La Chiesa di oggi ha forse dimenticato Paolo VI Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ?

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Caterina63
00venerdì 17 luglio 2015 11:20

Giovanni Paolo II in Polonia, 1979
 

Giovanni Paolo II ridiede speranza a popoli oppressi da dittature di destra e di sinistra e il suo insegnamento contribuì alla loro rinascita culturale. Dialogò con i popoli, saltando i loro regimi. E in economia, credeva nella capacità dei poveri di emanciparsi e reinserirsi nel processo di creazione della ricchezza. Il Vaticano oggi sembra aver dimenticato il suo esempio, mentre ritornano in auge i discepoli della Ostpolitik del cardinale Casaroli.

di George Weigel*

Cracovia – Probabilmente è perché da due settimane e mezzo vivo nella città che Giovanni Paolo II chiamò “la mia amata Cracovia”, ma quel che mi colpisce (e non colpisce solo me) è che l’attuale Vaticano sembra aver dimenticato alcune delle lezioni fondamentali di diplomazia e di pensiero del Santo che arrivò a Roma da Cracovia e divenne uno dei più influenti pontefici della seconda metà del secondo millennio.

Partiamo dalla diplomazia o, meglio, dalla guida della testimonianza della Chiesa Cattolica da parte del Vescovo di Roma. Il primo viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in Polonia, nel 1979, è giustamente considerato come un evento spartiacque della Guerra Fredda, perché innescò la rivoluzione delle coscienze che rese possibile la Rivoluzione del 1989, con le sue caratteristiche uniche nella storia. Ma molti, qui a Cracovia, ricordano molto lucidamente il secondo viaggio di Giovanni Paolo II nella sua terra natia, nel 1983, in un periodo molto difficile. La legge marziale era ancora in vigore; lo Stato polacco, sotto il generale Wojciech Jaruzelski, continuava a comportarsi come un esercito d’occupazione, opprimendo la società civile; la speranza in Solidarnosc, che era sia un movimento di rinnovamento nazionale che un sindacato indipendente, pareva ridotta in cenere.
Quando Giovanni Paolo II giunse in Polonia il 16 giugno 1983, non abbracciò il generale Jaruzelski o altre autorità dello Stato polacco; al contrario, durante la cerimonia d’apertura, tenne lo sguardo verso il basso, mostrando dolore e preoccupazione sul suo volto espressivo. Una donna anziana, vedendolo così, disse: “Vedete? Lui ha capito. E’ triste”. Quando Giovanni Paolo II incontrò Jaruzelski faccia a faccia, quelli che erano fuori dalla sala dissero, in seguito, che potevano udire il suono dei pugni sbattuti sul tavolo. Giovanni Paolo II iniziò la conversazione dicendo: “Ho l’impressione che questo paese sia un grande campo di concentramento”, un riferimento alla passata occupazione nazista della Polonia che risultò molto tagliente.

Poi seguirono le due visite papali al Cile nel 1987 e al Paraguay nel 1988: due paesi cattolici governati da dittature militari. Gli incontri con il generale Augusto Pinochet e con il generale Alfredo Stroessner avvennero a porte chiuse. Ma meno di due anni dopo la visita pontificia, Pinochet accettò il plebiscito in cui il popolo votò per il suo abbandono del potere. Gli eventi furono ancora più rapidi in Paraguay, dove Stroessner, che allora era il più longevo dei dittatori, perse il potere nel 1989 dopo 35 anni. Le cause di queste transizioni alla democrazia sono complesse, come sempre. Ma, sicuramente ha influito il fatto che Giovanni Paolo II non abbia accettato l’inevitabilità del governo autoritario (insistendo, con Pinochet, che il suo popolo avesse diritto alla libertà, anche nel caso ne abusasse). E probabilmente, ancor di più, agì in modo tale da ridare speranza alle opposizioni democratiche in Cile e in Paraguay.

E poi fu la volta di Cuba, nel 1998. Troppo scaltro per affrontare il vulcano retorico Fidel Castro in un confronto pubblico, Giovanni Paolo II preferì invece mantenere lo stesso atteggiamento che tenne in Polonia nel 1979. Dopo la cortesia di rito, ignorò il regime cubano e la sua pretesa di incarnare la giustizia, e cercò piuttosto di restituire ai cubani la loro cultura, che il regime di Castro aveva violentato, e la loro storia, che il castrismo aveva riscritto. L’esempio più eclatante è il discorso che Giovanni Paolo II tenne all’Università dell’Avana, dove, con Fidel Castro nel pubblico, celebrò gli esponenti della vita culturale e intellettuale di Cuba, quella cattolicità che ha plasmato i “cubani” da un miscuglio di popoli nativi, spagnoli e africani. Ed è la stessa cultura cattolica, continuò il Papa, che ispirò molti dei liberatori di Cuba dalle catene del colonialismo (compreso l’eroico padre Felix Varela, il cui esempio avrebbe ispirato la principale iniziativa per i diritti umani nelle prigioni dell’isola, all’indomani della visita papale).

Giovanni Paolo II con Fidel Castro

Questo approccio alle dittature di destra e di sinistra, forte nella sostanza, ma tatticamente astuto, era una sfida implicita alla diplomazia del cardinal Agostino Casaroli, l’architetto della “Ostpolitik” vaticana dalla metà degli anni ’60 fino al 1978, l’anno dell’elezione di Giovanni Paolo II. Casaroli fu spesso soprannominato il “Kissinger del Vaticano” dai media di tutto il mondo. In realtà era più da paragonarsi a Willy Brandt: credeva che la divisione dell’Europa della Guerra Fredda fosse permanente così come qualunque altro aspetto delle relazioni internazionali; sperava che un approccio più accomodante, da parte sia della Chiesa che della Nato, nei confronti dell’Urss e dei regimi comunisti del Patto di Varsavia, avrebbe incoraggiato un processo di “convergenza”, in cui un Est sempre più democratico e un Ovest sempre più socialdemocratico avrebbero finito per avvicinarsi nel corso del tempo. Si aspettava che, attraverso questa lunga e lenta evoluzione politica ed economica, il Muro sarebbe prima o poi caduto.

Il cardinal Casaroli era un abilissimo diplomatico e aveva numerosi contatti al di là della Cortina di Ferro. Inoltre, incarnava una tradizione diplomatica vaticana in cui la Santa Sede aveva sempre giocato il ruolo di “onesto intermediario” fra le potenze europee; a quei tempi, pareva talvolta che il cardinal Casaroli si vedesse nei panni di un Ercole Consalvi del Ventesimo Secolo, cioè dell’abile segretario di Stato vaticano protagonista del Congresso di Vienna.

Ma Giovanni Paolo II, che conosceva il comunismo e i comunisti meglio di Casaroli, non accettò il suo progetto e non lasciò che Casaroli entrasse nel suo campo d’azione papale. Giovanni Paolo fu sufficientemente scaltro da permettere a Casaroli di proseguire la sua opera diplomatica al di là della Cortina di Ferro, così che i regimi comunisti non potessero accusare pubblicamente “questo polacco” di rinnegare i patti e di agire in nome e per conto della Nato. Però, benché non avesse mai detto, come fece Ronald Reagan, che la sua idea di porre fine alla Guerra Fredda fosse basata sulla logica del “noi vinciamo, loro perdono”, il Papa polacco era consapevole che si trattava di un gioco a somma zero: una delle parti era destinata a vincere tutto e l’altra a perdere tutto, non tanto per ragioni di potere, ma perché il comunismo si basava su una falsa idea della natura, comunità, storia e destino dell’umanità. Restituendo la verità al popolo polacco, Giovanni Paolo II lo aiutò a forgiare quegli strumenti di liberazione dal comunismo dei quali non avrebbe altrimenti mai saputo dotarsi. Così come mettendo a punto la strategia simile di resistenza del “vivere nella verità”, aiutò anche il “potere dei senza-potere” per usare una definizione di Vaclav Havel, il potere dei movimenti laici anti-comunisti promotori dei diritti umani.

L’odierna diplomazia del Vaticano pare aver dimenticato o perso per strada queste lezioni, oppure le sta deliberatamente ignorando (non da ultimo perché prove documentali schiaccianti dimostrano che l’effetto più immediato della Ostpolitik fu quello di aprire le porte del Vaticano alla penetrazione dei servizi segreti del Patto di Varsavia, un evento infausto che ho ampiamente documentato nel secondo volume della mia biografia di Giovanni Paolo II, The End of the Beginning). 

Coloro che oggi guidano i rapporti del Vaticano con i politici, sono tutti nati e cresciuti nella scuola di Casaroli. E stanno diligentemente ripetendo la sua politica di accomodamento. Questo pare evidente, sfortunatamente evidente, nella diplomazia del Vaticano con la Russia di Vladimir Putin e nel rifiuto della Santa Sede di descrivere ciò che sta avvenendo in Ucraina come una grave violazione della legge internazionale: un’aggressione armata di uno Stato ai danni di un altro. Sembra evidente nella buona accoglienza riservata a Raul Castro in Vaticano, alcuni mesi fa. Ora, a giudicare dalla visita papale appena conclusa in Ecuador, Bolivia e Paraguay, un Casaroli 2.0 pare suggerire come comportarsi con i nuovi regimi autoritari dell’America Latina. Io non credo assolutamente che Papa Francesco fosse lieto di ricevere da Evo Morales, uno dei peggiori leader autoritari dell’America Latina, un sacrilego crocifisso a forma di falce e martello, al momento dello scambio dei doni a La Paz. Ma posso ben immaginare cosa avrebbe fatto il notoriamente irascibile papa Pio XI, se il ministro degli esteri del Terzo Reich Joachim von Ribbentrop, gli avesse donato un crocifisso a forma di svastica. Il signor Ribbentrop si sarebbe trovato probabilmente con un pontificio bernoccolo nel suo spesso cranio. 

Quel che voglio dire, comunque, non è che il nostro papa, che si ispira a San Francesco, avrebbe dovuto picchiare Morales con quel dono (semmai se Papa Francesco avesse dovuto picchiare qualcuno, quello era il suo portavoce, per aver detto che quel dono non era “ideologico”). Voglio dire, semplicemente, che il Casaroli 2.0 della nuova, accomodante, diplomazia vaticana ha creato le premesse per cui un delinquente come Morales pensa di potersi permettere di fare quel che ha fatto. E se Evo Morales, che è poca cosa, l’ha fatta franca, cosa pregustano di fare, adesso, Raul Castro e i suoi colleghi del Partito Comunista Cubano, che non vedono l’ora di usare il Papa per legittimare la loro idea di transizione verso un modello cinese, un modello di società in cui tutto il potere è nelle loro mani e l’apertura graduale dell’economia va soprattutto a loro vantaggio?

Il dono di Morales a Papa Francesco

Sembra dimenticato anche l’insegnamento di Giovanni Paolo II sull’economia, la natura della povertà nel Ventunesimo Secolo e l’emancipazione dei poveri. Non ho problemi con le recenti critiche del Papa e del Vaticano all’approccio tecnocratico alla vita economica, privo di ogni punto di riferimento morale, che ignora, quando non distrugge, i limiti alla produzione e al consumo che una seria morale pubblica dovrebbe porre. E non mi piace neppure quel tipo di corporativismo in cui la Boeing compensa Bill Clinton con 250mila dollari per un suo discorsino, poi dà un altro po’ di soldi a quel fondo fangoso conosciuto come “Clinton Foundation” e sottoscrive una donazione alla campagna elettorale di Hillary Clinton. 

Non mi piace che altre grandi compagnie giochino questo stesso gioco, né mi immagino che Giovanni Paolo II avesse in mente questo tipo di corporativismo quando pensava ai rapporti fra la “libera economia” e la politica democratica nella libera e virtuosa società del Ventunesimo Secolo, i cui contorni sono ben delineati nell’enciclica Centesimus Annus (1991). Inoltre, l’enfasi che viene posta dall’attuale Papa sul problema degli “esclusi” nell’economia globale, risuonava anche nelle parole di Giovanni Paolo II. Dopotutto fu il Papa che, incontrando la premier polacca Hanna Suchocka per la prima volta, le rivolse una domanda proprio sugli esclusi. La Suchocka spiegò che la decisione di Solidarnosc, che si era formato nella lotta sindacale ma ora era al governo, fosse quella di instradare la Polonia su un percorso di terapia shock di liberalizzazioni per alimentare una crescita più rapida (cosa di cui il paese gode tuttora, in effetti). 

La prima domanda di Giovanni Paolo II alla premier, fu: cosa farà lei, assieme ai suoi colleghi, per coloro che sono caduti nelle crisi provocate da questa rapida transizione? Se si può parlare di una visione politico-economica di Giovanni Paolo II, questa rientrava nell’alveo di una socialdemocrazia europea conservatrice. Non era un liberista, in nessun senso del termine; credeva che una vitale cultura morale pubblica fosse necessaria per disciplinare e temperare le tremende energie sprigionate dalla libertà economica e politica, così che risultassero in una vera prosperità umana e nella promozione del bene comune. D’altro canto, però, nutriva ben poca fiducia nel valore dello Stato moderno. La sua esperienza e la sua profonda comprensione intellettuale di alcune importanti dinamiche della politica contemporanea, gli suggerirono che lo Stato moderno, compreso lo Stato liberaldemocratico, fosse incline al totalitarismo. Una tendenza, questa, che il suo successore Joseph Ratzinger avrebbe chiamato “dittatura del relativismo”, incarnata, negli Usa, dal giudice supremo Anthony Kennedy e dai suoi quattro colleghi nella Corte Suprema, (autori della sentenza che ha imposto la legalizzazione del matrimonio omosessuale a tutti i 50 stati americani).  

Per Giovanni Paolo II, lo Stato era un aggregato di funzioni importanti e necessarie, la più importante delle quali era la protezione dei diritti umani e civili fondamentali dei cittadini, che godono di questi diritti non perché concessi graziosamente, ma perché sono parte inalienabile della loro dignità umana. Non condivideva assolutamente alcuna idea “sacra” dello Stato, come alcuni dei suoi predecessori. E nell’enciclica Evangelium Vitae (1995), Giovanni Paolo, facendo riferimento agli Stati in cui torti morali sono spacciati come “diritti”, li descrisse come democrazie a rischio di tirannia. Inoltre, nella Centesimus Annus, la sua spiegazione più completa della Dottrina Sociale, condusse una critica pungente a quegli Stati sociali che creano dipendenza da welfare. 

Ma i commenti di Papa Francesco in materia economica, così come quelli dei vescovi della curia romana, sembrano maggiormente legati a un concetto molto più aulico del valore dello Stato. Per quanto Giovanni Paolo e Francesco abbiano in comune una profonda preoccupazione per gli esclusi, di coloro che sono scartati nelle periferie di un’economia globale, la comprensione di Giovanni Paolo II delle cause e della natura di benessere e povertà nel mondo attuale e le sue prescrizioni per i giusti rimedi alla povertà, raramente si ritrovano nei lavori dell’attuale Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, nelle recenti iniziative organizzate dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, o nei testi ufficiali preparati dalla curia per i discorsi di Papa Francesco in America Latina. 

