LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI A TUTTI I SEMINARISTI DEL MONDO

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Caterina63
00lunedì 18 ottobre 2010 15:07
LETTERA DEL SANTO PADRE AI SEMINARISTI A CONCLUSIONE DELL’ANNO SACERDOTALE, 18.10.2010

Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato oggi, Festa di San Luca Evangelista, ai Seminaristi a conclusione dell’Anno Sacerdotale:


LETTERA DEL SANTO PADRE

Cari Seminaristi,

nel dicembre 1944, quando fui chiamato al servizio militare, il comandante di compagnia domandò a ciascuno di noi a quale professione aspirasse per il futuro. Risposi di voler diventare sacerdote cattolico. Il sottotenente replicò: Allora Lei deve cercarsi qualcos’altro. Nella nuova Germania non c’è più bisogno di preti. Sapevo che questa "nuova Germania" era già alla fine, e che dopo le enormi devastazioni portate da quella follia sul Paese, ci sarebbe stato bisogno più che mai di sacerdoti.

Oggi, la situazione è completamente diversa.

In vari modi, però, anche oggi molti pensano che il sacerdozio cattolico non sia una "professione" per il futuro, ma che appartenga piuttosto al passato. Voi, cari amici, vi siete decisi ad entrare in seminario, e vi siete, quindi, messi in cammino verso il ministero sacerdotale nella Chiesa Cattolica, contro tali obiezioni e opinioni. Avete fatto bene a farlo. Perché gli uomini avranno sempre bisogno di Dio, anche nell’epoca del dominio tecnico del mondo e della globalizzazione: del Dio che ci si è mostrato in Gesù Cristo e che ci raduna nella Chiesa universale, per imparare con Lui e per mezzo di Lui la vera vita e per tenere presenti e rendere efficaci i criteri della vera umanità. Dove l’uomo non percepisce più Dio, la vita diventa vuota; tutto è insufficiente.

L’uomo cerca poi rifugio nell’ebbrezza o nella violenza, dalla quale proprio la gioventù viene sempre più minacciata. Dio vive. Ha creato ognuno di noi e conosce, quindi, tutti. È così grande che ha tempo per le nostre piccole cose: "I capelli del vostro capo sono tutti contati". Dio vive, e ha bisogno di uomini che esistono per Lui e che Lo portano agli altri. Sì, ha senso diventare sacerdote: il mondo ha bisogno di sacerdoti, di pastori, oggi, domani e sempre, fino a quando esisterà.

Il seminario è una comunità in cammino verso il servizio sacerdotale. Con ciò, ho già detto qualcosa di molto importante: sacerdoti non si diventa da soli. Occorre la "comunità dei discepoli", l’insieme di coloro che vogliono servire la comune Chiesa. Con questa lettera vorrei evidenziare – anche guardando indietro al mio tempo in seminario – qualche elemento importante per questi anni del vostro essere in cammino.

1. Chi vuole diventare sacerdote, dev’essere soprattutto un "uomo di Dio", come lo descrive san Paolo (1 Tm 6,11). Per noi Dio non è un’ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il "big bang". Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio.

Nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi. Perciò la cosa più importante nel cammino verso il sacerdozio e durante tutta la vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo. Il sacerdote non è l’amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri. È il messaggero di Dio tra gli uomini. Vuole condurre a Dio e così far crescere anche la vera comunione degli uomini tra di loro. Per questo, cari amici, è tanto importante che impariate a vivere in contatto costante con Dio. Quando il Signore dice: "Pregate in ogni momento", naturalmente non ci chiede di dire continuamente parole di preghiera, ma di non perdere mai il contatto interiore con Dio. Esercitarsi in questo contatto è il senso della nostra preghiera. Perciò è importante che il giorno incominci e si concluda con la preghiera.
Che ascoltiamo Dio nella lettura della Scrittura. Che gli diciamo i nostri desideri e le nostre speranze, le nostre gioie e sofferenze, i nostri errori e il nostro ringraziamento per ogni cosa bella e buona, e che in questo modo Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita. Così diventiamo sensibili ai nostri errori e impariamo a lavorare per migliorarci; ma diventiamo sensibili anche a tutto il bello e il bene che riceviamo ogni giorno come cosa ovvia, e così cresce la gratitudine. Con la gratitudine cresce la gioia per il fatto che Dio ci è vicino e possiamo servirlo

2. Dio non è solo una parola per noi. Nei Sacramenti Egli si dona a noi in persona, attraverso cose corporali. Il centro del nostro rapporto con Dio e della configurazione della nostra vita è l’Eucaristia. Celebrarla con partecipazione interiore e incontrare così Cristo in persona, dev’essere il centro di tutte le nostre giornate.

San Cipriano ha interpretato la domanda del Vangelo: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano", dicendo, tra l’altro, che "nostro" pane, il pane che possiamo ricevere da cristiani nella Chiesa, è il Signore eucaristico stesso. Nella domanda del Padre Nostro preghiamo quindi che Egli ci doni ogni giorno questo "nostro" pane; che esso sia sempre il cibo della nostra vita. Che il Cristo risorto, che si dona a noi nell’Eucaristia, plasmi davvero tutta la nostra vita con lo splendore del suo amore divino. Per la retta celebrazione eucaristica è necessario anche che impariamo a conoscere, capire e amare la liturgia della Chiesa nella sua forma concreta. Nella liturgia preghiamo con i fedeli di tutti i secoli – passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera. Come posso affermare per il mio cammino personale, è una cosa entusiasmante imparare a capire man mano come tutto ciò sia cresciuto, quanta esperienza di fede ci sia nella struttura della liturgia della Messa, quante generazioni l’abbiano formata pregando.

