conclusioni- modestamente esprimendo il nostro personale pensiero.
Ci preme inoltre avvertire che daremo, per ora, i risultati del referendum solo per le questioni relative all'impostazione generale d'una supponibile ri­forma e al Breviario, rimandando ad un secondo tempo quelli riguardanti gli altri libri liturgici.


**********
E anzitutto una parola sul titolo di questa relazione.
Abbiamo detto « ri­forma generale ».
Nello stato attuale, infatti, si può pensare ad una riforma solo parziale, per esempio, del solo Breviario, per accennare al punto più di­scusso, senza curarsi delle altre parti della liturgia, del messale, del rituale, del pontificale, dell'anno ecclesiastico, ecc.?
Noi pensiamo di no. E come noi la pensa un ottimo liturgista, che scrive: « Una riforma desiderabile del Bre­viario Romano, o, più esattamente, una revisione pienamente adeguata ai biso­gni spirituali della cristianità moderna, alle condizioni pubbliche e private, della celebrazione liturgica delle feste e dei misteri per mezzo della Messa e dell'Ufficio divino, non potrebbe compiersi utilmente nello stato d'incertezza che regna al presente sulla legislazione liturgica propriamente detta.
Dal secolo xi almeno noi viviamo su un compromesso, impropriamente detto " rito romano ", tra il rito pontificio celebrato in Vaticano o al Laterano per­sonalmente dal Papa, il rito basilicale delle grandi chiese di Roma, il rito epi­scopale delle cattedrali latine d'occidente, gli usi conventuali monastici e ca­nonicali, le necessità del ministero parrocchiale urbano o rurale e quelle della devozione privata dei sacerdoti isolati o missionari ».
Nello stato attuale, dun­que, la liturgia è un mosaico, o, se più piace, un vecchio edifìcio, costruito a poco a poco, in tempi diversi, con diversi materiali e da diverse mani.
Se ora si vuol togliere o cambiare (« modernizzare ») l'una o l'altra parte, tutto il resto comincia a sgretolarsi o anon convenire più con la parte restaurata.
Infatti, anche Pio X ebbe l'idea di arrivare gradualmente ad una riforma generale.
Ma le difficoltà intrinseche al lavoro e circostanze esterne arrestarono la cosa, che non fu mai ripresa. Bisogna aggiungere che taluni problemi d'ordine pa­storale, che allora incominciavano appena a farsi sentire, oggi han preso tali proporzioni e son divenuti così assillanti, che non riconoscerli o non tenerne conto o non tentarne una soluzione sarebbe lo stesso che condannare la litur­gia, preghiera viva della Chiesa, alla sterilità o ad un archeologismo inefficace.
Per cui pensiamo che una riforma liturgica o è generale o finirà per non accon­tentare nessuno, perchè lascerebbe le cose come sono con le loro deficienze, incongruenze e difficoltà.



1 PRINCIPI
La supposta riforma, perchè sia organica e unitaria, e quindi duratura, dovrebbe partire da principi netti e ben precisi.
Un collaboratore li formola così:
a) principio tetico: « melior est conditio possidentis », cioè della tradizione» che si deve presumere buona, finché non sia dirnostrata cattiva, cioè meno utile;
b) principio antitetico: bisogna attenersi alla brevità e semplicità del comando divino: «Sic orabitis: Pater noster... »;
c) principio sintetico: bisogna fare una cosa e non tralasciare l'altra, cioè conservare la tradizione e non temere la semplificazione.
Altri affermano che « la riforma dev'essere concepita come un ritorno alla tradizione primitiva della celebrazione del mistero cristiano piuttosto che come un compromesso tra questa celebrazione in sottordine e le superfetazioni de­vozionali che l'hanno disarticolata nel corso dei secoli ».

Da cui i seguenti prin­cìpi:
1) predominio del Temporale sul Santorale;
2)l'ufficio tipico infra hebdomadam il feriale a 3 lezioni;
3)conservare al culto dei santi il carattere strettamente locale;
4)evitare il moltiplicarsi delle « feste d'idea »;
5)evitare la continua ripetizione dei « comuni ».


( continua )

L’ARTICOLO DEL PADRE ANNIBALE BUGNINI CONTINUA CON I SEGUENTI CAPITOLI : GRADUAZIONE DELLE FESTE
CALENDARIO a) Temporale b) Santorale
BREVIARIO
SALMODIA
ANTIFONE
LETTURA
CAPITOLI
RESPONSORI
INNI
LE PRECI
INIZIO E FINE DELLE ORE
LE OTTAVE
LE COMMEMORAZIONI
LE RUBRICHE
CONCLUSIONE
Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 09:15

Dalla Rivista " Ephemerides Liturgicae " del 1949 : per una " riforma generale della Liturgia", di P.Annibale Bugnini, parte seconda


(Segue da qui)

PARTE SECONDA

 

2. GRADUAZIONE DELLE FESTE
Il lamento generale è che la graduazione delle feste, così come si presenta attualmente, è troppo complicata e minuziosa.
Ma quando si tratta di dare una soluzione, o non se ne indica affatto o è evidentemente inadeguata allo scopo. I più si accontentano di dire che i « doppi » sono troppi e vanno ridotti; che i « semidoppi », in pratica, non hanno altro effetto che di appesantire l'ufficio coll'aggiunta all'ufficio normale di 9 lezioni delle «preci» a Prima e delle commemorazioni comuni, e che, perciò, va abolito, riducendo queste feste a rito semplice, ed elevando le domeniche a rito doppio o a doppio maggiore o a feste di seconda classe.
C'è inoltre l'ufficio semifestivo (S. Agata, S. Cecilia, ecc.) che avrebbe bisogno di una trasformazione in quanto impone la divisione illogica, e, in qualche caso, un capriccioso intreccio di parti per natura loro inscindibili.
Nell'insieme i rimedi proposti non risolvono il problema che in minima parte.
Come arrivare ad una reale e definitiva semplificazione?
Forse non è lontano dal vero chi definisce « eccessiva ed arbitraria l'attuale nomenclatura dei riti dell'Ufficio » e suggerisce di venire addirittura alla formazione d'una nuova scala ideale di graduazione di feste, che non sia semplicemente intenzionale e fittizia, ma che abbia una base reale e concreta nel valore intrinseco delle feste stesse e che possa soddisfare alle esigenze ragionevoli della liturgia.
Una tale scala dovrebbe tener conto anzitutto delle feste fondamentali dei misteri del Signore (Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste), che regolano tutto il ciclo annuale della Redenzione e che quindi dovrebbero avere un trattamento speciale, poi delle altre feste del Signore più recenti, ma particolarmente importanti e cioè Corpus Domini, Sacro Cuore e Cristo Re, e quindi, proporzionalmente, delle altre ricorrenze dell'anno, distribuite, naturalmente, per gradi a gamma molto ridotta.

A. Temporale
3- CALENDARIO
Si è già accennato che con i due cicli di Natale e di Pasqua il proprium de tempore dovrebbe riacquistare nella liturgia riformata un'assoluta preminenza sul proprium sanctorum. È desiderio universale.
Anche qui, però, nessuno si è posto il problema nel suo complesso, ma ci si è limitati a rilievi particolari, che possono sintetizzarsi così:
a) Prefazio proprio per l'Avvento;
b) in Avvento soppressione delle commemorazioni;
c) nel ciclo natalizio accordo tra la successione storica degli avvenimenti e il calendario liturgico.
Attualmente, si rileva, c'è un intreccio assai capriccioso delle due cose, come si può osservare dallo schema seguente: Se si tracciano delle linee che uniscano il fatto storico con la corrispondente festa liturgica ne risulta un vero labirinto.
La proposta tenderebbe a far combaciare le due successioni ideali.
d) L'ottava del Natale tratti tutta del mistero natalizio e quindi si eliminino le feste dei santi o si riducano ad una semplice commemorazione. S. Giovanni Evang. e S. Stefano già si celebrano in altri tempi e qui possono scomparire; i ss. Innocenti invece possono rimanere perchè in relazione col Natale. Le lezioni per gli altri giorni si possono prendere dalla festa della sacra Famiglia, della Maternità, ecc.
e) Nella festa dell'Epifania si celebri una seconda Messa per commemorare il Battesimo di Gesù (Messa dei Magi al mattino e del Battesimo dopo Terza).Maggiore risalto della festa dell'Epifania con la sua ottava. …Il proponente aggiunge allo schema ampie spiegazioni giustificative delle singole assegnazioni e trasposizioni, ma la proposta ci pare nell'insieme assai singolare e di non facile attuazione, supposto, naturalmente, che meriti davvero, così come si presenta, di essere presa in considerazione.
f) Pasqua.
Chi la vuol fissa, chi mobile (o lasciandola come sta ora, oppure mettendola nella prima domenica d'aprile o nella prima metà dello stesso mese). I sostenitori della Pasqua fissa affermano che essa «porterebbe in tutti i campi dell'attività e della preghiera un considerevole vantaggio, che compenserebbe di gran lunga i diversi punti di vista dei tradizionalisti».
Questi, a loro volta, rilevano che « la mobilità della Pasqua è uno degli elementi più preziosi della poesia della vita già troppo monotona.
D'altra parte, aggiungono, non si potrebbe assicurare la voluta fissità senza sacrificare, per ottenerla artificialmente, il computo lunare tradizionale e la successione regolare di sette giorni della settimana ».La questione, come è noto, è stata trattata in tutti i sensi anche fuori, anzi soprattutto fuori del campo puramente ecclesiastico.
Ma ai fini di una possibile riforma liturgica incide in modo secondario. Si conosce anche l'atteggiamento della Santa Sede in proposito, atteggiamento che resta la lìnea direttiva seguita fino ad oggi.
g) Pentecoste. Ritorno alla prassi antichissima di chiudere il tempo pasquale colla giornata cinquantesima, cioè con la domenica di Pentecoste, senza ottava.
B. Santorale
Un alleggerimento del Santorale accoglie molti voti, che vorrebbero un maggior sviluppo del culto latreutico e degli uffici de feria. Si tratta di eliminare e di limitare. E per questo si chiede non solo una riduzione dell'attuale calendario, ma anche norme fisse e tassative per impedire che in seguito si ripeta l'agglomerarsi indiscreto delle nuove feste di santi.
Ecco come si esprime un collaboratore: « Bisogna far cessare la prevalenza devozionale riducendo al tipo unico della festa semplice e salterio feriale tutte le feste di santi per le quali non esiste alcuna ragione locale di solennità più grande. I motivi di pura devozione sono inammissibili.
Devono contare solo: la nascita del santo, la sua dimora, la tomba o la presenza effettiva di reliquie insigni in un luogo ben determinato e non per tutta la diocesi.
Le feste semplificate non dovrebbero avere di proprio o preso dal comune che la colletta, l'antifona al Magnificat e il versetto al Vespro, l'antifona del Benedictus col versetto alle Lodi,
Tutto il resto dovrebbe essere preso dal salterio e dall'ordinario.
Le feste più solenni soltanto dovrebbero avere l'ufficio a 9 lezioni e rito doppio, come nell'uso attuale. I patroni propriamente detti, gli apostoli locali e i grandi santi della Chiesa universale dovrebbero avere l'ufficio proprio o comune col rito doppio maggiore o di 2a classe.
La ia classe, soprattutto con ottava, dovrebbe essere rarissima.
Un mezzo eccellente per tagliar corto al fastidioso moltiplicarsi delle commemorazioni potrebbe essere quello d'incorporare nel Breviario la lettura del Martirologio a Prima...
Bisogna liberare la celebrazione pubblica di tutti gli elementi penetrati per circostanze fortuite (invenzioni, traslazioni di reliquie, ecc.).

La storia ci dice che il culto dei Santi si celebrava unicamente intorno alla loro sepoltura, la tomba o la " cathedra".
La non sicurezza dei cimiteri " extra muros" al tempo delle invasioni fece portare in città i corpi santi e diede luogo allò sviluppo del loro culto a danno della celebrazione dei misteri della Redenzione.
Il ritorno all'antico stato di cose potrebbe avere il buon effetto di ridar vita ai pellegrinaggi, ai quali nessuno pensa più da quando la festa di un santo si fa dappertutto ».
A queste osservazioni d'ordine generale un altro studioso dà un accento più tradizionalista e particolareggiato, pur sostenendo il principio della semplificazione:
r. È ormai pacifico, dice, e da tutti ammesso che l'ufficio «de tempore» debba riprendere un posto preponderante senza peraltro sacrificare il culto dei santi.

Ci si può arrivare conservando nel calendario della Chiesa universale solo queste feste:

a) le due feste di S. Giovanni Battista, e quella di S. Michele Arcangelo del 29 settembre;

b) una' sola festa di S. Giuseppe da celebrarsi nel tempo natalizio (altri suggeriscono la 3a dom. dopo Pasqua o nel mese di maggio);

e) le feste degli Apostoli;

d) le principali feste dei martiri, non conservando che gli antichi martiri romani, ma anche qualche martire della Chiesa universale, per es. S. Potino e S. Dionigi, S. Bonifazio, S. Giosafat, S. Venceslao, i Martiri Domeni¬cani e Francescani del Marocco, i Martiri Giapponesi, qualche martire missionario degli ultimi secoli;è) le feste dei Dottori della Chiesa (se necessario, raggruppandoli);

f) le feste di alcuni grandi Papi: S. Gregorio VII, S. Pio V, ecc.;
g) le feste dei fondatori di grandi Ordini o di Congregazioni d'importanza veramente universale e sparsi in tutto il mondo, come i santi Benedetto, Bernardo, Brunone, Francesco d'Assisi, Domenico, Vincenzo de' Paoli, Giovanna di Chantal, Teresa d'Avila, ecc.;
h) qualche altra festa di santi veramente universali e scelti un po' in tutti i paesi. Evidentemente la scelta richiederebbe molto tatto!

2. Nello stesso ordine d'idee, bisognerebbe raggruppare più santi che hanno avuto attività uguale o affine (cosa che avviene già nell'Ordine benedettino).

Perchè non riunire i santi Barnaba, Tito, Timoteo e Sila, con l'ufficio degli Apostoli?

Così S. Gioacchino e S. Anna (con ufficio proprio, tenendo conto che sono Santi del V. T.); gruppi di santi Papi, ecc.; di santi Patriarchi e Profeti, istituendo una festa collettiva.

3. A titolo di pura indicazione si potrebbero segnalare le feste seguenti come suscettibili di eliminazione dal calendario universale: S. Martina, S. Andrea Corsini, S. Romualdo, i Santi Sette Fondatori dei Servi di Maria, S. Si-meone di Gerusalemme, S. Casimiro, S. Francesca Romana, i Santi XL Martiri, S. Francesco di Paola, i Ss. Sotere e Caio, S. Giorgio, S. Paolo della Croce, S. Pietro di Verona.

Al contrario si potrebbero abbinare S. Tommaso Becket e S. Stanislao, S. Atanasio d'Alessandria e S. Ilario di Poitiers, S. Cirillo di Gerusalemme e S. Giovanni Damasceno, S. Alberto Magno e S. Bonaventura, S. Pietro Canisio e S. Roberto Bellarmino, S. Felice di Valois e S. Giovanni de Matha, S. Giovanni di Dio e S. Camillo de Lellis.

In questo caso si potrebbe generalizzare l'uso dei comuni « prò aliquibus locis » di più confessori e oiù sante donne.
Le feste di santi soppresse potrebbero d'altra parte essere integrate nei propri diocesani o nazionali o nei propri delle Congregazioni.