Giovanni Paolo capì che, in un mondo post-industriale, la ricchezza non fosse legata tanto alla materia (terra, risorse e mezzi di produzione), quanto all’intelligenza e alla creatività. La volontà e l’acume dell’uomo, quando applicato al mondo materiale, trasforma materie inutili (come la sabbia e la polvere) in beni estremamente utili (come il silicio), gettando le basi della più grande espansione di ricchezza nella storia (come quella seguita alla rivoluzione informatica). In questo mondo, la povertà è effettivamente una questione di esclusione: esclusione dalla rete in cui la ricchezza viene creata e condivisa, esclusione dall’attività generatrice di lavoro degli imprenditori. E la risposta a questa forma di esclusione è l’inclusione, l’emancipazione dei poveri: tramite l’applicazione dei loro talenti, della loro intelligenza e della loro immaginazione, i poveri e le loro famiglie possano liberarsi dallo stato di privazione e dalla dipendenza dall’aiuto altrui. 

Giovanni Paolo II poteva “vedere” tutto ciò, perché era parte della sua principale passione (quella per la dignità della persona umana) e perché si impegnò a studiare a fondo come funzionasse l’economia nel mondo post-bipolare. Presumo che abbia anche studiato le storie di maggior successo degli ultimi decenni, come quella delle “tigri asiatiche” e si sia chiesto “se la cultura confuciana produce una simile crescita, perché mai non dovrebbe farlo anche la cultura cattolica?” E se veramente si fosse posto questa domanda, si potrebbe ulteriormente ipotizzare, lo avrebbe fatto pensando soprattutto all’America Latina. 

Questi temi di Giovanni Paolo II – la ricchezza quale prodotto dell’intelligenza, creatività e spirito imprenditoriale, emancipazione dei poveri e inclusione al centro di un programma contro la povertà – sono assenti dalle analisi del Vaticano più recenti, così come l’insistenza di Giovanni Paolo II sulla necessità tassativa di una cultura fondata sulla pubblica onestà per permettere a un’economia libera di funzionare. Giovanni Paolo II sapeva che la corruzione è una delle ragioni principali dell’arretratezza dell’America Latina, nonostante le sue enormi potenzialità. Sapeva anche che questo tipo di corruzione, sistemica e culturale, che aveva trasformato l’Argentina da uno dei paesi più ricchi del mondo a uno Stato in bancarotta, rifletteva anche un enorme fallimento della Chiesa cattolica, che ha avuto cinquecento anni di tempo per costruire qualcosa di migliore, di più nobile, un sistema che maggiormente riflette la dignità dell’uomo.

Papa Giovanni Paolo II

La memoria istituzionale del Vaticano pare conservare poco, sia dell’insegnamento che dell’azione di Giovanni Paolo II. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, conosceva bene gli insegnamenti di Giovanni Paolo, quando era arcivescovo di Buenos Aires. E dicendo ai vescovi dell’America Latina di porre la ri-evangelizzazione del loro continente al centro delle loro preoccupazioni, il futuro Papa Francesco stava tracciando una rotta verso un avvenire molto diverso, uno in cui molti punti di riferimento erano stati fissati dall’insegnamento di Giovanni Paolo, sia quello sui rapporti fra la Chiesa e il mondo moderno, sia quello sulla “nuova evangelizzazione”. 

Ma, appunto, in questi anni la memoria istituzionale del Vaticano sembra averli dimenticati e perciò rende un pessimo servizio a Papa Francesco, la cui immagine pubblica e popolarità potrebbero creare le premesse di un reale cambiamento: un cambiamento che porti all’emancipazione e all’inclusione dei poveri e degli emarginati. Questo cambiamento sembra improbabile, tuttavia, in circostanze come quelle che permettono a un Evo Morales di regalare al primo Papa latino-americano un esemplare di rara ignoranza, un falso comunista, un equivalente del “Piss Christ” di Andrea Serrano. E di passarla liscia. I diplomatici del Papa dovrebbero pensare, a questo punto, di passare il Ferragosto a studiare perché fallì la politica di Casaroli e a ripassare gli insegnamenti di Giovanni Paolo II sulla società libera e virtuosa nel Ventunesimo Secolo, se non altro per prepararsi per la visita di Papa Francesco a Cuba e poi negli Usa il prossimo settembre.

*Autore e attivista cattolico statunitense, biografo di San Giovanni Paolo II. George Weigel è direttore degli studi cattolici dell'Ethics and Public Policy Center di Washington DC. Questo articolo è pubblicato in lingua inglese sulla National Review. Traduzione di Stefano Magni









Caterina63
00venerdì 17 luglio 2015 18:03
 EDITORIALE
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Verso il Sinodo, c'è chi confonde i fedeli
di mons. Antonio Livi  5-07-2015


Il grave disorientamento che la discussione pubblica sui temi all'ordine del giorno del Sinodo sulla famiglia ha provocato, rende necessario suggerire criteri certi di autentico discernimento teologico. Il Sinodo, che si è svolto in forma straordinaria dal 5 al 19 ottobre 2014 e si riaprirà in sessione ordinaria il 4 ottobre prossimo, è stato convocato da papa Francesco con l’intenzione di consultare l’episcopato mondiale sul modo migliore di applicare alla situazione attuale delle famiglie le linee pastorali da lui stesso indicate nell’Evangelii gaudiumSinodo sulla famiglia


In questa sua esortazione apostolica il Papa non distingue mai la pastorale dall’evangelizzazione, e nemmeno separa mai la dottrina dogmatica da quella morale. Eppure, come già detto, la discussione pubblica sui temi all’ordine del giorno nel Sinodo sulla famiglia sta provocando visibilmente un pernicioso disorientamento tra i fedeli cattolici, i quali non possono non avvertire la pressione che da molte parti – anche da parte di alcuni autorevoli padri sinodali - viene esercitata pubblicamente sul Santo Padre perché giunga a decretare, alla fine dei lavori, una nuova prassi pastorale della Chiesa nei confronti di quei battezzati che, dopo aver contratto un regolare matrimonio canonico, si sono separati dal coniuge, hanno fatto ricorso al divorzio civile e poi hanno istituito, con un coniuge diverso da quello legittimo,  una convivenza more uxorio (non importa se riconosciuta come matrimonio dalle leggi dello Stato, perché il matrimonio civile tra battezzati è  canonicamente nullo).

Chi si trova in questa condizione è stato sempre considerato dalla Chiesa come persona in stato di permanente e notorio peccato grave, ragione per cui non può, in base ai decreti del Concilio di Trento e alle vigenti leggi canoniche, essere ammesso alla comunione eucaristica, a meno che non ottenga prima l’assoluzione sacramentale (condizione della quale è il pentimento efficace, ossia l’abbandono dello stato di permanente e notorio peccato grave). La nuova prassi pastorale che molti (a cominciare del cardinale Walter Kasper) propongono in nome della “misericordia” comporterebbe qualche inedita forma di riconoscimento ecclesiastico delle cosiddette “seconde nozze” (ossia, in realtà, del concubinato) e di conseguenza l’ammissione dei cosiddetti “divorziati risposati” (terminologia equivoca e teologicamente inammissibile) all’Eucaristia. 

Analoghe proposte riguardano la pubblica “accoglienza”, da parte della Chiesa, delle coppie di omosessuali, “accoglienza” che viene ritenuta necessaria oggi, non solo in nome della “misericordia” ma anche e soprattutto in nome dei “valori autentici” che la Chiesa dovrebbe essere in grado di riconoscere alle “convivenze di fatto”, anche a quelle basate  sui rapporti sessuali contro natura. Più o meno esplicitamente, si argomenta a favore del “rispetto” per le condotte omosessuali facendo riferimento alla necessità che la Chiesa non si estranei dall’evoluzione del costume sociale, visto che oggi, per lo strapotere mediatico e legislativo della “lobby gay”, esse ricevono ogni tipo di tutela giuridica da parte dello Stato, almeno nei Paesi occidentali, ivi compresi quelli di secolare tradizione cattolica.

Se appare auspicabile un intervento di qualificati Pastori e teologi su questa problematica, è perché tutti coloro che hanno a cuore la fede del Popolo di Dio - soprattutto se  a ciò sono tenuti per diretta missione canonica -  hanno il dovere di aiutare i fedeli a valutare criticamente i messaggi che continuamente inondano i media riguardo a quanto è stato ed è oggetto dei lavori del Sinodo. Tra questi messaggi, infatti, non mancano quelli che, pur essendo presentati come meri adattamenti “pastorali” alla mutata situazione sociologica, propongono il realtà un radicale cambiamento della dottrina dogmatica e morale della Chiesa, in particolare per quanto riguarda i sacramenti del Battesimo, della Penitenza, del Matrimonio e dell’Eucaristia. 

Un intervento del genere è dunque necessario per far comprendere a tutti che il rifiuto di tali proposte non è dettato da pregiudizi ideologici o da prese di posizione conservatrici, ma solo dalla doverosa difesa di quegli elementi essenziali del dogma e della morale cattolica che l’azione pastorale non può mai obliterare ma deve invece riproporre sempre efficacemente affinché il Popolo di Dio li comprenda, li ami e li viva in ogni tempo e in ogni luogo.  Occorre quindi un intervento ispirato all’autentica “parresia” apostolica, rilevando con tutta la necessaria chiarezza – che non implica alcuna mancanza di rispetto o di carità nei confronti delle persone che stanno proponendo delle riforme assolutamente  inammissibili – che il radicale cambiamento che taluni propongono riguarda direttamente quei principi fondamentali della fede cristiana che il magistero della Chiesa ha in vario modo definito autorevolmente, approvando anche la loro adeguata formalizzazione scientifica al livello della più accreditata teologia dogmatica, morale e pastorale. 

Trattandosi dunque dei principi fondamentali della fede cristiana, ogni cristiano ha il diritto e il dovere di esaminare responsabilmente tali proposte di cambiamento, per verificare  criticamente, ossia con adeguati criteri di ragione e di fede, se si tratta davvero di “applicazioni” o “adattamenti” che possano servire oggi a comprendere e a vivere più coerentemente il Vangelo da parte di ogni componente del Popolo di Dio, o se non si tratta invece di mutamenti sostanziali e quindi, all’atto pratico, di diretta negazione della verità che Dio ha rivelato e la Chiesa custodisce fedelmente e interpreta infallibilmente.

L’atteggiamento critico di fronte alle proposte di cambiamento cui qui ci si riferisce non deve essere stigmatizzato a priori come se derivasse sempre e comunque da posizioni ideologiche inclini al conservatorismo e ostili al progresso, oppure da indebiti attaccamenti a prassi ecclesiastiche o ad abitudini tradizionali dei fedeli cattolici in qualche parte del mondo. Ciò potrebbe accadere, e sarebbe giustamente da biasimare, se si trattasse di resistenza ai cambiamenti che l’autorità ecclesiastica ritiene di dover introdurre nella dottrina e nella prassi della Chiesa, come già in passato è avvenuto e come in particolare è avvenuto ai nostri giorni con il Concilio Ecumenico Vaticano II. 

Ma se invece si tratta di vagliare la liceità e l’opportunità di cambiamenti proposti da laici (ad esempio, tra gli italiani, Enzo Bianchi e Alberto Melloni), o da ecclesiastici che si esprimono su queste materie in qualità di teologi e non come rappresentanti del Magistero (ad esempio il cardinale Walter Kasper, che tuttavia ha preteso di rappresentare le intenzioni e il criterio di papa Francesco), allora l’atteggiamento critico non può in alcun modo essere censurato come mancanza di docilità agli insegnamenti e alle decisioni del Romano Pontefice. Papa Francesco, infatti, ha indetto il Sinodo per consultare l’episcopato mondiale e giungere poi, eventualmente, a un pronunciamento dottrinale autorevole, che si può prevedere possa essere promulgato nella forma ormai tradizionale (in quanto adottata da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) dell’esortazione apostolica post-sinodale. 

Solo allora, quando si potrà dire “Roma locuta, quaestio finita”, tutti i fedeli avranno l’obbligo di recepire docilmente e con gratitudine le novità eventualmente introdotte nella dottrina e nella prassi della Chiesa: novità che certamente non toccheranno quelli che prima ho chiamato “i principi fondamentali della fede cristiana”. Insomma, esercitare questa vigilanza critica nei confronti di taluni abusi dottrinali non è mettersi in antitesi con il Papa ma proprio il contrario: è sostenerlo in quelle che sono le sue intenzioni, come i documenti del Sinodo straordinario hanno fatto comprendere e l’esito finale del Sinodo ordinario certamente confermerà.







Caterina63
00mercoledì 22 luglio 2015 11:46



Ratzinger e La Chiesa sulla soglia del Terzo Millennio

 

(cliccare sulle immagini per ingrandirle)

Recentemente ho letto su una rivista una battuta di un intellettuale tedesco che, di se stesso, diceva che nella questione di Dio era agnostico. A suo parere, non sarebbe possibile né dimostrare Dio né escludere in maniera assoluta la sua esistenza e, dunque, la domanda resta aperta.

Al contrario, però, aggiungeva, di essere pienamente certo dell'esistenza dell’inferno; uno sguardo alla televisione è sufficiente a constatare che esso esiste. Mentre la prima metà di questa confessione corrisponde certamente alla coscienza moderna, la seconda appare strana, anzi incomprensibile, almeno a sentirla la prima volta. Difatti, come si può credere all’inferno se Dio non ce? L’inferno è precisamente la condizione di assenza di Dio. È questa la sua definizione: dove non c'è Dio, dove non arriva più alcun raggio della sua presenza, lì c’è l’inferno. Forse non ce lo mostra proprio lo sguardo di ogni giorno alla televisione, ma, certamente, uno sguardo alla storia del secolo appena trascorso, che ci ha lasciato in eredità parole come Auschwitz e l’arcipelago gulag o nomi come Hitler, Stalin e Pol Pot. Chi legge le testimonianze di quelle situazioni storiche, incontra visioni che per orrore e distruzione non sono in nulla inferiori alla discesa agli inferi di Dante, anzi sono ancora più terribili, poiché vi compaiono dimensioni del male in cui lo sguardo di Dante non poteva penetrare.

Questi inferni furono costruiti per aprire la strada al mondo futuro dell’uomo che appartiene solo a se stesso e che non ha più bisogno di alcun Dio. L’uomo fu immolato al Moloch dell’utopia di un mondo liberato da Dio, l’uomo che ora disponeva interamente di se stesso e non conosceva più limiti alla propria capacità di disporre della realtà, poiché non c’era più alcun Dio sopra di lui, poiché dall’uomo stesso non traspariva più alcuna luce del proprio essere fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Dove non c'è Dio sorge l’inferno, esso consiste appunto nella sua assenza. E ciò può compiersi anche in forme sottili e quasi sempre in nome dell’idea della benevolenza nei confronti dell'uomo.

