La CHIESA ha fatto FRUTTI BUONI ?

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°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:11

Carissimi,

Mi son detto che sarebbe utile mettere a disposizione del nostro gruppo, oltre ai vari documenti che tentano di offrire le ragioni della nostra fede, tante testimonianze e fatti che documentino le OPERE ed i FRUTTI della Chiesa nelle varie epoche attraverso l’opera coraggiosa dei confessori della fede, dei martiri che hanno dato la vita per testimoniarla, di quanti hanno impegnato la loro esistenza a servizio del prossimo nella carità con opere imponenti che rimangono fino ad oggi, della testimonianza anche silenziosa di schiere innumerevoli di madri, di padri, di figli che hanno offerto i loro sacrifici, le loro prove e l’osservanza fedele dei comandamenti.

Se è vero che l’albero si riconosce dai frutti, allora è necessario poter mostrare che la Chiesa Cattolica ne ha portati molti.

Una cosa va però precisata: Nel Vangelo non viene detto che TUTTI i frutti sarebbero stati buoni o che l’albero avrebbe portato SOLO frutti buoni. Dal momento che tutti gli uomini sono peccatori è evidente che la Chiesa, formata da uomini, riflette il combattimento interiore ed esteriore per adeguarsi alla legge dello Spirito che agisce in ciascun credente per spingerlo a fare i frutti buoni.

Pertanto, coloro che dicono che essi fanno solo frutti buoni, mentono a se stessi ed agli altri così come dice san Giovanni: chi dice di essere senza peccato è un mentitore.

Nella Chiesa perciò vi sono stati e vi sono tanti frutti buoni ai quali guardare e da cui prendere esempio.

Esaminiamo tutto e prendiamo ciò che vale.

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:12
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 01/04/2003 20.25
In tutte le epoche cristiane, la Chiesa ha difeso i diritti dei poveri e si è battuta per sostenere le classi più deboli. Cristo ha insegnato a mettere i poveri al posto d'onore, dicendo che di essi è il Regno dei cieli, e che chi avesse dato qualcosa a loro, lo avrebbe dato a Lui stesso.
Consapevole di tale insegnamento, i veri discepoli di Cristo hanno cercato di operare sempre una scelta a favore dei più deboli.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 01/04/2003 20.29

COMUNICATO STAMPA del PAPA

Ad appena cento giorni dal Duemila, sono lieto di esprimere il mio caloroso saluto ai leader e maggiori sostenitori della Campagna Jubilee 2000 contro il debito. Vi sono particolarmente grato per la vostra presenza, in questi giorni, ad una serie di incontri, nell'ambito dell'ormai prossimo Grande Giubileo, sui pesanti fardelli del debito dei paesi più poveri. Il Giubileo della Bibbia era un tempo in cui l'intera comunità era chiamata a fare ogni sforzo per restituire alle relazioni umane l'originaria armonia che Dio aveva dato alla sua creazione e che il peccato dell'uomo aveva guastato. Era un tempo per ricordare che il mondo in cui viviamo non è nostro, ma un dono dell'amore di Dio. Come esseri umani siamo solo servitori del progetto di Dio. Durante il Giubileo il fardello che opprimeva ed escludeva i membri più poveri della società doveva essere rimosso in modo che tutti potessero avere la speranza di un nuovo inizio in armonia con il disegno di Dio.

Oggi il mondo ha bisogno dell'esperienza del Giubileo. Troppi uomini, donne e bambini non riescono a realizzare il potenziale che Dio ha donato loro. Povertà ed enormi diseguaglianze sono ancora ampiamente diffuse, nonostante gli enormi progressi scientifici e tecnologici. Troppo spesso i frutti del progresso scientifico, invece di essere posti al servizio di tutta la comunità umana sono in verità distribuiti in modo da accrescere o addirittura rendere permanenti ingiuste disparità.

La Chiesa Cattolica guarda a questa situazione con grande preoccupazione, non perché abbia un concreto modello tecnico di sviluppo da proporre, ma perché ha una visione morale di ciò che il bene degli individui e della umana famiglia richieda. La Chiesa ha sempre insegnato che esiste una "ipoteca sociale" su tutta la proprietà privata, un concetto che oggi deve essere applicato anche alla "proprietà intellettuale" e alla "conoscenza". Non si può applicare solo la legge del profitto a ciò che è essenziale per la lotta contro la fame, le malattie, la povertà.

La riduzione del debito è, ovviamente, solo un aspetto del più vasto compito della lotta contro la povertà per assicurare che i cittadini delle nazioni più povere possano prendere pienamente parte al banchetto della vita. I programmi di riduzione del debito devono essere accompagnati dall'introduzione di reali e solide politiche economiche e di buon governo. Tuttavia, è altrettanto importante, forse persino più importante delle politiche, che i benefici che derivano dalla riduzione del debito raggiungano i più poveri tra i poveri, attraverso una rete globale e supportata di investimenti nelle capacità della persona umana, Specialmente attraverso l'istruzione e l'assistenza sanitaria. La persona umana è la risorsa più preziosa di qualsiasi nazione o di qualsiasi economia.

La riduzione del debito è dunque urgente. E', sotto molti aspetti, una precondizione per il progresso delle nazioni più povere nella loro lotta contro la povertà. Questo è un concetto ormai ampiamente riconosciuto, e dobbiamo ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a questo cambiamento di direzione. Dobbiamo chiederci, però, perché i progressi nella risoluzione del problema del debito siano ancora così lenti. Perché tante esitazioni? Per quale motivo persistono difficoltà nel reperire i fondi necessari anche per le iniziative già approvate? Sono i poveri a pagare il prezzo dell'indecisione e dei ritardi.

Faccio appello a tutti coloro che sono coinvolti in questo processo, specialmente alle nazioni più potenti, affinché non lascino passare questa opportunità che il Giubileo offre senza fare dei passi decisivi verso la finale risoluzione della crisi del debito. E' ormai ampiamente riconosciuto che ciò è possibile.

Prego affinché questo anno giubilare del 2000, che celebra la nascita di nostro Signore Gesù Cristo, sia davvero un momento di promessa e di speranza in particolar modo per i nostri fratelli e le nostre sorelle che ancora vivono nella più aberrante povertà in questo nostro mondo pieno di benessere. Insieme possiamo fare molto, con l'aiuto di Dio. Che la Sua benedizione scenda su di voi e sui vostri cari.

Dal Vaticano, 23 settembre 1999

Giovanni Paolo II

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:14
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 01/04/2003 20.45
 La chiesa e' attenta ai lavoratori
"Un secchiello e una paletta, arnesi per il gioco dei bambini in un mare di sabbia mentre un castello turrito, forte, adatto alla difesa, si sta sgretolando". Appeso alle porte della chiesa, il manifesto della Giornata della Solidarietà di quest'anno (10 febbraio 2002) esprime un tema quanto mai attuale: "Flessibilità e precarietà del lavoro, oggi". E' immagine del mondo del lavoro? Ridotto ad un castello abbandonato che si fa precario nel vento e nella pioggia?

La frase accanto: "Signore, rafforza per noi l'opera delle nostre mani" (salmo 90) ci ricorda la fragilità di ciò che facciamo e il bisogno della stabilità. Da circa una decina d'anni, prima in sordina e poi velocemente, per i motivi più diversi: sostenibilità della concorrenza, la globalizzazione, l'efficienza, le ristrutturazioni delle aziende, il lavoro flessibile è dilagato nel nostro territorio seguendo il nuovo tempo e le esigenze del mercato. Molti lo enfatizzano, segno di una nuova stagione. Le parole d'ordine delle aziende, e tutte rigorosamente in inglese, vanno dalla "ristrutturazione" ("reengineering") al ridimensionamento(«downsizing»), per passare alla produzione personalizzata e pronta su commissione senza transitare dal magazzino ("just in time") alla struttura "degerarchizzata" in cui tutti sono responsabili di tutta l'azienda ma nessuno risponde di persona.

Questa strada è possibile per i forti, per gli intraprendenti, per i giovani, per quelli che sanno lottare, per quelli dotati, per chi è attrezzato e ha alle spalle cultura, risorse intellettuali, salute, età. Anzi, per i giovani e per il lavoro d'ingresso la flessibilità può essere anche interessante e persino auspicabile: obbliga a misurarsi, stimola alla creatività.