4. Quanto alle feste del Signore e della Madonna alcune sono certamente dei doppioni e andrebbero semplificate.
Per esempio:
Circoncisione e Santo Nome di Gesù,
Preziosissimo Sangue da fondersi con l'ottava del Sacro Cuore,
Trasfigurazione e 2a domenica di Quaresima,
le due feste della Santa Croce, le due feste della Madonna Addolorata,
il Santo Nome di Maria, da fondersi coll'Ottava della Nascita della Vergine,
le due feste della Cathedra Petri.
Altre proposte di minor importanza riguardanti il Santorale sono: che la festa di Cristo Re sia trasferita alla Domenica tra l'ottava dell'Ascensione, e la Maternità della B. M. V. al 3 gennaio; o il nome di S. Giuseppe entri nel Canone e nel Confiteor; che si introduca un « festum AnnuntiationisS. Ioannis Baptistae » al 23 settembre, in quanto questa data costituirebbe «primordia Evangelii»; che si riordini completamente il «Commune Sanctorum »; (quello dette « Confessorum » è quasi un rifugio di tutti i santi più disparati: sacerdoti, monaci, laici, giovani, vecchi, di tutti i ceti e classi, quindi anche il formolario è divenuto schematico, senza vita e proprietà).
Almeno il « Commune Confessoris non Pontiflcis » dovrebbe suddividersi in due: « Comm. Confessoris Presbyteri » e « Comm. Conf. non Presbyteri », assegnando al primo dei testi presi anche dal Pontificale Romano, i quali « rememorent pristinos dies » e « resuscitent gratiam quae data est per impositionem manuum ».

 

***

Che dire di tutte queste proposte?

C'è indubbiamente molto di buono e paiono dettate da una visione abbastanza concreta del problema.
Ma ci sembra che debbano essere inserite in un quadro ancora più ampio, e fluire da netti e chiari princìpi, che diano l'ossatura del calendario riformando e servan di norma per l'avvenire.
Perchè i giorni dell'anno sono limitati (365), mentre i santi sono moltissimi e in continuo aumento.
Su quali princìpi si potrebbe fare l'accordo?
Pensiamo che debbano essere gli stessi, ai quali si ispirò la Commissione di S. Pio V, quando mise mano alla riforma che da lui prende il nome, perchè proprio allora il calendario romano assunse un carattere vera-mente «cattolico» con l'estensione alla Chiesa universale.
Se ben si osserva, il calendario piano ha embrionalmente un duplice indirizzo: senso di romanità e inizio di universalità cattolica.
Questi due concetti potrebbero fornire i princìpi ispiratori del nuovo calendario.

Romanità e quindi un posto di privilegio dovrebbero avervi gii autentici martiri romani, i santi antichi non romani ma con culto antico in Roma, i santi collegati alle chiese titolari romane, i papi, la dedicazione di chiese romane.
Universalità cattolica: i dottori, i santi Padri e gli scrittori ecclesiastici posteriori,
i santi rappresentativi del monachesimo e dell'ascetismo antico,
i santi rappresentativi delle Chiese orientali,
i santi nazionali (gli evangelizzatori delie varie nazioni,santi e principi, altri santi «nazionali»)
i fondatori (secondo l'importanza che il santo e il suo Ordine hanno nella Chiesa universale),
i santi patroni,
le feste dei più celebri santuari mondiali.
C'è poi un cumolo di questioni sulle feste minori del Signore e della Madonna, sulle feste ideali, gli uffici della Passione, ecc., che devono essere esaminate attentamente, perchè la liturgia soddisfi realmente a tutte (per quanto umanamente possibile) le esigenze della pietà liturgica odierna.

Ma come conciliare l'introduzione o il mantenimento di tutte queste feste col ricercato alleggerimento del calendario dalle feste dei Santi?

Tutto dipende dal grado che esse avranno e dal modo, quindi, di celebrarle.

FINE PARTE SECONDA
Foto : "Vescovo e Capitolo" di chierichetti, usanza in alcune Cattedrali per la festa dei Santi Innocenti, 28 dicembre.
A Vespro il "capitolo" dei bambini si collocava sugli stalli dei Canonici.
Il video della suggestiva cerimonia.
Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 09:16

Dalla Rivista " Ephemerides Liturgicae " del 1949 : per una " riforma generale della Liturgia", del Padre Annibale Bugnini, parte terza

 
 Segue da qui e da qui
 
4. IL BREVIARIO 
È il punto che ha incontrato il maggior interessamento e quello che, in realtà, agli effetti d'una riforma, avrebbe maggior portata pratica per il clero. Il Breviario è stato anche, bisogna riconoscerlo, il punto di partenza e il punto di paragone di tutte le riforme precedenti e, se ben si osserva, in tutte c'è stata una costante tendenza ad alleggerire (mai ad accrescere) il pensum quotidiano dell'Ufficio divino. È in questo senso, com'era da prevedere, che si orientano tutti i suggerimenti dei nostri collaboratori, che hanno in comune anche un'altra particolarità: riportare l'Ufficio divino al centro della pietà sacerdotale rendendolo attraente e riportarlo anche, per quanto è possibile, nelle mani del popolo. 
E veniamo alle proposte. 
 1) Il « ritmo » delle Ore del Breviario, che animava con la preghiera frequente, anche nella notte, la vita dei monaci, osservano alcuni, oggi non corrisponde più al ritmo della vita del clero addetto al ministero pastorale, che è la stragrande maggioranza. 
Il lavoro parrocchiale, reso più gravoso dalla deficienza di sacerdoti, le opere sociali e religiose che si moltiplicano gravitando intorno alia parrocchia, cellula naturale della vita cristiana, l'evangelizzazione più elementare che richiede grande disponibilità di tempo, e infine per assolvere queste incombenze, l'organismo umano assai più debole ora che non per l'addietro, tutto ciò, secondo costoro, reclamerebbe necessariamente un alleggerimento e un adattamento. 
Ci vorrebbe, dicono, un Breviario, in cui le pre-ghiere fossero distribuite altrimenti, per esempio al mattino e alla sera. È un ritmo naturale della vita degli uomini, che corrisponderebbe meglio alle nostre presenti condizioni. Se si dimenticassero queste riflessioni d'ordine sociolo¬gico, si conclude, il Breviario sarebbe sempre più un peso per il clero pastorale e la recita fatta tutta assieme di Ore composte per essere scaglionate nella gior-nata non farebbe che accrescere il malessere già adesso così grave. 
2) Altri, al contrario, concepiscono la riforma.non nello spirito d'una diminuzione quantitativa, ma piuttosto d'un migliore equilibrio generale dell'opta Dei attraverso l'anno, la settimana e la giornata. 
La riforma, dicono, deve conservare al Breviario il suo carattere corale « comunitario ». E in: questo dovrebbe favorire il movimento che si nota già in parecchi paesi tra il clero di ritrovarsi insieme nella vita e nella preghiera comune basata precisa¬mente sulla recita dell'Ufficio divino. 
3) Qualcuno rileva che il Breviario attuale « non può considerarsi molto pesante », che la sua recitazione è varia e gradita e riflette meglio la tradizione secolare, è devoto nel contenuto e che quindi una riforma dovrebbe ispirarsi a questi due princìpi: a) semplicità soprattutto nelle rubriche oggi fantastica¬mente complicate (soppressione della « lectio IX », delle commemorazioni, delle ottave, degli uffici trasferiti, ecc.). Il breviario dovrebbe essere un « devozionario » agile e breve, che possa recitarsi senza necessità di calendari o epatte; b) varietà che faciliti la devozione e l'istruzione. L'ideale, sempre secondo costoro, sarebbe che ogni festa avesse lezioni, omelie, inni, ecc. propri; i « comuni » sono la fossilizzazione della pietà. 
 
5. LA SALMODIA 
Il salterio costituisce la base della preghiera liturgica.x 
La inintelligibilità di alcune parti costituiva, fino a poco tempo fa, la prima e più grande difficoltà ad una recita pia e devota. Un gran passo in avanti, su questo punto, è stato fatto con la recente nuova traduzione dei salmi, a proposito della quale, mentre si nota una generale soddisfazione e non si risparmiano lodi per la sua insperata e inattesa realizzazione, non è mancato, (l'accenniamo per scrupolo di esattezza), chi ha espresso il desiderio che « grego-rianisti e latinisti medievali possano ancora esaminare qualche punto » e apportarvi, prima che la « nova interpretatio » venga definitivamente adottata per tutta la Chiesa, qualche leggera modifica, dove il testo presenta ancora delle difficoltà per l'uso liturgico. 
Un vecchio parroco si inquieta per timore che un giorno venga fatto divieto di servirsi del vecchio salterio; egli conosce quasi tutti i 150 salmi a memoria, e durante le visite ai malati, spesso molto lunghe, può recitare a memoria il Breviario, ciò che sarebbe impossibile se il nuovo salterio venisse imposto togliendo completamente l'uso del vecchio. La intelligibilità non esaurisce tutti i problemi che riguardano il salterio. Poiché le proposte di riforma si orientano decisamente verso una riduzione del pensum quotidiano, in genere si punta precisamente sul salterio per raggiungere lo scopo. 
1) Ci son di quelli che vorrebbero ridurre il Maturino, come nell'ottava di Pasqua e di Pentecoste, a tre salmi e tre lezioni e così penserebbero d'aver trovato ipso facto la soluzione voluta. In questo caso si proporrebbe il se¬guente schema: Invitatorio, inno, tre salmi con tre lezioni, Dominus vobis-cum, orazione del giorno (il « Te Deum » dovrebbe riservarsi per le grandi solennità). 
2) Altri invece trovano che l'attuale recita settimanale dell'intero salterio debba restare intatta, e chiedono che si sia più severi, in quanto solo le feste principalissime dovrebbero abbandonare lo schema del salterio settimanale; le altre dovrebbero avere salmi propri solo-a Vespro, Maturino e Lodi; alle Ore minori e Compieta servirsi del salterio corrispondente della settimana. 
3) Nelle feste che prendono i salmi dalla domenica alle Ore minori qual¬cuno consiglierebbe di usare i salmi graduali e il salmo 118 rimanere solo per la domenica. (Ma altri trovano il salmo 118 sempre più bello e ricco e lo vor¬rebbero più spesso ancora). 
4) C'è chi propone che si riveda la distribuzione e divisione dei salmi, abbreviando taluni schemi, come quelli della domenica. 
5) Altre proposte particolari sono: che si eviti di dire due volte lo stesso salmo sotto forme poco diverse, come il 13 e il 52, 39 iii e 69; che si raggruppino i salmi 41-42; che ad ogni salmo si aggiunga una spiegazione in poche parole, o un titolo che ne specifichi il senso; che il simbolo « atanasiano » si serbi per la festa della SS. Trinità, oppure si divida in parti come salmi di Prima della domenica; che alle Lodi si restituisca il vecchio schema in uso prima di Pio X; che ai vespri cantati col popolo si dia la facoltà di sostituire l'ultimo salmo proprio col Laudate Dominum (salmo 116). 
6) Infine non sono mancati quelli che vedrebbero nella distribuzione del salterio in due settimane Punico e più efficace modo di venire ad un reale alleggerimento dell'Ufficio divino. «Si potrebbe pensare, dice uno dei propo¬nenti, ad una riforma più profonda dell'Ufficio divino, che ritenga la recita quotidiana e permetta correlativamente la lettura della Sacra Scrittura. 
Ciò non dovrebbe importare nessun cambiamento sostanziale all'anno liturgico né all'ordinamento base delle Ore canoniche.
 Ma il salterio sarebbe diviso in due settimane col seguente schema: 
Vespri: quattro antifone e quattro salmi o parti di salmi, una lezione della Scrittura (una ventina di versetti) in relazione col tempo liturgico (o con la festa, ma solo per le grandi feste) e seguita da un responsorio, inno, versetto, Magnificat. 
Compieta: schema attuale. 
Matutino: Invitatorio, inno, poi un solo notturno di tre antifone e tre salmi (o tre gruppi di salmi con un solo Gloria), tre lezioni (della Scrittura, storica o patristica, e omelia) le domeniche e feste; una sola lezione alle ferie per annum, due lezioni alle ferie che hanno un vangelo proprio (lezione biblica e omelia). 
Lodi: schema attuale, ma con recita quotidiana del gruppo di salmi 148-150 conforme alla tradizione antica Ore Minori: schema attuale. 
Segue un dettagliato schema di ripartizione salmodica per le due.settimane e l'indicazione dei cantici per il « cursus » ordinario e per quello festivo. Senza dubbio la proposta è suggestiva, assai più di quel che potrebbe sembrare a prima vista. 
L'idea, in fondo, non sarebbe d'una novità assoluta. Il rito ambrosiano ha ab antico il salterio ripartito in due settimane. 
C'è il fatto della rottura della tradizione romana settimanale, che ha fatto scartare il progetto risolutamente anche al P. Parsch. 
Ma, tutto considerato, ci pare che il « vale » ad una veneranda tradizione sia largamente compensato dai vantaggi che ne deriverebbero, qualora il progetto s'avviasse davvero verso una realizzazione; cioè ci pare che sarebbe questo il modo più semplice e più serio di arrivare ad una riduzione ragionevole e conveniente dell' onus canonieum. 
Certo una tendenza verso questa soluzione non potrebbe non ri¬scuotere molti consensi, specialmente da parte del clero pastorale. 
Ma evidentemente ciò rimane in sede di puro desiderio e la nostra segnalazione non ha altro scopo che di mostrare una delle più indovinate e possibili soluzioni allo spinoso problema. 
 
6. LE ANTIFONE 
Alla salmodia sono intimamente legate le antifone, e proposte di vario genere non mancano anche per queste. Si chiede: 
1) che le antifone sia prima che dopo il salmo siano dette sempre per intero e non solo accennate; 
2) che si mettano d'accordo Breviario e Antifonario, dove ci son divergenze tanto per il testo che per la posizione dell'asterisco d'intonazione;
3) che si faccia una migliore scelta delle antifone, più utili, riflettenti meglio il senso del salmo, di cui debbono essere come il titolo, e preferibilmente tolte dal N. T. per mettere il salmo nella luce della Redenzione; 
4) che si tolga l'alleluia da certe an¬tifone che non lo comportano, per es. « Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena, alleluia, alleluia» (II domen. dopo Pasqua, resp.; « Consolantem me quaesivi et non inveni, alleluia » (festa del S. Cuore), ecc.; 
5) nella festa del Sacratissimo Rosario le antifone del i° notturno si prendano dal Comune della B. V. M. e alle Lodi si prendano dai Vespri, perchè queste antifone sono state applicate ai salmi troppo meccanicamente, i misteri gau¬diosi vengono celebrati due volte, nell'inno dei primi Vespri e nelle antifone del i° e 2° notturno. Così pure con molta incongruenza i misteri gaudiosi vengono messi assieme a quelli dolorosi (20 notturno), e il 40 e 50 mistero doloroso malamente vengono contratti in uno.
 