Quando oggi si fa del commercio con gli organi umani, quando vengono prodotti dei feti per ricavarne provviste di organi o per portare avanti la ricerca su malattia e salute, sono in molti a mettere anzitutto in evidenza il contenuto umanistico di questo agire; ma con il disprezzo per l’uomo che vi è sotteso, con questo uso e abuso di persone umane ci troviamo appunto di nuovo nella discesa all’inferno. Questo non significa che non possano esserci degli atei con una grande tensione morale, come, di fatto, vi sono. Ma oso ritenere che questa tensione morale si fonda sul fatto che non si è ancora spento il riverbero della luce che un tempo è giunta dal Sinai, la luce di Dio. Stelle molto lontane, ormai spente, possono sempre continuare a far brillare la loro luce in noi. Anche dove Dio appare morto, la sua luce può ancora continuare a operare. Ma Nietzsche ha giustamente rilevato che l’istante in cui sarà arrivato dappertutto il messaggio della morte di Dio, potrà solo essere terribile.

Perché dico queste cose in una riflessione il cui tema è che cosa dobbiamo fare noi cristiani oggi, nella nostra situazione storica all’inizio del terzo millennio? Le dico perché proprio in questo modo si rende chiaro quale è il nostro compito cristiano. Esso è tanto semplice quanto grande: si tratta di testimoniare Dio, di spalancare le finestre chiuse e oscurate, perché la sua luce possa brillare tra noi, perché ci sia spazio per la sua presenza.

Difatti, è altrettanto vero che dove c’è Dio c’è il cielo, lì, anche nella fatica e nella tribolazione della nostra esistenza, la vita si fa luminosa. Il cristianesimo non è una filosofia complicata e ormai invecchiata, non è un confuso e intricato pacchetto di dogmi e di prescrizioni etiche. La fede cristiana è essere toccati da Dio e rendergli testimonianza. Proprio in questo senso sull’Areopago Paolo ha descritto il suo compito e la sua intenzione, quella di voler rendere noto agli ateniesi, a cui parlava come rappresentanti di tutti i popoli pagani, il dio sconosciuto, il Dio che era uscito dal suo nascondimento, che si era manifestato lui stesso e che poteva quindi essere da lui annunciato (At 17,16-34).

Il richiamo della citazione del dio sconosciuto presuppone che l’uomo, pur nella sua non conoscenza, abbia in qualche modo un'idea di Dio. Tale richiamo risponde allora alla condizione dell’agnostico, che non conosce Dio e che, però, non lo può escludere. Presuppone che l'uomo, in qualche modo, sia in attesa di Dio, ma non possa con le sue capacità arrivare a lui e, quindi, abbia bisogno dell’annuncio, della mano che lo accompagni e lo faccia salire nello spazio della sua presenza.

 

Possiamo allora dire che la Chiesa esiste perché sia reso noto Dio, il Dio vivente, perché l’uomo possa imparare a vivere con Dio, sotto il suo sguardo e in comunione con lui. La Chiesa esiste per combattere e impedire l’avanzata dell’inferno sulla terra e per rendere abitabile la terra grazie alla luce di Dio. A partire da Dio, solo a partire da lui, essa diviene umana.

È un’idea che possiamo formulare anche con la terza invocazione del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra». Dove è fatta la volontà di Dio, ce il cielo, la terra può diventare cielo. Per questo si tratta, allora, di rendere riconoscibile la volontà di Dio e di mettere in sintonia la volontà dell'uomo con la volontà di Dio. Non si può infatti riconoscere Dio in una maniera puramente accademica; non se ne può semplicemente prendere notizia, allo stesso modo in cui registro l’esistenza di astri lontani e di dati della storia passata. La conoscenza di Dio può essere paragonata alla conoscenza dell’amante: mi riguarda completamente, interpreta la mia volontà e si arena se non arriva a questo accordo integrale.

Con ciò, però, mi sono già spinto a un punto successivo. Per il momento limitiamoci a constatare: il punto per la Chiesa non è mai solo il mantenimento o anche l'accrescimento e l'ampliamento di ciò che si ha. La Chiesa non esiste per se stessa. Non può essere paragonata a un'associazione che in circostanze difficili deve, appunto, cercare di mantenersi a galla. Essa ha un compito per il mondo, per l'umanità. Solo per questo essa deve sopravvivere, perché la sua scomparsa trascinerebbe l'umanità nel gorgo dell’oscurità di Dio e, dunque, dell’ottenebrazione, anzi della distruzione stessa dell’umano.

Noi non combattiamo per mantenerci a galla, abbiamo coscienza che ci è stata affidata una missione che ci dà la responsabilità per tutti. Per questo la Chiesa deve misurarsi e sarà misurata su quanto in essa sono vivi la presenza di Dio, la sua conoscenza e l’accoglimento della sua volontà.

Una Chiesa che fosse solo un apparato che manda avanti se stesso, sarebbe una caricatura di Chiesa. Nel momento in cui essa gira intorno a se stessa e guarda alla propria sopravvivenza come all’unico scopo, essa si rende superflua e cade in rovina, anche quando avesse a disposizione grandi mezzi e un management astuto. Essa può vivere e portare frutto solo se è vivo, in lei il primato di Dio.

La Chiesa non esiste per se stessa, ma per l’umanità. Essa è qui per questo, perché il mondo diventi uno spazio per la presenza di Dio, spazio dell’Alleanza tra Dio e l’uomo. Questo è quello che si legge già nel racconto della creazione (Gn 1,1-2,4): il procedere del testo in direzione del Sabbat intende mettere in evidenza che la creazione ha un suo fondamento interno. Essa esiste perché possa accadere l’Alleanza, in cui Dio dona il suo amore e riceve la risposta dell’amore.

Il pensiero che la Chiesa esiste per l’umanità appare ultimamente in una variante che sembra chiara al nostro pensiero, ma mette in gioco l’essenziale. Si dice che in tempi recenti la storia della teologia e dell’autocoscienza ecclesiale abbia percorso tre stadi: dall'ecclesiocentrismo al cristocentrismo e, infine, al geocentrismo.

Questo sarebbe un progresso, ma il punto decisivo non è stato ancora raggiunto. È chiaro, si dice, che l’ecclesiocentrismo era falso: la Chiesa non può fare di se stessa il centro, essa non esiste per se stessa.

Si procede allora fino al cristocentrismo: Cristo deve essere il centro. Ma, poi, si è riconosciuto che anche Cristo rinvia oltre se stesso, al Padre, e si sarebbe così giunti al teocentrismo, cosa che comporta altresì un progressivo aprirsi della Chiesa verso l’esterno, alle altre religioni: la Chiesa separa, ma anche Cristo separa, così si dice. E a questo punto si aggiunge: anche Dio separa, dato che le immagini di Dio sono opposte e vi sono religioni senza un Dio personale, visioni del mondo senza Dio.

Così, come quarto stadio, in apparente nesso con il Vangelo, si arriva a postulare la centralità del Regno, che non si chiama più regno di Dio, ma appunto, semplicemente regno come immagine del mondo migliore che si deve costruire. La centralità del Regno significa che ora tutti, al di là dei confini di religioni e ideologie, possano collaborare per i valori del Regno, che sono: pace, giustizia e tutela del creato.

Questa triade di valori si è imposta oggi come surrogato dell’idea smarrita di Dio e, allo stesso tempo, come formula di unificazione che, al di là delle differenze, potrebbe fondare la comunità mondiale degli uomini di buona volontà (e chi non lo è?) e così fare appunto realmente emergere il mondo migliore.

Tutto ciò suona seducente.

Chi non si sentirebbe obbligato al grande scopo della pace sulla terra?

Chi non sentirebbe di dover lottare perché si faccia giustizia, perché possano finalmente scomparire le drammatiche differenze tra classi sociali, razze e continenti?

E chi oggi non vede la necessità di difendere la creazione da tutto ciò che oggi la minaccia e la distrugge?

Ma, allora, Dio è divenuto superfluo?

La triade dei valori può subentrare al suo posto?

Ma da dove possiamo capire che cosa è davvero utile alla pace? Da dove possiamo trarre il criterio per stabilire ciò che è giusto e distinguere quali sono le vie che portano alla giustizia e quali ci allontano da essa? E in che modo possiamo riconoscere dove la tecnica è conforme alle esigenze della creazione e dove, invece, ne causa la distruzione?

Chiunque guardi il modo in cui la triade dei valori è accostata a livello mondiale, non può far finta di non vedere che essa diventa sempre di più il terreno di incontro delle ideologie e che essa non può sussistere senza un criterio fondante di ciò che è conforme all’essere, alla creazione e alla persona umana. I valori non possono sostituire la verità, non possono sostituire Dio, di cui essi non sono che il riflesso e senza la cui luce essi perderebbero i loro contorni.

 

Si capisce allora che cosa significa che senza Dio il mondo non può essere luminoso e che la Chiesa serve il mondo in questo modo, per il fatto che in essa Dio vive e che essa è trasparente per lui, lo porta all’umanità.

Siamo così finalmente arrivati alla questione strettamente pratica: come accade questo? Come noi possiamo riconoscere Dio e come possiamo portarlo agli altri? Penso che per fare questo diverse vie devono integrarsi e armonizzarsi.

La prima via è quella che ha percorso Paolo all’Areopago: richiamarsi a quella conoscenza previa e nascosta di Dio che l'uomo possiede, l'appello alla ragione. «Dio non è lontano da noi», dice Paolo, poiché «in lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,27s). Nella lettera ai Romani si incontra lo stesso pensiero in forma ancora più incisiva: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (1,20). La fede cristiana fa appello alla ragione, alla trasparenza della creazione verso il Creatore. La religione cristiana è religione del Logos: «In principio era la Parola», così noi traduciamo il primo versetto del vangelo di Giovanni che, a sua volta, consapevolmente riprende il primo versetto della Bibbia, il racconto della creazione per mezzo della Parola.

Ma «parola» (Logos) in senso biblico significa anche ragione, la sua potenza creatrice. Ciò nondimeno: il versetto del principio del mondo nella Parola così intesa ha ancora oggi il suo valore? La Chiesa può ancor oggi, con la Bibbia, appellarsi alla ragione, rinviare alla trasparenza del creato rispetto allo Spirito Creatore?

C'è oggi una versione materialistica della teoria dell'evoluzione che si presenta come l'ultima parola della scienza e avanza la pretesa di aver reso superfluo lo spirito creatore per mezzo delle proprie ipotesi, anzi di averlo definitivamente escluso. Jacques Monod, che ha elaborato tale visione con ammirabile consequenzialità, a proposito della sua teoria ha detto con la schiettezza che gli è propria: «Il miracolo è stato sì “chiarito”, ma resta per noi un miracolo». Egli cita poi il commento di Francois Mauriac alle sue tesi: «Quel che dice questo professore è ancora più incredibile di quello che crediamo noi poveri cristiani». E al riguardo dice: «È altrettanto vero quanto il fatto che non ci riesce farci un’immagine spirituale soddisfacente di determinate astrazioni della fisica moderna. D’altra parte sappiamo anche che tali difficoltà non possono valere come argomenti contro una teoria che ha dalla sua le certezze dell’esperienza e della logica» .

A ciò si deve ribattere: quale logica? Non posso riprendere qui questa disputa e non lo farò; vorrei solo dire che la fede non ha nessuna ragione di sgombrare il campo: l’opzione che il mondo ha origine dalla ragione e non dall’irrazionale è anche oggi razionalmente sostenibile, anche se, certamente, deve essere formulata nel dialogo con le conoscenze reali della scienza della natura. Oggi è un compito della Chiesa rimettere nuovamente in moto la battaglia per la ragionevolezza della fede o della non fede. La fede non è l’avversaria della ragione, ma l’avvocato della sua grandezza, come ha spiegato appassionatamente il papa nella sua enciclica Fede e ragione.

Io considero la lotta per la nuova presenza della ragionevolezza della fede come un compito impellente della Chiesa nel nostro secolo. La fede non può ritirarsi nel proprio guscio di una decisione ormai non più fondata, ridursi a una sorta di sistema simbolico in cui ci si ingabbia, ma che alla fine resterebbe solo una scelta casuale tra tante altre visioni della vita e del mondo. Essa ha bisogno dello spazio grande della ragione aperta, ha bisogno di confessare il Dio creatore, poiché senza questa confessione anche la cristologia si rimpicciolisce, e finisce per parlare solo indirettamente di Dio, riferendosi a una particolare esperienza religiosa che, però, è necessariamente limitata e diventa un’esperienza tra tante altre.

L’appello alla ragione è un grande compito della Chiesa, specialmente oggi, poiché dove fede e ragione si separano luna dall’altra, ambedue si ammalano.

La ragione diventa fredda e perde i suoi criteri, diventa crudele, perché non c’è più nulla sopra di essa. La ragione limitata dell’uomo decide allora da sola come deve muoversi nei confronti della realtà creata, chi può vivere e chi deve essere escluso dal tavolo della vita: la via verso l’inferno, lo abbiamo visto, è allora aperta. Ma anche la fede diventa malata senza lo spazio ampio della ragione. Quali gravissime distruzioni possano derivare da una religiosità malata lo vediamo abbondantemente nel nostro presente.

Non a caso l’Apocalisse presenta la religione malata, che si è congedata dalla grandezza della fede della creazione, come l’autentico potere dell’Anticristo.

Resta vero che la rivelazione propria della creazione, a cui fa riferimento Paolo nel discorso dell’Areopago e nella lettera ai Romani, da sola non basta per condurre realmente la persona umana alla relazione con Dio. Dio è venuto incontro all’uomo. Gli ha mostrato il suo volto, gli ha aperto il suo cuore. «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato», dice il Vangelo di Giovanni (1,18). 

 

È questo il messaggio che la Chiesa deve trasmettere, essa deve portare gli uomini a Cristo (e qui siamo alla seconda via che diventa poi sempre uno svincolo unico), Cristo agli uomini, per portare loro Dio e loro a Dio. Cristo non è un qualche uomo più grande, con una importante esperienza religiosa: egli è Dio, Dio che si è fatto uomo, perché vi sia il ponte tra uomo e Dio e l’uomo possa davvero diventare se stesso. Chi vede Cristo solo come una grande personalità religiosa, non lo vede realmente.

La via da Cristo e a Cristo deve arrivare là, dove sfocia il Vangelo di Marco, nella professione di fede del centurione romano davanti al Crocifisso: «Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio» (15,39).

Deve arrivare là, dove sfocia il Vangelo di Giovanni, nella professione di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio» (20,28).

Deve attraversare il grande arco che percorre il Vangelo di Matteo dal racconto dell’Annunciazione fino al discorso missionario del Risorto. Nel racconto dell’Annunciazione Gesù viene annunciato come il «Dio con noi» (1,23). E l’ultima parola del Vangelo riprende questo messaggio: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,20). Per conoscere Cristo, si deve percorrere con lui la via su cui ci conducono i vangeli.

Il compito grande e centrale della Chiesa oggi, come ieri e come sempre, è quello di indicare la via e di offrire una compagnia per percorrerla. L’ho detto prima: Dio non si conosce solo con la ragione, ma anche con la volontà e con il cuore. Per questo la conoscenza di Dio, la conoscenza di Cristo, è un cammino in cui è interpellata la totalità del nostro essere. La più bella rappresentazione del nostro essere in cammino la offre Luca nel racconto dei discepoli di Emmaus. È un essere in cammino con la parola vivente di Cristo, che ci spiega la parola scritta, la Bibbia; la fa diventare essa stessa il cammino che rende ardente il cuore e, così, alla fine gli occhi si aprono. La Scrittura, il vero albero della conoscenza, ci apre gli occhi, se noi allo stesso tempo mangiamo del vero albero della vita, Cristo. Allora diventiamo davvero vedenti, e allora viviamo davvero.