Ma, diciamolo subito, pagano gli ultimi arrivati, gli anziani (nel lavoro), le donne, le persone senza molta capacità, cultura, elasticità mentale. Per una larga fascia di persone tale flessibilità rischia di fare più vittime che conquistatori. Qui si parla allora di precarietà, tanto più che in Italia siamo ancora a un analfabetismo di ritorno. Il messaggio onnipresente dice che la flessibilità è inevitabile: lo richiedono la produzione,la globalizzazione, la concorrenza, il mercato. Quindi bisogna adattare ripetutamente l'organizzazione della propria esistenza - nell'arco della vita, dell'anno, sovente persino del mese o della settimana - alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano, private o pubbliche che siano". (L. Gallino). Si parla di "flessibilità quantitativa" e di "flessibilità qualitativa". E insieme continua imperterrito, in Italia, il "lavoro nero", valutato per 5 milioni sui circa 20 milioni di lavoratori.

Mentre si garantisce che la disoccupazione può diminuire, si affaccia la prospettiva spezzettata, polverizzata della insicurezza e sulle spalle delle famiglie e delle persone ricadono le conseguenze del cambiamento. Si vive la fatica del "sentirsi insicuri, instabili, temporanei, soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fugaci e brevi". Persino la competenza non garantisce un lavoro quando le aziende, occupando nicchie di mercato, si debbono adattare alla vita breve della domanda (nei tessuti, della moda, come nelle componenti meccaniche). E se un buon lavoratore viene ancora tenuto stretto dalla dirigenza, difficilmente si vedrà salvato se la sua azienda si è ristrutturata, si è assottigliata o è stata venduta a qualche concorrente. Facilmente chi ha superato quarant'anni viene allontanato dal lavoro.

In tal modo non si possono fare previsioni o progetti né a lunga, né a breve durata riguardo al futuro, né a livello professionale e neppure a livello esistenziale e familiare (mutuo/famiglia), non si accumula alcuna significativa esperienza professionale trasferibile con successo da un datore di lavoro a un altro, non si stringono rapporti con persone e quindi risultano temporanei, provvisori e perciò insignificanti sul lungo periodo. Il "basta con il lungo termine" è un principio che corrode la fiducia, la lealtà e la dedizione reciproca eppure diventa slogan. I rapporti con l'azienda, provvisoria, in attesa del compratore più capace di fare profitto, risultano deboli. Se l'elemento di scambio non è più la produzione ma l'azienda stessa, anche le smagliature con la famiglia si approfondiscono poiché i rapporti diventano superficiali ed effimeri, soprattutto nell'educare i propri figli ai valori. A quali valori si può educare se la famiglia non sa mettere in risalto se non l'importanza delle virtù "camaleontiche" della nuova economia e non riesce a riproporre l'affidabilità, la dedizione e tensione verso uno scopo (tutte virtù a lungo termine)?

Ci sono sempre più problemi con la propria storia di lavoro ma tali problemi non hanno spessore; così non si crea una "narrazione". Sulla propria vita lavorativa non c'è un racconto di vittorie, di resistenze, di solidarietà che cambiano le cose, di significati duraturi. Così anche la Parola di Dio resta muta ed emigra in altri luoghi, riprendendo difficilmente una sua lettura quotidiana.

Se la flessibilità premia i forti, i giovani, i creativi, aumenta la disuguaglianza con stipendi sempre più al ribasso e allora diventa legittima la domanda: "A quali modelli vogliamo confrontarci e quali perseguire? Che fine sta facendo lo Stato sociale?

Con il lavoro c'è il bisogno della casa che incide per 2/3 di un reddito. Si parla di formazioni professionali ma verso quali direzioni? Per cercare un'occupazione, dove troviamo l'incrocio della domanda-offerta, oggi frammentata?".

La Comunità Cristiana deve essere cosciente della trasformazione della realtà sociale e lavorativa e si deve far carico della fatica, per condividere insieme la strada di ciascuno. La Giornata della Solidarietà vorrebbe sostenere e accompagnare questi itinerari.

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:15
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 01/04/2003 20.36
Da un brano di una intervista di Messori al card.
Ratzinger, tratto dal famoso libro "Rapporto sulla Fede" :
il discorso è soprattutto sulla musica, ma si può
estendere benissimo all'architettura.
Dal Capitolo 9, paragrafo " Suoni e arte per l'Eterno":

" E' divenuto sempre più percepibile il pauroso
impoverimento che si manifesta dove si scaccia la
bellezza e ci si assoggetta solo all'utile (...)
La Chiesa ha il dovere di essere anche <città
della gloria> luogo dove sono raccolte e portate
all'orecchio di Dio le voci più profonde dell'umanità.
La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del
solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo,
glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso
la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano.
(...) I cristiani non devono accontentarsi facilmente,
devono continuare a fare della loro Chiesa un focolare
del bello - dunque del vero - senza il quale il mondo
diventa il primo girone dell'inferno ".


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 04/04/2003 16.57

LE CATTEDRALI:  ARTE E FEDE PER LA CRESCITA CRISTIANA

Dal 1100 al 1300 sono sorte le più belle cattedrali del mondo e sono una testimonianza del fervore di fede dell’unità con la gerarchia che animava tutto il tessuto sociale di quell’epoca.

Abilissimi architetti, ingegneri, muratori e semplici manovali lavoravano ovunque con l’intento di lasciare dei segni tangibili del loro senso religioso e dell’alta concezione delle cose sacre che coinvolgeva profondamente ogni espressione della quotidianità.

Era il popolo che offriva i fondi per costruirle. Ancora oggi è quasi impossibile renderci ragione di ciò che accadde. Le cattedrali nascono quasi contemporaneamente, in tutta I Europio dall’ estremo Nord all’ estremo Sud. Ognuna è un capolavoro del suo genere. Non ci sono scuole per architetto e tutti sembrano pervasi dalla medesima idea: l’unità del popolo cristiano nel suo slancio verso Dio.

Quindi volumi enormi, a forma di croce, con archi e guglie verso il cielo a significare attraverso l’architettura, tutti i simboli della fede.

Gli stessi costruttori sembrano presi da un entusiasmo mistico lavorano come pregando.

La cattedrale diventava centro di liturgia, di pastorale vescovile, di catechesi, di feste cittadine, di vita popolare. Non c'era ombra di profanazione, perché la religiosità investiva ogni aspetto della vita

Quante cose possono ancora raccontarci quei miracoli di arte e di fede che sono, tanto per ricordarne alcune il duomo di Milano, le cattedrali di Pavia, Bologna, Cremona, Asti, Ferrara, Bre scia, Verona, Assisi, Siena Arezzo, Orvieto, Firenze, Bari, Trani, Monreale, Palermo….

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:17
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 01/04/2003 20.54
Molti missionari sono impegnati nell'opera di alfabetizzazione delle popolazioni più povere del pianeta.
Nel mondo occidentale attuale sono centinaia le pubblicazioni a carattere religioso che si preoccupano di informare e di formare ad una coscienza cristiana più profonda.
I libri che diffondono la cultura della fede vengono stampati in grandi quantità.
Sono numerose le scuole cattoliche, gli asili per i bimbi, le università cattoliche.
In tutti i secoli cristiani la Chiesa ha cercato di formare le generazioni con l'istruzione religiosa.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 04/04/2003 16.55

      I MONASTERI: CENTRI DI FORMAZIONE RELIGIOSA E CULTURALE

Il monachesimo è uno dei modi con cui la Chiesa cattolica ha influito sulla vita religiosa e civile dei popoli .

Monasteri centri di vita spirituale: preghiera comune, Liturgia solenne con partecipazione delle popolazioni vicine, purezza di fede e di vita cristiana, educazione religiosa della gioventù, direzione delle coscienze, conservazione e diffusione del cristianesimo, moderazione degli istinti bellicosi delle genti barbare.

2) Perché furono centri di vita culturale?

Monasteri centri di vita culturale: studio di teologia, Sacra Scrittura, filosofia, letteratura classica, scienze. Biblioteche e laboratori per la trascrizione dei libri antichi (codici). Scuole di tipo elementare, medio, universitario per monaci e per ragazzi e giovani affidati alla loro educazione. Con notevole larghezza di idee, i monaci non conservarono i capolavori della sola letteratura cristiana, ma anche di quella pagana, che altrimenti sarebbero andati distrutti sorto le ondate dei barbari.

3) Perché furono centri di vita sociale?

Monasteri centri di vita sociale ed economica: dissodamento di terre abbandonate e coltivazione con criteri più moderni di gran parte d'Italia e d'Europa! I monaci lavorano insieme ai loro dipendenti, con perfetta collaborazione, rispetto reciproco e senso della dignità del lavoro. Al lavoro agricolo si aggiunge l'allevamento del bestiame. Poi le officine industriali, non solo per use dei monasteri, ma per la vendita di prodotti finiti. Vive correnti di commercio e di scambio si avviano tra città e monasteri. Il dissodamento dei terreni cammina di pari passo con i sistemi di irrigazione, l'appoderamento, la costruzione di case coloniche con magazzini, stalle, cantine.