7 LA LETTURA 
Altro punto di capitale importanza è stato per tutti i proponenti la lettura. 
Se ne chiede all'unanimità un aumento qualitativo e quantitativo. È senza dubbio un buon segno. 
Quando però si passa alla formulazione concreta delle proposte i pareri non sono più concordi. Notiamo subito: da una parte si chiede che la lettura sia aumentata, dall'altra si vorrebbe accorciare il Matutino riducendolo ad un solo notturno e a tre lezioni che non siano troppo lunghe e prese una dal V. T., l'altra storica, la terza dal N. T. (è, in fondo, il vecchio schema del « Breviarium S. Crucis »). 
Ma tre sole lezioni riducono ad un minimo la lettura, ammesso natural¬mente che le lezioni non debbano allungarsi più della giustezza media attuale. 
Quanto alla lezione biblica da moltissime parti si chiede inoltre che sia « con-tinua )>, anche in Quaresima e nelle Quattro tempora. Si vorrebbe che siano scelti i libri più pratici e che siano letti per intero, specialmente gli Atti degli Apostoli e le Lettere. 
Quando poi per qualche impedimento occasionale non si potessero leggere, si dovrebbero senz'altro tralasciare. Si suggerisce, inoltre, che sia riveduta la distribuzione dei libri dei Re, di cui il primo occupa troppo spazio a spese degli altri, e che si dia più campo alla lettura di Geremia, dei Profeti minori e di Giobbe. 
Un desiderio molto diffuso vorrebbe che le lezioni del 1° notturno (bibliche) siano più lunghe, perchè la S. Scrittura nel nuovo Breviario dovrebbe avere un posto più importante. 
Qualcuno concretizzerebbe così: obbligo alla lettura biblica per io mi¬nuti, ma a libefa scelta del sacerdote. In tal modo egli potrebbe leggere ciò che maggiormente gli giova e lo attrae. 
Altri desidererebbero una riduzione delle letture del V. T. e maggiore rilievo del N. T. 
Le lezioni del 2° notturno, invece, andrebbero accorciate, sia per eliminare delle ampollosità di poco o nessun valore spirituale, come per mettere un certo equilibrio tra gli uffici anche quanto alla lunghezza. Le lezioni agiografiche, si osserva ancora, dovrebbero essere rivedute seriamente, eliminando le leggende, che gettano il discredito sulla pietà della Chiesa, e i racconti di miracoli anche autentici, per mettere più in rilievo il carattere proprio dell'attività e della santità di ciascun santo « senza omettere di ben inquadrare » in due o tre frasi, l'ambiente storico, geografico, sociale e spirituale nel quale il santo è vissuto. 
Ciò importa moltissimo per ben valutarne e stimarne le virtù. Se il santo ha lasciato degli scritti, sarebbe desiderabile farne leggere qualcosa, invece della vita spesso ordinaria o schematica. 
Quanto alle lezioni patristiche bisognerebbe prima di tutto darle nel testo critico, citando la fonte da cui sono tolte; poi, per quanto è possibile e secondo i dati degli studi più recenti, assicurarsi della loro reale paternità. Si chiede pure che sia fatta una scelta più « eclettica » dei testi (dalla Chiesa greca, dai Dottori recenti, anche se hanno scritto in lingua moderna). 
Possibilmente nel giorno della festa d'un Dottore si dovrebbe dare un suo testo. Anche i discorsi e le omelie de tempore andrebbero rivedute accuratamente e le omelie dei Comuni essere maggiormente variate. 
Anzi, se fosse possibile, le omelie si vorrebbero per intero, e non solo Tini-zio, in vari giorni o festività (come avviene nell'Ufficio dell'ottava della Dedicazione della chiesa), per poterle leggere complete in più volte. Bisognerebbe, inoltre, togliere risolutamente quei passi, come certe interpretazioni e allegorie (per es. i 38 anni del paralitico della piscina di Bethsaida), che riflettono la moda e il gusto d'un tempo ormai passato, e sostituirli con testi che siano di vero alimento spirituale. Infine una questione pratica che investe tutta la lettura (biblica, patristica, storica, omiletica) è che essa sia fatta in « lingua volgare » in uno stile puro e semplice, o almeno alternatamente un mese in latino e l'altro in volgare (proposta che si estende a tutto il Breviario). 
 
8. CAPITOLI E RESPONSORI 
Alla questione della lettura si connette quella dei capitoli. Si vorrebbe estesa a tutte le domeniche dell'anno la distribuzione in capitoli dell'epistola occorrente per rimediare alla monotonia dei capitoli dei vespri, il solo ufficio celebrato in parrocchia. 
Quanto ai responsori la loro nuova introduzione sotto Pio X è stata certamente un vantaggio per il Breviario e il privarsene ora sarebbe un impove¬rimento. Il responsorio ha una funzione spirituale non piccola in quanto dopo la lettura è come una meditazione, un ripensamento su quanto è stato letto, una elevazione dell'anima a Dio nella lode meditata. Non è, dunque, un semplice pezzo di canto e quindi buono solo per quando l'ufficio è cantato in coro. 
 
9. INNI Le proposte per gli inni possono sintetizzarsi così: 
1) ritornare al testo antico ed a questo ispirarsi per le nuove composizioni; 
2) aumentare il numero degli inni prendendoli dalla innodia classica (Prudenzio, Fortunato, Sedulio ecc.) e da quella ricchissima medievale; 
3) variare maggiormente gli inni nelle feste della Madonna (prendendoli anche dall'innodia orientale) e dei santi per non dover ripetere tanto spesso gli stessi inni del Comune (« Iste confessor », « Ave maris stella », « Deus tuorum militum » ecc.); 
4) degli inni moderni parecchi sono incomprensibili e dovrebbero essere cambiati o modificati; 
5) per aumentare la varietà e l'interesse per gli inni non si potrebbe, chiede qualcuno, assegnarne dei propri a Compieta secondo i tempi e talune grandi feste? Ed ecco per una revisione degli inni esistenti alcuni rilievi particolari: 
1. Nell'inno del Cuore Eucaristico di Gesù ricorre la parola pabulum, (che si trova anche nel Comm. Mart.: «et blanda fraudum pabula ») che in buon latino, anche classico e patristico, significa foraggio, termine davvero poco conveniente per indicare il nutrimento degli uomini. Le frequenti elisioni, come nel verso: Hoc ostium arca* m làter* *st (festa del S. Cuore) rendono un inno impronunciabile e incantabile, e poco meno quello dell'inno a Cristo Re: Tutu* stat ordo civicus, ed è impropria nel medesimo inno la parola « imagine », invece di « specie » nel verso « Vini dapisque imagine ». 
2. La dossologia dell'inno « Ave, maris stella »: Sit laus Deo Patri, - Summo Christo decus, Spiritui Sancto, - Tribus honor unus. andrebbe cambiata così: Sit laus Deo Patri, - Summo Christo decus, Spiritui Sancto - honor, tribus unus. perchè la lezione attuale si trova nei codici più tardivi (cf. Clemens BLUME, S. I., Unsere liturgischen Lieder, Regensburg 1932, p. 205) e secondo la dossologia odierna al Padre conviene la laus, a Cristo il decus e manca l'attributo corrispondente per lo Spirito Santo. 
3. « Iesu corona celsior » (Lodi del Comune dei Conf. non Pont.) do¬vrebbe subire una rifusione generale. La 3a strofa, ricordando il giorno emor-tuale del santo, è in contrasto con la ia dell' Iste confessor, che cambia il 3° verso quando si tratta del giorno natalizio. Si fa notare pure che la triplice vittoria sul mondo, il demonio e la carne nella 4* strofa è assolutamente inafferrabile. Secondo lo stesso proponente bisognerebbe sopprimere completa-mente le prime tre strofe e ordinare le rimanenti così: Te Christe, Rie vanay Virtute, ecc. 
4. Nell'inno delle Lodi per S. Martina (30 genn.) alla ia strofa si vorrebbe cambiare « Thracios » (che richiama troppo l'oraziano odiatore dei nemici) in « Tartaros ». 
5. Nella festa delle sante Perpetua e Felicita martiri (6 marzo) gli inni> se non si fanno nuovi, si prendano dal « Commune plurium non Virginum prò aliquibus locis »: « Nobiles Christi famulas » e « Si lege prisca », perchè quelli in singolare del « Commune unius non Virginis » non convengono. io. 
 
10 LE PRECI 
Ne viene chiesta o la soppressione, o una risoluta riduzione nella formulazione del testo, o una limitazione nell'uso. Alcuni vorrebbero ritenere solo le preci feriali, altri riserverebbero le preci domenicali alle ferie « per annum •» e alle domeniche di Settuagesima e Quaresima e le feriali alle ferie di Quaresima e delle Quattro tempora. - 
Nel ty. per il Sommo Pontefice, che si usa chiamare anche « Santissimo », si fa notare che la parola « beato » del ty. è incongruente, quando nel y. si è già detto « beatissimo ». n. 
 
11 INIZIO E FINE DELLE ORE È generale la richiesta dell'abolizione dei Pater, Ave e Credo con talune preci immediatamente precedenti e seguenti (come il Confiteor, che si vor¬rebbe riservato solo per Compieta), deWIube, dottine, benedicere, alle lezioni, del Benedicite, Deus, a Prima. Qualcuno andrebbe anche più in là, fino alla soppressione delle antifone maggiori della Madonna, tutt'al più conservan¬dole alla fine di Compieta. Per le Ore minori c'è chi propone l'abbandono dei responsori brevi. Comunque sia, è certo che una semplificazione in questo campo ci vorrebbe. Ci sono attualmente delle formole che suppongono l'inizio dell'Ora e non la continuazione della preghiera, come avviene d'ordinario adesso. C'è tutta un'incrostazione che s'è andata formando intorno alla pre¬ghiera canonica originaria sotto la spinta della pietà privata e individuale. Cose piissime e santissime, senza dubbio, ma che nessuno, crediamo, si dorrebbe di vedere con criterio e saggezza eliminate, e la preghiera liturgica risplende¬rebbe allora nella sua nativa bellezza, con semplicità di linee e spontaneità d'espressione. Due « desiderata » incontreranno il consenso generale: i) mettere la preghiera del Signore (Pater) non come appendice dopo le Ore, ma nel punto culminante, come nel rito monastico (e nella Messa): Kyrie... Pater... orazione; 2) revisione delle orazioni: ritorno alla sobrietà classica, eliminandone talune lunghissime, con un cumulo di idee disparate, con dentro tutta la vita del santo, ecc. 
 
12. OSSERVAZIONI SU ALCUNE PARTI DELL'UFFICIO
Abbiamo già fatto alcuni rilievi sulle diverse parti dell'Ufficio divino, trattando la materia sistematicamente. Completiamo ora con qualche anno¬tazione particolare.
C'è chi vorrebbe dare ad ogni Ora un titolo spiegativo: un «tema», una « idea » come guida, e assegnare anche per ogni giorno e per le singole Ore una « intenzione di preghiera » ufficiale della Chiesa. Inoltre, secondo gli stessi proponenti, ogni feria potrebbe avere un significato proprio e particolare più esplicito.
Per esempio: Domenica: Trinità;
Lunedì: azione di grazie;
Martedì: grande lode a Dio;
Mercoledì: preghiera universale;
Giovedì: glorificazione del Dio-Uomo;
Venerdì: Satisfazione generale al Cristo sacrificato per noi:
Sabato: Maria e i santi.
Alcuni chiederebbero facoltà, in Quaresima, di dire ad libitum l'Ufficio de tempore, anziché quello del santo del giorno, come si fa già per la Messa.
Accenniamo appena alla proposta che « i parroci siano autorizzati ad anticipare a mezzogiorno, almeno la domenica e le feste, il Matutino del giorno dopo ».
La questione denota il buono spirito e la pietà di chi l'ha avanzata, ma tradisce una concezione errata dell'Ufficio divino, che per sua natura è una preghiera « oraria », da distribuirsi nei vari tempi propri per santificare tutte le ore della giornata.
Per compensare la sparizione delle lezioni agiografiche, si chiede l'introduzione a Prima della lettura del Martirologio (o per intero, o ridotto a qualche elogio più importante della Chiesa universale e locale).
Questo risolverebbe, secondo i relatori, anche la questione delle commemorazioni, che verrebbero di per se abolite, perchè dovrebbe bastare la memoria che se ne fa a Prima col Martirologio.
Quanto alle Ore minori un suggerimento di indole pastorale vorrebbe che almeno la domenica e le feste i parroci e chi ha cura d'anime ne fossero dispensati.
Si vorrebbe maggiore assicurazione per i I e II Vespri domenicali, sopratutto nel tempo quaresimale e nell'Avvento, anche di fronte alle feste di I e II classe. Per Compieta c'è chi vorrebbe tutti i giorni, eccettuata la domenica, il salmo 50 (« Miserere »). 
Altri preferirebbero tornare all'antico schema invariabile, cioè l'attuale schema della domenica, come prima di Pio X. 
Qualcuno pensa che anche per Compieta i parroci e i sacerdoti che cantano i Vespri col popolo potrebbero esserne esonerati.
Per una giusta soluzione bisogna tener presente il carattere proprio di ciascun'Ora e particolarmente di Compieta, alla quale convengono proprio bene i salmi 90 e 133 e quindi un ritorno allo statu quo antea pensiamo farebbe piacere a tutti. 
Tanto più che l'uso sempre più frequente, tra certe ca-tegorie di fedeli, di Prima e di Compieta come preghiere del mattino e della sera, obbliga il clero a recitare queste Ore con loro e una semplificazione di schemi per l'uso pratico sarebbe desiderabile. 
 
( Fine parte  terza )
 
Foto : Corpus Domini 2012 : Processione nella Piazza Maggiore di Lima-Perú, presieduta dal Cardinale Arcivescovo Juan Luis Cipriani .
Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 09:17

Dalla Rivista " Ephemerides Liturgicae " del 1949 : per una " riforma generale della Liturgia", del Padre Annibale Bugnini, quarta ed ultima parte

 Quarta ed ultima parte
1 parte;
2 parte; 
3 parte

13. LE OTTAVE 
 
Hanno preso uno sviluppo enorme, « esagerato » dice un relatore. 
E si ripete per le ottave « l'unanimità dei consensi » perchè siano semplificate. Qualcuno le vorrebbe sopprimere tutte, eccettuate quelle di Natale, Epifania, Pasqua, Pentecoste, Ascensione e Corpus Domini, elevando al grado di duplex l'ufficio infra octavam. 
Altri ragionano così: « Bisogna, senza dubbio, conservare le ottave di Pasqua e di Pentecoste per la loro antichità, e quella di Natale per il suo carattere del tutto speciale: infatti è parte integrante dell'ufficio del Tempo di Natale e dà alla settimana dal 25 al 31 dicembre una fisonomia singolarmente attraente.
L'ottava dell'Ascensione, d'istituzione recente, potrebbe senz'altro scomparire e lo stesso vale per quella del Sacro Cuore e per tutte le ottave non privilegiate. 
Del resto si potrebbero ridurre tutte al grado di ottave semplici, con ufficio proprio solo nel giorno ottavo e con speciale privilegio che permetta di preferirlo in caso d'occorrenza alle feste di rito doppio o inferiore al doppio. Si potrebbe anche dare alle domeniche « infra octavam » un ufficio, che s'ispiri alla festa: si direbbe quasi indispensabile per la maggior parte dei paesi dove le feste non sono più celebrate dal popolo nel giorno assegnato, ma ri¬mandate alla domenica seguente. 
Per l'Epifania e il Corpus Domini, si potrebbe forse conservare l'ottava, ma riducendo a rito semplice tutti i giorni infra octavam, con salterio feriale. 
Non sarebbe il caso di fare un passo anche più avanti e rimaneggiare tutti gli uffici festivi, se non riducendoli a rito semplice, almeno sottomettendoli al principio dell'ufficio a tre lezioni? 
In questo caso i responsori che rimanessero soppressi potrebbero essere utilizzati ai Vespri, alle Lodi e alle Ore minori dopo il capitolo, per non depauperare la preghiera liturgica di questi pezzi, che spesso sono magnifici ». 
 