3. Anche il sacramento della Penitenza è importante. Mi insegna a guardarmi dal punto di vista di Dio, e mi costringe ad essere onesto nei confronti di me stesso. Mi conduce all’umiltà. Il Curato d’Ars ha detto una volta: Voi pensate che non abbia senso ottenere l’assoluzione oggi, pur sapendo che domani farete di nuovo gli stessi peccati.

Ma – così dice – Dio stesso dimentica al momento i vostri peccati di domani, per donarvi la sua grazia oggi. Benché abbiamo da combattere continuamente con gli stessi errori, è importante opporsi all’abbrutimento dell’anima, all’indifferenza che si rassegna al fatto di essere fatti così. È importante restare in cammino, senza scrupolosità, nella consapevolezza riconoscente che Dio mi perdona sempre di nuovo. Ma anche senza indifferenza, che non farebbe più lottare per la santità e per il miglioramento. E, nel lasciarmi perdonare, imparo anche a perdonare gli altri. Riconoscendo la mia miseria, divento anche più tollerante e comprensivo nei confronti delle debolezze del prossimo.

4. Mantenete pure in voi la sensibilità per la pietà popolare, che è diversa in tutte le culture, ma che è pur sempre molto simile, perché il cuore dell’uomo alla fine è lo stesso. Certo, la pietà popolare tende all’irrazionalità, talvolta forse anche all’esteriorità. Eppure, escluderla è del tutto sbagliato. Attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere. Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa. La fede si è fatta carne e sangue. Certamente la pietà popolare dev’essere sempre purificata, riferita al centro, ma merita il nostro amore, ed essa rende noi stessi in modo pienamente reale "Popolo di Dio".

5. Il tempo in seminario è anche e soprattutto tempo di studio. La fede cristiana ha una dimensione razionale e intellettuale che le è essenziale. Senza di essa la fede non sarebbe se stessa. Paolo parla di una "forma di insegnamento", alla quale siamo stati affidati nel battesimo (Rm 6,17). Voi tutti conoscete la parola di San Pietro, considerata dai teologi medioevali la giustificazione per una teologia razionale e scientificamente elaborata: "Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ‘ragione’ (logos) della speranza che è in voi" (1 Pt 3,15). Imparare la capacità di dare tali risposte, è uno dei principali compiti degli anni di seminario. Posso solo pregarvi insistentemente: Studiate con impegno!

Sfruttate gli anni dello studio! Non ve ne pentirete. Certo, spesso le materie di studio sembrano molto lontane dalla pratica della vita cristiana e dal servizio pastorale. Tuttavia è completamente sbagliato porre sempre subito la domanda pragmatica: Mi potrà servire questo in futuro? Sarà di utilità pratica, pastorale? Non si tratta appunto soltanto di imparare le cose evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità, così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi. Perciò è importante andare oltre le mutevoli domande del momento per comprendere le domande vere e proprie e capire così anche le risposte come vere risposte.
 
È importante conoscere a fondo la Sacra Scrittura interamente, nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento: la formazione dei testi, la loro peculiarità letteraria, la graduale composizione di essi fino a formare il canone dei libri sacri, l’interiore unità dinamica che non si trova in superficie, ma che sola dà a tutti i singoli testi il loro significato pieno. È importante conoscere i Padri e i grandi Concili, nei quali la Chiesa ha assimilato, riflettendo e credendo, le affermazioni essenziali della Scrittura.

Potrei continuare in questo modo: ciò che chiamiamo dogmatica è il comprendere i singoli contenuti della fede nella loro unità, anzi, nella loro ultima semplicità: ogni singolo particolare è alla fine solo dispiegamento della fede nell’unico Dio, che si è manifestato e si manifesta a noi. Che sia importante conoscere le questioni essenziali della teologia morale e della dottrina sociale cattolica, non ho bisogno di dirlo espressamente. Quanto importante sia oggi la teologia ecumenica, il conoscere le varie comunità cristiane, è evidente; parimenti la necessità di un orientamento fondamentale sulle grandi religioni, e non da ultima la filosofia: la comprensione del cercare e domandare umano, al quale la fede vuol dare risposta.

Ma imparate anche a comprendere e - oso dire – ad amare il diritto canonico nella sua necessità intrinseca e nelle forme della sua applicazione pratica: una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti. Il diritto è condizione dell’amore. Ora non voglio continuare ad elencare, ma solo dire ancora una volta: amate lo studio della teologia e seguitelo con attenta sensibilità per ancorare la teologia alla comunità viva della Chiesa, la quale, con la sua autorità, non è un polo opposto alla scienza teologica, ma il suo presupposto. Senza la Chiesa che crede, la teologia smette di essere se stessa e diventa un insieme di diverse discipline senza unità interiore.