Tre cose fanno parte di questo cammino: la comunità dei discepoli, la Scrittura, la presenza vivente di Cristo. Questo cammino dei discepoli di Emmaus è allora, allo stesso tempo, anche una descrizione della Chiesa - una descrizione di come maturi la conoscenza che si avvicina a Dio. Questa conoscenza diviene comunione vicendevole, sfocia nello spezzare il pane, in cui l’uomo diviene ospite di Dio e Dio dà ospitalità all’uomo. Cristo - qui lo si vede con chiarezza - non lo si può avere solo per se stessi. Egli non solo ci conduce fino a Dio, ma gli uni verso gli altri. Per questo Cristo e la Chiesa formano un insieme, così come Chiesa e Bibbia formano un insieme. Realizzare questa grande comunione nelle singole concrete comunità della diocesi, della parrocchia, dei movimenti ecclesiali è e resta il compito centrale della Chiesa, ieri, oggi, domani. Essa deve diventare sperimentabile come compagnia che sostiene il nostro cammino, con le nostre preoccupazioni, con la parola di Dio, con Cristo, e introdurci al dono del sacramento, in cui continuerà a essere anticipato il banchetto nuziale di Dio con l’umanità.

Se torniamo a guardare a quanto è stato sinora oggetto della nostra riflessione, possiamo allora dire che il tema Cristo non è, in definitiva, un tema proprio, un secondo tema accanto al tema Dio, ma è il modo in cui il tema Dio si fa per noi pienamente concreto, ci incalza fisicamente e urge nell’anima. E, a sua volta, il tema Chiesa non è un terzo tema, un tema proprio, ma è introdotto per servire il tema Cristo: la Chiesa è la compagnia nel cammino con lui e verso di lui, e solo se resta in questo ruolo di servizio, la comprendiamo correttamente; allora possiamo anche amarla davvero, così come si amano dei compagni di cammino.

 

Ora si dovrebbero, però, sviluppare in maniera più analitica i singoli elementi di questo essere in cammino. In proposito il papa ha già detto tutto l'essenziale nella sua lettera apostolica Novo millennio ineunte e, per questo, nella parte conclusiva di queste riflessioni desidero limitarmi a un paio di osservazioni.

In questo testo il papa parla in maniera esaustiva dell’importanza della preghiera, che sola rende cristiano il cristiano. Nella preghiera, egli dice, noi sperimentiamo il primato della grazia: Dio ci è sempre davanti. Il cristianesimo non è un moralismo, qualcosa che facciamo noi. Anzitutto è Dio che ci viene incontro, poi noi possiamo andare con lui, poi le nostre energie interiori si liberano. E la preghiera, così continua, ci fa sperimentare il primato di Cristo, il primato dell'interiorità e della santità. Il papa, proprio a questo punto, introduce una domanda che fa pensare: «Quando questo principio non è rispettato, ce da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno incontro al fallimento e lasciano nell’animo un avvilente senso di frustrazione?» (38). Al di sopra del nostro attivismo dobbiamo tornare a imparare il primato dell'interiorità; la componente mistica del cristianesimo deve nuovamente guadagnare forza.

Dalla preghiera personale il papa procede in maniera del tutto conseguente fino alla preghiera liturgica comune, in primo luogo l'Eucaristia domenicale. La domenica come giorno della resurrezione e l’Eucaristia come incontro con il Risorto costituiscono un insieme. Il tempo ha bisogno di un suo ritmo interno. Esso ha bisogno della corrispondenza tra il quotidiano del nostro lavoro e l'incontro festivo con Cristo nella Chiesa, nel sacramento.

Riguadagnare la domenica: per il papa questo è giustamente un compito pastorale di primo rango. Il tempo riceve così il suo ordine interno, Dio ritorna il punto di partenza e il punto di arrivo del tempo. Allo stesso tempo questo è anche il giorno della comunità umana, il giorno della famiglia, in piccolo, e il giorno in cui si forma la grande famiglia, la famiglia di Dio nella Chiesa, e la Chiesa diventa esperienza di vita. Dove la Chiesa conosce solo riunioni e pezzi di carta, lì non la si conosce. Lì essa diventa scandalo, perché o si riduce a oggetto del nostro fare o appare come qualcosa di imposto dall’esterno, qualcosa di estraneo. Noi conosciamo la Chiesa dall'interno solo se la sperimentiamo nel punto dove essa va oltre se stessa, dove il Signore entra in lei e la rende sua casa e, per ciò stesso, noi diventiamo suoi fratelli.

Per questo è anche importante la degna celebrazione dell'Eucaristia, in cui deve apparire questa autoespropriazione della Chiesa. Non siamo noi a fare la liturgia.

Noi non inventiamo qualcosa, come fanno i comitati organizzatori di feste mondane o come fanno i conduttori di quiz. Il Signore viene. La liturgia giunge a noi da lui, maturata a partire dagli apostoli nella fede della Chiesa; noi entriamo in essa, e non la facciamo noi.

Solo così ha luogo la festa, e la festa, come anticipazione della libertà futura, è indispensabile per la persona umana. Si potrebbe anche dire: questo è il compito della Chiesa, donarci l’avvenimento della festa. La festa è sorta in tutta la storia dell'umanità come evento cultuale e non è pensabile senza la presenza del divino. La sua piena grandezza si verifica quando Dio diventa realmente nostro ospite e ci invita al suo banchetto.

 

Ci sono ancora due punti che vorrei menzionare.

Il papa passa dalla liturgia domenicale al sacramento della riconciliazione.

Negli ultimi decenni nessun sacramento ci è divenuto tanto estraneo come questo. Eppure, chi non è consapevole che abbiamo bisogno della riconciliazione? Che ci è necessario il perdono, la purificazione interiore?

Nel frattempo siamo sempre più scivolati verso la psicoterapia e la psicoanalisi, come se i compiti e le possibilità di queste non fossero a loro volta oggetto di discussione. Ma, senza la parola della riconciliazione che viene da Dio, i nostri tentativi di riparare la psiche malata, restano insufficienti.

Questo mi porta a un secondo richiamo. Avevo detto che per la conoscenza di Dio è necessario tutta la persona umana: intelletto, volontà, cuore. Sul piano pratico ciò significa che noi non possiamo conoscere Dio se non siamo disposti ad affidarci alla sua volontà, a prenderlo come criterio e orientamento della nostra vita. Ancora più concretamente ciò significa che la compagnia nel cammino della fede, la compagnia in cammino verso Dio, è una cosa sola con la vita secondo i comandamenti. Non si tratta di una determinazione eteronoma che viene imposta all'uomo. Nel consentire alla volontà di Dio si compie la nostra somiglianza con Dio e noi diventiamo ciò che siamo: immagine di Dio.

E poiché Dio è amore, anche i comandamenti, in cui si manifesta la sua volontà, sono le variazioni essenziali dell'unico tema dell’amore. Essi sono le concrete regole dell’amore per Dio, per il prossimo, per la realtà creata, per noi stessi. E poiché in Cristo è il Sì pieno alla volontà di Dio, l'essere a sua immagine nella sua grandezza completa, allora vivere secondo l'amore e nella volontà di Dio è seguire Cristo, andare verso di lui e con lui.

Nella Chiesa degli ultimi decenni anche il richiamo ai comandamenti si è fatto davvero flebile; troppo forte è il timore di dare spazio al sospetto di legalismo e di moralismo. In effetti la parola dei comandamenti resta esteriore se non è illuminata dall’interiorità di Dio in noi stessi e dalla consapevolezza che Cristo ha segnato per noi tutti la strada in anticipo.

Resta moralistico se non sta nella luce della grazia del perdono. Israele era orgoglioso di conoscere la volontà di Dio e di sapere così qual è la via della vita. Il salmo 119 è tutto uno scaturire di gratitudine sempre nuova e di gioia per la conoscenza della volontà di Dio.

Noi ora conosciamo questa volontà divenuta carne in Gesù Cristo come indicazione del cammino da percorrere e allo stesso tempo come misericordia, che ci riprende sempre e sempre ci conduce. Non dovremmo tornare a gioire di essa in mezzo a un mondo pieno di confusione e di oscurità? Ridestare la gioia per Dio, la gioia per il Dio della rivelazione, per l’amicizia con Dio, mi sembra un compito impèllente per la Chiesa nel nostro millennio.

Anche per noi vale la parola che il sacerdote Esdra rivolge a un popolo di Israele divenuto un po’ pavido dopo l’esilio: la gioia del Signore è la nostra forza (Ne 8,10).

Desidero concludere con un’immagine tratta dalla Divina Commedia di Dante. Eravamo partiti dalla discesa all’inferno, nel mondo senza Dio. Dante rappresenta la via della purificazione, la via che porta a Dio come la salita di una montagna. La via esteriore diventa il simbolo del cammino interiore che porta all’autentica vetta, all’altezza di Dio. Inizialmente questo salire è infinitamente difficile per la persona ancora legata alla terra. Nella visione poetica di Dante, dopo la prima tappa del cammino, un angelo cancella il segno della superbia dalla fronte di colui che sale, e ora gli sopravviene, mentre prosegue, un sentimento singolare:

"Già montavam su per li scaglion santi

ed esser mi parea troppo più lieve

che per lo pian non mi parea davanti.

Ond’ io: «Maestro, di', qual cosa greve

levata s'è da me, che nulla quasi

per me fatica, andando, si riceve?».

(Purg. XII, 115-120)

La liberazione dalla superbia diventa superamento del peso. I nostri sentimenti, come la superbia, l'avarizia, l’ambizione e tutto quanto ancora di oscuro e di malvagio abita nella nostra anima, sono come pesi di piombo, che ci impediscono la salita, che ci rendono incapaci dell’altezza: «quanto più l’uomo diventa puro, tanto più diviene affine al piano superiore. Il suo peso scema, la sua forza ascensionale cresce... la libertà cresce; è perfetta quando volontà ed esigenza fanno tutt’uno» (diceva R. Guardini in L'angelo nella Divina Commedia, in Studi su Dante, Brescia 1979).

La compagnia nel cammino della fede, che noi chiamiamo Chiesa, deve essere una compagnia nel salire, una compagnia in cui si compie in noi quella purificazione che ci rende capaci della vera altezza dell'essere uomini, della compagnia con Dio. Nella misura della purificazione anche la salita, che all’inizio è così faticosa, diventa sempre più gioiosa. Questa gioia dalla Chiesa deve sempre più trasparire fin dentro il mondo.

 

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(*) card. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici" La compagnia nel cammino della fede pagg. 97-113

 

della stessa serie consigliamo anche:

Ratzinger La Chiesa non dipende dalle maggioranze  

Il compito del cristiano nella Chiesa e nella società

Le profezie del cardinale Ratzinger sulla Chiesa

 

e qui l'indice di tutti gli scritti di Ratzinger

 



Caterina63
00mercoledì 22 luglio 2015 11:51

Ratzinger spiega la situazione dell'ecumenismo

A trent'anni dal Vaticano II l'ecumenismo cerca nuovi orientamenti (ma quali?). Quella fase di avvio dell’unità dei cristiani, che si è compiuta nella grande adunanza dei vescovi della Chiesa cattolica, aveva suscitato ampie speranze. Sembrava giunta la fine delle separazioni. Dopo il millennio delle divisioni ci si aspettava una nuova fase di unità cristiana. Paolo VI e il patriarca Atenagora credevano di essere ormai prossimi al ristabilimento della comunione eucaristica tra Oriente e Occidente. Ambedue speravano di poter arrivare presto a bere insieme dallo stesso calice. Ma anche il rapporto con le comunità nate dalla Riforma Protestante si era messo rapidamente in movimento. Furono elaborati testi di consenso sui più difficili temi della controversia: giustificazione, Eucaristia, ministeri; le barriere che erano state erette dal secolo XVI parevano pressoché superate. Da qualche parte, tuttavia, restava sempre un “resto” irrisolto; malgrado tutti gli sforzi di avvicinamento, non si arrivò all’unificazione.

Il modello classico di ecumenismo

Ma, in realtà, qual è la ragione? È questa la domanda a cui nessuno può sottrarsi e che ha in primo luogo a che fare con la fede e con l’unità dei credenti. È chiaro che lanciarsi delle accuse non serve a niente, ma rende solo la cosa più difficile e può sospingere nuovamente verso le antiche polemiche. Ne deriva allora la domanda radicale che si rivolge a tutti: Che cosa abbiamo fatto di sbagliato? Abbiamo bisogno di altri metodi? di altre idee guida? quali?

Questo modo di interrogarsi, che arriva al nucleo della questione, non è sorto solo perché gli sforzi ecumenici finora perseguiti, malgrado tutti i risultati positivi sin qui ottenuti, non sono ancora arrivati al "successo” sperato; ci si interroga in modo nuovo indipendentemente da questo, perché nelle chiese stesse, nel frattempo, molte cose sono cambiate. Il modo in cui al loro interno si intende che cos’è la Chiesa e, quindi, anche quale sia la natura dell'unità a cui tendere, da molti punti di vista non è più semplicemente lo stesso.

Quando il concilio Vaticano II vedeva la Chiesa essenzialmente fondata sulla professione di fede e sui sacramenti, poteva muoversi in questa direzione contando sul consenso non solo della cristianità ortodossa, ma anche della gran parte delle comunità ecclesiali sorte dalla Riforma. Se, però, la Chiesa viene definita mediante la professione di fede (la fede) e il sacramento, si presuppone con ciò anche un determinato modo di intendere l’azione di Dio nella storia, che, da parte sua, si fonda sulla fede in Cristo come vero uomo e vero Dio. Si presuppone che Dio stesso è soggetto che agisce nella storia, non semplicemente l’idea che definisce una  certa immagine del mondo o il concetto teleologico di una storia che marcia verso l’Omega di un mondo migliore. Quello che dà importanza alla storia, nella prospettiva della fede è il fatto che essa sia qualcosa di più che il prodotto di un agire umano finalizzato e di determinate evoluzioni storiche. Essa rappresenta piuttosto lo spazio di un incontro reale tra Dio e l’uomo in questo mondo, un incontro che non solo conduce dei singoli verso Dio, ma li fa vicendevolmente incontrare, li fa diventare una nuova famiglia.

Ciò che rende Chiesa la Chiesa sono allora quegli elementi che non derivano solo dall’azione umana. Sono proprio essi a distinguere la Chiesa da tutte le altre figure umane e a conferirle quella sua unicità, quella sua insostituibile specificità.

La frattura della Chiesa consiste allora nel fatto che si è prodotto uno strappo proprio nella professione di fede e nell’amministrazione dei sacramenti; tutte le altre distinzioni alla fin fine non contano: contro di esse non c’è nulla da obiettare, esse non separano la Chiesa in ciò che è essenziale. La separazione che arriva a quell’ambito che costituisce il nucleo della Chiesa costituisce, al contrario, una minaccia per l’autentico scopo per cui la Chiesa esiste, per la sua stessa essenza.