Riassumendo, il sistema delle ottave, secondo il parere di un disserente, potrebbe modificarsi così:
1 Niente di cambiato :
a. Pasqua
b Pentecoste
c Natale: . 
 
2. Ottave del temporale:
Epifania: giorni infra octavam, uffici a 3 lezioni con salterio feriale, commemorati solo nelle feste di S. Giuseppe e della S. Famiglia; giorno ottavo, ufficio doppio come nel giorno della festa, ma con testi propri, riferentisi al Battesimo di Gesù. Ascensione: ottava soppressa, ma conservare il « tempo dell'Ascensione ». 
Corpus Domini: giorni infra octavam, ufficio a 3 lezioni, che ceda solo dinanzi ai doppi con semplice commemorazione; giorno ottavo, festa di Cristo Sommo Sacerdote. 
Sacro Cuore: ottava semplice, da fondersi con la festa del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore. 
 
3. Ottave del santorale.: 
Immacolata Concezione, ottava semplice. 
S. Giuseppe (da celebrarsi nel tempo natalizio), ottava semplice. 
S. Giovanni Battista, ottava semplice. 
Ss. Pietro e Paolo, ottava semplice (il 4 luglio festa di tutti i Santi Papi). 
S. Lorenzo, ottava semplice. 
Assunzione, ottava semplice, da fondersi con la festa del Cuore Immacolato di Maria. 
Natività della SS. Vergine, ottava semplice, da fondersi con la festa del Nome di Maria, che prenda l'ufficio della Natività con le parti proprie dell'ufficio attuale. 
Ognissanti, ottava semplice, da fondersi con la festa delle Ss. Reliquie. 
Santo Patrono e Titolare
Dedicazione della propria chiesa, ottava semplice. 
 
4. Ufficio delle domeniche infra octavam
Conservare intatti gli uffici attuali per le domeniche delle ottave di Natale, Ascensione, Corpus Domini e Sacro Cuore. 
Ripristinare la domenica dell'ottava dell'Epifania e fissare la festa della S. Famiglia in un altro giorno infra octavam. 
Per le domeniche infra octavam delle feste dell'Assunzione e della Natività della SS. Vergine, dei Ss. Pietro e Paolo, di Ognissanti, della Dedicazione, della festa- del Patrono e del Titolare, si potrebbe comporre l'ufficio come segue: Salmi e antifone, capitolo e inno, responsori brevi e versetti, delia festa; lezioni del Matutino e orazione, della domenica occorrente. 
Alla Messa commemorazione (in primo luogo) e prefazio dell'ottava. 
 
14. LE COMMEMORAZIONI 
 
Con l'inserzione del Martirologio a Prima, si dice, già potrebbero sop¬primersi tutte le commemorazioni. Forma, veramente, un po' semplicista di risolvere il problema. 
Altri ne chiedono la soppressione a Matutino, Lodi e Vespri, ma non nella Messa. Bisognerebbe ridurre tutte le commemorazioni a due ed omettere tutto il resto, propongono taluni. Ancora: i santi di rito semplice o doppio in occorrenza con la domenica non dovrebbero esser commemorati che alle Lodi. 
Non ci attardiamo ad esporre altre proposte perchè il sistema semplificato delle ottave porterebbe anche a questa semplificazione, che in definitiva è una conseguenza logica di quanto precede. 
 
15. LE RUBRICHE
 
Tra le varie proposte, ecco le principali:
1. Si premettano brevi note, storiche ed esegetiche, ai vari riti e alle loro parti, oppure si uniscano con le rubriche generali sia del Breviario che del Messale.
Naturalmente le attuali « Rubricae generales » vanno fuse con le « Additiones et Variationes ».
Si segnino con numero progressivo, imitando per brevità e chiarezza i canoni del C. I. C. I nuovi prolegomeni dei libri liturgici dovrebbero servire anche come testo (o come parte sostanziale del testo) di scuola di liturgia pratica nei seminari.
2. Si dovrebbe rivedere o sopprimere la rubrica o le rubriche riguardanti le Ore canoniche in relazione alla Messa conventuale.
Così la norma che prescrive in Quaresima la recita del Vespro prima di mezzogiorno (cioè prima del pranzo) è un evidente errore d'interpretazione, che andrebbe corretto.
3. Qualche annotazione particolare: per togliere ogni dubbio se si debba genuflettere con uno o ambedue i ginocchi, la Rubrica all'Invitatorio: « In sequenti Psalmi versu, ad verba: venite, adoremus, et procidamus, genuflectitur », dovrebbe cambiarsi in quest'altra: « In sequenti Psalmi versu verba: venite, adoremus, et procidamus dicuntur flexis genibus ». 
Nella festa dei santi Angeli alle singole Ore, in calce ai primi Vespri nei giorni 24 marzo, 8 maggio, 29 settembre, 2 ottobre, 24 ottobre si aggiunga la rubrica: « Conclusio hymnorum ad omnes Horas »: Deo Patri sit gloria, - Qui, quos redemit Filius Et Sanctus unxit Spiritus, - Per Angelos custodiat. Amen. Nella ia strofa dell'Iste Confessor si dovrebbe dire sempre : « Hac die laetus meruit supremos - Laudis honores ». 
Cadrebbero così da sé parecchie rubriche speciali nelle feste dei santi.
4. «È urgente, afferma un collaboratore, la compilazione metodica, per uso di tutta la Chiesa, non di una guida particolareggiata dei minimi gesti del coro o degli ufficianti, ma d'una raccolta dei princìpi generali, un vero Codex turis liturgici, in cui sia enunciato chiaramente e classificato sistematicamente quel che debbono fare le singole persone e le varie categorie, secondo i tempi, i luoghi e le circostanze della celebrazione di feste e cerimonie liturgiche.
L'ordine dovrebbe essere, parallelo a quello del Codice di Diritto Canonico e la materia essere fornita dallo spoglio metodico delle rubriche, non andate in disuso o superate, del Messale, Breviario, Pontificale e Cerimoniale, compresa l'appendice per le chiese minori e del Rituale.
La scelta dovrebbe farsi ispirandosi non agli usi giuridicamente in vigore, ma agli abbondanti e seri studi che hanno messo in luce l'origine, il senso e l'evoluzione storica di ciascun rito o cerimonia. 
Un simile lavoro dovrebbe servire in seguito come punto di partenza alle commissioni sinodali e diocesane di liturgia per regolare, secondo i bisogni spirituali dei diversi luoghi, le celebrazioni imposte ad ogni parroco nella sua parrocchia e mettere fine agli arbitrii, che si verificano ogni giorno più ». 
 
CONCLUSIONE 
 
Abbiamo spigolato qua e là nell'abbondante messe.
Proposte e progetti,. nella loro multiforme varietà, riflettono una identica luce: l'intimo desiderio di rinnovamento e di adeguamento della « laus perennis » alle attuali esigenze spirituali del clero e della « plebs Dei ».
Abbiamo voluto riferire con una fedeltà assoluta, spesso con le loro stesse parole, il pensiero dei nostri collaboratori, perchè la loro voce giunga ai lettori non alterata ne travisata, ma nella genuina interezza. 
Mentre ringraziamo vivamente quanti si sono uniti a noi in questo comune lavoro, che ci auguriamo porti « tempore opportuno » i suoi frutti, dichiariamo che le pagine della Rivista resteranno anche in seguito aperte ad ogni altra collaborazione che si attenga, e nell'intenzione e nella formulazione, ad un saggio equilibrio tra « nova et vetera ».
Roma, marzo 1949.
                                                                                         A. BUGNINI, C M.

                                                                                                       ( FINE )

 Messainlatino ha pubblicato tutto lo studio :
 
 

LE OTTAVE 
LE COMMEMORAZIONI 
LE RUBRICHE 
CONCLUSIONE
 
Foto : XXV Congresso Eucaristico Nazionale, Ancona, Processione Eucaristica , particolare. 8 settembre  2011
Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 09:18

Le Riforme liturgiche Pacelliane

 
La verità sull'orientamento di Pio XII, lo abbiamo constatando le sue riforme liturgiche.
Furono conformi alla Tradizione o no? Si può parlare di progresso omogeneo delle Riforme liturgiche?
Un libro sicuramente da leggere è La riforma liturgica di Pio XII. Documenti [vol_1] - Memoria sulla riforma liturgica (Bibliotheca ephemerides liturgicae.Suppl) di Braga Carlo.
 
Così viene descritto:

Il volume inizia la pubblicazione dei documenti della Commissione di Pio XII per la riforma generale della Liturgia, attiva dal 1948 all’inizio del Vaticano II. Contiene la “Memoria sulla riforma liturgica”, cioè il progetto base della Commissione, completata dai quattro Supplementi che la integrano.

Il materiale contenuto nel volume non era mai stato pubblicato ed era sconosciuto anche agli storici della Liturgia. È quindi importante, perché documenta il primo tentativo di una riforma “generale” della Liturgia nell’epoca moderna. Ne fu attuata solo una parte, ma è stata un momento precursore della riforma del Vaticano II.

In questo libro documentatissimo si potranno vedere tante cose come per esempio che negli anni '50, ad experimentum il Trio Pacelli-Montini-Bugnini ha introdotto in modo massiccio il volgare in tutte le liturgie (in Francia, Germania e America, nella Messa e tutti i Sacramenti Sacramentali erano in volgare, come da noi nel 1965, con solo offertorio e canone in latino, e questo da ben prima del Concilio Vaticano II, basta andarsi a leggere i decreti).

Caterina63
00domenica 19 agosto 2012 12:29

DOPO L’ENCICLICA …

di Maria Carla Papi - 6. 2004

  1. REDEMPTIONIS SACRAMENTUM

Continuando l’esame della Redemptionis Sacramentum, leggiamo: "È necessario comprendere che la Chiesa non si riunisce per umana volontà, ma è convocata da Dio nello Spirito Santo, e risponde per mezzo della fede alla sua vocazione gratuita. Il sacrificio eucaristico non va poi ritenuto come "concelebrazione" in senso univoco del Sacerdote insieme con il popolo presente. Al contrario, l'Eucaristia celebrata dai Sacerdoti è un dono "che supera radicalmente il potere dell'assemblea" [...] È assolutamente necessaria la volontà comune di evitare ogni ambiguità in materia e porre rimedio alle difficoltà insorte negli ultimi anni. Pertanto, si usino con cautela locuzioni quali "Comunità celebrante" o "assemblea celebrante"".

Il testo, come si vede, va in netta controtendenza rispetto a larga parte della prassi e del linguaggio liturgici in voga da qualche lustro a questa parte; da quando cioè, fu interpretata a volte in modo forse troppo arbitrario, la riforma liturgica del "Novus ordo Missae" di Paolo VI.

D’altronde si ricorderà che, in fase di lavorazioni, vi furono osservazioni anche severe da parte del card. Bacci e del Card. Ottaviani (allora prefetto del Sant'Uffizio). Forse, con lungimiranza, intravedevano già le potenziali reinterpretazioni che radicano pericolose abitudini, le quali, una volta messe in pratica, sono così difficili da sradicare. Ricordiamo che con la riforma si abbandonò la liturgia tradizionale di san Pio V e si reinterpretò tutta l'azione sacra alla luce del concetto di "popolo di Dio".
E questo è il punto chiave.
Gli esiti infatti, furono quelli di una sorta di "collettivizzazione" del rito, di "perdita del sacro nella liturgia", di un indebolimento dottrinale oggettivo della figura del sacerdote, non più inteso - tradizionalmente - come "alter Christus" e quindi come altro dal "popolo", "come colui che replica incruentemente il sacrificio cruento di Cristo, bensì - più semplicemente - come presidente di un'assemblea in cui è il "popolo" stesso - e nemmeno più il Mistero eucaristico - il protagonista della scena."

Non dimentichiamo che – come scrive il Card. Biffi in "Riflessioni sul Giorno del Signore":

"Non è necessario che un raggruppamento di battezzati costituisca una comunità umanamente viva e compatta perché si possa celebrare la domenica, ma è necessario che un raggruppamento di battezzati che celebra la domenica si sforzi di dare origine a una comunità viva e compatta."

A tal proposito è interessante rileggere- di questo documento - almeno i capitoli relativi al quarto e quinto mito, e cioè: L’enfatizzazione della "comunità e La "desacralizzazione", per notare quanto siano pertinenti con le osservazioni dei documenti sull’Eucaristia che stiamo facendo.

Così, sin dalla titolazione dei paragrafi e fino all'ultimo capitolo, dedicato ai "rimedi canonici per gli abusi contro la Santa Eucaristia", si comprende come la "Redemptionis sacramentum" prenda atto della gravità di certi atteggiamenti e situazioni ormai diffuse e tenti di porvi rimedio, con abbondanti citazioni del Rito romano e del Concilio di Trento. Gli abusi non vengono semplicemente "segnalati", ma anche condannati e sanzionati, ribadendo la scomunica canonica latae sententiae per chi profana od offende deliberatamente il Sacro Corpo e Sangue di Gesù nell'ostia consacrata.

"Niente di nuovo sotto il sole" verrebbe da dire; in fondo l'adorazione e la "difesa" del Corpo eucaristico - quel Corpo che "unisce il cielo e la terra" - sono sempre stati, sin dalle origini, i cardini e i compiti della Sposa di Cristo, la Chiesa.
Eppure quel Corpo, da sempre, nella storia, ha subito tentativi di riduzione, accomodamento, mistificazione.
Per questo il cristiano implora da Dio il dono provvidente del Suo Spirito, per sé e per la Chiesa, per fuggire le quotidiane tentazioni e portare innanzi il "buon combattimento della fede". Quella fede che è il vero e grande rimedio - come sottolinea pure la "Redemptionis sacramentum" - a ogni riduzione, anche teologica e liturgica, del Mistero dei Misteri, la vita divina partecipata all'uomo in Cristo.

Leggendo la "Redemptionis sacramentum" sembra di rileggere, talvolta letteralmente, tanti passi sull'Eucaristia e sulla Messa scritti, nelle sue lettere pastorali del 1970-72, dal troppo spesso contestato cardinal Giuseppe Siri.
Già allora l'arcivescovo di Genova avvertiva, riguardo alla liturgia, che "certi abusi, certe esagerazioni, certe mode indicano nel modo più splendente una mancanza di idee teologicamente basate e certe. Qualsiasi rito, prassi, istrumento, concetto [...] relativo alla Santissima Eucarestia, va trattato con intima e preoccupata cautela, perché o serve ad affermare positivamente o serve a sfumare e pertanto, col tempo, ad estinguere la Dottrina Rivelata circa l'Eucarestia".

Parole "profetiche", quelle di Siri.
Peccato solo che siano dovuti passare più di trent'anni perché le stesse parole, allora bollate come "retrograde" e "anacronistiche", tornassero a risplendere - e chiaramente - nell'insegnamento cattolico sulla liturgia.

Come detto, la "Redemptionis sacramentum" ha suscitato e sta suscitando polemiche e "risentimenti". Eppure, è nel Mistero che il nome del documento richiama che risiede quel nutrimento che, solo, ristora, sostiene e salva l'umana esistenza, secondo le parole a cui Mozart, nell' "Ave Verum", ha dato suono ed espressione:

[SM=g1740720] "Ave, Verum Corpus natum de Maria virgine:

vere passum immolatum in cruce pro homine;

cuius latus perforatus unda fluxit et sanguine.

Esto nobis praegustatum in mortis examine".