6. Gli anni nel seminario devono essere anche un tempo di maturazione umana. Per il sacerdote, il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente "integro". La tradizione cristiana, pertanto, ha sempre collegato con le "virtù teologali" anche le "virtù cardinali", derivate dall’esperienza umana e dalla filosofia, e in genere la sana tradizione etica dell’umanità.
Paolo lo dice ai Filippesi in modo molto chiaro: "In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri" (4,8). Di questo contesto fa parte anche l’integrazione della sessualità nell’insieme della personalità. La sessualità è un dono del Creatore, ma anche un compito che riguarda lo sviluppo del proprio essere umano.

Quando non è integrata nella persona, la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo. Oggi vediamo questo in molti esempi nella nostra società. Di recente abbiamo dovuto constatare con grande dispiacere che sacerdoti hanno sfigurato il loro ministero con l’abuso sessuale di bambini e giovani. Anziché portare le persone ad un’umanità matura ed esserne l’esempio, hanno provocato, con i loro abusi, distruzioni di cui proviamo profondo dolore e rincrescimento.

A causa di tutto ciò può sorgere la domanda in molti, forse anche in voi stessi, se sia bene farsi prete; se la via del celibato sia sensata come vita umana. L’abuso, però, che è da riprovare profondamente, non può screditare la missione sacerdotale, la quale rimane grande e pura. Grazie a Dio, tutti conosciamo sacerdoti convincenti, plasmati dalla loro fede, i quali testimoniano che in questo stato, e proprio nella vita celibataria, si può giungere ad un’umanità autentica, pura e matura.

Ciò che è accaduto, però, deve renderci più vigilanti e attenti, proprio per interrogare accuratamente noi stessi, davanti a Dio, nel cammino verso il sacerdozio, per capire se ciò sia la sua volontà per me. È compito dei padri confessori e dei vostri superiori accompagnarvi e aiutarvi in questo percorso di discernimento. È un elemento essenziale del vostro cammino praticare le virtù umane fondamentali, con lo sguardo rivolto al Dio manifestato in Cristo, e lasciarsi, sempre di nuovo, purificare da Lui.

7. Oggi gli inizi della vocazione sacerdotale sono più vari e diversi che in anni passati. La decisione per il sacerdozio si forma oggi spesso nelle esperienze di una professione secolare già appresa. Cresce spesso nelle comunità, specialmente nei movimenti, che favoriscono un incontro comunitario con Cristo e la sua Chiesa, un’esperienza spirituale e la gioia nel servizio della fede. La decisione matura anche in incontri del tutto personali con la grandezza e la miseria dell’essere umano. Così i candidati al sacerdozio vivono spesso in continenti spirituali completamente diversi. Potrà essere difficile riconoscere gli elementi comuni del futuro mandato e del suo itinerario spirituale. Proprio per questo il seminario è importante come comunità in cammino al di sopra delle varie forme di spiritualità. I movimenti sono una cosa magnifica. Voi sapete quanto li apprezzo e amo come dono dello Spirito Santo alla Chiesa.
Devono essere valutati, però, secondo il modo in cui tutti sono aperti alla comune realtà cattolica, alla vita dell’unica e comune Chiesa di Cristo che in tutta la sua varietà è comunque solo una.

Il seminario è il periodo nel quale imparate l’uno con l’altro e l’uno dall’altro. Nella convivenza, forse talvolta difficile, dovete imparare la generosità e la tolleranza non solo nel sopportarvi a vicenda, ma nell’arricchirvi l’un l’altro, in modo che ciascuno possa apportare le sue peculiari doti all’insieme, mentre tutti servono la stessa Chiesa, lo stesso Signore. Questa scuola della tolleranza, anzi, dell’accettarsi e del comprendersi nell’unità del Corpo di Cristo, fa parte degli elementi importanti degli anni di seminario.


Cari seminaristi! Con queste righe ho voluto mostrarvi quanto penso a voi proprio in questi tempi difficili e quanto vi sono vicino nella preghiera. E pregate anche per me, perché io possa svolgere bene il mio servizio, finché il Signore lo vuole. Affido il vostro cammino di preparazione al Sacerdozio alla materna protezione di Maria Santissima, la cui casa fu scuola di bene e di grazia. Tutti vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.

Dal Vaticano, 18 ottobre 2010, Festa di San Luca, Evangelista.

Vostro nel Signore

BENEDICTUS PP. XVI







Caterina63
00lunedì 18 ottobre 2010 16:21

Le 7 regole di Ratzinger

Come ha vissuto il Papa gli anni di preparazione al sacerdozio?
Cosa faceva Papa Ratzinger in seminario?
Come si preparava per diventare un soldato di Cristo?

E’ nella lettera che Benedetto XVI ha scritto oggi ai seminaristi, nei 7 consigli che offre loro – “qualche elemento importante per questi anni del vostro essere in cammino”, ha scritto il Papa – che si evince come la vocazione di Joseph Ratzinger si sia formata e plasmata.

Il Papa che nel dicembre 1944, quando fu chiamato al servizio militare, disse al comandante di compagnia che chiese quale professione le giovani reclute aspirassero per il futuro, “voglio diventare sacerdote cattolico”.

