Inerranza. Questione biblica.
L'aver confuso i. e rivelazione, e l'aver preteso quindi che ogni elemento della Bibbia purché ispirato fosse "parola di Dio" in senso univoco, cioè "rivelazione di Dio", fu l'unica causa dello sbandamento di alcuni cattolici dinanzi alle difficoltà formulate contro l'i. della Bibbia, dalle scienze fisiche e dai dati archeologici.<o:p></o:p>
Ora, che l'errore sia incompatibile con l'i. è una semplice deduzione dai principi esposti: incompatibilità insegnata senza attenuazioni o dubbi da tutte le fonti e dal Magistero ecclesiastico. Non c'è al riguardo una definizione formale, ma si tratta egualmente di verità di fede: la Scrittura ispirata non può contenere errore.<o:p></o:p>
Naturalmente si tratta dei testi, termini diretti dell'azione di Dio e del lavoro dell'agiografo ; le versioni partecipano dell'i, e dell'inerranza solo e in quanto rendono fedelmente il senso e la forma di quelli.
Si tratta di quanto l'agiografo ha voluto esprimere e nel modo con cui lo ha formulato. Tale senso letterale va dedotto secondo i principi dell'Ermeneutica (v.) e tenendo conto del genere (v.) letterario prescelto dall'agiografo. La verità è la rispondenza adeguata della nostra mente con l'oggetto. Questa rispondenza si ha nel giudizio; cioè nell'atto formale con cui l'intelletto afferma la sua proporzione con l'oggetto della conoscenza. Ora, tale giudizio formale e la verità che esso esprime, può esser limitato da tre moventi principali: da parte dell'oggetto, quando l'intelletto non lo conosce in se stesso, ma sotto uno solo dei suoi molteplici aspetti (oggetto formale della conoscenza); da parte dello stesso soggetto, quando questi non s'impegna, e il suo giudizio è riservato e dalle sfumature varie: come probabile, come possibile, come congettura ecc.; da parte della stessa enunciazione, quando non vuole l'assenso del lettore, esponendo ad es. un'opinione personale, o adottando un genere letterario fìttizio, nel quale i particolari stan lì non come storici, ma come espressioni letterarie della verità insegnata.<o:p></o:p>
Con la prima limitazione (stabilire l'oggetto formale) si risolvono facilmente le difficoltà desunte dalle scienze fisiche: geologia, astronomia, zoologia.<o:p></o:p>
La S. Scrittura non è un trattato scientifico: «lo Spirito Santo — il quale parlava per mezzo degli agiografi — non volle insegnare agli uomini cose che non hanno alcuna utilità per la salute eterna» (s. Agostino, Gen. ad litt. 2, 9.20; PL 34, 270; cf. 42, 525). L'agiografo descrive «ciò che appare ai sensi» (s. Tommaso, I, q. 68, a. 3); segue le concezioni del tempo, il linguaggio comune. Non è suo compito dare un giudizio al riguardo; né lo avrebbe potuto fare (ad es. affermare che è la terra a girare intorno al sole, ecc.) senza una rivelazione, che non solo era inutile alla storia della salvezza, ma addirittura dannosa, che nessuno l'avrebbe creduto, dato che i sensi vedevano il sole, la luna ecc. muoversi e girare intorno alla terra.<o:p></o:p>
Così nessuno taccia di errore chi parla del tramonto e del sorger del sole, quando ciò non avvenga in un manuale di astronomia, ma in un romanzo dove è adoperato il linguaggio comune, e dove sarebbe invece erroneo andare a cercare un giudizio formale sulla natura intima dei suddetti fenomeni. «Lo Spirito Santo non volle insegnare agli uomini l'intima costituzione della natura visibile..., e perciò nel descrivere i fenomeni della natura o usa un linguaggio figurato oppure ricorre al linguaggio corrente il quale si conformava alle apparenze sensibili» (Providentissimus, in EB, n. 121).<o:p></o:p>
Questa stessa limitazione (oggetto formale) va tenuta presente quando si tratta della storia. Altro infatti è il punto di vista della storia scientifica, che ricerca per se stessa l'acribia nel dettaglio dei minimi fatti; altro quello della storia religiosa o apologetica che intende trarre le grandi lezioni dalla polvere degli avvenimenti e svolge questi, soltanto a tale scopo.<o:p></o:p>
«Di qui però non segue che l'agiografo sacrifichi i fatti alla sua tesi; anzi egli sa bene che "fanno orrore a Dio le labbra bugiarde" (Prov. 12, 22), e perciò non ricorre a "pie" frodi. Ne segue solo che la sua narrazione non sarà completa, nel senso che di tutto il materiale che ha davanti sceglie solo quello che ritiene adatto al suo scopo, omettendo il resto.<o:p></o:p>
«Sarebbe certo un anacronismo pretendere che la storia biblica rivesta i caratteri scientifici della storiografia come la concepiamo oggi, però lo storico israelita non mancava del senso critico naturale sufficiente per distinguere il vero dal falso nell'uso delle fonti. Queste poi, come tutti ammettono, erano tramandate con grande fedeltà da una straordinaria tenacia di memoria» (Perrella, v. bibl., p. 62).<o:p></o:p>