[SM=g1740771]

Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 00:25

Le poche semplici cose della liturgia cristiana


Attorno al volgere del secolo IV, vengono poste ad Agostino alcune domande di carattere liturgico. Ben oltre la soluzione delle questioni di allora, due lettere di Agostino (la 54 e la 55 del suo epistolario) gettano luce su come oggi il mistero cristiano debba essere concepito e possa essere amato


di Lorenzo Cappelletti


Sant’Ambrogio celebra la messa in suffragio di san Martino, particolari di una scena  del mosaico absidale, basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Sant’Ambrogio celebra la messa in suffragio di san Martino, particolari di una scena del mosaico absidale, basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Colpisce sempre la modernità di Agostino, ovvero la corrispondenza alla sensibilità odierna del suo modo di essere cristiano. Tanto è vero che a volte bastano le parole di Agostino a suscitare l’interesse gratuito di persone che altrimenti resterebbero del tutto indifferenti a Cristo, nonostante l’affanno di chi per mestiere si interessa a Cristo e a loro. Come testimoniano, per esempio, le recenti sorprendenti dichiarazioni di Gérard Dépardieu (cfr. 30Giorni n.9, settembre 2002, p. 63). Confidando in questa forza delle parole di Agostino, le lasciamo riecheggiare ancora una volta.

Attorno al volgere del secolo IV, un tale di cui non sappiamo che il nome, Januarius, pone ad Agostino questioni di carattere liturgico. Ben oltre la soluzione delle questioni di allora, due lettere di Agostino (la 54 e la 55 del suo epistolario) gettano luce su come oggi il mistero cristiano debba essere concepito e possa essere amato.

«Che cosa bisogna fare il giovedì dell’ultima settimana di Quaresima [il giovedì santo]?» chiede Januarius. «Si deve offrire il sacrificio al mattino e di nuovo la sera dopo la cena per il fatto che si legge “Allo stesso modo dopo aver cenato...”, oppure bisogna digiunare e celebrare solo dopo aver cenato? Oppure si deve digiunare e, come siamo soliti fare, cenare dopo il sacrificio?» (Lettera 54,5,6).
Agostino, prima di entrare nello specifico, nega anzitutto che quello proposto sia un problema e pone il criterio di ogni pratica cristiana: «Anzitutto voglio che tu tenga per fermo che Nostro Signore Gesù Cristo, come dice egli stesso nel Vangelo, ci ha sottoposti al suo giogo soave e a un carico leggero e perciò ha voluto stabilire, come vincoli del nuovo popolo, sacramenti in numero limitatissimo, facilissimi a praticarsi, e di sublime significato: come il battesimo, consacrato nel nome della Trinità, la comunione col suo corpo e il suo sangue e tutti gli altri mezzi raccomandati nelle scritture canoniche, abbandonando quei riti di cui si legge nei cinque libri di Mosè che servivano alla schiavitù dell’antico popolo e convenivano alle disposizioni del loro cuore e di quel tempo profetico» (Lettera 54,1,1; corsivo nostro).

Nella Lettera successiva (55,7,13), Agostino non solo parlerà di nuovo del limitato numero dei sacramenti, ma anche delle pochissime, semplici cose che ne costituiscono la materia: «Ci serviamo di un numero assai limitato di cose, come l’acqua, il frumento, il vino e l’olio».


Ci sono però anche delle disposizioni non scritte – continua Agostino nella Lettera 54 – ma trasmesse per tradizione, che sono osservate da tutta la Chiesa perché raccomandate e stabilite dagli apostoli o dai concili plenari «la cui autorità nella Chiesa è così utile» (54,1,1), come la celebrazione annuale dei misteri della passione, della resurrezione, dell’ascensione, della discesa dello Spirito Santo. Anche su questo non ci può essere difformità.

Ma ci sono pratiche che variano a seconda dei luoghi, per le quali non si può far ricorso alla Scrittura o a prescrizioni degli apostoli o dei concili plenari. In questi casi, e tale è anche il caso proposto da Januarius, la loro osservanza è lasciata alla libertà di ciascuno e se c’è un obbligo è quello di conformarsi all’uso della Chiesa in cui ci si viene a trovare, «perché tutto ciò che non può provarsi essere contro la fede e contro i costumi deve essere considerato indifferente e si deve osservare per rispetto verso coloro fra i quali si vive» (54,2,2).
Agostino ricorda quando, solo per far piacere alla madre Monica, scandalizzata perché a Milano il sabato non si digiunava come a Roma, chiese consiglio ad Ambrogio, il quale gli disse quello che faceva lui: a Roma digiunava e a Milano no.
A quel consiglio Agostino dice di aver ripensato più volte tenendolo quasi come un oracolo. Si capisce che quel consiglio di Ambrogio fu per lui qualcosa d’altro dalla soluzione di un problema, che fra l’altro all’epoca non era il suo, visto che talia non curabat (54,2,3). Questa contingenza fu per Agostino l’incontro con una sconosciuta e sorprendente libertà.


L’altro esempio portato da Agostino riguarda la pratica della comunione quotidiana. L’importante, afferma, non è accostarsi o non accostarsi quotidianamente all’eucaristia, ma l’onore che si rende al sacramento della nostra salvezza. In fondo, sia Zaccheo, accogliendolo, sia il centurione, dichiarandosi indegno di riceverlo, hanno onorato il Salvatore: «Zaccheo e il centurione non litigarono fra loro e nessuno dei due si ritenne superiore all’altro, perché l’uno pieno di gioia ricevette il Signore nella propria casa e l’altro disse “non sono degno che tu entri sotto il mio tetto”. Tutti e due onorarono il Signore in modo diverso e per così dire contrario. Ambedue erano miserabili peccatori, ambedue ottennero misericordia» (54,3,4).
Solo una cosa di fronte a questo cibo va evitata, secondo Agostino, il disprezzo, cioè – continua citando la prima Lettera ai Corinzi – il non distinguerlo dagli altri cibi attraverso la venerazione ad esso solo dovuta (veneratione singulariter debita).

Da una parte qui si apprezza a pieno la magnanimità pastorale della disposizione con cui san Pio X nel lontano 1910 volle condizionare a quest’unico elemento la ricezione della prima comunione: la capacità di distinguere il cibo eucaristico da quello comune. Dall’altra parte qui si riconosce il richiamo apostolico, che torna di prepotente attualità, e cioè di essere attenti a non mangiare e bere la propria condanna.
[SM=g1740733]

Ma torniamo ad Agostino. Di fronte a usi diversi, dunque, si tratta di non importare né di esportare usi che come tali non si potrebbero giustificare che in termini soggettivi, di pura curiosità. La conseguenza sarebbe, anzi è, come egli con grande pena ha potuto constatare, il turbamento dei deboli. «Soltanto in vista della fede o dei costumi bisogna correggere un’usanza contraria al bene o istituirne un’altra prima inesistente. Infatti ogni cambiamento di usanze, anche se aiuta perché utile, porta scompiglio, con la sua novità; ecco perché un cambiamento che non è utile, per il fatto stesso che produce un infruttuoso scompiglio è nocivo» (54,5,6). Perciò, se un determinato uso non è attestato dalla Scrittura né dalla univoca Tradizione della Chiesa tutta, si è liberi di osservarlo o meno perché evidentemente non ne va della fede né della vita morale.

Eppure Agostino non assolutizza neppure questa sua stessa posizione, che potremmo dire liberale. E ci sembra che qui stia un aspetto della sua genialità cristiana.

Infatti, nella successiva Lettera 55, si sbilancia: da una parte afferma che riguardo a salmi e inni cantati, sebbene si riscontri una grande diversità in questa pratica, non c’è assolutamente niente di meglio, niente di più utile, niente di più santo da fare, quando i cristiani si radunano, perché questo muove l’animo alla devozione e infiamma il cuore d’amore per Dio (senza contare che si potrebbero trovare esempi e precetti del Signore e degli apostoli che la inculcano).
Dall’altra parte dice che ci sono pratiche le quali, seppure non si possa dimostrare in che modo siano contrarie alla fede, tuttavia lo sono per il semplice fatto che moltiplicano gli obblighi, tanto da far sembrare più tollerabile la condizione dei Giudei che almeno obbediscono alla Legge mosaica e non a umane invenzioni: «Quanto poi ad altre pratiche che si introducono fuori dalla consuetudine e che si prescrive di rispettare quasi si trattasse di sacramenti, non posso approvarle» dice Agostino «sebbene non oso riprovare apertamente molte di queste cose per evitare lo scandalo di persone sante o turbolente. Ma quel che più mi addolora è che mentre si trascurano molte cose prescritte salutarmente nelle Scritture, tutto è riempito di una tale congerie di invenzioni che si arriva a rimproverare più aspramente un neofita che durante l’Ottava di Pasqua stia a piedi nudi, di uno che abbia affogato la mente nell’ubriachezza. Penso dunque che, avendone facoltà, si debbano senz’altro sopprimere tutte le usanze che non siano fondate sull’autorità delle Sacre Scritture, che non si trovino stabilite da sinodi episcopali o che non siano state confermate dall’uso della Chiesa intera; usanze che conoscono infinite variazioni in base alle diverse sensibilità di ogni luogo al punto che è difficile o del tutto impossibile trovare le cause per cui furono stabilite. Infatti, benché non si possa dimostrare in che modo siano contrarie alla fede, esse tuttavia opprimono con legami servili proprio la religione che la misericordia di Dio ha voluto fosse libera da ogni celebrazione che non fosse quella di pochissimi e ben determinati sacramenti. Tanto che si direbbe più tollerabile la condizione dei Giudei che, pur non avendo riconosciuto il tempo della libertà, sono tuttavia sottoposti alle imposizioni della Legge, non a umane invenzioni» (55,18,34-19,35; corsivi nostri).
Ma proprio perché chiamati a una legge di libertà, l’ultima parola ce l’hanno la pazienza e la carità: «Ma la Chiesa di Dio, che si trova a vivere in mezzo a molta paglia e a molta zizzania, tollera molte cose» (55,19,35).

[SM=g1740733]

Caterina63
00venerdì 26 ottobre 2012 13:56
[SM=g1740758] Nel novembre 2006, negli Stati Uniti d'America, si è tenuta l'annuale Gateway
Liturgical Conference, organizzata dall'arcidiocesi di St. Louis, nel Missouri, sul tema
Celebrating God's Love, conclusa da S. Em. il card. Francis Arinze, prefetto della
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, con un discorso dal
titolo Language in the Roman Rite Liturgy: Latin and Vernacular.
La traduzione è stata pubblicata da “Cristianità” n. 399 del gennaio-febbraio 2007 e di
seguito sono riportati i brani più significativi.

La lingua nella liturgia di Rito
Romano: latino e lingua volgare

1. La dignità superiore della preghiera liturgica

La Chiesa fondata dal nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo si sforza di riunire insieme
uomini e donne di ogni tribù, lingua, popolo e nazione.
Questa Chiesa, questo nuovo popolo di Dio, questo corpo mistico di Cristo, prega. La sua
preghiera pubblica è la voce di Cristo e della Chiesa sua sposa. Capo e membra. La
liturgia è un esercizio del magistero sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, il culto pubblico
viene compiuto dall'intera Chiesa, ossia, da Cristo che associa a sé i suoi membri. «Perciò
ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo Sacerdote e del suo corpo, che è la
Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia
l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (1). Dalla sacra sorgente della liturgia tutti
noi, che abbiamo sete delle grazie della Redenzione, attingiamo acqua viva (cfr. Gv. 4,
10).
La consapevolezza che Gesù Cristo è il Sommo Sacerdote in ogni atto liturgico dovrebbe
instillare in noi una grande reverenza. Come afferma sant'Agostino d'Ippona (354-430),
«prega per noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque,
in lui la nostra voce, e in noi la sua voce» (2).

2. Diversi Riti nella Chiesa

Possiamo individuare quattro Riti originali: Antiocheno, Alessandrino, Romano e Gallicano.
Essi diedero vita a nove Riti principali nell'attuale Chiesa Cattolica: nella Chiesa Latina
domina il Rito Romano e fra le Chiese Orientali troviamo il Rito Bizantino, Armeno, Caldeo,
Copto, Etiopico, Malabarese, Maronita e Siriaco. Ogni rito rappresenta una miscela di liturgia,
di teologia, di spiritualità e di diritto canonico. Le caratteristiche fondamentali di ogni Rito
risalgono ai primi secoli, i tratti essenziali all'era apostolica, se non addirittura all'epoca
di nostro Signore.
Il Rito Romano, che è oggetto della nostra riflessione, nella sua epoca moderna, come
abbiamo detto, è l'espressione liturgica predominante della cultura ecclesiastica da noi
chiamata Rito Latino. Come saprete, all'interno dell' arcidiocesi di Milano è in uso un «rito
gemello» che prende il nome da sant'Ambrogio (339-397), il grande vescovo di Milano: il
Rito Ambrosiano. In alcuni luoghi e in alcune occasioni speciali in Spagna la liturgia è
celebrata secondo un antico Rito Ispanico o Mozambico, Queste rappresentano due
venerabili eccezioni di cui non ci occuperemo in questa sede.
La Chiesa di Roma utilizzò il greco fin dal principio. Solo gradualmente fu introdotto il
latino fin quando, nel secolo IV, la Chiesa di Roma fu definitivamente latinizzata (3).
Il Rito Romano si diffuse ampiamente in quella che oggi chiamiamo Europa Occidentale e
nei continenti evangelizzati per lo più da missionari europei: in Asia, in Africa, in America e
in Oceania. Oggi, con la più facile circolazione delle persone, vi sono cattolici di altri Riti
— generalmente chiamate Chiese Orientali — in tutti questi continenti.
La maggior parte di tali Riti possiede una lingua originale, che dà anche a ogni Rito la
propria identità storica. Il Rito Romano ha il latino come lingua ufficiale. Le edizioni tipiche
dei suoi libri liturgici fino a oggi sono state sempre pubblicate in latino.
È un fenomeno importante il fatto che molte religioni del mondo, o le loro ramificazioni
principali, abbiano una lingua che è a esse cara. Non possiamo pensare alla religione ebraica
senza pensare alla lingua ebraica. L'islam ha l'arabo come lingua sacra nel Corano.
L'induismo classico considera il sanscrito come lingua ufficiale, il buddhismo ha i propri testi
sacri in pali.
Sarebbe superficiale da parte nostra considerare questa tendenza come qualcosa di
esoterico, strano o fuori moda, vecchio o medioevale. Vorrebbe dire ignorare un fine
elemento della psicologia umana. Nelle questioni religiose, le persone tendono a
conservare quanto hanno ricevuto dalle origini, il modo in cui i loro antenati hanno
articolato la propria religione e pregato. Le parole e le formule usate dalle prime
generazioni sono care a quanti oggi le ereditano. Se è vero che non si può certo identificare
una religione con una lingua, il modo in cui essa viene compresa può avere un legame
affettivo con la particolare espressione linguistica in uso nel periodo classico del suo primo
sviluppo.