Il Papa che ascoltò incredulo la risposta del sottotenente: “Allora Lei deve cercarsi qualcos’altro. Nella nuova Germania non c’è più bisogno di preti”.

Questo Papa così enuclea i suoi 7 punti fermi per chiunque intraprenda la strada del sacerdozio:

Primo: Avere un rapporto personale con Gesù Cristo.

Secondo: Avere un rapporto personale con Cristo significa averlo con l’eucaristia.

Terzo: Confessarsi sempre.

Quarto: Valorizzare la pietà popolare anche se tende all’irrazionalità.

Quinto: Studiare.

Sesto: Maturare in tutti gli aspetti della propria umanità, anche nella sfera sessuale.

Settimo: Imparare a vivere insieme agli altri.

Pubblicato su palazzoapostolico.it



 ai "sette" punti sottolineati da Paolo Rodari, ci aggiungerei un ‘ottavo: AMARE!

AMARE LA CHIESA, amare il Diritto Canonico, dice il Papa nella Lettera…
”una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti. Il diritto è condizione dell’amore”


sottolinerei l’importanza di questi punti visto che oggi il concetto di amare e dell’amore hanno preso false pieghe…

;-) 


Caterina63
00lunedì 18 ottobre 2010 19:23

Le confessioni del giovane Ratzinger

I tre passaggi autobiografici inclusi da Benedetto XVI nel messaggio per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù

di Sandro Magister




ROMA, 6 settembre 2010 – "Autobiografia di un pontificato": questo era il titolo del precedente servizio di www.chiesa. Per una curiosa coincidenza, lo stesso giorno dell'uscita di quel servizio Benedetto XVI ha diffuso un messaggio insolitamente ricco di suoi tratti autobiografici.

È il messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Madrid nell'agosto del 2011. È un testo visibilmente scritto di persona dal papa, una sintesi efficace della sua visione. Dal Dio perduto al Dio che si rifà vicino in Gesù. Un Gesù che è possibile "toccare" nei sacramenti della Chiesa.

È un testo che esige d'essere letto per intero. Ma per cominciare, ecco qui di seguito i tre passaggi nei quali papa Joseph Ratzinger parla di sé, della sua fanciullezza durante il nazismo e la guerra, dello sbocciare della sua vocazione al sacerdozio, della nascita dell'idea di scrivere un libro su Gesù: "quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore".

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DURANTE IL NAZISMO E LA GUERRA

[...] Certamente, ricordando la mia giovinezza, so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande.

Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, “rinchiusi” dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo.

Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente. Sant’Agostino aveva ragione: il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. [...]

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LA CHIAMATA AL SACERDOZIO

[...] C’è un momento, da giovani, in cui ognuno di noi si domanda: che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle? È una fase fondamentale, che può turbare l’animo, a volte anche a lungo. Si pensa al tipo di lavoro da intraprendere, a quali relazioni sociali stabilire, a quali affetti sviluppare…

In questo contesto, ripenso alla mia giovinezza. In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la guerra, quando in seminario e all’università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi: è questa veramente la mia strada? È veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a lui e di essere totalmente disponibile per lui, al suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può essere diversamente. Ma poi è sorta la certezza: è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell’ascoltarlo, nell’andare insieme con lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la sua volontà. Così la vita diventa autentica. [...]

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PERCHÉ IL LIBRO SU GESÙ

[...] Nel Vangelo ci viene descritta l’esperienza di fede dell’apostolo Tommaso nell’accogliere il mistero della croce e risurrezione di Cristo. Tommaso fa parte dei dodici apostoli; ha seguito Gesù; è testimone diretto delle sue guarigioni, dei miracoli; ha ascoltato le sue parole; ha vissuto lo smarrimento davanti alla sua morte. La sera di Pasqua il Signore appare ai discepoli, ma Tommaso non è presente, e quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Giovanni 20, 25).

Noi pure vorremmo poter vedere Gesù, poter parlare con lui, sentire ancora più fortemente la sua presenza. Oggi per molti, l’accesso a Gesù si è fatto difficile. Circolano così tante immagini di Gesù che si spacciano per scientifiche e gli tolgono la sua grandezza, la singolarità della sua persona. Pertanto, durante lunghi anni di studio e meditazione, maturò in me il pensiero di trasmettere un po’ del mio personale incontro con Gesù in un libro: quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore, nel quale Dio ci è venuto incontro per farsi conoscere.

Gesù stesso, infatti, apparendo nuovamente dopo otto giorni ai discepoli, dice a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Giovanni 20, 27). Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire, la mano sui segni della sua passione, i segni del suo amore: nei sacramenti egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi. Cari giovani, imparate a “vedere”, a “incontrare” Gesù nell’eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel sacramento della penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell’offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto. [...]

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Caterina63
00martedì 19 ottobre 2010 12:45

LE PAROLE DEL PAPA AI SEMINARISTI

Seminaristi danzanti... "come i dervisci tourneur che girano..."


di Francesco Colafemmina

La lettera di Sua Santità ai Seminaristi è un esempio lampante di come il Santo Padre intenda il sacerdozio: una relazione intima con Cristo per la salvezza delle anime.
Senza questa relazione non si dà percorso di santità e nello stesso tempo questa relazione vive dell'umano, non sfugge verso uno spiritualismo inerte e tutto intellettualistico, come negli ultimi 50 anni si è insegnato ai sacerdoti.