La tecnica di coltivazione e di allevamento progredisce, così anche la tecnica per la conduzione delle aziende agricole ed artigiane I rapporti tra monasteri e dipendenti sono regolate da contratti regolari, che migliorano quelli previsti dal diritto romano e ne introducono nuovi: enfiteusi, colonie parziali e perpetue, mezzadrie, ecc. Onesta ondata di civilizzazione ha come conseguenza il ripopolamento delle regioni distrutte e disabitate in seguito alle invasioni barbariche. I monasteri servivano anche come difesa dalle incursioni.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 04/04/2003 17.00

Le scuole nel Medioevo

Alla vita spirituale ed economica si aggiungeva la vita culturale: tutte e tre espressioni della medesima civiltà cristiana.

Ritornata la tranquillità dell’Europa Unita e la prosperità dei Comuni cittadini, la Chiesa svolse un'impresa immensa diretta all'istruzione ed educazione popolare.

II principio moderno della "scuola aperta a tutti " era già solido nella cristianità medioevale.

II Concilio Lateranense del 1179 per esempio, ordinava al clero di aprire ovunque scuole per tutti i ragazzi ed i giovani. Erano scuole di tre gradi: elementare, medio, superiore.

Alla scuola elementare pensava la parrocchia con insegnanti ecclesiastici e laici. Era gratuita e a disposi/ione di tutti i ragazzi.

Serviva anche agli apprendisti dei vari mestieri. Si insegnava a leggere, scrivere, calcolare.

Non era insegnamento teorico; mediante la scuola il ragazzo imparava a vivere nella comunità cristiana.

Alla scuola media, fino a circa i vent'anni, pensavano prima i monasteri e poi i Vescovi, mediante le scuole vescovili. Per chi non poteva dare un aiuto economico, anche questa scuola era gratuita. Provvedeva la beneficenza della Chiesa e dei cittadini.

Si insegnava grammatica, dialettica (capacità di discutere), retorica (capacità di parlare e scrivere), matematica, geometria, scienze naturali, musica e, naturalmente, teologia.

 Come si svilupparono le Università nel Medioevo

Ali''istruzione superiore pensarono quelle straordinarie istituzioni che ancora oggi si chiamano " Università "

Quasi tutte, una quarantina, furono di istituzione pontificia. La più antica fu quella di Bologna, sorta vero il 1100. La più celebre fu quella di Parigi. Rinomate quelle di Padova, Cambridge, Praga, Salamanca, Coimbra…

Prima ancora di sistemarsi in un edificio l’università medievale era una comunità viva di studenti ed insegnanti specializzati. Studiavano anche all’aperto oppure in Chiesa. Le lezioni erano trascritte a mano. La cultura universitaria assorbe il meglio da tutte le culture e le supera in una sintesi cattolica. Molti di quei grandi maestri furono santi: Anselmo, Bernardo, Alberto Magno, Bonaventura, Tommaso d’Aquino.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 05/04/2003 18.12

L’OPERA DI DON BOSCO per la FORMAZIONE DELLA GIOVENTU’

La sua vocazione è orientata decisamente verso l'educazione dei giovani: l'esperienza iniziale, a contatto con la gioventù reclusa nelle carceri della Generala di Torino, lo stimola ad adoperarsi per prevenire tali devianze sociali. Crea, così, l'Oratorio domenicale (1841-1844) a Valdocco. Tra gli stessi giovani trova l'elemento adatto per attuare il suo programma di risanamento morale della città, avviata già a forma di industrializzazione accentuata. Dà origine alla Congregazione che prende il nome, come l'oratorio, di s. Francesco di Sales. Tra mille difficoltà, riesce ad incrementare il complesso delle opere, soprattutto con la protezione del Pontefice Pio IX ( 1878), estendendo il suo raggio d'attività anche alle missioni (1875).

Con la collaborazione di s. Maria Domenica Mazzarello ( 1881) fonda l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872) per estendere l'opera di educazione morale e religiosa anche in campo femminile. Crea, poi, l'associazione dei Cooperatori salesiani (1875) usufruendo, in tal modo, delle forze di un incipiente laicato cattolico.

Chiude la laboriosa giornata al servizio della Chiesa il 31 gennaio 1888

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:23
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 04/04/2003 17.08
ELLA CARITAS ANTONIANA

 UN ORGANISMO A SERVIZIO DEI BISOGNI DI OGNI GENERE

La Caritas antoniana è nata nel 1976 ma ha alle spalle una tradizione centenaria. Deriva dall'opera del Pane dei poveri, la prima opera di carità, istituita presso la Basilica del Santo nel 1898 in concomitanza con la prima uscita del Messaggero di sant'Antonio. La parola e l'azione, il Vangelo e la carità, cioè il cuore dei valori antoniani, diverranno i cardini del nuovo periodico
Il Pane dei poveri si rifà a un episodio riportato dalla Rigaldina, la più antica vita di sant'Antonio. Una madre padovana, che vive nei pressi della basilica in costruzione, ha lasciato Tommasino, il figlio di 20 mesi, solo in cucina. Il bambino, giocando, finisce a testa in giù in un mastello d'acqua. La madre lo ritrova senza vita. Urla disperata ma poi non si arrende. Invoca il Santo. Fa un voto: se otterrà la grazia donerà per i poveri tanto pane quanto è il peso del bambino. È esaudita
Quando in basilica si istituisce il Pane dei poveri, l’opera è già una tradizione consolidata in tutto il mondo. Anzi prima del 1898, i pellegrini si stupiscono di non trovarlo proprio nel luogo che custodisce le spoglie del Santo. Tuttavia quando il Messaggero di sant'Antonio se ne assume il patrocinio, l'opera si diffonde a macchia d'olio in molte parrocchie italiane e straniere.
Sono tempi di grande povertà ma anche d'incredibile generosità. Il Messaggero annota la lista delle offerte dei lettori per il pane dei poveri. Sono sempre di più. In cinquant'anni, l'opera riesce a distribuire più di 50 mila chili di pane e in misura minore di altri generi alimentari. La carità non viene meno neppure nei momenti più difficili come le due guerre

I bisogni dei poveri si evolvono nel tempo e presto accanto al pane dei poveri nascono la Pia opera delle minestre dei poveri (1947) e l'Opera della legna dei poveri (1948). Cibo più completo e possibilità di riscaldarsi sono le due necessità più impellenti nel dopoguerra.
La nascita della Caritas antoniana, come oggi la intendiamo, è preceduta da uno sviluppo di interessi all'interno del Pane dei poveri. Nel 1951, l'opera versa tre milioni di lire agli alluvionati del Polesine. Non è un caso isolato. Nel 1956 seguono finanziamenti per i profughi ungheresi, dal 1964 al 1966 per la fame nel mondo, nel 1966 per gli alluvionati di Firenze, nel 1967 per gli alluvionati di Lisbona e nel 1971 per il Pakistan. Sta cambiando qualcosa: aumenta il benessere in Italia. Grazie all'informazione dei mass media, l'attenzione si sposta verso il terzo mondo.

Verso la metà degli anni ‘70, le opere di carità della basilica sono molte ed eterogenee. Si fa strada l’esigenza di creare una realtà unitaria che le gestisca tutte e che abbia un respiro nazionale e internazionale. E non più solo padovano. Il capitolo dei frati del 1976 è il punto di svolta: si decide di istituire una realtà apposita, la Caritas antoniana appunto. Dal 1976 al 1979 essa è ancora un’organizzazione informale. Se ne occupano due frati, Guido Masnovo e Franco Bonafè. Il primo progetto è in favore dei terremotati del Friuli (1976).

La Caritas antoniana ha la prima investitura ufficiale nel successivo statuto e regolamento interno, approvato dal definitorio provinciale  – cioè l'organo di autogoverno dei frati minori conventuali – il 29 ottobre 1979:

«Le opere caritativo-assistenziali della Provincia siano organizzate in maniera più unitaria, ispirantesi a criteri di prevenzione dei bisogni di promozione sistemica delle persone in stato di difficoltà, sia con interventi di carattere urgente, che con programmi a lunga scadenza, scegliendo delle aree specifiche».


Appare espresso per la prima volta un fondamentale principio: non limitarsi all’assistenza ma prevedere progetti a lungo termine, capaci di eliminare le cause di povertà.

Lo scopo è quello «di attuare, in modo organico e adeguato alle esigenze sociali del tempo, gli impegni che la Provincia stessa dei frati del Santo si assume verso gli associati del "Messaggero di sant'Antonio", e altri eventuali offerenti, che la delegano a devolvere in aiuto caritativo-promozionale quanto essi in nome di sant'Antonio possono offrire».