 

Da questa idea fondamentale di unità derivarono due compiti per l’ecumenismo. Da una parte esso doveva distinguere gli aspetti semplicemente umani delle separazioni dalle tensioni propriamente teologiche. Difatti è proprio ciò che di umano vi è nelle separazioni che tende a darsi l’importanza che spetta a quanto è essenziale, a nascondersi dietro di esso: ciò che è umano, che si è fatto da sé, viene interpretato come se fosse divino. Si espande così la silenziosa divinizzazione di ciò che è proprio, che è poi la costante tentazione dell’uomo.

In gran parte delle divisioni ecclesiali hanno avuto una parte importante tali divinizzazioni di ciò che è sentito come proprio, le pretese con cui si sono considerate determinate forme umane e culturali. L’ecumenismo richiedeva e richiede il tentativo di liberarsi da tali falsificazioni, spesso sottili. Allora si scopre che non c'è affatto bisogno che scompaia la diversità, dato che essa non compromette l'essenza della Chiesa: tale specificità e ogni altra ha diritto di esistere, ma non può essere imposta a tutti.

Si deve ridestare una tolleranza per l'altro che non si fondi sull'indifferenza rispetto alla verità, ma sulla distinzione di verità e semplice tradizione umana.

Nel primo compito dell'ecumenismo, che ho così cercato di abbozzare, il punto era, dunque, vedere i limiti delle richieste di unità; riconoscere ciò che è variabile in quanto tale e imparare a vivere lo stare insieme nella molteplicità di forme storiche adulte. Si esigeva un processo di unificazione che si trova di fronte a inizi sempre nuovi. È così che l'inattesa restituzione della libertà ai cristiani uniti dell’Oriente ha improvvisamente trasformato un tale processo umano e spirituale di apprendimento in una sfida incandescente.

Tutti i consensi teologici fin qui raggiunti vacillano, se non si regge a questa sfida. Si è nuovamente tornati a vedere in maniera inquietante che la teologia da sola non porta con sé le riconciliazioni umane necessarie. Molto concretamente ne deriva che il primo compito appena descritto è del tutto inseparabile dal secondo, che si riferisce alle fratture nella professione di fede e nei sacramenti.

Ora, quasi tutte le fratture si giustificano dapprima con la fede. Verificare se ciò sia fondato è la prima domanda ecumenica, quella che, come si è visto, indaga i fattori non teologici della divisione. Tuttavia, la supposizione che l’altro attribuisca a Dio ciò che in realtà ha trovato lui stesso, può divenire convinzione comune solo per una parte delle domande a cui si è di fronte. Il caso duro della separazione si ha solo quando una o più delle parti sono certe di non difendere le loro idee particolari, ma di lottare per quanto si è ricevuto dalla Rivelazione e che, di conseguenza, non può essere da loro manipolato. I testi di consenso si sono per lo più riferiti a questo ambito di domande.

Scopo del dialogo è allora trovare e riconoscere qualche cosa che sia capace di realizzare unità più a fondo rispetto a delle posizioni apparentemente contrapposte, lasciando ovviamente da parte tutto ciò che deriva solo da determinati sviluppi culturali. Quello che simili esperienze di dialogo chiedono a chi vi partecipa è straordinariamente elevato. Infatti non si tratta semplicemente di scambiarsi le proprie idee. Ciò che è in gioco è qualcosa di diverso dal consenso all’interno di un gruppo; la scoperta di posizioni di mediazione non è la soluzione. Ciascuno è interpellato nel più profondo della propria coscienza. Ciascuno deve piegarsi dinanzi a ciò che non gradisce: anzitutto davanti a quel che lui stesso riconosce come parola di Dio, ma, poi, deve allo stesso tempo rispettare la coscienza dell’altro che non può dichiararsi d’accordo con la sua fede.

È chiaro, allora, che il dialogo ecumenico si trova davanti a un compito che è del tutto differente, per esempio, dalle dispute filosofiche o, ancora di più, dalle trattative politiche. Infatti il suo scopo ultimo è realizzare la comunione nella fede. Dal momento, però, che la fede non è una semplice posizione di pensiero umano, ma il frutto di un dono, anche la comunione non può ultimamente venire da un’operazione del pensiero, ma, a sua volta, può solo essere donata. Poiché lo scopo è la retta conoscenza della parola di Dio e la sua distinzione dalle semplici parole umane, è chiaro che qui non si può lasciare Dio fuori dal gioco.

Proprio su questo punto si sono finora arenati, e non solo nel nostro secolo, tutti i tentativi di unione fondati sulle trattative e sul dialogo. La verità non è una questione di maggioranza. Essa è o non è.

Per questo i concili non sono vincolanti per il fatto che una maggioranza qualificata dei suoi partecipanti ha deciso qualcosa. Come si potrebbe pretendere di stabilire che qualcosa in futuro debba essere vero? I concili si basano sul principio della unanimità morale e questa, a sua volta, non vuol dire una maggioranza particolarmente elevata. Non è il consenso a fondare la verità, ma la verità a fondare il consenso: l’unanimità di così tante persone è sempre stata considerata come qualcosa di umanamente impossibile.

Quando essa compare, ciò che si mostra è la travolgente vittoria della verità stessa. L'unanimità non è il fondamento dell’obbligatorietà, ma il segno della verità che si sta mostrando, ed è da questa che procede l’obbligatorietà. In questa comprensione che i concili hanno di se stessi e che, allo stesso tempo, definisce i limiti di ogni decisione conciliare, si presuppone Dio come soggetto che realmente agisce. E in questo c’è corrispondenza con la fede nel fatto che la Chiesa non è semplicemente una comunità di consenso, ma vive un’unità che proviene da un’autorità superiore .

 

Che cosa accade, però, quando, malgrado tutti gli sforzi, tale unità ultima non si verifica? Alcuni anni or sono ho cercato di trovare una risposta a questa domanda nell’interpretazione di 1Cor 11,19, rilevando come la divisione non rappresenti solo un male realizzato da noi e che, quindi, da noi deve essere ricomposto, ma che in essa si può vedere una sorta di imperativo divino: la separazione è necessaria per la nostra purificazione. Dobbiamo fare tutto il possibile per divenire di nuovo capaci e degni dell'unità, così da non aver più bisogno dello sprone doloroso della divisione. Ma non possiamo neppure decidere semplicemente da noi stessi che essa è ormai finita. Nel dire questo, ho cercato di abbozzare in profonda vicinanza con Oscar Cullmann, un modello ecumenico, di cui sono parti essenziali la reciproca accettazione della divisione e il tentativo vicendevole di riavvicinamento proprio nella divisione. In questo senso potei allora far mie formule come “unità attraverso la diversità”, “unità nella diversità”, “diversità riconciliata".

Un nuovo “paradigma” ecumenico?

Nel frattempo, però, si sono fatti largo degli sviluppi ecclesiali ed ecumenici che attribuiscono a tali formule un senso completamente nuovo. Il rifiuto di quel modello spregiativamente indicato come "ecumenismo del consenso” (Konsensòkumene) si è intanto così diffuso, in qualche caso, anche troppo in fretta, quasi come con un'vvietà eccessiva. La coscienza ecclesiale è mutata sotto molti aspetti e con essa la coscienza ecumenica. Si parla di cambiamento di paradigma ecumenico . Il nuovo orientamento del pensiero, su cui si poggia tale nuova visione si spinge ben oltre le questioni puramente teologiche. Rispetto al carattere controverso della professione di fede e, quindi, della verità in essa proclamata, molti hanno semplicemente posto in questione il concetto stesso di verità. Deve essere davvero quest’ultima il criterio determinante della nostra ricerca?

«D’ora innanzi verità, giustizia, umanità sono al plurale», afferma uno dei portavoce del cosiddetto postmoderno. Si potrebbe subito obiettare: che cosa succede allora con le diverse umanità? Davvero non c’è alcuna misura comune dell’umano? Ma, allora, che cosa possiamo ancora aspettarci l’uno dall’altro? La stessa cosa vale per le diverse giustizie: Ciò che è considerato ingiustizia per l’uno, può essere giustizia per l’altro? Nel caso della verità, poi, non osiamo più porci tanto facilmente la stessa domanda, ma essa non è meno giustificata e necessaria: può essere non vero per l’uno, ciò che è vero per l’altro? La verità non è forse indivisibile?

In ogni caso: le esperienze del cosiddetto ecumenismo del consenso hanno mostrato quanto difficilmente si possa soddisfare l’esigenza della verità, quanto essa superi in continuazione le nostre possibilità. Così si tende, per molti versi, a invertire la relazione tra consenso e verità: non è la verità a creare il consenso, ma sarebbe il consenso l'unica istanza concreta e realistica per stabilire ciò che vale adesso. Anche la professione di fede, allora, non sarebbe espressione di verità, ma avrebbe il suo significato come consenso trovato.

Con ciò, però, si è rovesciata anche la relazione tra verità e prassi. La prassi diventa il criterio della verità. In questa preminenza della prassi oggi si incontrano sempre più le tendenze più diverse. La prassi diventa vera ermeneutica dell’unità. L’ecumenismo supera allora i confini delle confessioni cristiane e diventa ecumenismo delle religioni. In questa prospettiva, il cristianesimo e tutte le altre religioni devono essere misurati sul contributo che sono capaci di offrire alla liberazione dell’uomo, alla loro “prassi di liberazione". Giustizia, pace e tutela del creato diventano allora il nucleo vero della professione di fede. Il servizio a questi ideali appare allora come la ragion d’essere comune di tutte le religioni.

In termini propriamente teologici ciò significa che al posto della cristologia e dell’ecclesiologia subentra l’idea del regno di Dio, che, ovviamente, muovendo da un simile punto di partenza, viene designato semplicemente come “il Regno”. Si vuole infatti lasciare aperta la questione di una concezione personale o impersonale dell’idea di Dio. In un ecumenismo pensato all’insegna del primato della prassi, anche la differenza tra il Dio unico, che si è rivelato Lui stesso con dei nomi, e l'ignoto privo di nome può non essere necessariamente un criterio ultimo .

Su questo punto risulta chiaro come molti tentativi precedentemente compiuti per raggiungere l'unità siano considerati superflui nel momento in cui ci si pone in una simile prospettiva. Se ai fini dell'unità non è più ultimamente rilevante se Dio sia persona nel senso della fede trinitaria cristiana o se esso possa allo stesso modo essere descritto con la formula del Nirvana, nel senso delle tradizioni buddiste, allora, in fondo, il pluralismo può comprendere tutto sia nella questione delle convinzioni religiose che per quanto riguarda l'atto della celebrazione liturgica.

Indubbiamente non si può certo pensare il nuovo "paradigma" ecumenico come una forma di pensiero unitario e pienamente definita nelle sue parti; in essa possono confluire posizioni molto diverse, moderate e radicali. Ciò che è decisivo é la preminenza della prassi. Ciò che è essenziale si trova espresso con precisione in Konrad Kaiser, che, in proposito, dice: «Un nuovo paradigma ecumenico dovrebbe dare libero spazio a una visione dell’ecumenismo che prenda sul serio le contraddizioni, i conflitti e le minacce di una situazione mondiale di interdipendenza e delle figure sociali che la Chiesa assume nella storia» .

Il lavoro ecumenico, allora, non si riferisce «tanto alle convergenze e ai consensi da raggiungere, ma ha di mira anzitutto la collaborazione reciproca, mondiale e solidale, di tutti i cristiani, anzi di tutti gli uomini» .

Non c’è bisogno di dire espressamente che io non posso accettare questo "paradigma" come tale.

 

È facile formulare i grandi scopi: pace, giustizia, tutela del creato. Ma quando la giustizia si frammenta nelle giustizie e tutto ciò compare solo in un plurale che non può più essere superato, allora questi scopi diventano vuoti. Quasi inevitabilmente essi vengono confiscati dal rispettivo spirito di partito, dalle ideologie dominanti. L'ethos senza logos non regge per nulla, ce lo dovrebbe avere insegnato il tracollo del mondo socialista. Una tale critica non significa, però, in nessun modo che il nuovo modello sia da rifiutare in blocco. Sono al contrario convinto che da esso ci sia molto da imparare che possa esserci di aiuto nel momento presente.

Si deve decisamente rifiutare quel relativismo che incide in gradi più o meno chiari sulla dottrina della fede e sulla professione di fede. Ma in questo ambito dovremmo tuttavia cercare di trovare una nuova pazienza, senza indifferenza, gli uni con gli altri e per gli altri; una nuova capacità di lasciar essere ciò che è altro e l'altra persona; una nuova disponibilità a differenziare i piani dell'unità e, dunque, a realizzare gli elementi di unità che sono possibili ora e a lasciare che ciò che ora è impossibile trovi spazio nell’ambito del pluralismo, che può avere anche significato positivo. Proprio mediante tali separazioni tuttora insuperabili, possiamo continuare a diventare l'uno per l'altro di ammonimento e guidarci reciprocamente all'esame di coscienza; spesso abbiamo bisogno dell’appello di questa diversità, che nel frattempo non è superabile, per venire purificati mediante l'obiezione ed essere richiamati da sviluppi unilaterali.

Sebbene io rifiuti decisamente che il logos sia subordinato alla prassi, ritengo che nella sottolineatura della dimensione etica risieda un altro elemento importante, che deve essere ripreso.

Secondo la parola di Gesù dal duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la legge e i profeti (Mt 22,14). «La pienezza della legge è l’amore», così Paolo esprime il medesimo pensiero (Rm 13,10). Se il cristianesimo può essere pienamente definito a partire dalla fede, è pur sempre vero che, d’altra parte, esso deve essere determinato a partire dall'amore.

Questo centro comune della legge e dei profeti, che è anche il centro del messaggio proprio di Gesù, resta un compito impellente di tutta la cristianità: questo centro dovrebbe in effetti essere quella formula ecumenica che sta al di fuori di ogni conflitto. Così, il tema impellente del dialogo ecumenico dovrebbe essere: trovare che cosa significa concretamente in questo momento il comandamento dell'amore. In questo senso un ecumenismo della prassi è richiesto non solo dal nostro momento, storico, ma dalla stessa parola biblica.Probabilmente la volontà decisa di ubbidire al comandamento dell'amore purificherà considerevolmente anche la nostra fede e ci aiuterà a distinguere ciò che è essenziale e ciò che non lo è.

Il cammino dell'ecumenismo oggi e domani

Che cosa deriva da tutto questo per il cammino dell’ecumenismo? Quale visione può guidarci? Ho già citato i limiti del nuovo "paradigma”. La primissima condizione fondamentale è che resti intatta nel suo valore incondizionato la professione di fede nell’unico Dio vivente.

Dove scompare la differenza tra il Dio personale, rivelabile e invocabile e il mistero impersonale, inafferrabile, scompare anche la differenza tra Dio e gli dei, tra adorazione e idolatria. Su questo punto la rivelazione non ci concede nessuna ambiguità.

Non possiamo mettere la profondità filosofica al posto dell’umiltà della parola tramandataci e della sua propria ragionevolezza.

Dio ha parlato: se riteniamo di saperne di più, ci perdiamo nell'oscurità delle nostre opinioni e perdiamo l'unità, invece di muoverci verso di essa.