Quindi per cominciare il Santo Padre afferma: "Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio. Nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi. Perciò la cosa più importante nel cammino verso il sacerdozio e durante tutta la vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo. Il sacerdote non è l’amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri. È il messaggero di Dio tra gli uomini."
Il messaggio è chiarissimo e ribadisce quanto spesso il Papa ha ripetuto: il sacerdote non è un attivista qualunque, la Chiesa non è una organizzazione non governativa!

Sempre puntando alla rivalutazione della "relazione personale" col Signore, il Santo Padre continua concentrando la sua attenzione sulla relazione del futuro sacerdote con l'Eucaristia e la liturgia: " Per la retta celebrazione eucaristica è necessario anche che impariamo a conoscere, capire e amare la liturgia della Chiesa nella sua forma concreta. Nella liturgia preghiamo con i fedeli di tutti i secoli – passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera." La liturgia non è pertanto appannaggio del presente, non è soltanto il frutto di riforme recenti, né procede da mere elaborazioni formali dell'uomo, ma è la forma concreta con cui il Sacerdote ritorna al centro della sua relazione col Signore, cibandosi del suo pane quotidiano, ossia del Cristo eucaristico.

Si passa poi alla penitenza. La penitenza è elemento migliorativo della nostra condizione umana perché attraverso l'umiliazione e il riconoscimento dei nostri errori non viviamo da soli, ma continuiamo a relazionarci al Signore. La mia colpa è aver agito come se il Signore non mi guardasse, come se potessi fare a meno di Lui e delle Sue leggi. Riconosco la Sua presenza e vivo il Suo amore solo se mantengo la consapevolezza dei miei peccati. Inoltre il perdono del Signore è il movimento d'amore che Egli rivolge all'uomo. Attraverso la comprensione del valore del perdono il Sacerdote migliora anche le relazioni con chi lo circonda, perché la relazione "al centro" con Dio irradia tutte le altre relazioni della nostra esistenza.

Uno degli elementi centrali del messaggio di Sua Santità riguarda però la "devozione popolare". Si tratta di una sorta di "rivoluzione ideale" che Benedetto XVI ci propone. Basta con tutte le filosofie anti-devozionalistiche, le pastorali contrarie alle devozioni personali, familiari e popolari! Il Papa è chiaro: "Certo, la pietà popolare tende all’irrazionalità, talvolta forse anche all’esteriorità. Eppure, escluderla è del tutto sbagliato. Attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere. Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa. La fede si è fatta carne e sangue. Certamente la pietà popolare dev’essere sempre purificata, riferita al centro, ma merita il nostro amore, ed essa rende noi stessi in modo pienamente reale "Popolo di Dio"."
L'irrazionalità della pietà popolare, la tendenza all'esteriorità non sono assoluti elementi di negatività. E' anzi evidente che queste forme concrete, vive, autentiche di espressione della fede sono per l'appunto i mezzi attraverso i quali "la fede è entrata nel cuore degli uomini". La fede non è infatti puro spirito, né una ideologia che s'impara sui libri. La fede la si vive, e ci giunge attraverso le relazioni con coloro che la vivono assieme a noi. Un cattolico non diviene tale per pura ispirazione, ma per via della fede che gli uomini sono in grado di trasmettergli ed è innegabile che proprio la pietà popolare è un elemento essenziale con cui il giovane cristiano percepisce l'unione del popolo di Dio nella relazione col Signore. Le feste patronali, le processioni, la venerazione dei Santi e della Vergine sotto i suoi tanti titoli, sono espressioni della vitalità della fede che unisce gli uomini nella gioia di ambire al Cielo e alla salvezza.

Gli ultimi tre paragrafi della lettera del Papa sono dedicati allo studio, alla maturazione umana e alla crescita attraverso l'esperienza dei movimenti interni alla Chiesa. Si tratta di argomenti fondamentali, forse quelli primari per dei giovani che intendono dedicare la propria vita a Cristo. Tuttavia il Santo Padre li postpone alle riflessioni precedenti. Solo quando un uomo è pienamente consapevole della sua relazione al centro con Dio, può incamminarsi sulla strada del sacerdozio!
Solo dopo la certezza di questa relazione con Dio, il seminarista deve guardare allo studio e alla maturazione umana come panoplie adamantine di crescita intellettuale e morale.
L'ultimo elemento, quello della convivenza tra seminaristi è, se vogliamo, quello più pratico. E il Papa lo lega anche ad un indirizzo speciale per i movimenti: "I movimenti sono una cosa magnifica. Voi sapete quanto li apprezzo e amo come dono dello Spirito Santo alla Chiesa.Devono essere valutati, però, secondo il modo in cui tutti sono aperti alla comune realtà cattolica, alla vita dell’unica e comune Chiesa di Cristo che in tutta la sua varietà è comunque solo una." Che il Papa si riferisca ai Neocatecumenali e ai loro seminari Redemptoris Mater è evidente anche ai ciechi. Eppure nella sua grande comprensione il Santo Padre riallaccia la capacità di un movimento di integrarsi nell'unica e comune Chiesa di Cristo alla capacità dei singoli seminaristi di convivere in un'unica comunità.