A tutt’oggi, la Caritas antoniana ha come presidente il ministro provinciale in carica. Chi però gestisce in concreto le attività è il segretario, aiutato da un consiglio direttivo di religiosi e volontari laici.

Nonostante le intenzioni di allargare l'area degli interventi all’estero, nei primi dieci anni di vita la Caritas antoniana fa fatica a oltrepassare i confini nazionali. I libri dei conti annotano lunghissimi elenchi di somme di danaro dati a singoli in stato di bisogno per cibo, bollette, affitti, rette scolastiche, ecc. Gli interventi di respiro più ampio sono legati alla Caritas italiana. C'è timore di fare da soli.

Ma qualcosa si sta muovendo. Un articolo del giugno del 1985, uscito in uno speciale per celebrare il numero mille del «Messaggero di sant'Antonio», elenca i paesi già toccati dalla Caritas antoniana: Uganda, Ghana, Tailandia, Corea, India, Filippine, America Latina, Polonia. La novità è che padre Stefano Poletto, segretario della Caritas antoniana dal 1979 al 1989, incomincia a creare reti di solidarietà con i missionari, in particolare con quelli dell'Ordine. È la base per un ulteriore salto di qualità.
Una spinta in questo senso viene dal successivo segretario della Caritas antoniana, padre Pietro Beltrame (1989-1994). Missionario per molti anni in America Latina, egli conosce da vicino l'estrema povertà. Sa che l'indigenza di casa nostra, anche se è grave, non è mai disperata. Altri possono farsene carico: i comuni, le parrocchie, le caritas diocesane, le san Vincenzo... Ci sono zone del mondo completamente abbandonate, i cui abitanti non hanno neppure le minime condizioni di vita. Essere là dove non c'è speranza, questa può essere la vera peculiarità della Caritas antoniana. C'è da ripensare un'altra volta i modi della carità.

Innanzitutto padre Pietro ridefinisce gli ambiti di azione del Pane dei poveri e della Caritas antoniana, che spesso finivano per confondersi. Il cambiamento comincia con la separazione fisica delle sedi: il Pane dei poveri rimane in via Orto Botanico, la Caritas antoniana, viene spostata nella vicina via Donatello. L’uno si occuperà dei poveri che bussano alle porte della basilica: barboni, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà; l’altra di progetti di sviluppo nei paesi del terzo mondo.

La Caritas antoniana a tutt’oggi non è una realtà istituzionalizzata. La volontà dei frati è di farla restare un’organizzazione agile, snella, senza un pesante apparato burocratico che sottrarrebbe fondi alla solidarietà. Opera solo grazie ai frati e ai volontari. Tre volte all’anno, i membri del consiglio direttivo s’incontrano e valutano le richieste di aiuto. L’atmosfera è amichevole e conviviale, ma i criteri di selezione dei progetti sono ben precisi:

1. Raggiungere gli ultimi.  Non significa solo preferire i paesi poveri sui paesi ricchi, ma individuare le zone più depresse di un paese e, all’interno di queste zone, le persone più emarginate: i bambini rispetto agli adulti, le donne rispetto agli uomini, gli indigeni rispetto al resto della popolazione.

2. Sostenere progetti richiesti, organizzati e sentiti dalla gente. Pretendere il loro aiuto nella realizzazione e nel recupero delle risorse. Evitare le imposizioni del modello di sviluppo. Ogni popolo ha in sé la forza del proprio riscatto e meglio di ogni altro conosce i propri bisogni e limiti.

3. Preferire progetti piccoli e sostenibili. Evitare le realizzazioni lontane dal livello di sviluppo e dalla sensibilità della gente. Meglio la scuoletta popolare che il grande collegio, il piccolo ambulatorio che il dispendioso ospedale, i laboratori artigianali che la fabbrichetta con tecnologie non facilmente disponibili.

4. Preferire i progetti di sviluppo sui progetti di assistenza. È fondamentale abbattere le cause di povertà, dando alle persone i mezzi per camminare con le proprie gambe. Nei casi di urgenza, quando le soluzioni sono difficili e lontane rispetto alle necessità di alleviare la sofferenza, l’intervento di assistenza è comunque assicurato. Come nei casi di guerre, epidemie o catastrofi naturali.

5. Agire nelle stesse zone con più progetti. Ciò permette di eliminare più cause di povertà, agevolando uno sviluppo complessivo della persona. I progetti multipli sono anche i più sicuri perché si basano su rapporti consolidati con le persone del posto e con una conoscenza dei problemi più profonda.

Il rapporto tra Caritas antoniana e Messaggero di sant’Antonio è strettissimo. Le due realtà, pur avendo una vita propria, sono in simbiosi. La rivista è oggi il mezzo di legame tra l’organizzazione di solidarietà e i suoi sostenitori. Ed ha assunto un ruolo ancora più importante negli ultimi 14 anni.
Prima di allora, la Caritas antoniana, pur amministrando le offerte per la solidarietà che arrivavano al Messaggero, appariva raramente sulle pagine della rivista. Sembrava più importante il fare che il dire.
Bisognerà aspettare il 1988 per avere uno speciale interamente dedicato alle sue attività.
Proprio dal 1988 inizia una nuova tradizione. Ogni 13 giugno, in occasione della festa del Santo, la Caritas antoniana propone ai lettori del Messaggero i tre progetti di solidarietà più impegnativi dell’anno, invitandoli a partecipare alla loro realizzazione. È un adattamento ai tempi: la miseria è ormai un fenomeno planetario e ci si sente impotenti rispetto alle sofferenze di molti popoli del mondo. Attraverso il Messaggero, i lettori diventano artefici di sviluppo e riscatto, il nuovo modo di applicare il Vangelo secondo l’insegnamento di Antonio-
Fino al 1990, gli articoli che riguardano la Caritas antoniana si concentrano in maggio, con i resoconto dei progetti 13 giugno dell’anno precedente, e in giugno con la presentazione dei nuovi progetti. In realtà, i progetti della Caritas antoniana sono molti di più. L’istituzione è sottorappresentata agli occhi dei suoi stessi sostenitori. Se ne accorge padre Pietro Beltrame che dal 1991fa inserire nel Messaggero una rubrica fissa.

La maggiore informazione innesca un rapporto di fiducia e partecipazione ancora più profondo con i sostenitori. Del tutto inaspettatamente, lievitano le offerte destinate alla solidarietà, e di conseguenza i progetti realizzati. Alcuni sono piccolissimi, del valore di qualche milione: un pozzo, un pulmino usato, qualche animale per la pastorizia; altri sono molto complessi perché cercano di sconfiggere più cause di povertà e di innescare un percorso di autosviluppo. Cresce l’impegno di valutazione e di controllo.

 È padre Luciano Marini (1994-1997), il successore di padre Pietro Beltrame, a tracciare il primo esaltante bilancio del triennio 1994-1996, il più proficuo, fino a quel momento, della Caritas antoniana. 170 progetti, portati avanti a staffetta da lui e da padre Pietro, in un crescendo di impegno e di coinvolgimento: 30 progetti nel 1994, 55 nel 1995 e 85 nel 1996. Sono anni caratterizzati soprattutto da un grande impegno a favore dei bambini di strada del Brasile e del recupero delle bambine prostitute: vengono finanziate case di accoglienza e di recupero che ripropongono il modello familiare, scuole professionali, piccole imprese artigiane, istituti che si fanno carico di bambini con precedenti penali.