Ma ciò significa anche che non si può sviluppare un ethos senza logos. Se ci si prova, non restano più criteri di misura e si finisce in un moralismo ideologico con tendenze visionarie o fanatiche. Inoltre, trovare un consenso nell’ethos è forse ancora più difficile che trovarlo nelle grandi questioni dogmatiche: lo mostrano senza lasciare spazio a dubbi le discussioni nell’ambito della teologia morale all’interno della Chiesa cattolica e i dibattiti su temi di carattere etico a livello internazionale. L’aver trascurato l’elemento distintivo del cristianesimo e l’ulteriore frammentazione interna delle chiese, che secondo il nuovo “paradigma” devono vivere in circoli e forme comunitarie pluralistici, può portare anche a nuove chiusure e a nuovi contrasti che non si collocano affatto con leggerezza e serenità all’interno della grande sinfonia pluralistica. Una tale rinuncia a un’unità definita sul piano del contenuto e dotata anche di una forma giuridica può liberare delle tendenze settarie e sincretistiche, che non possono essere più ricondotte nella comunanza dell’ethos.

 

Fede e sacramento restano costitutivi per la Chiesa. Diversamente essa perde se stessa e non ha neppure più nulla da dare all’umanità. Essa vive del fatto che il Logos si è fatto carne, che la verità è divenuta via. La visione della Chiesa e dell’esistenza cristiana sviluppata dalla Bibbia e dai Padri è più che un "paradigma”, più che un modo di vedere le cose legato a una determinata epoca storica. In essa veniamo condotti fuori dai paradigmi fino a toccare la realtà stessa (cfr. Mc 4,18; Gv 16,25). In questo consiste la "rivelazione”; questo è il nucleo della nostra liberazione: l’essere portati fuori dalla camera degli specchi delle immagini e delle visuali storiche e condotti all’incontro con la realtà che ci viene donato in Cristo.

Per questo l’ecumenismo sarà sempre anche ricerca dell’unità nella fede, non solo uno sforzo per trovare l’unità nell’azione. Tuttavia, come già si è detto, questa nuova concezione dell'ecumenismo può e deve ampliare le nostre concrete immagini di riferimento dell’ecumenismo e, in parte, può anche modificarne la sostanza.

Difatti, ci eravamo illusi troppo, quando credevamo che i colloqui teologici potessero in un tempo più o meno breve restaurare l’unità della fede. Ci eravamo persi per strada, mettendoci in testa che un tale scopo potesse essere raggiungibile una volta per tutte in un tempo prefissato. Per un lungo tratto di cammino avevamo scambiato la teologia con la politica, il dialogo sulla fede con la diplomazia. Volevamo fare noi stessi ciò che solo Dio può fare.

Per questo dobbiamo imparare di nuovo la disponibilità a restare in un atteggiamento di ricerca, consapevoli che lo stesso ricercare è un modo di trovare; che l'essere in cammino e l'andare avanti, senza concedersi requie, costituisce l’unico atteggiamento adeguato per l’uomo in cammino alla ricerca dell’eterno. Agostino ha trovato delle parole meravigliose per commentare il versetto del salmo «cercate sempre il Suo volto»: anche nell’eternità il ricercare non viene meno, poiché l’amore per l’infinito è un eterno cercare e scoprire. È chiaro che questa eterna ricerca, che significa al medesimo tempo un “eterno essere già trovati”, è qualcosa d’altro dalla nostra povera e approssimativa ricerca, che così spesso brancola nel buio e così spesso non è la via che non avrà mai fine dell’amore, ma la troppo finita via della nostra ostinazione.

Tuttavia anche in questa disponibilità a rimanere l’uno con l’altro nella ricerca e ad accoglierci nella nostra provvisorietà si trova un sì all’inesauribilità del mistero di Dio; essa può essere un atto di umiltà, in cui accogliamo i nostri limiti e ci consegniamo così alla verità più grande, siila verità di Dio.

In questo senso direi anche che il dialogo teologico come ricerca dell’unità nella fede deve certamente andare avanti. Ma i relativi colloqui dovrebbero essere portati avanti in una maniera più aperta e flessibile, meno indirizzata al successo e più umile, con grande serenità e pazienza. Non ne devono necessariamente sortire dei documenti di consenso. È sufficiente se ne derivano diverse testimonianze di fede, in cui tutti imparano qualche cosa di più della ricchezza del mistero che ci lega. Dal modello prasseologico - come potrei ora definirlo - dovremmo imparare la pazienza dogmatica, senza affondare nell’indifferenza di fronte alla verità e alle sue espressioni linguistiche. Di questo modello dovremmo far nostra la disponibilità nei confronti di ampie forme di pluralità, senza per questo promuovere forme di autosufficienza o di autosoddisfacimento.

Nel fare ciò dovremmo essere preoccupati che l'unità così guadagnata non vada persa, che la comunione ecclesiale non deragli nell’arbitrio. Deve restare chiaro che essa avanza una pretesa che investe tempi e luoghi; deve restare chiaro che non siamo noi a fare la Chiesa, ma che essa è plasmata da Lui,, nella Parola e nel Sacramento, e che solo ciò che è Suo è permanente.

Proprio per questo dovremmo anche continuamente liberarci di quelle istituzioni che ci siamo fatti da soli, così che l’essenziale appaia nella sua ampiezza e grandezza. Allora può esserci libertà per forme differenti e varie, che dovremmo accogliere a cuore aperto, senza progetti pastorali uniformanti.

La condizione per far ciò è sempre che queste forme pensate da uomini non sono poste in termini assoluti, ma devono tendere ad aprirsi a ciò che è comune ed essenziale. Ci saranno allora anche dei punti di incontro e di cammino comune tra forme tra loro simili nelle singole chiese e comunità.

Dovremmo finalmente sottometterci sempre al criterio dell’amore di Dio e del prossimo e cercare di venire incontro, a partire da esso, alle grandi sfide del nostro tempo. 

 

Considerazione finale:

la visione dell'unità escatologica in Solov’èv

Nel riflettere sulla situazione dell'ecumenismo e, più in generale, sulla situazione della cristianità negli ultimi tempi mi torma sempre più spesso alla mente il racconto dell’Anticristo di Solov’èv. Nell’istante dell’ultima decisione si vede che in tutte e tre le comunità - quella di Pietro, di Paolo e di Giovanni - vivono dei sostenitori dell’Anticristo, che fanno sottilmente il suo gioco e sono a lui sottomessi; allo stesso modo, però, si vede come in tutte e tre le comunità siano presenti dei veri cristiani, che mantengono la fedeltà al Signore fino all’ora del Suo ritorno. Dinanzi a Cristo i separati si riconoscono intorno a Pietro, Paolo e Giovanni; i veri cristiani, che erano divisi, si riconoscono ora come da sempre uniti, mentre, al contrario, la schiera dell’Anticristo, viene convinta e travolta dalla sua menzogna. Alla luce del Redentore si rivela chi erano e sono gli uni come gli altri .

Sarebbe pienamente erroneo pensare che questa visione di Solov’èv, appassionato sostenitore dell'ecumenismo, sposti la questione dell’unità cristiana alla fine dei tempi o addirittura in una dimensione post-temporale.

Nella visione di Solovev l’escatologia è rettamente interpretata secondo la Bibbia: essa non è un dopo cronologicamente ordinato come una data che arriverà un giorno nella sequenza dei giorni, in un lontano e indeterminato futuro e che oggi, appunto, non è qui. No, l’escatologico è ciò che è davvero reale, che come tale viene rivelato una volta, ma che impregna di sé tutti i nostri giorni. Non si sarebbe capito nulla del racconto di Solov'èv, se si dicesse che esso sposta l’unità cristiana alla fine dei giorni. Esso mostra piuttosto che questa unità è “escatologica” nel vero senso della parola: sempre già presente eppure mai compiuta all’interno del tempo, mai cristallizzata in un fatto empirico ormai definito come passato.

Quel che diventa visibile nella luce del Cristo che ritorna, svela la verità del nostro tempo, anzi, di ogni tempo. In tutte e tre le grandi comunità ci sono dei veri cristiani, ma in tutte l’Anticristo ha anche trovato dei sostenitori, persino fino ai livelli delle cariche spirituali più alte. La cernita definitiva avverrà solo nel giorno del raccolto. Ma già ora, a nostra consolazione e per quel timore che ci porta salvezza, possiamo avere esperienza di questa realtà nascosta. Già ora dovremmo incontrarci con lo sguardo escatologico; già ora dovremmo portare in noi la gioia di questo riconoscimento futuro.

Allo stesso modo già ora e per sempre deve agitarci l'ansia di non divenire, con grandi parole e drappeggi cristiani, servitori dell'Anticristo, che vuole instaurare il    suo regno in questo mondo e rendere superfluo il regno di Cristo. Pietro, Paolo e Giovanni sono inseparabili. Insieme con loro, guidati da loro, dobbiamo cercare sempre e sempre di nuovo il volto del Signore. Solo a partire da lui noi riconosciamo noi stessi e ci riconosciamo a vicenda.

L’ecumenismo non è altro che vivere già ora nella luce escatologica, nella luce del Cristo che torna. Per questo esso significa anche che noi riconosciamo la provvisorietà del nostro agire, che noi non possiamo portare da noi stessi a conclusione; riconosciamo che noi stessi non vogliamo fare ciò che solo il Signore che torna può operare. In cammino verso di Lui, noi siamo in cammino verso l'unità.

 

(*) card. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici" La compagnia nel cammino della fede pagg. 61-79





Caterina63
00venerdì 24 luglio 2015 20:23
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La vera rovina dell’umanità


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Il peccato “inquina” le nostre anime.


Il Papa ha incontrato una settantina di sindaci ed ha fatto loro un discorso (vedi qui) che in sé riga, è fatto bene, nulla da eccepire se non che per un fatto strano: il Papa non menziona mai che fra le prime cause dei mali che affliggono il mondo c’è IL PECCATO degli uomini.


Tutti i mali, qui denunciati nel suo discorso, sono di natura esclusivamente ECOLOGICA.


Ora, se è vero che UNA PARTE di questi mali deriva ANCHE da come maltrattiamo la natura, la parte più grave e minacciosa non sta nella deforestazione ma nei peccati dei Dieci Comandamenti i quali, se rispettati includono senza dubbio anche il rispetto per la natura con le sue conseguenze.


Ora, dice il Papa in questo passo:


“Dall’altro lato, è in gioco la salute. La quantità di “malattie rare”, così si chiamano, che provengono da molti elementi usati per fertilizzare i campi – o chissà, ancora non si sa bene la causa – ma comunque da un eccesso di tecnicizzazione” ????


se “ancora -chissà – non si sa ancora bene”, non si può concludere con “comunque da un eccesso di tecnicizzazione”….


se si  ammette che non si sanno ancora le cause, allora non si da colpa ad una causa sola come conclusione del discorso, specialmente se a concludere il discorso è un Pontefice.


Il Papa ha sposato la linea ideologica ambientalista, non si scappa, lui crede in una interpretazione dei fatti dal momento che esistono diverse interpretazioni scientifiche e nessuna, attualmente – compresa quella sposata dal Papa – nessuna è provatamente l’unica e la definitiva, si va ancora per tentativi.


NOI invece delle risposte le abbiamo, attenzione, non sono risposte uniche o definitive, ma rispondono a buona parte di quella “causa” che cerchiamo.


pope-francis-iraq-isilPer esempio dalle Apparizioni approvate dalla Chiesa: LA SALETTE….


La Madonna afferma e profetizza che se non ci sarà la conversione AUMENTERANNO LE MALATTIE, Padre Serafino Tognetti – vedi qui – (monaco e primo successore di Don Divo Barsotti nella Famiglia della Comunità dei Figli di Dio da lui fondata e approvata, riconosciuta dal Papa), lo spiega molto bene.


Ed anzi, pare proprio che la Madonna a La Salette, abbia previsto anche l’AIDS quando parla di una malattia mortale misteriosa e prolungata nel tempo per la quale l’uomo, a causa del suo peccare, NON TROVERA’ LA CURA.


Ora, è certo che se io ad una riunione di sindaci vado a dire queste cose diventerei forse ridicola, ma se non le dice IL PAPA chi deve dirlo?


Di ben altra opinione è San Paolo che dice e ammonisce:


“Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore.  Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice;  perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.  È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1Cor. 11,27-30).


Certo, ci si ammala anche, ANCHE… trattando male la natura, ma la causa principale è il peccare contro Dio dal quale è ovvio che – trattando male Dio – arriveremo a trattare male anche la sua creazione con tutto quel che ne consegue.


Il Papa, ai sindaci, fa giustamente questa osservazione:


“…di fronte ad una domanda che mi hanno fatto ho risposto: “No, non è un’enciclica “verde”, è un’enciclica sociale”. Perché nella società, nella vita sociale dell’uomo, non possiamo prescindere dalla cura dell’ambiente. In più, la cura dell’ambiente è un atteggiamento sociale, che ci socializza, in un senso o nell’altro – ognuno può dargli il valore che vuole – dall’altro lato, ci fa ricevere – mi piace l’espressione italiana, quando parlano dell’ambiente-, del Creato, di quello che ci è stato dato come dono, ossia l’ambiente…”


giustissimo e verissimo ma….


ma se il Papa in primis NON specifica che la DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA MIRA ALLA CONVERSIONE DEGLI UOMINI A DIO, si toglie “la dottrina” e si resta nel sociale!


il “Creato” diventa ne più ne meno una sorta di paradiso terrestre da ricreare attraverso la “conversione all’ecologia” (termine usato da Radio Vaticana per presentare il Discorso del Papa ai sindaci, ma il Papa NON ha pronunciato questa frase), e rischiamo di cadere nel PANTEISMO, o in un dio astratto, aleatorio.


Nei Vangeli non esiste la “conversione all’ecologia”, Gesù ha mandato i Suoi per convertire i popoli al Cristo e battezzare le persone: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura.  Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato».(Mc.16,16);


«Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc.1,15);


«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori». (Mc.2,17).


Predicare il Vangelo, la buona novella che è quella della redenzione, dell’essere stati salvati dal peccato, salvati dall’essere perduti, e non dice di andare a predicare l’ecologia!


Certo si deve fare l’una e l’altra catechesi, ci si educa a comportarci bene e a trattare bene la terra che ci è stata consegnata per farla fruttare, ma insieme non separatamente o disgiuntamente alla conversione al Cristo e non ad un dio generico.


Gesù, voltandosi verso le donne, disse: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco? ” (Lc.23,28-31),


qui Gesù non sta parlando di ecologia!


Leggiamo la risposta che ci viene proprio dal cardinale Ratzinger prima di diventare Papa, nelle famose riflessioni del Venerdì Santo 2005 – vedi qui l’ottava stazione –


” Sentire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme che lo seguono e piangono su di lui, ci fa riflettere. Come intenderlo? Non è forse un rimprovero rivolto ad una pietà puramente sentimentale, che non diventa conversione e fede vissuta? Non serve compiangere a parole, e sentimentalmente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo in cui noi stessi siamo.


Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio. Non siamo forse, nonostante tutte le nostre parole di sgomento di fronte al male e alle sofferenze degli innocenti, troppo inclini a banalizzare il mistero del male? Dell’immagine di Dio e di Gesù, alla fine, non ammettiamo forse soltanto l’aspetto dolce e amorevole, mentre abbiamo tranquillamente cancellato l’aspetto del giudizio? Come potrà Dio fare un dramma della nostra debolezza? – pensiamo. Siamo pur sempre solo degli uomini! Ma guardando alle sofferenze del Figlio vediamo tutta la serietà del peccato, vediamo come debba essere espiato fino alla fine per poter essere superato. Il male non può continuare a essere banalizzato di fronte all’immagine del Signore che soffre. Anche a noi egli dice: Non piangete su di me, piangete su voi stessi… perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”


In conclusione


«Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). A questo proposito c’è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita». Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, ma rovesciato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all’uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell’ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono proprio queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l’esito negativo dell’esperienza marxista.


Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su princìpi puramente tecnico-materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. È in gioco il primato di Dio.


Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene. Naturalmente si può chiedere perché Dio non abbia creato un mondo in cui la sua presenza fosse più manifesta; perché Cristo non abbia lasciato dietro di sé un ben altro splendore della sua presenza, che colpisse chiunque in modo irresistibile. Questo è il mistero di Dio e dell’uomo, che non possiamo penetrare. Noi viviamo in questo mondo nel quale appunto Dio non ha l’evidenza di una cosa che si possa toccare con mano, ma può essere cercato e trovato solo attraverso lo slancio del cuore, l’«esodo» dall’«Egitto». In questo mondo dobbiamo opporci alle illusioni di false filosofie e riconoscere che non viviamo di solo pane, ma anzitutto dell’obbedienza alla parola di Dio. E solo dove si vive questa obbedienza nascono e crescono quei sentimenti che permettono di procurare anche pane per tutti.
(Gesù di Nazaret, Tomo I, Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Rizzoli, 2007.)



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a quanto pare anche Riccardo Cascioli ha fatto delle sottolineature, seppur diverse, a questo incontro. leggere qui http://www.lanuovabq.it/it/articoli-nuova-schiavituquella-del-politicamente-corretto-13335.htm

«L’ecologia è totale, è umana. E questo è quello che ho voluto esprimere nell’enciclica Laudato si’: che non si può separare l’uomo dal resto». Queste parole pronunciate da papa Francesco martedì 21 luglio ai 70 sindaci convocati dalla Pontificia Accademia delle Scienze e Scienze sociali per discutere di “Nuove schiavitù e cambiamenti climatici”, potrebbero rappresentare la critica più radicale all’ambientalismo. Il pensiero ecologista dominante infatti vede l’uomo in conflitto con “il resto”, cioè la natura che lo circonda, e per questo il cardine di ogni politica ambientalista è proprio il massimo limite possibile alla presenza umana: sia quantitativamente, con il controllo delle nascite; sia qualitativamente, con il freno allo sviluppo (che consuma risorse). Non è un segreto – è scritto in molti libri – che per gli ambientalisti il mondo sarebbe molto meglio, e ovviamente in equilibrio, senza la presenza dell’uomo, al punto che le correnti più radicali si spingono fino ad invocare l’autoestinzione del genere umano.

Le parole del Papa che, offrendo una chiave interpretativa alla sua enciclica (“sociale”, “non verde”, ha tenuto a precisare), ha riposto l’uomo al centro del Creato, potrebbero dunque essere la critica più radicale a questo ambientalismo. Potrebbero. 

In effetti, il messaggio uscito dal convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze è di tutt’altro segno, di oggettivo sostegno a un certo ambientalismo che attribuisce all’attività umana ogni genere di male possibile. E non poteva essere altrimenti, visto anche il bizzarro accostamento tra cambiamenti climatici e “nuove schiavitù” che dava il titolo al convegno stesso. La spiegazione del titolo sta nel fatto, diceva la presentazione del presidente della Pontificia Accademia monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, che «il riscaldamento globale è una delle cause della povertà e delle migrazioni forzate, e favorisce il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, la prostituzione e il traffico degli organi». Affermazioni azzardate, peggiorate poi dal livello degli interventi che sull’onda dell’entusiasmo ha fatto del riscaldamento globale praticamente la causa principale se non unica delle nuove schiavitù.

Da qui anche la richiesta di un accordo globale sul clima che ci si aspetta venga siglato dai capi di Stato e di governo al summit di Parigi previsto per il prossimo dicembre. 

Sarebbe davvero singolare se in Vaticano credessero sul serio che un accordo sulle politiche climatiche diminuirebbe la povertà, il flusso migratorio, la prostituzione e via dicendo. 

Significherebbe anzitutto che da quelle parti le idee sono piuttosto confuse riguardo alla realtà mondiale. Ad esempio la povertà, dal secondo dopoguerra ad oggi è notevolmente diminuita in tutto il mondo, se è vero – statistiche FAO – che la percentuale di sottonutriti nella popolazione mondiale è scesa dal 37% del 1970 all’11% attuale, il tutto mentre la popolazione raddoppiava (dai 3 miliardi e mezzo circa agli oltre 7 miliardi). E neanche a farlo apposta, un contributo importante per questo risultato lo si deve all’incremento di produzione agricola (tra il 25 e il 40%) favorito dall’aumento di concentrazione nell’atmosfera della tanto vituperata CO2 (anidride carbonica), che è un potente fertilizzante. Peraltro, ci sarà pure un motivo se gli storici del clima definiscono i periodi più caldi della storia – dato che il clima è in continuo cambiamento dall’origine del mondo – “optimum” (romano, medievale), intendendo con questo che sono storicamente i periodi più positivi per la vita umana.

Pensare poi che le migrazioni forzate siano dovute ai cambiamenti climatici causati dall’uomo non trova alcun riscontro nella realtà. È vero che nel corso dei secoli i cambiamenti climatici hanno favorito insediamenti umani (perfino in Groenlandia, il cui nome significa “Terra verde”) o li hanno scoraggiati (tra il XVI e il XVIII secolo, durante la “piccola era glaciale” diverse città delle Alpi svizzere furono cancellate dai ghiacci). Ma tutto ciò è nella natura delle cose. Dei 235 milioni di migranti attualmente costretti a lasciare il proprio paese, nessuno può essere definito un “profugo ambientale”, malgrado questa definizione stia diventando molto popolare. Non a caso nessuno di quelli che approda sulle nostre coste dichiara di essere fuggito dal proprio Paese a causa dell’aumento di uragani che gli impedisce di vivere nel proprio villaggio. Un eventuale accordo a Parigi non aiuterebbe il governo Renzi nell’affrontare l’emergenza sbarchi. 

E se pensiamo al traffico di esseri umani che c’è in Asia, soprattutto donne portate a forza in Cina da Vietnam e Corea del Nord, invece che prendercela con un leggero aumento di temperature dovremmo guardare agli effetti della “politica del figlio unico” in Cina che, provocando uno squilibrio demografico, fa sì che in quel Paese ci siano troppi maschi (già oggi circa 20 milioni) senza una femmina da sposare. Per queste povere donne un eventuale accordo a Parigi non solo non risolverebbe nulla, ma peggiorerebbe addirittura la situazione perché in cambio di una firma in calce all’accordo si perdonerebbe alla Cina anche più di quel che già oggi si fa finta di non vedere.

Che poi anche la prostituzione sia incrementata dai cambiamenti climatici – come si è sentito affermare in questi giorni - è decisamente risibile, a meno che non si intenda l’aumento di fatturato che si registra nelle città che di volta in volta ospitano le mega-conferenze sul clima.

Siccome la Chiesa è giustamente preoccupata dei tanti fenomeni di schiavitù che affliggono il mondo, meglio sarebbe affrontare le vere cause che sono molteplici: culturali, religiose (sarebbe interessante un focus su islam e schiavitù ad esempio), politiche, economiche, e così via.

Ma soprattutto ci si aspetterebbe, almeno in Vaticano, che una menzione – per quanto piccola – fosse riservata al peccato originale che, piaccia o non piaccia, è la “madre di tutte le schiavitù”, da cui tutto il resto discende. E da cui, tempo fa, è venuto Qualcuno a liberarci. Chissà se alla Pontificia Accademia delle Scienze si ricordano Chi è.






e il 28 maggio scorso così profetava e ammoniva Ettore Gotti Tedeschi:

LETTERA APERTA
 

Lettera aperta a Papa Francesco. "Credo sia importante dire con chiarezza che la responsabilità degli squilibri socioeconomici che hanno prodotto povertà diffusa e la conclamata crisi ambientale, si trova nelle tesi dei cosiddetti neomalthusiani, che oggi sembrano venir proposti per contribuire persino a dare indirizzi morali".

di Ettore Gotti Tedeschi

Beatissimo Santo Padre,

mi permetta di rivolgermi direttamente a Lei dopo aver seguito il dibattito e tante dichiarazioni - anche di uomini di Chiesa - riguardo alle tematiche ambientali e dello sviluppo.

Credo sia importante fugare ogni ambiguità e dire con chiarezza che la vera responsabilità degli squilibri socioeconomici che hanno prodotto povertà diffusa e la conclamata crisi ambientale, si trova nelle tesi dei cosiddetti neomalthusiani e affini, che oggi sembrano venir proposti per contribuire persino a dare indirizzi morali per affrontare il problema ambientale ed economico. Poiché sappiamo bene che se una diagnosi è sbagliata o falsata, la prognosi sarà altrettanto sbagliata.

La crisi economica in corso e gli squilibri ambientali verificatisi negli ultimi decenni, sono stati originati dalla applicazione delle teorie neomalthusiane (divulgate all’inizio in più università americane negli anni 1970-80) che hanno ispirato e “forzato” il crollo delle nascite nel mondo occidentale.

Ma come può crescere realmente e sostenibilmente il Pil (Prodotto interno lordo), se la popolazione non cresce?
In realtà (illusioni a parte) può accadere solo facendo crescere i consumi individuali. Perciò per correggere e compensare i rischi del conseguente crollo della crescita del Pil, fu adottato il cosiddetto “modello consumistico”. In una società matura e con morale relativizzata (nichilista) non è stato difficile proporre all’uomo occidentale, quale vera e principale soddisfazione, quella materiale–consumistica. Ma per soddisfare l’esigenza di consumismo diffuso, si sono anche creati i presupposti di povertà e di sfruttamento dell’ambiente. Ciò è avvenuto deindustrializzando i paesi occidentali, troppo costosi produttivamente, e delocalizzando: trasferendo cioè produzioni in paesi a basso costo di mano d’opera, ancora impreparati alla tecnologia protettiva dell’ambiente.

Per far consumare di più si è anche stimolata la trasformazione del risparmio in consumo, sottraendo al sistema bancario una base monetaria per il credito e soprattutto privando le famiglie di autoprotezione. La crescita zero della popolazione, auspicata dai neomalthusiani (due figli a coppia) ha poi determinato il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, con conseguente crescita dei costi fissi (sanità e pensioni) compensati da equivalente crescita delle tasse, che han prodotto riduzione dei redditi, degli investimenti e crescita del debito.

Per evitare il collasso conseguente nella crescita economica si è forzata sempre di più la crescita dei consumi, e sempre più a debito. Ma si è forzata anche la crescita della produzione delocalizzata, meno attenta allo sfruttamento dell’ambiente. L’origine della crisi economica, della povertà incombente e degli squilibri ambientali, sono conseguenza di questa dottrina neomalthusiana.

Come potrebbe essere ora questa stessa dottrina a risolvere i problemi che ha creato? Il rischio è che questa si preoccupi invece di far mancare il sostegno alla vera crescita economica: quello alla famiglia e alla crescita equilibrata e consapevole del numero di figli. Così mancheranno ancor più le risorse per riequilibrare le strategie produttive globali e investire in tecnologia pro-ambiente. Mancheranno sempre più le risorse per mantenere i vecchi, creare lavoro per i giovani e proteggere i più deboli.  

Ma come si può pensare che una cultura neomalthusiana e abortista che nega la sacralità della vita umana e considera l’uomo animale intelligente, frutto dell’evoluzione di un bacillo, ma cancro della natura e orientato solo a consumare, possa elaborare progetti per l’ambiente e per l’uomo? Come si può pensare di riferirsi a soluzioni per l’ambiente proposte da chi vede una pseudo soluzione ambientale-economica prioritaria verso la vera soluzione di consapevolizzazione morale dell’uomo attraverso una maturazione spirituale ed intellettuale?  

Ciò che in più stiamo rischiando, tollerando soluzioni malthusiano-ambientaliste, è permettere all’ambientalismo di affermarsi quale religione universale nel mondo globale dove coesistono diverse culture religiose. Questo ambientalismo malthusiano rischierà di creare maggiore povertà, maggiori squilibri socioeconomici e minor tutela vera dell’ambiente.

San Francesco amava le creature e l’ambiente, quali opere del suo amato Creatore, secondo il fine da Lui previsto.  

Perciò confido in Lei, Beatissimo Padre, con filiale devozione.

Ettore Gotti Tedeschi



e si legga anche dell'8 giugno scorso:

L'ENCICLICA E I SUOI INTERPRETI
 

Leggendo autorevoli commenti preventivi all'enciclica in uscita il 18 giugno, si capisce che c'è chi proporrà il modello "kasperiano" di distinzione tra dottrina e prassi. La dottrina nell’Enciclica sarà magistrale, la prassi le permetterà di esser interpretata ed adattata in ogni parte del mondo e circostanza diversa.

di Ettore Gotti Tedeschi








Caterina63
00lunedì 3 agosto 2015 14:21

DIVORZIATI E UNIONI GAY
 

Chiedono «una parola chiarificatrice, per superare la crescente confusione fra i fedeli» su eucarestia ai divorziati e unioni gay. E lo fanno attraverso una “Supplica” rivolta a Papa Francesco. Sono più di 400mila persone, fra i quali 104 tra cardinali, vescovi: un appello al Papa in vista del Sinodo.

di Tommaso Scandroglio

(clicca sul link-immagine)




Chi è esperto in comunicazione, ma anche chi non ne sa nulla, è ben consapevole di un dato. Una cosa sono i fatti, un’altra la percezione dei fatti. Ad esempio, la vicenda del leone Cecil, abbattuto da un dentista americano, viene percepito dai più come un fatto gravissimo, ben più che milioni di bambini uccisi nel ventre delle loro madri con l’aborto.

Così è anche con il tema dell’omosessualità e del divorzio. Due fenomeni oggettivamente gravi sotto il profilo morale, ma ormai digeriti benissimo dalla maggioranza delle persone. Anzi, sventolati come diritti. Ma è poi vero che i più vedono omosessualità e divorzio come condizioni positive per l’uomo? Qualche indice ci fa dubitare di questo. Un esempio eclatante sono state le parecchie centinaia di migliaia di persone presenti a piazza san Giovanni a Roma lo scorso giugno per difendere la famiglia dagli attacchi del pensiero gender. Un altro esempio è la "Supplica Filiale". Si tratta di una raccolta firme indirizzata al Papa, in vista del prossimo Sinodo sulla famiglia, per chiedergli – come si legge in un comunicato stampa del 30 luglio scorso emesso dall’associazione omonima Supplica Filiale – «una parola chiarificatrice, come unica via per superare la crescente confusione fra i fedeli in materia di matrimonio e di unioni omosessuali».