[SM=g1740771]  continua....
Caterina63
00venerdì 26 ottobre 2012 13:58

[SM=g1740758] 3. Vantaggi del latino nella liturgia romana

Fra i Padri latini più importanti della Chiesa, che scrissero molto e bene in latino, figurano
sant'Ambrogio, sant'Agostino, Papa san Leone Magno (440-461) e Papa san Gregorio
Magno (590-604). Papa Gregorio, in particolare, portò il latino ai massimi splendori nella
sacra liturgia, nei suoi sermoni e nell'uso generale della Chiesa.
La Chiesa di Rito Romano mostrò un eccezionale dinamismo missionario. Questo
spiega perché gran parte del mondo fu evangelizzata dagli araldi del Rito Latino. Molte
lingue europee, che oggi consideriamo moderne, affondano le proprie radici nella lingua
latina, alcune più di altre. Esempi sono l'italiano, lo spagnolo, il rumeno, il portoghese e
il francese. Ma anche l'inglese e il tedesco possiedono molti elementi di latino.
I Papi e la Chiesa romana trovarono il latino molto adatto per molte ragioni. È la lingua
giusta per una Chiesa che è universale, una Chiesa in cui tutti i popoli, tutte le lingue
e tutte le culture dovrebbero sentirsi a casa e nessuno viene considerato straniero.
Inoltre, la lingua latina ha una certa stabilità che non possono avere le lingue parlate
quotidianamente, in cui le parole spesso cambiano di sfumature di significato. Un esempio
è la traduzione del latino propagare. La Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli,
quando fu fondata nel 1627 fu chiamata Sacra Congregatio de Propaganda Fide. Ma
all'epoca del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) molte lingue moderne usavano
il termine «propaganda» nel senso in cui noi intendiamo la «propaganda politica».
Perciò nella Chiesa oggi si preferisce evitare l'espressione «de propaganda fide», a
favore di «evangelizzazione dei popoli». Il latino ha la caratteristica di possedere parole ed
espressioni che mantengono il loro significato di generazione in generazione. Questo è un
vantaggio quando si tratta di articolare la nostra fede cattolica e di preparare documenti
papali o altri testi della Chiesa. Anche le moderne università apprezzano questa
caratteristica e alcuni dei loro titoli accademici solenni sono in latino.
Il beato Papa Giovanni XXIII (1958-1963), nella Costituzione Apostolica «Veterum
sapientia» pubblicata il 22 febbraio 1962, dà queste due ragioni e ne fornisce una terza: la
lingua latina ha una nobiltà e una dignità non trascurabili (4). Possiamo aggiungere che il
latino è conciso, preciso e poeticamente misurato.

Non è straordinario che persone, specialmente chierici, se ben formati, possano incontrarsi
a riunioni internazionali ed essere capaci di comunicare fra loro almeno in latino? Ma vi è di
più: è forse cosa da poco che oltre un milione di giovani si siano potuti incontrare in occasione
della Giornata Mondiale della Gioventù a Roma nel 2000, a Toronto nel 2002 e a
Colonia nel 2005, e cantare parti della Messa, e specialmente il Credo, in latino? I teologi
possono studiare i testi originali dei primi Padri latini e degli scolastici senza troppe difficoltà
perché questi testi sono stati scritti in latino.
L'esortazione di Papa Benedetto XVI ai docenti e agli studenti della Facoltà di Lettere
Cristiane e Classiche della Pontificia Università Salesiana di Roma, alla fine dell' udienza
generale di mercoledì 22 febbraio 2006, mantiene la sua validità e rilevanza. E la pronunciò
in latino! Ve ne do qui una libera traduzione: «A giusto titolo i Nostri Predecessori hanno
insistito sullo studio della grande lingua latina in modo che si possa imparare meglio la
dottrina salvifica che si trova nelle discipline ecclesiastiche e umanistiche. Allo stesso modo
vi invitiamo a coltivare questa attività in modo che il maggior numero di persone possibile
possa avere accesso a questo tesoro e apprezzare la sua importanza» (5).

4. Il Canto gregoriano

«L'azione liturgica assume una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati
solennemente in canto» (6). Vi è un vecchio detto: bis orat qui bene cantar, che vuol dire,
«chi canta bene prega due volte». Questo perché l'intensità che la preghiera acquista
quando viene cantata, aumenta il suo ardore e moltiplica la sua efficacia (7). La buona
musica aiuta a promuovere la preghiera, a elevare gli animi dei fedeli a Dio e a dare alle
persone un assaggio della bontà di Dio.
Nel Rito Latino il cosiddetto canto gregoriano è sempre stato tradizionale. Un canto
liturgico caratteristico esisteva invero a Roma prima di san Gregorio Magno. Ma è stato
questo grande Pontefice a dare a tale canto la più grande rilevanza. Dopo san Gregorio
questa tradizione del canto continuò a svilupparsi e a essere arricchita fino agli sconvolgimenti
che posero fine al Medioevo. I monasteri, specialmente quelli dell'ordine
benedettino, hanno fatto molto per preservare questa eredità.
Il canto gregoriano è caratterizzato da una cadenza meditativa emozionante. Tocca le
profondità dell'animo. Mostra gioia, dispiacere, pentimento, petizione, speranza, lode o
ringraziamento, come può indicare una festa particolare, una parte dellaMessa o un' altra
preghiera. Rende più vivi i Salmi. Possiede un fascino universale che lo rende adatto a tutte
le culture e a tutti i popoli. È apprezzato a Roma, a Solesmes, a Lagos, a Toronto e a
Caracas. Risuona nella cattedrali, nei seminari, nei santuari, nei centri di pellegrinaggio e
nelle parrocchie tradizionali.
Il santo Papa Pio X celebrò il canto gregoriano nel 1904 (1). Il Concilio Ecumenico Vaticano
II lo lodò nel 1963: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della
liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto
principale» (9). Il servo di Dio Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) ripeté questa lode nel
2003 (10). In occasione dell'incontro a Roma alla fine del 2005, Papa Benedetto XVI ha
incoraggiato l'associazione internazionale dei Pueri Cantores, che attribuisce un posto
privilegiato al canto gregoriano (11). A Roma e in tutto il mondo la Chiesa è
benedetta da molti cori importanti, sia professionisti che amatoriali, che interpretano in
modo molto bello il canto e comunicano il loro entusiasmo per esso.

Non è vero che i fedeli laici non vogliono cantare il canto gregoriano. Chiedono che i
sacerdoti, i monaci e le religiose condividano questo tesoro con loro. I compact disc prodotti
dai monaci benedettini di Silos, dalla loro casa madre a Solesmes e da molte altre comunità
sono molto venduti fra i giovani. I monasteri vengono visitati da persone che vogliono
cantare lodi e specialmente vespri. Nel corso di una cerimonia per l'ordinazione di undici
sacerdoti, che ho celebrato in Nigeria lo scorso luglio, circa centocinquanta sacerdoti hanno
cantato la prima preghiera eucaristica in latino. I fedeli presenti, anche se non erano
studiosi di latino, l'hanno molto apprezzata. Dovrebbe essere normale che nelle parrocchie,
dove la domenica vi sono quattro o cinque Messe, una di queste fosse cantata in latino.


[SM=g1740771]  continua...........

Caterina63
00venerdì 26 ottobre 2012 14:02
[SM=g1740758] 5. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha scoraggiato l'uso del latino?

Non è così. Appena prima di aprire il Concilio, il beato Papa Giovanni XXIII nel 1962
scrisse una Costituzione Apostolica per insistere sull' uso del latino nella Chiesa. Il Concilio
Ecumenico Vaticano II, sebbene abbia ammesso una certa introduzione della lingua
volgare, insistette sul posto del latino: «L'uso della lingua latina, salvo il diritto particolare,
sia conservato nei Riti Latini» (12). Il Concilio richiese anche ai seminaristi di «[...]
acquistarsi quella conoscenza della lingua latina che è necessaria per comprendere le fonti
di tante scienze e i documenti della Chiesa e per potersene servire» (13). Il Codice di Diritto
Canonico, pubblicato nel 1983, decreta: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua
latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati» (14).
Quindi sbagliano quanti vogliono dare l'impressione che la Chiesa abbia voluto togliere il
latino dalla liturgia. Una manifestazione dell'accettazione della liturgia latina ben celebrata
da parte delle persone si è avuta a livello mondiale nell' aprile del 2005, quando milioni di
persone seguirono in televisione le esequie del servo di Dio Papa Giovanni Paolo II e, due
settimane dopo, la Messa d'insediamento di Papa Benedetto XVI.
E’ importante il fatto che i giovani accettino volentieri la Messa celebrata a volte in latino.
Certo i problemi non mancano. Vi sono anche malintesi o approcci sbagliati da parte dei
sacerdoti sull' uso del latino. Ma per meglio centrare la questione, è necessario prima
esaminare l'uso del volgare oggi nella liturgia di Rito Romano.

6. La lingua volgare. Introduzione, diffusione, condizioni

Dopo la parziale esperienza acquisita in alcuni paesi negli anni precedenti, già il 5 e 6
dicembre 1962, dopo lunghi dibattiti a volte molto accesi, i Padri del Concilio Ecumenico
Vaticano II adottarono il principio secondo il quale l'uso della madrelingua, nella Messa o in
altre parti della liturgia, poteva essere spesso vantaggioso per le persone. L'anno
seguente il Concilio votò l' applicazione di questo principio alla Messa, al Rituale e alla
Liturgia delle Ore (15).
Seguì poi un uso più esteso del volgare. Ma come se i Padri del Concilio avessero previstola
possibilità che il latino perdesse sempre più terreno, insistettero perché il latino fosse
mantenuto.
L'articolo 36 della Costituzione sulla sacra Liturgia, già citato, comincia con il decretare che
«l'uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei Riti Latini». Gli articoli
54 e 101 dettavano i passi da seguire: «Si abbia cura [ ... ] che i fedeli sappiano recitare o
cantare insieme, anche in latino, le parti dell'Ordinario della Messa che spettano ad essi» (16);
e «Secondo la secolare tradizione del Rito Latino, per i chierici sia conservata nell'Ufficio
Divino la lingua latina» (17).

Ma, pur stabilendo dei limiti, i Padri del Concilio anticiparono la possibilità di un uso più
esteso del volgare. L' articolo 54, infatti, aggiunge: «Se poi in qualche luogo sembrasse
opportuno un uso più ampio della lingua nazionale nella Messa, si osservi quanto prescrive
l'articolo 40 di questa Costituzione» (18). L'articolo 40 dà direttive sul ruolo delle
Conferenze Episcopali e della Sede Apostolica su una materia così delicata. Il volgare era
stato introdotto. Il resto è storia. Gli sviluppi furono così rapidi che alcuni chierici, religiosi
e fedeli laici oggi non sono consapevoli del fatto che il Concilio Ecumenico Vaticano II non
introdusse la lingua volgare in tutte le parti della liturgia.
Richieste ed estensioni dell'uso del volgare non si fecero attendere. Su urgente richiesta
di alcune Conferenze Episcopali, Papa Paolo VI prima autorizzò la celebrazione del Prefazio
della Messa in volgare (11), poi dell'intero Canone e delle Preghiere di Ordinazione nel
1967.
Infine, il 14 giugno 1971, la Congregazione per il Culto Divino mandò una
comunicazione in cui si affermava che le Conferenze Episcopali potevano autorizzare l'uso
del volgare in tutti i testi della Messa, e ogni ordinario poteva dare la stessa autorizzazione
per la celebrazione corale o privata della Liturgia delle Ore (20).
Le ragioni dell' introduzione della madrelingua non sono difficili da ricercare. Essa
promuove una miglior comprensione di quel che la Chiesa prega, poiché «la Madre Chiesa
desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva
partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura della stessa liturgia e
alla quale il popolo cristiano [ ... ] ha diritto e dovere in forza del battesimo» (21).
Nello stesso tempo non è difficile immaginare quanto sia complicato e delicato il lavoro di
traduzione. Ancora più difficile è la questione dell' adattamento e dell' inculturazione,
specialmente quando pensiamo alla sacralità della liturgia, alla tradizione secolare del Rito
Latino e allo stretto legame fra fede e culto riscontrabile nell' antica formula: lex orandi lex
credendi.
Passiamo ora alla questione spinosa delle traduzioni in volgare della liturgia.

7. Le traduzioni in volgare

La traduzione di testi liturgici dall'originale latino nelle varie lingue volgare è un elemento
molto importante nella vita di preghiera della Chiesa. Non è una questione di preghiera
privata, ma di preghiera pubblica offerta dalla santa Madre Chiesa, che ha il suo Capo in
Cristo. I testi latini sono stati preparati con grande cura per la dottrina, per un'esatta
formulazione, «[ ... ] immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico e del resto ricchi di quelle
caratteristiche mediante le quali vengono trasmessi con efficacia nell'orazione attraverso il
linguaggio i sacri misteri della salvezza e l'indefettibile fede della Chiesa ed è reso a Dio
Altissimo un culto degno» (22). Le parole usate nella sacra liturgia manifestano la fede della
Chiesa e sono guidate da essa. La Chiesa pertanto necessita di una gran cura nel dirigere,
preparare e approvare le traduzioni, in modo che neanche una parola inappropriata possa
essere inserita nella liturgia da un individuo che abbia uno scopo personale o che
semplicemente non sia consapevole della serietà dei riti.
Pertanto le traduzioni dovrebbero essere fedeli al testo originale latino. Non dovrebbero
essere libere composizioni. Come ribadisce l'Instructio «Liturgiam authenticam», il principale
documento della Santa Sede che fornisce direttive sulle traduzioni, «[...] la traduzione dei
testi liturgici della liturgia romana non sia un'opera di innovazione creativa quanto piuttosto
la trasposizionefiedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola» (23).

[SM=g1740733] Il genio del Rito Latino dovrebbe essere rispettato. La triplice ripetizione è una delle sue
caratteristiche. Alcuni esempi sono: «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa»;
«Kyrie Eleison, Christe eleison, Kyrie eleison», «Agnus Dei qui tollis ... », tre volte. Un
attento studio del Gloria in Excelsis Deo mostra anch'esso una triplice ripetizione. Le
traduzioni non dovrebbero eliminare o appiattire tale caratteristica.

La liturgia latina esprime non solo fatti ma anche sentimenti, sensazioni, per esempio di
fronte alla trascendenza di Dio, alla sua maestà, alla sua misericordia e al suo amore infinito
(24). Espressioni come «Te igitur, clementissime Pater», «Supplices te rogamus»,
«Propitius e-sto», «veneremur cernui», «Omnipotens etmisericors Dominus», «nos servi
tui», non dovrebbero essere sgonfiate o democratizzate da una traduzione iconoclasta.
Alcune di queste espressioni latine sono difficili da tradurre. Sono necessari i migliori esperti
di liturgia, di lingue classiche, di patrologia, di teologia, di spiritualità, di musica e di letteratura
in modo da elaborare traduzioni che risultino belle sulle labbra della santa Madre Chiesa.
Le traduzioni dovrebbero riflettere reverenza, gratitudine e adorazione davanti alla maestà
trascendente di Dio e alla fame dell'uomo di Dio, che sono molto chiare nei testi latini. Papa
Benedetto XVI, nel suo Messaggio allariunione del Comitato Vox Clara per la traduzione dei
testi latini in inglese del 9 novembre 2005, parla di traduzioni che «[...] riusciranno a
trasmettere i tesori della fede e la tradizione liturgica nel contesto specificodi una
celebrazione eucaristica devota e riverente» (25).