Ma la solidarietà antoniana segue altri importanti filoni:

  • la formazione professionale e l’avvio di microimprese per le famiglie povere;
  • i diritti degli indios e delle donne;
  • la cura degli anziani e degli handicappati in stato di abbandono;
  • la salute
  • la casa per i senzatetto;
  • l’accesso all’acqua potabile;


I progetti toccano moltissimi paesi del mondo, soprattutto in America latina, in Asia e in Africa fino all’Europa dei paesi dell’est e in qualche caso all’Italia. Con l’immigrazione i poveri sono tra noi. È importante dare un segno contro due piaghe dei nostri giorni: la mancanza di alloggi per le famiglie immigrate e il recupero delle ragazze schiave della prostituzione.
Oggi il segretario è padre Luciano Massarotto (dal 1997), uno dei fondatori della Caritas antoniana. Con lui inizia una fase di ripensamento, che già si respirava nei mandati dei suoi predecessori. I progetti realizzati sono moltissimi, eppure bisogna avere il coraggio di fare un passo in più, di mettersi in discussione, di cercare di arrivare alle cause prime della povertà. Le soluzioni sono difficili e spesso al di sopra della portata di questa piccola istituzione. Eppure qualcosa si può fare da subito

Il primo punto di arrivo era già in embrione in molti progetti della Caritas antoniana. Se molti bambini, vecchi, malati e handicappati sono abbandonati, se l’analfabetismo è dilagante, se molti poveri muoiono per malattie banali o per mancanza delle minime misure igieniche e altro ancora le case individuabili sono molteplici, ma una le supera tutte: la debolezza economica, sociale, culturale della donna.<

 Questa conclusione, maturata dall’esperienza dei missionari, oggi è convalidata dalle stime delle Nazioni Unite: sono donne il 70 per cento dei poveri, il 75 per cento dei rifugiati e i due terzi degli analfabeti del mondo eppure 828 milioni di donne nel mondo svolgono i due terzi del lavoro mondiale ricevendo in cambio 1 decimo del reddito mondiale e 1 centesimo dei beni disponibili. Sulle loro spalle grava il mantenimento dei figli e delle persone deboli ma anche il lavoro nei campi e in molti altri settori produttivi. E chiaro che rafforzare le donne significa migliorare la condizione di tutte le persone che dipendono da loro. Il lavoro per le donne e con le donne sta di fatto diventando una costante dei progetti Caritas antoniana.

L’altro modo di affinare l’aiuto ai poveri è quello di appoggiare la finanza etica e di diffondere il più possibile le informazioni su un modo di vivere più sobrio, rispettoso della natura e della giustizia tra i popoli. La Caritas antoniana lo sta facendo in più modi: prendendo a prestito il modello del microcredito per alcuni progetti di sviluppo, affidando la raccolta fondi alla Banca Etica, contribuendo alle informazioni di questo sitoOggi i progetti della Caritas antoniana sono più di cento all’anno, per una spesa totale di 3 miliardi e mezzo di lire circa. In 25 anni la solidarietà antoniana ha fatto molta strada, imparando dall’esperienza che la vera solidarietà deve essere sempre disposta a mettersi in discussione, ad aggiornarsi, a trovare le strade più giuste. Nel rispetto dei popoli e del loro modo di percepire lo sviluppo.




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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 05/04/2003 18.14

La Caritas è impegnata da più di 25 anni nella formazione degli Obiettori di Coscienza e nella gestione del Servizio Civile -sostitutivo al militare- che essi svolgono.

Sensibilità e disponibilità
Per la Caritas, la cui finalità chiaramente espressa nel primo articolo del suo statuto è quella pedagogica e Normativa, questo impegno è volto soprattutto a creare nei giovani che le vengono assegnati, una sensibilità, una disponibilità ed una serie di valori che li possano accompagnare e guidare, oltre al breve periodo del Servizio Civile, per il resto della loro vita.
Questo avviene, certamente, attraverso la molteplicità di servizi essi svolgono a favore delle persone e delle fasce più povere e più deboli della nostra società italiana (e solo da pochi mesi e limitatamente alla Bosnia, anche di altri Paesi).
Ma non c'è solo il servizio. Esso fa parte di un progetto più complessivo di impegno e formazione che comprende un tirocinio teorico-pratico di preparazione, incontri e corsi residenziali di formazione prima e durante l'anno di servizio, la vita comunitaria come segno di una disponibilità e di un coinvolgimento più profondo e allargato e, infine, anche un impegno di sensibilizzazione, di animazione, di testimonianza verso la società e, sopratutto, verso altri giovani sui valori della pace, della non-violenza, della difesa e dell'aiuto ai più deboli e del dialogo per affrontare i diversi conflitti tra persone, gruppi, popoli.

Povertà e sofferenza
Gli Obiettori operano in Centri Operativi dove vengono accolte e assistite persone che sperimentano la povertà e le sofferenze della vita sotto diverse forme (anziani, minori a rischio, tossicodipendenti, immigrati, detenuti e loro familiari, portatori di handicap, persone senza fissa dimora). I Centri operativi sono attualmente 14 e in essi possono essere inseriti 28 Obiettori. Dal 1980 ad oggi, circa 160 giovani livornesi hanno svolto il Servizio Civile presso la Caritas Diocesana di Livorno e, scorrendo la lista dei loro nomi, fa piacere trovarvi il nome di tanti di loro (oggi adulti) che hanno fatto scelte professionali socialmente qualificanti e sono tuttora impegnati nelle realtà sociali ed ecclesiali più, sensibili e vicino ai poveri.

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:25
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 13/04/2003 22.22
I Missionari Comboniani formano una comunità religiosa internazionale denominata "Missionari Comboniani del Cuore di Gesù - MCCJ", chiamata da Dio a consacrarsi al servizio dei più poveri secondo lo stile missionario del fondatore il Beato Daniele Comboni. I sacerdoti ed i fratelli Comboniani lavorano al progetto missionario promosso dal Comboni con una totale disponibilità ad annunciare il Vangelo nella solidarietà con i poveri e nella liberazione degli oppressi da ogni forma di schiavitù fisica e morale. Con il motto profetico "rigenerare l'Africa con l'Africa" il carisma comboniano si proietta nella promozione dello sviluppo di comunità cristiane locali autosufficienti e responsabili dell'annuncio della Buona Novella. Questo vale anche per l'impegno missionario nelle vecchie chiese cristiane troppo spesso chiuse in se stesse.

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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 13/04/2003 22.22
I missionari sacerdoti si impegnano nell'evangelizzazione attraverso il ministero della Parola e la celebrazione dei Sacramenti mentre i missionari fratelli sono chiamati ad operare in particolare nella promozione umana, con l'esperienza professionale e la collaborazione a progetti pastorali, testimoniando l'unione profonda che deve esserci tra fede e attività quotidiane.

SUORE MISSIONARIE
Sono la "parte" femminile della famiglia dei consacrati al Sacro Cuore di Gesù secondo lo spirito del Beato Daniele Comboni. Come i sacerdoti e i fratelli impegnati nella missione universale hanno anch'esse uno stile di vita povero per una condivisione solidale con gli ultimi e per poter essere portavoce legittime di chi voce non ha.
Fare causa comune con i poveri porta spesso a condividerne la sorte estrema che può giungere alla persecuzione e al martirio. Preghiera e lavoro uniscono le comunità comboniane come cenacoli di apostoli che ricercano insieme con impegno costante i modi più efficaci per essere al servizio dei fratelli.

MISSIONARIE SECOLARI COMBONIANE
Sono missionarie consacrate a vita per la cooperazione missionaria nell'animazione della chiesa locale e nel servizio della missione. Sono secolari inserite nelle diverse realtà umane secondo lo stile proprio dei laici, come presenza della Chiesa universale. Sono comboniane animate dallo spirito missionario del Beato Daniele Comboni.
Sono impegnate in attività di animazione missionaria come: incontri, convivenze, edizione e diffusione di stampa missionaria e audiovisivi, gestione a Bogotà (Colombia) del "Centro di Comunicazione senza frontiere".
Cooperano in progetti di sviluppo e promozione umana e cristiana anche con organismi di volontariato internazionale. Tutte le attività sono sostenute dalla preghiera, dal sacrificio e dall'offerta quotidiana della vita.

L.M.C. - LAICI MISSIONARI COMBONIANI
I Laici Missionari Comboniani sono singoli e famiglie con la vocazione alla missione "ad gentes" secondo il proprio stato civile nell'ambito della Famiglia Comboniana.
Essi sono mandati ad annunciare il Vangelo
    1. con la testimonianza di vita cristiana
    2. con le opere proprie dei laici cristiani: promozione umana, lavoro per l'emancipazione economica, sociale e religiosa dei poveri
    3. con la parola nell'annuncio del Vangelo
    4. con la partenza come contributo essenziale dell'impegno
    5. con la creazione di comunità di base
    6. con uno stile e una metodologia missionaria comboniana
    7. con un piano pastorale e momenti di preghiera comuni
    8. con la scelta prioritaria della povertà e della condivisione
    9. con l'inserimento completo nella vita della missione
    10. con l'accettazione del servizio alla Chiesa locale.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 13/04/2003 22.23
Sono "animatori missionari" diffusi sul territorio che, sull'esempio di Daniele e nello spirito di Santa Teresa del Bambino Gesù, operano con la preghiera e con la testimonianza, nella promozione dell'impegno missionario come necessità prioritaria.
I Laici Comboniani rappresentano quindi in prospettiva un vero e proprio movimento, formato da cristiani di tutte le età e condizioni sociali, che operano per l'evangelizzazione nelle forme più idonee al loro stato secondo quanto affermato nell'enciclica Redemptoris Missio : "il miglior servizio al fratello è l'evangelizzazione che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente".
L'Associazione Laici Comboniani organizza programmi di formazione missionaria, collabora a progetti di sostegno locale alle missioni, promuove iniziative culturali e informative, diffonde con tutti i mezzi gli ideali missionari.