In sintesi questa lettera non solo è un importante documento per i seminaristi, ma un testo da meditare per ciascun fedele cattolico che voglia ricomprendere il senso e la verità della relazione al centro con Cristo, fondamento e vita della nostra fede.

Caterina63
00lunedì 8 novembre 2010 18:28
La prolusione del cardinale presidente all'assemblea generale della Conferenza episcopale italiana

Impegno dei cattolici
per una nuova agenda politica


Si è aperta lunedì ad Assisi l'assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, che si concluderà l'11 novembre. Pubblichiamo ampi stralci della prolusione del cardinale presidente.


di Angelo Bagnasco

Con un gesto semplice e inatteso, Benedetto XVI ha indirizzato - il 18 ottobre scorso, festa di san Luca evangelista - una Lettera ai seminaristi, come per consegnare loro - in una ideale staffetta - il testimone dell'importantissima iniziativa dell'Anno sacerdotale da poco concluso. Di quest'Anno, il citato documento è come compendio e corona. Un testo ispirato, pervaso di confidenza e di amicizia che inizia con una scena di vita personale datata dicembre 1944. Il giovane Ratzinger intuiva che, dopo le enormi devastazioni causate dalla follia nazista, "ci sarebbe stato bisogno più che mai di sacerdoti". Anche oggi c'è questo bisogno, in un'ora in cui "l'uomo cerca rifugio nell'ebbrezza o nella violenza, dalla quale proprio la gioventù viene sempre più minacciata".
 
Noi vescovi d'Italia sentiamo vivo bisogno di ringraziare il Papa per questo atto di paternità e di magistero:  vorremmo infatti che nell'abbondanza dei documenti e delle proposte, esso conservasse un posto di tutta evidenza nella crescita e nella formazione dei nostri seminaristi. Che figurasse tra le cose essenziali che ognuno di questi giovani porta con sé, ricorrendovi spesso come prova di quel colloquio "cuore a cuore" che è sempre stato decisivo nella tradizione educativa della Chiesa. Tradizione che oggi, in una stagione di soggettivismi leggeri e smodati, richiede invece interpreti, come il beato John Newman, sapienti e illuminati.
 
Dai seminaristi ai giovani. Da tempo infatti è in corso l'itinerario di avvicinamento alla 26ª Giornata mondiale della Gioventù, in calendario per l'agosto 2011, a Madrid, con la presenza del Papa che, quindi, ritornerà in Spagna dopo l'importante visita compiuta tra sabato e domenica, avendo per tappe Santiago de Compostela e Barcellona. Noi Pastori abbiamo la grazia di vivere tra i giovani e ben ne conosciamo aspirazioni e problemi, slanci e fragilità. Se da una parte sembra che la secolarizzazione abbia trionfato - e lo ha fatto per diverse partite - dall'altra, nel suo insieme, si presenta come terra impalpabile che promette una libertà senza vincoli in cambio di solitudine senza futuro. Ma una libertà che si arrotola sulla sua assolutezza è triste e mortale. Per questo noi Vescovi incoraggiamo i giovani, da qualunque ambiente provengano, a non mancare alla Gmg, vero appuntamento di grazia.

Una vasta eco ha avuto, all'interno del recente viaggio compiuto da Benedetto XVI nel Regno Unito, il Discorso che egli ha pronunciato nell'incontro con le autorità civili (il 17 settembre 2010). L'argomentazione svolta - raccontano le cronache - ha colpito gli interlocutori. "Le norme obiettive - ha detto - che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione". E sono leggi scritte nel modo più vincolante e stringente che se fossero stillate da mano d'uomo, o fossero istruite attraverso un consenso partecipato eppure transeunte. Sono regole desumibili dalla struttura dell'uomo stesso, quale bene che sta al vertice, indisponibile per qualunque transazione. Solo indicando l'uomo nella sua integralità, dotato di diritti incomprimibili, e salvaguardato prima di ogni ulteriore determinazione politica, si ha il codice basilare, quello che acquista il valore di fondamento razionale oggettivo comune a tutti i popoli.

In altre parole, il rinvio alla legge iscritta anzitutto nella natura umana, diventa la garanzia per ogni persona di poter affermare la propria dignità non a motivo di circostanze più o meno benevole o a convenzioni più o meno illuminate, ma in ragione della verità profonda della propria essenza personale. L'uomo non è un prodotto della cultura che, nel proprio evolversi, si compiace di elargire questo o quel riconoscimento; l'uomo in sé è il valore per eccellenza, che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi in una continua tensione verso la pienezza della verità.

Esiste, insomma, un "terreno solido e duraturo" (Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti del Consiglio d'Europa, 8 settembre 2010) che è quello dei principi o valori "essenziali e nativi" (Giovanni Paolo ii, Evangelium vitae, n. 71), detti anche "non negoziabili", e che sono definiti tali non perché non si debbano argomentare ma perché, nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili (cfr. Benedetto XVI, Discorso cit.). Appartengono, per così dire, al Dna della natura umana, al ceppo vivo e originario di ogni altro germoglio valoriale. Il Papa nella Caritas in veritate, dopo aver osservato che "la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità" (n. 18), dichiara che il vero sviluppo ha un centro vitale e propulsore, e questo è "l'apertura alla vita" (n. 28).