Molti testi liturgici sono ricchi di espressioni bibliche, segni e simboli. Essi possiedono
modelli di preghiera che risalgono ai Salmi. Il traduttore non lo può ignorare.
Una lingua parlata oggi da milioni di persone avrà senza dubbio molte sfumature e
variazioni. Vi è una differenza fra l'inglese usato nella Costituzione di un paese, quello
parlato dal presidente di una Repubblica, la lingua convenzionale dei lavoratori del
porto o quella degli studenti o la conversazione fra genitori e bambini. Il modo di
esprimersi non può essere lo stesso in tutte queste situazioni, anche se tutti usano l'inglese.
Quale forma dovrebbero adottare le traduzioni liturgiche? Senza dubbio il volgare liturgico
dovrebbe essere intelligibile e facile da proclamare e da capire. Allo stesso tempo dovrebbe
essere dignitoso, sobrio, stabile e non soggetto a cambiamenti frequenti. Non si dovrebbe
esitare a usare alcune parole non generalmente usate nel linguaggio quotidiano, o parole
che sono associate alla fede e al culto cattolico. Pertanto si dovrebbe dire «calice» e non
semplicemente «coppa», «patena» e non «piatto», «ciborio» e non», «recipiente»
«sacerdote» e non «celebrante», «ostia sacra» e non «pane consacrato», «abito» e non
«vestito». Pertanto l'Instructio «Liturgiam authenticam» afferma: «Poiché conviene che la
traduzione trasmetta il tesoro perenne di orazioni tramite un linguaggio comprensibile nel
contesto culturale a cui è destinata, [...] non c'è da meravigliarsi se può differire alquanto
dal linguaggio ordinario» (26).

L' intelligibilità non dovrebbe voler dire che ogni parola dev'essere capita da tutti
immediatamente. Guardiamo attentamente al Credo. È un «simbolo», una dichiarazione
solenne che riassume la nostra fede. La Chiesa ha dovuto convocare alcuni Concili
Generali per un'esatta formulazione di alcuni articoli della nostra fede. Non tutti i cattolici
a Messa capiscono immediatamente e appieno alcune espressioni liturgiche cattoliche quali
Incarnazione, Creazione, Passione, Risurrezione, «consustanziale», «che procede dal Padre
e dal Figlio», Transustanziazione, Presenza Reale e «Dio onnipotente». Questa non è
una questione d'inglese, di francese, d'italiano, di hindi o di swahili. I traduttori non
dovrebbero diventare iconoclasti che distruggono o danneggiano man mano che traducono.
Non tutto può essere spiegato durante la liturgia. [SM=g1740721]

La liturgia non esaurisce l'intera
azione della Chiesa (27. Vi è bisogno anche di teologia, di catechesi e di predicazione.
E,
anche quando si offre una buona catechesi, un mistero della nostra fede rimane un mistero.
In realtà possiamo dire che la cosa più importante nel culto divino non è quella di
capire ogni parola o concetto. No. La considerazione più importante è che ci troviamo in un
atteggiamento di reverenza e di timore di fronte a Dio, che adoriamo, lodiamo e
ringraziamo. Il sacro, le cose di Dio, vanno affrontate senza idee preconcette.
Nella preghiera la lingua è prima di tutto un contatto con Dio. Senza dubbio la lingua
serve anche per una comunicazione intelligibile fra esseri umani. Ma il contatto con Dio
ha la priorità. Nella mistica tale contatto con Dio si avvicina all'ineffabile e a volte lo
raggiunge: allora si dà il silenzio mistico dove cessa il linguaggio.
Non sorprende dunque che il linguaggio liturgico differisca in qualche modo dal nostro
linguaggio quotidiano. Il linguaggio liturgico cerca di esprimere la preghiera cristiana nella
quale si celebrano i misteri di Cristo.

Allo scopo di riunire i vari elementi necessari per produrre buone traduzioni liturgiche,
permettetemi di citare il discorso del servo di Dio Papa Giovanni Paolo II ai vescovi
americani provenienti dalla California, dal Nevada e dalle Hawaii durante la loro visita a
Roma nel 1993. Il Papa chiedeva a loro di preservare tutta l'integrità dottrinale e la bellezza
dei testi originali. « Una delle vostre responsabilità a questo proposito [ ... ] è quella di
fornire traduzioni esatte e appropriate dei testi liturgici ufficiali cosicché, subendo la
necessaria revisione e ottenendo l'approvazione della Santa Sede, possano essere
strumento e garanzia di un'autentica condivisione del mistero di Cristo e della Chiesa: lex
orandi, lex credendi. Il difficile compito della traduzione deve tutelare la piena integrità dottrinale
e, secondo lo spirito di ogni lingua, la bellezza dei testi originali. Poiché tante
persone hanno sete del Dio vivente — la cui maestà e misericordia sono al centro della
preghiera liturgica — la Chiesa deve rispondere con un linguaggio di lode e di culto che
promuova il rispetto e la gratitudine per la grandezza, la compassione e la potenza di Dio.
Quando i fedeli si riuniscono per celebrare l'opera della nostra Redenzione, il linguaggio
della loro preghiera — libero da ambiguità dottrinali e influenze teologiche — dovrebbe
promuovere la dignità e la bellezza della celebrazione stessa, esprimendofedelmente la fede
e l'unità della Chiesa » (28).
Da queste considerazioni consegue che la Chiesa deve esercitare un' attenta
sorveglianza sulle traduzioni liturgiche. La responsabilità per la traduzione dei testi spetta
alla Conferenza Episcopale, che sottopone le traduzioni alla Santa Sede per la necessaria
recognitio, «revisione» (29).
Ne consegue che nessun individuo, nemmeno un sacerdote o un diacono, ha l' autorità
di cambiare la dizione approvata nella sacra liturgia. Questo è anche buon senso. Ma a
volte notiamo che il buon senso non è molto diffuso. Perciò l'Istruzione «Redemptionis
sacramentum» ha dovuto dire espressamente: «Sipongafine al riprovevole uso con il
quale i Sacerdoti, i Diaconi o anche i fedeli mutano e alterano a proprio arbitrio qua e là i
testi della sacra Liturgia da essi pronunciati. Così facendo, infatti, rendono instabile la
celebrazione della sacra Liturgia e non di rado ne alterano il senso autentico (30).

[SM=g1740771]  continua..........

Caterina63
00venerdì 26 ottobre 2012 14:04

[SM=g1740758] 8. Che cosa ci si aspetta da noi?

Dovremmo fare del nostro meglio per apprezzare la lingua che la Chiesa usa nella liturgia
e unire i nostri cuori e le nostre voci, seguendo le indicazioni di ogni Rito liturgico. Non
tutti sanno il latino, ma i fedeli laici possono almeno imparare le risposte più semplici in
latino. I sacerdoti dovrebbero prestare più attenzione al latino, celebrando una Messa in
latino di tanto in tanto. Nelle grandi chiese dove si celebrano molte Messe la domenica o
nei giorni festivi, perché non celebrare una di queste Messe in latino? Nelle parrocchie rurali
una Messa latina dovrebbe essere possibile, diciamo una volta al mese. Nelle assemblee
internazionali, il latino diventa ancora più urgente. Ne consegue che i seminari dovrebbero
prestare attenzione a preparare e a formare i sacerdoti anche all'uso del latino (3I)
Tutti i responsabili delle traduzioni in lingua volgare dovrebbero sforzarsi di fornire il meglio,
seguendo la guida dei documenti della Chiesa, specialmente l'Instructio «Liturgiam
authenticam». L' esperienza insegna che non è superfluo osservare che i sacerdoti, i
diaconi e quanti proclamano i testi liturgici, dovrebbero leggerli con chiarezza e con la
dovuta reverenza.

La lingua non è tutto. Ma è uno degli elementi più importanti che necessitano di
attenzione per buone celebrazioni, che siano belle e ricche di fede.
È un onore per noi diventare parte della voce della Chiesa nella preghiera pubblica. La
beata Vergine Maria, Madre del Verbo fatto carne, i cui misteri celebriamo nella sacra
liturgia, ottenga per tutti noi la grazia di fare la nostra parte per partecipare con il canto alle
lodi del Signore sia in latino che in volgare.

+ Francis Card. Arinze
Prefetto della Congregazione
per il Culto Divino

(1) CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», del 4-12-1963, n.
7.
(2) SANT'Aurelio AGOSTINO, Esposizione sul salmo 85, 1, in IDEM, Enarrationes in Psalmos. Esposizione sui Salmi, testo
latino dell'Edizione Maurina ripresa sostanzialmente dal Corpus Christianorum, traduzione, revisione e note illustrative a cura di
Vincenzo Taralli, vol. II. Città Nuova. Roma 1970, pp. 1242 – 1289
(3) Cfr. MONSIGNOR ~-GEORGES MARTIMORT (1911-2000) (a cura di), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla Liturgia,
vol. I, I Principi della Liturgia, trad. it. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 182-188
(4) Cfr. BEATO GIOVANNI XXIII, Costitutio Apostolica de Latinitatis studio provehendo «VeterumSapientia», del 22-2-1962,
nn. 5, 6 e 7, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, pp. 965-973 (pp. 971-973).
(5) BENEDETTO XVI, Saluto ai docenti e agli studenti della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche della Pontificia
Università Salesiana, del 22-2-2006, in L'Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-2-
2006.
(6) CONCILIO ECUMENICO VATICANO Il, Costi
tuzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 113.
(7) Cfr. PAOLO VI, Discorso alle «Scholae Cantorum» dell'Associazione Italiana Santa Cecilia per la Musica Sacra, del 25-9-
1977, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. XV, pp. 866-868.
(8) Cfr. SAN Pio X, Motu proprio «Tra le sollecitudini» sulla musica sacra, del 22-111903, n. 3, in Tutte le encicliche e i
principali documenti pontifici emanati dal 1740.250 anni di storia visti dalla Santa Sede, a cura di Ugo Bellocchi, vol. VII,
PioX(1903-1914), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 49-56 (p. 51).
(9) Concilio Ecumenico VATICANO 11, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 116.
(10) Cfr. SERVO DI Dio GIOVANNI PAOLO II, Chirografo «Mosso dal vivo desiderio» per il centenario del Motu proprio
«Tra la sollecitudini» sulla musica sacra, del 22-11-2003, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XXVI, 2, nn. 4 – 7; e Idem,
Lettera Apostolica “Lo Spirito” del 4-12-2003, n.4
(11) Cfr. BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale dei «Pueri Cantores », del 30-12-2005, in
Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, pp. 1136-1137.
(12)CONCILIO ECUMENICO VATICANO 11, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 36 § I.
(13)IDEM, Decreto sulla formazione sacerdotale «optata totius», del 28-10-1965, n. 13.
(14) Codice di Diritto Canonico, can. 928, Testo ufficiale e versione italiana sotto il patrocinio della Pontificia Università
Lateranense e della Pontificia Università Salesiana, Unione Editori Cattolici Italiani, terza edizione riveduta, corretta e
aumentata, Roma 1997, p. 681.
(15)Cfr. Concilio Ecumenico VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., nn. 36, 54, 63,
(16) Ibid., n. 54
(17) ) Ibid., n. 101
(19)Cfr. De praefatione in Missa [lettera del card. segretario di Stato Amleto Giovanni Cicognani (1883-1973) al card.
Giacomo Lercaro (1891-1976)], 27-4-1965, in DON REINER KACZYNSKI (a cura di), Enchiridion DocumentorumkstaurationisLiturgiche,
vol. I, (19631973), Marietti, Torino 1976, ristampa a cura delle C.L.V. Edizioni Liturgiche,
Roma 1990, n. 30, p. 129.
(20) Cfr. l'intero sviluppo, in MONSIGNOR A. G. MARTIMORT, Op. cit., pp. 186-188.
(21)Concilio ECUMENICO VATICANO II, Costituzione
sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 14.
(22)CONGREGATIO DE CULTU Divino ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM, De usu linguarum popularum in libris
liturgiae romance edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis Concilii Vaticani Secundi de Sacra Liturgia rette
ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», del 28-3-200 1, n. 3, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della
Santa Sede, vol. 20, 2001, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, pp. 276-371 (p. 279). larum in libris liturgiae
romance edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis Concilii Vaticani Secundi de Sacra Liturgia rette
ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», del 28-3-200 1, n. 3, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali
della Santa Sede, vol. 20, 2001, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, pp. 276-371 (p. 279).
(23) Ibid., n. 20, p. 293.
(24) cfr. Ibid., n. 25, p. 247
(25)BENEDETTO XVI, Message on occasion of the recent meeting of the «Vox Clara Committee», del 9-11-2005, in
Notitiae. Congregatio de CultuDivino et Disciplina Sacramentorum, n. 471-472. Città del Vaticano novembre-dicembre
2005, pp. 557-558 (p. 557).
(26) Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum De usu linguarum popularum in libris liturgiae romance
edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis Concilii Vaticani Secondi de Sacra Liturgia rette
ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», cit., n. 47, p. 315.
(27) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium,
cit. n. 9
(28) SERVO DI Dio GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi statunitensi della California, del Nevada e delle
Hawaii in visita «elimina», del 4-12-1993, in Insegnamenti di Giovanni Paolo 11, vol. XVI, 2, pp. 1397-1403 (pp. 1399-
1400).
(29) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II,
Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 36 §§ 3-4; Codice di Diritto Canonico, can. 838,
ed. cit., pp. 627 e 629; e CONGREGATIO DE CULTU DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM, De usu
linguarum popularum in libris liturgiae romance edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis
Concilii Vaticani Secundi de Sacra Liturgia rette ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», cit., n.
80, p. 337.
(30) CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Istruzione
«Redemptionis sacramentum» su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima
Eucaristia, del 25-3-2004, n. 59, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 22,2003-2004,
EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2006, pp. 12921403 (p. 1333); cfr. pure Principi e norme per l'uso del Messale
romano, del 20-4-2000, n. 24, ibid., vol. 19, 2000, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, pp. 112-319 (p. 137).
(11) Cfr. XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, L'Eucaristia: fonte e culmine
della vita e della missione della Chiesa, Roma 2-23 ottobre 2005, Proposizione 36, L'uso del latino nelle celebrazioni
liturgiche: [«Nella celebrazione dell'Eucaristia durante gli incontri internazionali, oggi sempre più frequenti, per
meglio esprimere l'unità e l'universalità della Chiesa, si propone:
«— di suggerire che la (con)celebrazione della Santa Messa sia in latino (eccetto le letture, l'omelia e la
preghiera dei fedeli). Così pure siano recitate in latino le preghiere della tradizione della Chiesa ed eventualmente
eseguiti brani del canto gregoriano;
«— di raccomandare che i sacerdoti, fin dal Seminario, siano preparati a comprendere e celebrare la Santa
Messa in latino, nonché a utilizzare preghiere latine e a saper valorizzare il canto gregoriano;
«— di non trascurare la possibilità che gli stessi fedeli siano educati in questo senso»] «www.vatican.va/news–
services/press/sinod o/documents/bollettino 21 xi-ordinaria-2005/ 01 italiano/b31 0 I.htn-A



Caterina63
00lunedì 26 novembre 2012 12:17
[SM=g1740733] la prima Messa Novus Ordo celebrata ed ufficializzata da Paolo VI con la seguente omelia:

SANTA MESSA NELLA CHIESA DI OGNISSANTI

OMELIA DI PAOLO VI

I Domenica di Quaresima, 7 marzo 1965

 

Che cosa stiamo facendo? Questo è il momento delle riflessioni, e si inserisce nel sacro Rito per suscitare i pensieri che lo devono accompagnare. Noi stiamo attuando una realtà, la quale, già di per sé, si presenta solenne ed ha due aspetti: l’uno straordinario; l’altro consueto e ordinario.

Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo.

È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo.

«IL SIGNORE SIA CON VOI!»

Norma fondamentale è, d’ora in avanti, quella di pregare comprendendo le singole frasi e parole, di completarle con i nostri sentimenti personali, e di uniformare questi all’anima della comunità, che fa coro con noi.

V’è, poi, un’altra circostanza che rende singolare l’odierna solennità: la presenza del Papa, che, di per sé, autorizza a porre in risalto tutto quanto può divenire utile alla nostra vita cristiana.

Del resto, anche a voler considerare il secondo aspetto, cioè quello che è consueto in queste adunanze, tutto - lo sappiamo - presenta un carattere prezioso e degno della nostra riflessione.