GIEMME - GIOVANI & MISSIONE
Il GIEMME è il cammino che i Comboniani in Toscana offrono ai giovani sensibili alle problematiche missionarie.
Il GIEMME risponde alle diverse attese dei giovani, della Chiesa, della missione e della Famiglia Comboniana:
  1. dei giovani alla ricerca dei valori che promuovono la dignità della persona umana (pace, giustizia, solidarietà ... ) e del senso cristiano della vita
  2. della Chiesa che chiama gli Istituti Religiosi a collaborare alla pastorale giovanile con la loro vocazione specifica
  3. della missione che esige un maggiore coinvolgimento nell'annuncio del Vangelo per la costruzione del Regno
  4. della Famiglia Comboniana che vuole proporre ai giovani il proprio carisma missionario.
 GIEMME SI PROPONE DI AIUTARE I GIOVANI
SOPRA I 17 ANNI A:
    • farsi missionari "ad gentes" come scelta di vita
    • consacrarsi a vita nella Famiglia Comboniana
    • attivarsi come volontari internazionali e laici missionari
    • contribuire all'animazione missionaria della Chiesa locale
    • collaborare alle iniziative missionarie locali
    • dedicare 2 o 3 anni al discernimento vocazionale.
°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:26
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 21/04/2003 14.33

la suora "antidroga"

di Roberto Beretta

La conoscono tutti per nome: suor Elvira. Decisa, energica, intraprendente, ha fondato
la Comunità Cenacolo, con decine di centri sparsi nel mondo. La sua idea: per guarire i
drogati la prima medicina è il Rosario tre volte al giorno. Ed è un successo.

 

Fino ai 46 anni è stata una suora "normale": cuciniera e quindi maestra d'asilo. Poi (come Madre Teresa) ha cambiato abito ed è diventata famosa come "quella che salva i drogati con il rosario". Suor Elvira Petrozzi ha 64 anni e nel 1983 ha fondato la Comunità Cenacolo in una ex villa settecentesca sulla collina sopra Saluzzo: la casa-madre di altre 30 (in Italia, Croazia, Bosnia, Francia, Austria, Usa, Santo Domingo, Messico, Brasile, Irlanda) che oggi ospitano 7 suore e 900 ragazzi e dalle quali sono passati 1800 tossicodipendenti in 17 anni. "Ma non vogliamo contare i successi accoglie la fondatrice -. La prima cosa da scrivere, qui, è che l'amore salva".

Suor Elvira: qual è la sua storia?

«Mio papa Antonio, etilista, è stato il primo drogato che mi è passato tra le mani. Eravamo 7 figli e io dovevo servirlo, aiutarlo a mangiare, a vestirsi. Mi vergognavo quando veniva a prendermi a scuola barcollando sulla bicicletta Per questo dico sempre ai ragazzi che vivono gli stessi problemi in famiglia e poi ne ricavano dei traumi da risolvere con lo psicologo: Dio può rifare ogni cuore ferito. A me, per esempio, ha dato un cuore compassionevole».

E lei ha inventato la "Cristoterapia" per i drogati...

«Non l'ho mai chiamata così, veramente. Preferisco dire che vogliamo ripetere Cristo, che la nostra comunità propone Cristo come punto di partenza».

Ecco, lei rifiuta di separare gli ambiti: prima curo l'uomo - dicono invece altri "preti della droga" - poi semmai converto il cristiano.

«Ma questa è una distinzione che non regge. Dio non ha fatto così: prima creo il corpo e poi lo spirito... L'uomo è un mistero che solo chi l'ha fatto conosce. E allora io mi metto in ginocchio per impararlo da lui. Perchè nessun libro e nessuna psico-analisi possono arrivarci. Del resto, io ho solo continuato il sistema che ha fatto bene a me; incontrarmi con Gesù Cristo e il Vangelo, compresa la croce, mi ha portato ad essere una donna serena, libera, coraggiosa anche, senza paure. Il nostro metodo è quello della vita, che da duemila anni risana, da la gioia e restituisce la pace».

Il metodo, dite voi, della "resurrezione"...

«Difatti non chiamiamo i nostri centri "comunità terapeutiche" bensì "scuole di vita". Noi orientiamo senza mezzi termini e anzi precediamo i giovani verso la costruzione della persona in quanto tale e in quanto figlio di Dio, voluto a sua immagine. È un'immagine che non si può distruggere, e noi lo constatiamo. Anzi la ricostruzione fa l'uomo migliore di prima».

Per questo lei fa recitare il rosario tre volte al giorno? Come le medicine.

«No: come i pasti. Come si nutre il corpo per lavorare, così la preghiera sostiene la gioia, la speranza, la pace. Sì, noi abbiamo uno spiccato affetto per la Madonna. È importante avere dei modelli e il nostro primo soprattutto per la donna ma anche per i ragazzi è lei».



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 21/04/2003 14.34

Ma perchè tre volte al giorno?

«A Lourdes, a Fatima e anche a Medjugorie (dove abbiamo una forte comunità da oltre 10 anni), la Vergine continua a raccomandare il rosario. Evidentemente in quella preghiera c'è un potenziale misterioso e nascosto che guarisce. Io lo consiglio ai giovani in difficoltà, alle coppie che si scontrano: cominciate a dire il rosario. Con tutto il rispetto per le scienze umane, credo che non siano sufficienti a guarire le piaghe del tossico. La corona guarisce la psiche, è una forza che passa nelle vene. È una presenza, non solo un segno».

La vostra regola è molto esigente, a volte dura.

«Sì, sì. Ci sono state indagini in proposito: è la comunità più severa. Perchè? Perchè c'è la croce. Perchè noi parliamo di croce e invitiamo e aiutiamo i ragazzi a portarla. Quando escono dalla comunità facciamo una festa in cui consegno a tutti proprio il crocifisso e il rosario: il primo perchè lo incontreranno subito e il secondo per difendersi dalle difficoltà. Li abbiamo accolti in ginocchio e li congediamo in piedi».

Ma questi ragazzi sono deboli anche psicologicamente: non c'è il rischio di creare un'altra dipendenza?

«Beata e benedetta dipendenza! Anzitutto so che non violo la loro libertà, perchè la vera libertà è conoscere chi ti ha creato, anzi è un loro diritto e un nostro dovere trasmettergli la verità tutt'intera. Certo, è una verità che proponiamo in maniera molto graduale e differenziata, perchè ciascuno ha la sua esperienza. Però a noi non basta la guarigione, vogliamo la salvezza. Se li togliamo dalla droga e basta, saranno ancora dei disperati».

Da lei nessuno paga rette. Perchè?

«Questa di non accettare contributi dalle istituzioni pubbliche è davvero la mia scelta più bella. Perchè significa essere coerenti: qui ragazzi capiscono che noi crediamo davvero alla paternità di Dio quando vedono arrivare camion di provvidenza grazie ai quali mangiano ogni giorno. E poi anche per rispetto verse di loro: i contributi statali sono soldi di tutti perchè la società deve pagare per questi ragaz zi? Non sono mica in sedia a rotelle, non gli mancano intelligenza o forza... Sono loro semmai che devono pagare, facendo sacrifici e lavorando».

Chi sono allora i tossici per lei?

«A me sembrano degli urlatori che vogliono annunciare alla nostra società qualcosa di più grande e vero, di più duraturo. Vuoi che Dio non conosca il motivo di una piaga così dilagante come la droga? I tossici nascondono una profezia in loro, noi - soprattutto noi cristiani - dobbiamo leggerne il messaggio. Anche se non posso non dire che stanno percorrendo un doloroso calvario pure per colpa nostra: abbia mo infatti lasciato dietro di noi e davanti a noi la confusione, la menzogna della vita, il tutto subito, la cultura per l'arrivismo e il potere, per l'avere»

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:28
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Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 28/06/2003 22.32
La Società San Paolo è una Congregazione Religiosa fondata nel 1914 in Italia ad Alba (Cuneo), da don Giacomo Alberione.

I membri della Società San Paolo, conosciuti come Paolini, fedeli alla missione loro affidata dal fondatore, si impegnano nella diffusione del messaggio cristiano utilizzando i mezzi che la tecnologia mette a disposizione dell'uomo di oggi per comunicare. Operano in 28 nazioni. Molteplici sono i campi di attività: editoria libraria, giornalistica, cinematografica, musicale, televisiva, radiofonica, audiovisiva, multimediale, telematica; centri di studio, ricerca, formazione, animazione.