Infatti, quando una società si incammina verso la negazione della vita, "finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono" (ibidem). Senza un reale rispetto di questi valori primi che costituiscono l'etica della vita, è illusorio pensare a un'etica sociale che vorrebbe promuovere l'uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ogni altro valore, infatti, necessario al bene della persona e della società - il lavoro, la salute, la casa, l'inclusione sociale, la sicurezza, l'ambiente, la pace... - germoglia e prende linfa dai primi. Mentre staccati dall'accoglienza in radice della vita, potremmo dire della "vita nuda", questi ultimi valori inaridiscono e perdono di senso.

A chi sostiene che i valori essenziali, in quanto non negoziabili, sarebbero divisivi per il tessuto sociale, e quindi inopportuni e scorretti, vorrei dire invece che, a ben vedere, essi sono intrinsecamente dotati di una forza unitiva che si esprime a più livelli e in più ambiti. Si pensi al principio di uguaglianza tra tutti i cittadini:  quanto è decisivo il fatto che - nonostante le diversità che si possono registrare sotto diversi profili - gli uomini siano essenzialmente eguali, e come tali possano combattere le disuguaglianze e costruire società e culture strutturate sulle "pari opportunità"? Serve qui comprendere che un criterio comportamentale acquista spessore e autorevolezza quando, anziché essere motivato solo da convenienze pragmatiche, è radicato sul terreno ontologico, connesso cioè con la natura stessa dell'uomo.

Questi valori tuttavia risultano unitivi anche in un'altra accezione:  rappresentano il vincolo che può di volta in volta dare espressione all'unità politica dei cattolici, ovunque essi si collochino in base alla loro opzione politica. Su molte questioni si procede attraverso mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che, per il contenuto loro proprio, difficilmente sopportano mediazioni, per quanto volonterose, giacché non sono né quantificabili né parcellizzabili, pena trovarsi di fatto negati.

Anche da qui discende il ruolo della religione in ambito politico-sociale, che non è quello di "fornire" le norme obiettive che regolano il retto agire "come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti; ancor meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete - cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione - bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce nell'applicazione della ragione, nella scoperta dei valori morali oggettivi" (Benedetto XVI, Discorso con le Autorità cit.). E dà un nome, il Papa, a questo compito della religione nei riguardi delle cose della ragione:  è un ruolo - dice - "correttivo", nel senso che - illuminando - recupera la profondità dei singoli principi e, a un tempo, rischiara sull'applicazione che ne viene fatta, aiutando dunque, quando serve, a rettificare le distorsioni, a indirizzare meglio l'azione, a non lasciarsi deviare dai riduzionismi concettuali o dalle manipolazioni ideologiche, a non confondere mai il fine coi mezzi e viceversa.

A trovarsi immediatamente corretta qui è anche la prospettiva di uno Stato "neutrale", evidentemente ingenua e non avvalorata fino a oggi da esperienze in grado di imporsi per credibilità ed efficacia. Se uno Stato, in nome di un'ipotetica neutralità o di altri pregiudizi, non si allarmasse a fronte di un prosciugamento dei presupposti etico-culturali cui deve invece attingere se vuole prosperare, come potrà rispondere con solidarietà e giustizia a situazioni e sfide emergenti? Per esempio, di fronte a ondate di nuovi cittadini che, per età o storia personale, non hanno sufficientemente interiorizzato il codice fondativo della nazione in cui vivono? Oppure a fronte della stessa crisi economico-finanziaria? E come potrebbe la collettività garantirsi una continuità di ideali e una gradualità di evoluzione nei costumi se non c'è l'apporto, sul piano educativo e culturale, di agenzie in grado di ricaricare la riserva interiore e morale di cui ogni Paese necessita nel fronteggiare le spinte più tumultuose quando non le degenerazioni più disinibite?

Aspettarsi che i cattolici circoscrivano il loro apporto all'ambito sempre importante della carità - fosse pure per contribuire ai doveri dello Stato in ordine al bene comune - significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria. I cattolici non possono consegnarsi all'afasia, ideologica o tattica:  se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata.

A nessuno oggi, nei Paesi liberi, viene formalmente inibito di manifestare liberamente le proprie posizioni culturali o religiose. Ma agisce sottilmente un conformismo per il quale "diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti. Le sottili aggressioni contro la Chiesa, al pari di quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura" (Benedetto XVI, Omelia alla Pontificia Commissione Biblica, 15 aprile 2010). Se nei vari campi, i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all'occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti. Il punto non è una smania di rilevanza, ma il dovere di servire. Va da sé che la mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l'opportunismo, la facile dimissione dal compito. Bisogna invece che noi salviamo l'autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi variamente mascherati, alle lusinghe. In questo senso capiterà talora di essere scomodi, ma non sarà per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza.