E dapprima: che cosa è il Rito che stiamo celebrando? È un incontro di chi offre il Divin Sacrificio con il popolo che vi assiste. Tale incontro deve essere, perciò, pieno e cordiale. Non è pertanto fuori luogo che il celebrante - in questo caso il Papa - rivolga molte volte agli astanti il saluto caratteristico: Il Signore sia con voi!

Ecco: il Papa ripete il grande augurio non solo rivolgendosi con affettuoso gesto ai presenti, ma esprimendo il proposito di raggiungere l’intera popolazione cristiana di questa Città, della santa Diocesi di Pietro e Paolo, la Diocesi di Roma. Perciò, con tutto il cuore, con tutta la forza che Iddio pone nella sua voce, nel suo ministero, il Santo Padre esclama verso il popolo romano: Che Dio sia con te!

Nel contempo Egli spera che ognuno risponda di buon grado: E con lo spirito tuo! In tal modo si inizia questo stupendo e fervido dialogo tra chi ha responsabilità di ufficio quale Ministro di Dio e il popolo cristiano; tra il Sacerdote e il singolo fedele, che riceve queste grazie; le commenta, se ne arricchisce e le porge, a sua volta, a tutta la comunità.

TUTTI CHIAMATI ALLA REDENZIONE E ALLA SALVEZZA

Come è ovvio, però, i diretti partecipanti all’Azione Liturgica ricevono il saluto in maniera speciale. Sia dunque il Signore - spiega il Santo Padre - con la diletta comunità di sacerdoti, chierici, studenti, che abitano nell’attigua casa di Don Orione; con il Parroco che ha la responsabilità pastorale di questa parte del gregge diocesano; con tutti i fedeli affidati alle sue sollecitudini. Sia il Signore con le comunità religiose poco prima salutate; con i carissimi infermi i quali, per indovinato pensiero, sono al primo posto nella adunanza e tanto impetrano mercé le loro preghiere e sofferenze offerte a vantaggio di tutti gli altri; con i fanciulli del piccolo clero, che adornano l’altare e rappresentano tutti i loro coetanei, speranze della famiglia, della Chiesa e della società; sia con le varie Associazioni, maschili e femminili di Azione Cattolica e di carattere religioso; e giunga infine l’augurio benedicente in ogni casa, apportandovi la grazia e la pace del Signore!

Né l’auspicio si limita alle persone: esso si estende pure alle attività temporali: allo studio, al lavoro, alla fatica, alle professioni, affinché anche l’insieme della vita materiale, il procurarsi il pane quotidiano, ricevano un saldo elemento di pace, d’armonia, di prosperità.

E quelli lontani? C’è qualcuno - chiede con paterna preoccupazione il Santo Padre - che manca qui all’appello? Ebbene - Egli soggiunge - io avrei il diritto di chiamare uno ad uno i cristiani di questa parrocchia, e di chiedere loro se sono fedeli.
Dovrei ricordare, a ciascuno di essi, il carattere che portano impresso nella loro anima per conoscere, amare e servire Cristo. E se qualcuno fosse o dimentico o inerte, accolga oggi da me l’invito più cordiale e paterno: Tu che non comprendi le cose della Chiesa, tu che non sai più pregare, che ti credi lontano, che ti consideri forse escluso dalla grande Famiglia e guardato male, sappi invece che la Chiesa ti cerca, ti chiama, ti sollecita, ti aspetta. Perché? Ma perché anche in te splende il diritto dei figli di Dio; hai quindi il dovere di rispondere al grande appello della tua salvezza, tutti infatti abbiamo per vocazione suprema, data dal Battesimo, la sorte di condividere la grande storia della nostra Redenzione.

CRISTO PRESENTE NELLA PREGHIERA E CON LA PAROLA

Secondo pensiero.
Oltre che per l’incontro, pur così indicativo e promettente, noi siamo qui per celebrare il grande Rito sacrificale, eucaristico: la Santa Messa; il che vuol dire la presenza di Cristo in mezzo a noi. Ora il Papa, prima ancora di accennare a questa presenza sacramentale e reale, desidera riproporre ai diletti ascoltatori un’altra grande verità. Per il semplice fatto che noi ci troviamo insieme, congregati nel nome di Cristo, uniti per pensare a Lui e pregarlo, noi già possediamo la sua presenza. Gesù medesimo l’ha assicurato: tutte le volte che sia pure due o tre individui converranno nel mio nome - ecco il mistero della presenza mistica di Cristo - Io sarò in mezzo a loro.
Noi quindi possiamo renderci conto di questa aleggiante e misteriosa presenza di Gesù tra noi, oggi, appunto concentrandoci su tale realtà, e proprio perché il suo Nome ci raccoglie, a 1965 anni dalla sua nascita; perché in Lui crediamo; e tra poco celebreremo i suoi Misteri sacramentali.

Cristo è qui: la parrocchia attua la sua presenza in mezzo ai fedeli, e in tal modo lo stesso popolo cristiano diventa, si può dire, sacramento, segno sacro, cioè, della presenza del Signore. E non è tutto. Stiamo godendo di un’altra presenza del Signore: la sua parola; il suo Vangelo. C’è una coincidenza tra la vita di Gesù e la sua parola, poiché Egli è il Verbo, è la Parola. Quando noi ripetiamo le sue parole, rendiamo, in certo qual modo, Gesù presente con noi.
Fra un maestro e ciò che insegna esiste una certa distanza; tra Gesù e la sua parola v’è coincidenza. Mentre noi vogliamo che il Signore sia con noi, la sua parola già ce lo porta. In. tal modo - pur esso misterioso, ma quasi più vicino alla nostra capacità di apprendere - questa sua presenza vive nelle nostre anime, la sua voce echeggia nei nostri cuori, il suo pensiero si fa nostro, il suo insegnamento circola nel nostro essere. Riassumendo: noi entriamo in comunione con Cristo se ascoltiamo bene la parola di Dio.

Ci troviamo, così, ben preparati al grande e misterioso Rito della Cena sacrificale: la Santa Messa.

Si è soliti, a questo punto, commentare la parola del Signore. È evidente che desideriamo acquisirla, introdurla dalle orecchie al cuore, ascoltarla interiormente, fissarla in noi, farne come una provvista di energie per l’intelletto e il cuore, osservarla sempre nella pratica, viverla.

Se, in questo momento, il Papa chiedesse ai fanciulli del piccolo clero che cosa hanno poco fa ascoltato nella lettura del Santo Vangelo, essi subito risponderebbero: abbiamo udito il racconto della tentazione di Gesù. La risposta è precisa.

IL DUELLO FRA IL BENE E IL MALE

Si tratta di una pagina grande, arcana, del Vangelo. Dopo trent’anni di vita nascosta ed operosa in Nazaret, Gesù si accinge ad iniziare la sua predicazione; ma prima si reca nel sud della Giudea, al Giordano, ove vuol ricevere il Battesimo di penitenza dal Precursore, Giovanni Battista. Poi sale sui monti circostanti che costituiscono un paesaggio privo di vegetazione, orrido, senza vita (il Santo Padre lo ha a lungo considerato durante il viaggio in Palestina) e, in una solitudine non certo riposante, bensì di pauroso silenzio, Gesù digiuna per quaranta giorni e quaranta notti.

Ed ecco apparire un personaggio spirituale, ma tremendo e cattivo: è il demonio; ed osa tentare il Salvatore. Non staremo a soffermarci sulle singole tre proposte fatte dal maligno; basterà por mente al semplice quadro che ci raffigura l’urto tra lo spirito del male e il Figlio di Dio fatto Uomo. Il Vangelo ci presenta appunto questo dramma, questo duello tra Gesù e Satana. Gesù è tentato. Anche Egli, cioè, vuoi conoscere il combattimento tra l’anima che intende restare fedele a Dio e l’invasore che la raggira per distoglierla e indurla al male. Qui va ricordato che quanto si riferisce a Gesù tocca pure noi. La vita di Gesù si configura alla nostra: quello che avviene a Lui si riflette in noi.

È stato tentato Gesù?
Tanto più possiamo e dobbiamo esserlo noi. Appare logica, anzi, la domanda, giacché noi viviamo in un mondo tutto insidiato e turbato da questa inimicizia nascosta di coloro che San Paolo chiama «rectores tenebrarum harum». Siamo come circondati da qualche cosa di funesto, cattivo, perverso, che eccita le nostre passioni, approfitta delle nostre debolezze, si insinua nelle nostre abitudini, viene dietro ai nostri passi e ci suggerisce il male. La tentazione è, dunque, l’incontro fra la buona coscienza e l’attrattiva del male; e nella forma più insidiosa di tutte. Il male infatti non ci si presenta col suo reale volto che è nemico, orribile e spaventoso. Accade proprio il contrario. La tentazione è la simulazione del bene; è l’inganno per cui il male assume la maschera del bene; è la confusione tra il bene e il male. Questo equivoco, che può essere continuamente davanti a noi, tende a farci ritenere il bene là dove, al contrario, è il male.

MANCHEVOLEZZE RINUNCE EGOISMI DELL'UOMO MODERNO

E qui entriamo non più nella scena evangelica, ma nella nostra vita ed esperienza, nel mondo in cui ci troviamo. È di tutti i momenti ed ore; è di ogni specie questa confusione. È propria, si direbbe, dell’uomo moderno, il quale ha perduto il giusto criterio del bene e del male. Ha perduto il senso del peccato, come spiegano i maestri di vita spirituale.

L’uomo moderno si adatta ad ogni cosa; è capace di farsi l’avvocato delle cose cattive pur di sostenere la libertà del proprio piacimento, e che tutto può e deve manifestarsi, senza alcuna preclusione nei confronti del male; una libertà indiscriminata per ciò che è illecito. Si finisce così per autorizzare tutte le espressioni della vita inferiore; l’istinto prende il sopravvento sulla ragione, l’interesse sul dovere, il vantaggio personale sul benessere comune. L’egoismo diviene perciò sovrano nella vita dell’individuo e di quella sociale. Perché? Perché si è dimenticato, e non si ha più il senso di distinguere: questo è bene, questo è male. Non si conosce più la norma assoluta per tale distinzione, vale a dire la legge di Dio. Chi non tiene più conto della legge del Signore, dei suoi Comandamenti e Precetti e non li sente più riflessi nella propria coscienza, vive in una grande confusione e diventa nemico di se stesso. È innegabile, infatti, che tanti e tanti malanni nostri sono procurati dalle nostre stesse mani, dalla sciocca cattiveria, ostinata nel ricercare non ciò che giova, ma quel ch’è nocivo alla esistenza.

Bisogna dunque rinnovare, rinvigorire la nostra capacità di giudicare, di discernere il bene dal male. In conseguenza, allorché il male - tutto quanto, cioè, è proibito, è contrario alla legge di Dio, al buon costume e al giudizio sano della ragione - si presenta attraente, lusinghiero, seducente, utile, facile, piacevole, noi dobbiamo dimostrare energia e sapienza, sì da dire recisamente e con risolutezza: no. Questo il modo per respingere e superare la tentazione. Del resto, il finale del tratto di Vangelo di questa prima Domenica di Quaresima dà alla vita cristiana proprio un concetto militante. Può un cristiano vero essere debole, pauroso, vile, traditore del proprio nome, della propria coscienza, del proprio dovere? No, affatto. L’autentico cristiano è forte, coraggioso, leale, coerente, eroico, se occorre: il cristiano - lo sappiamo dalla nostra Cresima - è militante, miles Christi: soldato di Cristo.

La vita cristiana è combattimento: noi dobbiamo stare all’erta di continuo; dobbiamo essere sempre in grado di sceverare, distinguere il bene dal male, e decidere: io sto per il bene; per la virtù; per il mio dovere; per le promesse fatte. Cercherò, pertanto, di essere veramente pronto a superare ogni attrattiva che potrebbe ridurmi debole e vile davanti alla presentazione del male camuffato da bene.

È chiaro, allora, che la grande lezione di vita cristiana con cui si inizia la Quaresima esige da noi due espliciti e grandi ricordi. Dobbiamo essere anzitutto saggi, disposti al buon giudizio, alacri, cioè, nel riflettere e nel tenere la lampada della nostra coscienza e del nostro pensiero sempre accesa dinanzi a noi. Non dobbiamo camminare all’oscuro, bensì portando alto questo splendore che Iddio ha deposto nelle nostre anime e che si chiama la nostra coscienza. Non inganniamo noi stessi, non spegniamo la voce della coscienza, non cerchiamo mai di deformare la sua rettitudine di giudizio. Siamo semplici e lineari: « Est, est; non, non». Sì, sì; no, no. Bisogna essere davvero consapevoli di questa necessaria limpidezza di giudizio e di condotta.

SEMPRE NELLA LUCE E SULLA DIFESA IL «MILES CHRISTI»

Il secondo insegnamento è quello di essere forti. E come piace - spiega il Santo Padre -, e quanto è consolante, figliuoli miei, che il santo ministero mi autorizzi, anzi mi comandi di dire a quelli che considero figli e fratelli: dobbiamo essere forti! Se la mia predicazione dovesse dire: è preferibile essere furbi, deboli, possibilisti, accomodanti, inclini al compromesso; e mascherare la nostra viltà con dei complimenti, con delle ipocrisie, come sarebbe brutta la mia parola rivolta a voi, come tradirebbe la vostra dignità umana, cercando di sminuire la bellezza della vostra statura cristiana! Ma, al contrario, la mia voce - anche se la debolezza non conforta, quanto dovrebbe, questa testimonianza al Vangelo del Signore - vi dice: figli miei, se vogliamo essere cristiani, oggi specialmente, dobbiamo essere forti. Giovani che mi ascoltate, voi in modo particolare dovete raccogliere questa chiara voce, questo messaggio del Vangelo: bisogna vivere il Cristianesimo con fortezza, con coscienza militante; è necessario sostenere anche qualche sacrificio, per custodire intatta la propria fede e per mantenere l’impegno assunto con Cristo, con la comunità cristiana, con la Chiesa.

E il Signore, mercé l’insegnamento di questo dramma delle sue tentazioni, indica un luminoso epilogo: la tentazione, la malvagità permanente che insidia i nostri passi e la nostra incolumità, si può si può vincere. Con che cosa? Sempre con la parola di Dio, con la sua grazia, la quale non manca mai a chi la desidera e la cerca.

Figliuoli, non abbiate timore ad essere forti. Avrete Cristo con voi; e avrete il senso della dignità della vita cristiana; avrete esatta la percezione dei suoi destini, che sono ottimi in questo mondo; felici ed eterni nella vita del Cielo.


Caterina63
00martedì 2 luglio 2013 21:09

La liturgia tra i riformisti radicali e gli intransigenti



Viene pubblicato in Italia il libro di Alcuin Reid «Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II» (Cantagalli, 432 pagine, 22 euro). Il libro ha la prefazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger

Joseph Ratzinger
Città del Vaticano

Pubblichiamo l'interno testo del futuro Benedetto XVI
Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.

Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime se stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come “progetto di riforma” (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici. D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari.

Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma. Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.

Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi per incrementarla e rinnovarla. Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (Messa e breviario), dalle origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi. Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948.

La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma. Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata. L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CC n. 1125). Come criteri ulteriori troviamo, infine, la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale. Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono.

La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis. È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”. Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione.

Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato. Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore. Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo.

Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva – nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i Sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori. Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale e, di conseguenza, come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”. Ma che cosa è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.

Ma poiché esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola.

Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma. Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico.

Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto. Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

 





Ratzinger





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