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Consiglia  Messaggio 2 di 4 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 28/06/2003 22.33
Società San Paolo
Fondata il 20 agosto 1914 e approvata definitivamente dalla Santa Sede il 27 giugno 1949, ha come missione "l'evangelizzazione con i moderni mezzi di comunicazione". Si compone di religiosi sacerdoti e laici consacrati (chiamati Discepoli del Divin Maestro). Presente nei cinque continenti, la Società San Paolo si serve di riviste, libri, cinema, radio, televisione, dischi, musicassette, compact disc, siti internet e di ogni tecnologia comunicativa per annunciare Cristo e parlare di tutto cristianamente alle masse lontane dalla vita parrocchiale. I modelli della missione sono: Gesù Maestro, San Paolo, l'apostolo che si "fa tutto a tutti" e Maria Regina degli Apostoli che dà vita al Cristo, comunicatore del Padre.

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Consiglia  Messaggio 3 di 4 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 28/06/2003 22.34
Don Giacomo Alberione
«Eccolo umile, silenzioso, instancabile, raccolto nei suoi pensieri che corrono dalla preghiera, all'opera, sempre intento a scrutare i segni dei tempi. Il nostro don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato... Lasci che il Papa, a nome di tutta la Chiesa, esprima la sua gratitudine.»Don Giacomo Alberione

Così si esprime Paolo VI il 28 giugno 1969. Don Alberione è in udienza dal Papa accompagnato dai partecipanti al secondo Capitolo generale e da una folta rappresentanza di Paolini e Paoline. In questa occasione il Papa conferisce al fondatore della Famiglia Paolina la croce "Pro Ecclesia et Pontifice".

Due anni più tardi, il 26 novembre del 1971, nel tardo pomeriggio, Paolo VI visita in forma privata don Alberione morente. Alle 18,26 dello stesso giorno don Alberione chiude la sua esistenza terrena. Le ultime parole lasciate come testamento spirituale ai suoi figli e alle sue figlie sono un invito alla speranza: "Muoio... prego per tutti, Paradiso!".


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Consiglia  Messaggio 4 di 4 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 28/06/2003 22.36

Questa sua grande opera era già stata prefigurata nel lontano 1918 quando don Alberione, parlando ad un piccolo gruppo dei suoi primi giovani, ispirato dallo Spirito diceva loro: "Alzate gli occhi, mirate in alto un grande albero di cui non si vede la cima: questa è la nostra Casa, che è davvero un "alberone"; voi non siete che alle radici.

La Casa attuale, infatti, è soltanto la radice di questo grandissimo albero.

Voi siete ai piedi di una grande montagna, salite su, mirate l'orizzonte, è tutto il mondo".

Oggi i Paolini e le Paoline, sparsi in tutto il mondo, ringraziano il Signore per avere dato alla sua Chiesa questo apostolo instancabile.

°Teofilo°
00sabato 5 settembre 2009 18:29
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Consiglia  Messaggio 1 di 5 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 31/03/2003 20.17
In tutti i secoli cristiani vi sono stati autentici eroi della carità verso il prossimo ispirata dal Vangelo di Cristo.
Vediamo in che modo, concretamente, si è sviluppata questa carità verso coloro che in ogni tempo hanno sofferto malattie ed infermità di vario genere.


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Consiglia  Messaggio 2 di 5 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 31/03/2003 20.18

Con l'avvento del cristianesimo, il concetto di assistenza assunse un valore ed un significato particolarmente importante.

Con l'uscita della Chiesa dalla penombra delle catacombe, andò diffondendosi la pratica dell'assistenza caritativa ai poveri e agli ammalati In questa epoca, assistiamo, difatti, alla diffusione di ospedali intesi soprattutto come asili di carità, piuttosto che come istituti con una qualche base scientifica e terapeutica. Queste istituzioni avevano anche il compito di esercitare la pietas verso le persone diseredate: non pei nulla esse sorgevano presso le sedi episcopali e i monasteri. Vi era un ricovero per i viandanti presso ogni vescovado, dove naturalmente si ospitavano con maggior sollecitudine gli ammalati. Perciò, nei primi secoli del cristianesimo, i ricoveri aperti dai vescovi e dai cristiani facoltosi (ma anche i primi cenobi} erano, insieme, ospizi di pellegrini e ospedali per gli infermi. Molto spesso i nosocomi finivano per essere solo semplici ospizi per poveri, vecchi e pellegrini assumendo rispettivamente i nomi di ptochia, gerontocomi e xenodochia.

Vennero anche aperti i primi brefotrofi e orfanotrofì riservati rispettivamente ai bambini e agli orfani.

Particolarmente importanti furono le istituzioni ospedaliere sorte in Oriente, dove le comunità cristiane erano meglio organizzate e i mezzi più abbondanti per la presenza della capitale dell'Impero I primi ospedali sorsero a Costantinopoli per opera di S Elena (la madre di Costantino Magno) e dei senatori Zotico ed Ebobulo, ma i più importanti furono sicuramente gli xenodochia aperti da S Basilio, tanto vasti da essere chiamati "piccole città"

Quando, poi, ebbero inizio i pellegrinaggi verso la tomba dell'apostolo Pietro a Roma, gli xenodochia si moltiplicaiono anche nella capitale dell'Impero di Occidente. Nel secolo VI, il papa Pelagio stabilì un ricovero per i poveri nella propria dimoia, seguendo le orme di S. Simmaco presso le chiese di S. Paolo e S. Lorenzo.

Sulle grandi vie che conducevano a Roma, via d'Italia e d'Europa sorsero molti ricoveri, le scholae peregrinorum dei Sassoni, Longobardi e Franchi, diffuse e sostenute dai vari sovrani cristiani dell'epoca.

In questo periodo ricordiamo come S.Bernardo da Mentone fondò l’ospizio del piccolo S. Bernardo. Ludovico il Pio fondò l’ospedale del Cenisio, S.Anselmo di nonantola, fondando il suo monastero, vi annettè un vasto ospedale così come tutte le fondazioni monastiche sorgevano attrezzate di centri di accoglienza per i malati.

Nella
sola Francia sono circa 200 gli ospedali di fondazione anteriore al secolo XIII, a cominciare da quello di Childenco a Lione (nel 512) fino al celebre HoleI Dieu istituito a Parigi dal vescovo Landrio (nel VII secolo)

Inoltre, c'erano le labbroserie, nel XII erano circa 2000, tutte gestite dai monaci antoniani di Vienne, in Provenza.

L'ospedale, in seguito a questo periodo storico, si affermò come hospitium, luogo dell'ospitalità.

Nel periodo delle Crociate nacquero i primi ordini cavallereschi e ospitalieri, come quello di S Giovanni di Gerusalemme, di S.Lazzaro, dei Templari e dei Teutonici e sorsero vari asili con il compito fondamentale di assistenza agli infermi.

Tutte queste strutture vennero, poi, assunte dai vari Stati come mezzo di difesa sociale contro le malattie. Non ci fu nessun progresso per la medicina nel Medioevo, la stessa attività di igiene e di sanità pubblica venne addirittura cancellata. L'unico sviluppo del sistema "ospitaliere" fu quello guidato dalla Chiesa .


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Consiglia  Messaggio 3 di 5 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 31/03/2003 20.20

Evoluzione del sistema assistenziale.

II concetto di ospedale si è evoluto nei secoli passando da una concezlone esclusivamente laica ad una religiosa, pur conservando la funzione medica anche se I’aspetto sociale diventa sempre più importante. In Occidente si impose il concetto di ospedale come casa di accoglienza per i diseredati e gli uomini fragili. L'ospedale divenne quindi un'istituzione con funzione assistenziale, specialmente a favore dei bisognosi ammalati e invalidi, viandanti e pellegrini, orfani e donne incinte, oltre che poveri e mendicanti. L'aspetto medico era secondario, i posti letto erano limitati, le spese medicinali costituivano una minima parte del bilancio e molti non avevano neppure un medico. Del resto gli unici malati, che venivano accolti negli ospedali, erano solamente quelli poveri, i ricchi si facevano curare nelle loro abitazioni dove era possibile una maggiore igiene.

Nel XIII secolo gli ospedali e i lebbrosari aumentarono a dismisura, secondo alcuni ne esistevano 19000 presso i quali prestavano la loro opera i religiosi. Si assistette ad un incremento degli istituti di beneficenza e ad uno sviluppo delle fondazioni già esistenti.


Verso la fine del Medioevo, la rete assistenziale venne nazionalizzata, vari istituti furono unificati e nacquero vari ospedali maggiori, che riunivano competenze prima disperse.