Nel contempo, vorrei segnalare come stia progressivamente emergendo, dal vissuto delle nostre Chiese, un approccio che ci pare sempre più consapevole - dunque meno imbarazzato e scevro anche da manicheismi - verso la dimensione politica, per ciò che essa è, e per quello che esprime ai vari livelli. Non c'è dubbio che si sia passati da un atteggiamento più preoccupato della denuncia, spesso anche veemente o semplicistica, a un approccio più articolato ai problemi, seppure non meno pervaso di tensione etica e di slancio verso il futuro.
 
La politica è esigente anche perché richiede un'attitudine di analisi che va acquisita con l'applicazione, così da superare un certo genericismo, e approdare invece a visioni più pertinenti e più incalzanti sui problemi, non per questo però meno attente sotto il profilo morale. Sarà bene che nel prossimo futuro ci si interroghi su come, alla luce delle esperienze fatte, si possa procedere per favorire la maturazione spirituale e culturale richiesta a chi desidera servire nella forma della politica, e così preparare giovani all'esercizio di quella leadership che difficilmente può essere improvvisata. Dunque, la politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un'attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto.
 
E soprattutto adottando un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali. E i problemi hanno oggi obiettivamente una dimensione preoccupante. Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia, sono situazioni che continuano a farsi sentire con accoratezza. È necessario inoltre che le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili, perché non si indebolisca la rappresentatività politica. Finché infatti non si profilano condizioni realistiche di una maggiore stabilità per il Paese intero, è comprensibile che si avverta una sorta di esitazione e di diffusa incertezza.

Si aggiunge a livello della scena politica una caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte. Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa, cade lo slancio partecipativo, tutto diventa pesante e contorto.

In causa qui è non solo la dimensione tecnicamente politico-amministrativa, ma anche quella culturale e morale che ne è, a sua volta, lo specifico orizzonte.
In sostanza, è la politica intesa come "casa comune" quella che ancora una volta si propone quale aspirazione persuasiva e urgente:  alla casa tuttavia non basta un tetto, ha bisogno di strutture varie e elementi diversi, tra loro ben congegnati e connessi; e per vivere in essa in modo accettabile, c'è bisogno di un comune atteggiamento di fondo, che fa clima e rende possibile quel senso di appartenenza che motiva al sacrificio e dà senso all'impegno di tutti.

Dicevamo - un mese e mezzo fa - che, nel nostro animo di sacerdoti, "siamo angustiati per l'Italia" che scorgiamo come inceppata nei suoi meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato. Non abbiamo peraltro suggerimenti tecnico-politici da offrire, salvo un invito sempre più accorato e pressante a cambiare registri, a fare tutti uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise. Non è più tempo di galleggiare. Un rischio - lo diciamo con un senso di apprensione profonda -, è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l'Italia e che, ancorandone una parte all'Europa, potrebbero lasciare indietro l'altra parte. Il che sarebbe un esito infausto per l'Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare - a 150 anni dalla sua unità - i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale.
 
Mentre tuttavia si fa quest'ultimo esame di coscienza, è possibile - chiediamo rispettosi - convocare a uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull'occupazione? Sarebbe un segno che il Paese non potrebbe non apprezzare.

Una parola vorrei offrire ancora circa il tessuto connettivo della società italiana, che tiene nonostante le prove e le tensioni di una stagione non facile. La cronaca non manca, d'altra parte, di indicare come sintomi inquietanti episodi che danno la percezione di quanto profondo sia l'abisso in cui può cadere il cuore umano. Oggi, è vero, c'è una frontiera prodigiosa, quella mediatica comprensiva dei nuovi media, che esalta le opportunità di conoscenza e di relazione. È però anche una cultura capziosa che, mentre offre molto, se non si sta attenti ruba alla persona sempre qualcosa, e qualcosa di importante. Questo vale per i giovanissimi e i giovani per ore davanti a internet, ma vale anche per gli adulti quando si lasciano drogare da una informazione morbosa che sembra dare sempre qualche particolare in più, mentre di fatto induce alla indifferenza e al cinismo. Inaridisce il cuore e suggerisce una serie di alibi per non migliorare se stessi. Nessuno ha rimpianti per stilemi autoritari e illiberali, per sistemi monopolistici e monoculturali; e tuttavia la corsa all'audience ha fatto raggiungere livelli di esasperazione brutale.

Come comunità ecclesiale vorremmo sommessamente dire all'intera comunità nazionale che, per quello che possiamo, per tutto quello che siamo e saremo in grado di mettere in campo in termini di passione educativa, di dedizione per la vocazione e la felicità delle nuove generazioni, noi continueremo a esserci. Ci sono stati deficit e anche degli scandali, dei peccati di omissione e dei tradimenti della fiducia. Per di più, non sempre siamo stati pronti a identificare la gravità di certe azioni e abbiamo adeguatamente compreso che vi sono condizioni non guaribili con l'ammonizione, il pentimento, la volontà di ricominciare in situazioni nuove.

Ci sono storture della psiche che necessitano di un pronto isolamento e di cure particolari, oltre che di una sanzione commisurata alle ingiustizie. Su questo fronte la comunità nazionale, che tanta stima e confidenza da sempre nutre verso la Chiesa, deve sapere che ha tutto il nostro impegno assunto nel modo più solenne.


(©L'Osservatore Romano - 8-9 novembre 2010)

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