Certo non si può affermare per la storia quanto si è detto per le scienze fisiche. La storia esige che il fatto narrato sia effettivamente avvenuto. Ma bisogna tener presente le altre due limitazioni su accennate. L'autore sacro non sempre afferma in maniera categorica; ora Dio fa sua e approva l'affermazione dell'agiografo, così com'è, nelle varie sfumature. Non può certo permettere che presenti come certo ciò che è dubbio o viceversa; allora avremmo l'errore. Ma l'autorizza o piuttosto lo spinge a limitare la sua inchiesta personale, al grado di certezza richiesto dall'importanza del soggetto nell'economia o nel quadro generale del libro. L'autore sacro pertanto può citare, prendere una narrazione, lasciandone interamente alla fonte la responsabilità; senza approvare o disapprovare e senza espressamente annotare che si tratta di una citazione (v. Citazioni implicite). Non è tuttavia esatta la generalizzazione, fatta da alcuni, dei pochi esempi e tardivi addotti da I. Guidi, L'historiographie chez les Sémites, in RB, N. S. 3 (1906) 509-19.<o:p></o:p>
E infine, l'autore può ricorrere a una finzione per proporre un evento storico pregno di ammaestramento religioso o morale (v. Giuditta), o una verità religiosa (v. Giona; la Cantica), e morale (v. Giobbe, Parabola). In tal caso, la difficoltà storica sorge soltanto dal misconoscimento dell'intenzione dell'agiografo; si vogliono considerare come storici, particolari scelti e proposti non come tali, ma come semplici figure letterarie.<o:p></o:p>
Ecco la necessità di fissare il genere letterario, per ciascun libro; e quindi stabilire il senso letterale secondo le regole proprie a ciascuno di essi (v. Generi letterari; Divino Afflante Spiritu, in EB, nn. 558-560).<o:p></o:p>
Ben può dirsi ormai che la soluzione di questi punti, oggetto della tanto celebre Questione biblica, dibattuta agli inizi di questo secolo, tra i cosiddetti fautori della "scuola larga" (v. Hummelauer, specialmente M.-J. Lagrange, Prat ecc.) e i timidi conservatori, in linea teorica è ormai risolta.L'Encicl. Divino Afflante Spiritu, con l'ammissione e la spinta allo studio dei generi letterari, ha risolto la disputa in favore della prima, almeno in parte e con le opportune rettifiche, particolarmente del suo grande pioniere M.-J. Lagrange; con le preziose e autorevoli precisazioni che ca. 50 anni di studio e di ricerche permettevano di fare. Giustamente Pio XII constatando i grandiosi progressi compiuti in questi ultimi 50 anni (Divino Afflante Spiritu, 1943) dall'esegesi cattolica, ne attribuiva il merito precipuo alla Providentissimus di Leone XIII; si deve infatti a questa enciclica d'aver fissato con chiarezza la dottrina esatta sull'i.; concezione teologica precisa che permette all'esegeta di procedere svelto e sicuro nel suo compito paziente e grandioso. Cf. G. Castellino, L'inerranza della S. Scrittura, Torino 1949.<o:p></o:p>
Concludendo, ecco la definizione che concordemente danno ormai tutti i cattolici: L'i. è un influsso soprannaturale carismatico, per cui Dio, autore principale della S. Scrittura, subordina a sé, eleva ed applica tutte le facoltà dell'agiografo, suo strumento, in modo che l'agiografo concepisca con l'intelletto, voglia scrivere e fedelmente consegni per iscritto tutte le cose e le cose soltanto che Dio vuole siano scritte e consegnate alla Chiesa
Trattandosi di fenomeno soprannaturale, noi non possiamo conoscere quando un libro sia ispirato se Dio non ce lo riveli, mediante il Magistero della Chiesa, cui Egli ha affidato tale compito, dotandola di infallibilità. Cf. Romeo (v. bibl.), Criterio dell'i. biblica, pp. 175-189.<La rivelazione di Dio è il criterio remoto; il Magistero della Chiesa comunicanteci la tradizione, è il criterio prossimo. Esso è infallibile e pertanto non può indurci in errore, universale, cioè vale per tutti e singoli i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, e soltanto per essi; è chiaro cioè accessibile a tutti, che non richiede studi storici, indagini personali, ma solamente umile e devoto assenso all'autorità infallibile della Chiesa. BIBLIOGRAFIA
C. Pesch, De inspiratione S. Scripturae, Freiburg I. B. 1906 (ristampa 1925); trattato fondamentale ;
id., Supplementum, ivi 1926 ; A. Bea, De inspiratione Scripturae Sacrae, Roma 1930 ;
P. Synave - P. Benoit, La Prophétie (S. Thomas, Somme Théologique). Parigi 1947, pp. 269-378; ma cf. critica di P. M. Labourdette, in Revue Thomiste 50 (1950) 415-419;
P. Benoit, Inspiration, in Initiation Biblique di Robert-Tricot, 3° ed., Parigi 1954, pp. 6-45 ; cf. la critica di J. Coppens, in EThL 31 (1955) 671 ss;
A. Romeo, L'ispirazione biblica, in II Libro Sacro, I, Introduzione generale (Spadafora-Romeo-Frangipane), Padova 1958, pp. 55-189: trattazione accuratissima dalla informazione ricca e minuziosa, con la discussione dei problemi più recenti;
H. Hopfl, Introductio Generalis in S. Scripturam, 6° ed., a cura di L. Leloir, Napoli-Roma 1958: de inspiratione: pp. 19-118;
G. Perrella - L. Vagaggini, Introduzione alla Bibbia, I, Torino 1960, pp. 10-72: praticamente è la 3° ed., riveduta e aggiornata della Intr. gen. che faceva parte dei volumi sussidiari della collezione La S. Bibbia dello stesso editore Marietti.