La causa di questo cambiamento, per molti studiosi, e da ricercarsi nella stessa incapacità della medicina dell'epoca di affrontare e risolvere le nuove e pericolose patologie, che si andavano diffondendo sempre più.

Si sviluppano, in questo stesso periodo, le confraternite (associazioni con fini misti di culto e beneficenza) e gli ordini religiosi ospedalieri (congrega/ioni religiose dedite alla preghiera, alla meditazione, e anche all'assistenza degli infermi). Fra gli ordini secolari, molti dei quali sopravvivono ancora oggi, possiamo ricordale gli infermieri dell'ordine del Santo Spirito (fondato a Montpellier nel 1160), l'ordine di san Camillo, fondatore della congrega/ione ospedalieri dei Ministri degli infermi, l'ordine dei fratelli dell'ospitalità di san Giovanni di Dio (conosciuto in Italia come i "Fatebenefratelli"). la confraternita delle Figlie della carità, divenuta poi ordine di laiche. Quest'ultimo ordine fu fondato da san Vincenzo de' Paoli (1581-1660), la cui attività organizzativa in campo caritativo ebbe nel '600 una straordinaria importanza sociale oltre che religiosa.

In molti ospedali, le suore di San Vincenzo divennero il fulcro dell'infermieristica.

Negli ospedali di questo periodo si potevano trovare sia il bambino abbandonato che il vecchio, lo storpio, il demente, la partoriente e il morente.

II concetto di ospedale, infatti, faceva riferimento ad una istituzione con il compito di esercitare la pietas verso le persone diseredate. In pratica una vera e propria "casa di accoglienza" per tutti i bisognosi.

Un esempio è l'ospedale diventalo noto come il "Fatebenefratelli". Sorto nella seconda metà del '500 a Roma, ad opera dell'ordine dei fratelli dell'ospitalità di san Giovanni di Dio, sull'Isola Tiberina. In questa struttura i regolamenti prevedevano le modalità con cui accogliere le persone malate e quelle emarginate. In genere ogni derelitto, che entrava nell'ospedale, veniva accolto dal priore in persona, il quale gli lavava i piedi e distribuiva il vitto dopo la preghiera comune sia ai frati infermieri che ai malati. E’ evidente come i religiosi dell'ordine dei fratelli dell'ospitalità di san Giovanni di Dio si ispirassero al modello della carità cristiana per esercitare la pietas del servizio ai malati. Era questa la concezione alta di ospedale inteso come Hospitium, non pensato cioè unicamente in funzione dei malati bensì degli emarginati in genere. Si voleva in realtà, difendere la parte sana della società da quella 'malata".


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 31/03/2003 20.21

Sorsero e si diffusero rapidamente in tutta Europa due precise istituzioni, i lebbrosari e i lazzaretti sviluppatisi all’interno della più ampia tipologia delle strutture ospedaliere.

Tale funzione fu anche materia di un editto reale nella Francia del 1662 il quale decretava la costruzione di ospedale generale per ogni città e grande villaggio allo scopo di rinchiudervi i poveri che sarebbero stati cosi educati alla devozione cristiana e al lavoro.

 La trasformazione degli ospedali

Nel secolo XVI in seguito a vari capovolgimenti sociali politici e religiosi, l'organizzazione ospedaliera subì un profondo mutamento. Gli ospedali assunsero il carattere di istituzioni pubbliche concepite come mezzi di difesa sociale dalla malattia, tornando ad essere organizzati principalmente dallo Stato: da questo momento storico la funzione terapeutica lasciò a desiderare.

Naturalmente continuavano ad esistere istituti di carattere religioso-assistenziale: brefotrofi, convalescenziari, ricoveri per mendicanti ed orfani. Ed anche negli ospedali del mondo occidentale, organizzati dallo Stato, continuavano a prestare la loro opera molti religiosi.

Nelle nazioni meno sviluppate in ogni caso, i missionari, e volontari cattolici hanno sempre prestato e continuano a prestare la loro preziosa opera di assistenza agli infermi e ai più deboli. Basti qui ricordare semplicemente l’opera di Madre Teresa di Calcutta che in India ha saputo portare con la forza dell’amore, le cure necessarie a tantissime persone, non solo personalmente, ma soprattutto fondando un ordine contemplativo-assistenziale che continua e dilata la sua opera. Si tratta delle missionarie della carità.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 02/07/2003 20.28
BUCCHIANICO: San Camillo de Lellis. Riformatore della Sanita'

La Gloria di San Camillo (G.B. Pittoni, 1687 - 1767) Chiesa di San Gregorio, Bologna - Foto archivio D'AbruzzoIl Papa Benedetto XIV ha riconosciuto ufficialmente in Camillo de Lellis un iniziatore e maestro di "una nuova scuola di carità". I Pontefici successivi l'hanno confermato come patrono degli ospedali - oltre che degli infermi - e come modello ed esempio degli operatori sanitari.
La situazione degli ospedali italiani alla fine del '500 lasciava alquanto a desiderare, l'assistenza era largamente inadeguata o del tutto carente, i malati subivano la sorte spesso della più completa emarginazione.
San Camillo si sentì chiamato a un'opera di riforma che lo impegnò personalmente e "contagiò" beneficamente la società del suo tempo.
Lo possiamo quindi definire un "riformatore sanitario" in piena regola, capace ancor oggi di suggerire ai cristiani del mondo attuale i principi basilari e i modi operativi per attuare una "riforma sanitaria" che risponda alle fondamentali esigenze evangeliche.
Come S. Camillo realizzò la "sua" riforma sanitaria?
La sua opera è stata molteplice e ha avuto varietà di obiettivi, dettati dalle situazioni concrete e affrontati con una volontà illuminata e tenace.

Cambia il concetto di "malato"

Ai tempi di S. Camillo, a Roma come altrove, l'ospedale era un estremo rifugio per disperati. Mentre infatti i ricchi o benestanti erano assistiti nelle loro case da medici privati, all'ospedale affluivano poveri di ogni genere, abbandonati, vagabondi, gente affamata e macilenta, nonché una marea di contagiosi rifiutati dalla società. E quando questi non potevano o non volevano entrare nell'ospedale si trattenevano nelle loro misere abitazioni o, se non ne avevano, si rifugiavano nelle "grotte romane" cioè negli anfratti dei ruderi dell'antichità classica o sotto gli archi dell'acquedotto dell'agro romano.
La società rinascimentale li ignorava, li riteneva gli ultimi e li emarginava. S. Camillo li cerca, li assiste, ne fa "i primi" in senso assoluto.
La cultura umanistica - si sa - esaltava l'"uomo" come essere sommo e centro dell'universo. Ma quale uomo? L'uomo ideale e l'uomo eccezionale: l'individuo geniale, l'artista creatore, il principe astuto e forte, l'invitto capitano di ventura, lo scopritore di nuovi mondi. Ma il poveraccio senza prestigio e senza potere, e per di più malato o malandato, non trovava in questa cultura alcuna considerazione.
S. Camillo scopre "questo" uomo, scopre che costui è un uomo. Voleva dedicarsi a Dio nella preghiera e nella penitenza e Dio lo mette di fronte al malato e al povero. Voleva "servire" Dio in convento secondo la tradizione ascetico-monacale, e Dio lo porta all'ospedale al servizio di questa misera gente.
"Servire i poveri infermi, figlioli di Dio e miei fratelli".
Da buon convertito vede innanzitutto i "figli di Dio", ma assai spesso li chiama "miei fratelli", con una commozione umana e immedesimazione con la loro sorte che supera tutte le teorizzazioni sul concetto di uomo che facciamo spesso noi moderni.
Il malato è per S. Camillo veramente "un uomo", un uomo concreto, un pover'uomo, povero di beni ma povero soprattutto del bene della salute. Prima "vede" quest'uomo e poi "discute" sui suoi diritti.
I "diritti" dei malati non sono per lui dei principi ideali stampati sulle costituzioni o nelle leggi, ma sono i "bisogni concreti" che esigono risposta da chi sta attorno ai malati stessi. Così il concetto di "persona" non è per Camillo un'astrazione filosofica, ma qualcosa di incarnato e di sofferto.
Il malato - per usare le sue espressioni - è "la persona stessa di Cristo", è "pupilla e cuore di Dio", è "mio signore e padrone". Anche al miscredente, al blasfemo, a quello che l'insulta, Camillo dice: "Tu mi puoi comandare ciò che vuoi...!".
La visione cristiana arricchisce ma non offusca la integrale percezione umana del malato come uomo, dell'individuo che anche nella sua povertà e infermità resta sempre di una "dignità" unica e insopprimibile.
È al servizio di quest'uomo che Camillo dedica la sua vita.

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