Il numero di adesioni, provenienti dai quattro angoli della Terra, è sorprendente: 405.000 persone, fra i quali 104 tra cardinali, arcivescovi e vescovi. In soli sette mesi. Sempre nel comunicato stampa si può leggere: «per i firmatari un supremo intervento è necessario per arginare lo strisciante progredire della rivoluzione culturale, promossa da forze anticristiane che da decadi cercano d’indebolire le convinzioni morali fondate sul Vangelo e sulla Legge Naturale». Davanti alla macchina propagandistica dei costumi neopagani, secondo i firmatari, la Chiesa mantiene sempre accesa la fiaccola di una solida dottrina e di una coerente disciplina, entrambe basate sull’insegnamento di Nostro Signore. «Tuttavia», continua il comunicato, «in occasione del Sinodo straordinario sulla Famiglia dell’ottobre 2014, la luce di questa fiaccola anziché rinvigorirsi è parsa vacillare a causa di alcune confuse e dissonanti opinioni, emerse ad intra e ad extra dell’aula sinodale. Queste tesi sono state immediatamente riprese e moltiplicate dalla grancassa della propaganda laicista».

La Supplica Filiale ha prodotto anche un’altra iniziativa di grande impatto: un vademecum dal titolo Opzione preferenziale per la Famiglia, scritto da tre vescovi, monsignor Aldo di Cillo Pagotto, monsignor. Robert F. Vasa e monsignor Athanasius Schneider.  

In cento domande e cento risposte si fa chiarezza in modo molto semplice e sintetico delle principali questioni sorte durante i lavori dello scorso Sinodo e dibattute sui media. Il volumetto dà prova incontrovertibile che, ad esempio, su omosessualità e comunione ai divorziati e risposati la dottrina è chiarissima, definita e incontrovertibile. L’omosessualità rimane una condizione intrinsecamente disordinata, le condotte omosessuali sono un male morale e i divorziati risposati non posso accedere alle sacre specie. Ovviamente il divieto cade se si confessano validamente, cioè se si pentono del divorzio eventualmente voluto, del nuovo “matrimonio” e decidono conseguentemente di rompere il legame con la nuova “moglie”, fatti salvi alcuni obblighi morali nati eventualmente con quest’ultima e con i figli del secondo “matrimonio”. Ci deve essere anche il proposito di ritornare con la prima moglie. Il libretto, che si può richiedere gratuitamente, è stato tradotto in molte lingue e inviato a tutti i vescovi del mondo. 

Qualcuno obietterà che un milione di manifestanti o 405mila firme alla fine sono pochine, se andiamo a vedere quanti sono i cattolici nel mondo. Ma forse le cose non stanno così. Infatti, è noto che dietro ad ogni firma o a ogni persona che scende in piazza a manifestare ce ne sono almeno dieci o venti disposte a fare altrettanto, ma che non hanno firmato o non hanno manifestato perché ad esempio non conoscevano questo tipo di iniziative, oppure perché non sanno come aderire o impossibilitate a muoversi di casa. È la famosa punta di un iceberg. Iceberg molto caldo che chiede alla gerarchia una parola forte. Ancora una volta nella storia della Chiesa sono i laici a stimolare i pastori a fare il loro dovere. 

 





“OPZIONE PREFERENZIALE PER LA FAMIGLIA: CENTO DOMANDE E CENTO RISPOSTE ATTORNO AL SINODO”

E’ stato il professor Tommaso Scandroglio (Università europea di via degli Aldobrandeschi) a introdurre e moderare la conferenza-stampa, convocata anche per illustrare il volumetto “Opzione preferenziale per la famiglia”, pubblicato dalle Edizioni Supplica Filiale. Un vero e proprio manuale, che – ha rilevato Scandroglio – “non vuol essere uno strumento apologetico della sana dottrina cattolica” ma invece “riproporre i principi su cui si regge l’insegnamento del Magistero in materia di famiglia”.

Il manuale è stato redatto da tre vescovi ‘conservatori’: l’arcivescovo di Paraiba (Brasile) Aldo Di Cillo Pagotto, il vescovo di Santa Rosa (California) Robert Francis Vasa, il vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan) Athanasius Schneider. Tutti e tre sono conosciuti come interpreti rigorosi della dottrina cattolica in materia di vita e famiglia. Mons. Schneider è noto anche per l’analisi tanto preoccupata quanto impietosa della situazione odierna (anche liturgica) all’interno del mondo cattolico.

Il manuale si apre con la prefazione del cardinale Medina Estevez: “Sembra una valutazione oggettivamente vera dire che la famiglia sta attraversando una crisi grave e profonda. Davanti a questa realtà non sarebbe saggio un atteggiamento che la ignori o la minimizzi: va presa in considerazione, si devono misurare le sue dimensioni e la sua magnitudine ed è necessario individuare i mezzi per superarla. A ciò mira il volume”.

Tredici i capitoli in cui si suddividono le cento domande e risposte, che si connotano per un linguaggio agile ed accessibile al lettore medio. Si parte da quel che è un Sinodo e dalla preparazione all’appuntamento dell’ottobre 2014. Si passa a “Chiesa e famiglia” e attraverso altri capitoli ad esempio su “Dottrina morale e prassi pastorale” e “Coscienza personale e Magistero”, si arriva a “matrimonio e famiglia” e alle note delicate questioni riguardanti divorziati risposati e omosessuali. Assai interessante e un po’ a sé il capitolo XI su “alcune parole-chiave del dibattito sinodale”, parole definite “talismano”, perché spesso stravolte nel loro significato originale dall’uso che se ne fa oggi, piegato alle esigenze dell’obiettivo ‘aperturista’ da raggiungere: tra loro “approfondimento”, “persone ferite”, “misericordia”.  Nelle risposte spesso appaiono citazioni di papi come Giovanni Paolo II  - e dell’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia  - o Benedetto XVI  (anche di Leone XIII, Pio XI, Pio XII, Paolo VI, una di papa Francesco) o cardinali come Velasio De Paolis, Carlo Caffarra, Robert Sarah, Gerhard Müller, Walter Brandmüller.

Con il manuale si tratta, ha rilevato ancora Tommaso Scandroglio, di stimolare tutti a un esame della propria coerenza di pensiero e comportamenti con la dottrina cattolica. Come si fa a dire “Io sono cattolico e sono favorevole all’aborto, all’eutanasia, ai ‘matrimoni gay’, all’adozione in questi ultimi casi?” Sarebbe come proclamare di essere ambientalista e nel contempo inquinare i fiumi. Inoltre, ha evidenziato Scandroglio, in molti casi in cui c’è nel mondo cattolico una discussione aperta sui noti temi delicati, la dottrina cattolica già “è ben definita e cristallizzata”. E ciò dovrebbe bastare.

Concludiamo con un paio di esempio di domande e risposte. Numero 40: “Visto che oggi molti fedeli ormai non seguono la morale cattolica, non sarebbe il caso di tollerare certe situazioni irregolari pur di attrarre più persone alla Chiesa?”. Risposta: “Un solo ipotetico, anzi improbabile, aumento della pratica religiosa di alcune persone in situazione irregolare, cioè illegittima oppure immorale, non può essere ottenuto al caro prezzo di smentire la morale evangelica e il Magistero ecclesiale e di indebolire la fede dei fedeli in regola. Se la Chiesa poi cambiasse una dottrina e una prassi bimillenarie sul matrimonio, perderebbe credibilità su ciò che potrà insegnare domani”.

Numero 91. “Nel dibattito sinodale la ‘misericordia’ è il criterio-guida di ogni approccio pastorale; questo criterio non dovrebbe forse prevalere sulle esigenze della dottrina morale in modo da cambiarne il giudizio?” Risposta: “La misericordia può superare la giustizia ma non può violarla, altrimenti sarebbe ingiusta; tantomeno può smentire la verità, altrimenti sarebbe falsa. Inoltre, proprio per il fatto di operare nel campo pratico, la misericordia non può interferire in quello dottrinale, per cui non può mutare il giudizio morale sulla condotta”.

______________________

Si tratta, dunque, di un’opera di respiro internazionale, che intende portare all’attenzione dei cattolici di tutto il mondo la dottrina della Chiesa sui temi morali toccati nelle discussioni sinodali.

 

Il libro affronta con metodo e rigore le questioni sollevate dal Sinodo: matrimonio, famiglia, divorzio, coppie omosessuali, misericordia, sacramenti e via dicendo. Il tutto corredato da citazioni del Magistero recente della Chiesa, nonché da dichiarazioni di alti prelati, come i cardinali Velasio de Paolis e Carlo Caffarra. Un’attenzione speciale è riservata al ruolo della grazia sopranaturale nell’impegno per la castità famigliare, un punto praticamente ignorato nei documenti sinodali.

 

Vanno anche menzionati alcuni approcci innovativi, tra cui l’analisi delle “parole talismano”, vale a dire termini elastici, di forte contenuto sentimentale, la cui manipolazione provoca nei fedeli una sorta di trasbordo ideologico inavvertito. Ne sono esempio “misericordia”, “persone ferite”, “approfondimento” e via dicendo.

 

Le persone interessate ad acquistarne un esemplare, possono rivolgersi a: Supplica Filiale, via Nizza 110, 00198 Roma. Oppure telefonare al numero 366.9971856.

 




Pio XII. Il suicidio di alterare la fede nella sua liturgia...

 
"Sono preoccupato per il messaggio che ha dato la Beata Vergine a Lucia di Fatima. Questo insistere da parte di Maria, sui pericoli che minacciano la Chiesa, è un avvertimento divino contro il suicidio di alterare la Fede, nella Sua liturgia, la Sua teologia e la Sua anima.
Sento tutto intorno a me questi innovatori che desiderano smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti e farla sentire in colpa per il suo passato storico. …
Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato negherà il proprio Dio, quando la Chiesa dubiterà come dubitò Pietro. Sarà allora tentata a credere che l’uomo sia diventato Dio ... Nelle nostre chiese, i Cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta. Come Maria Maddalena, in lacrime dinanzi alla tomba vuota, si chiederanno: “Dove Lo hanno portato?” 

(Citazione da: Pius XII Devant L'Histoire, Editions du Jour/Robert Laffont (1972), pp. 52, 53.)




 

Caterina63
00domenica 6 settembre 2015 17:09

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II 
A CONCLUSIONE DELL
INCONTRO CON I METROPOLITI 
DEGLI STATI UNITI D
’AMERICA

Sabato, 11 marzo 1989

 

Cari fratelli nell’Episcopato.

1. Per quattro giorni siamo stati insieme. Abbiamo pregato, riflettuto e discusso sul nostro ministero come successori degli apostoli chiamati a essere segni viventi di Gesù Cristo: il Cristo misericordioso, il Cristo orante, il Cristo totalmente fedele e contraddetto, il Cristo che venne “a predicare il Vangelo ai poveri” (Lc 4, 18). Nel momento in cui la nostra assemblea volge al termine, io sono certo che noi condividiamo un grande senso di gratitudine a Dio per ciò che ha significato per noi come Pastori questo incontro, individualmente e collettivamente, e per la vita della Chiesa negli Stati Uniti. Veramente Cristo è stato nostra forza e guida, e noi abbiamo fatto tutto per la gloria del Padre. Insieme abbiamo sperimentato la gioia che il Salmo esalta: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! . . . Là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre” (Sal 132, 1. 3).

Il nostro contatto durante questi giorni ci ha ulteriormente educati nello spirito collegiale e ci ha dato una possibilità per esprimere la comunione e la solidarietà che ci unisce in Cristo e nella Chiesa. Una prima conclusione generale che si può delineare è l’utilizzo di questo tipo di incontri per comprendere questioni o situazioni concernenti la vita pastorale della Chiesa nelle varie sfere geografiche e culturali della propria attività.

2. Il tema centrale delle nostre discussioni nel contesto generale della evangelizzazione è stato il Vescovo come maestro della fede. Non è mia intenzione qui di passare in rassegna l’importante analisi fatta del contesto culturale e delle circostanze sociali nelle quali voi siete stati chiamati a proclamare il messaggio evangelico come Pastori della Chiesa negli Stati Uniti. Sarà mia e vostra preoccupazione, e preoccupazione dei nostri fratelli Vescovi, continuare questa riflessione sulla relazione tra il messaggio cristiano e i contesti nei quali esso è predicato e vissuto.

A questo punto faccio riferimento brevemente alla questione più personale e fondamentale del ruolo del Vescovo come maestro della fede quale scaturisce dalla consacrazione che noi abbiamo ricevuto attraverso la pienezza del sacramento dell’Ordine. La preghiera di Gesù per i suoi discepoli ci spinge a considerare la questione radicale della nostra responsabilità in rapporto alla verità: “(Padre) . . . consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anche essi consacrati nella verità” (Gv 17, 17-19). Come Pietro in mezzo a voi, io devo incoraggiare e confermare voi e i vostri suffraganei e Vescovi ausiliari, e le Chiese particolari alle quali voi presiedete, in quella consacrazione alla verità che è la Parola di Dio, che è il Figlio di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti.

3. Essenzialmente, durante questi giorni abbiamo parlato circa la fede e la trasmissione della fede. Alla radice della nostra discussione in ogni momento è stata la questione della fede riflessa nelle Chiese particolari della vostra Nazione, la fede viva nel laicato, nei religiosi e nelle religiose e nel clero che forma, con i Vescovi, la Chiesa cattolica negli Stati Uniti. Con i miei collaboratori nella Curia romana, ringrazio Dio per la storia colma di fede della Chiesa nel vostro Paese, della quale i vostri santi sono la più eloquente testimonianza. Il generoso spirito missionario dei vostri figli e delle vostre figlie - religiosi, preti e laici - è stato e continua ad essere evidenziato in molte parti del mondo.

4. Voi avete a lungo riflettuto sui modi con i quali è meglio per voi portare avanti il vostro servizio pastorale alle religiose e ai religiosi delle vostre diocesi, sostenendoli nella loro esigente ma estremamente fruttuosa osservanza dei consigli evangelici. Voi avete parlato dell’immenso contributo dei singoli religiosi e delle congregazioni religiose alla vita della Chiesa nel vostro Paese, mentre allo stesso tempo riconoscete che lo stato della vita religiosa presenta speciali problemi e sfide che richiedono la vostra continua attenzione. Avete espresso la vostra determinazione a portare avanti con responsabilità e sensibilità il vostro servizio pastorale a questo riguardo.

5. Permettetemi di dire una speciale parola riguardo ai sacerdoti. Nella nostra discussione sul loro ruolo come operatori di evangelizzazione, molti hanno parlato della devozione e dell’efficienza dei sacerdoti negli Stati Uniti. É stato notato che in qualche modo essi sopportano più direttamente il peso dei fattori nella vostra cultura che si scontrano con la loro missione di insegnare ed evangelizzare. Con voi io ringrazio i sacerdoti degli Stati Uniti per il loro ministero, per tutto ciò che essi fanno, per proclamare più efficacemente Gesù Cristo come Signore. Quando voi e i vostri Vescovi suffraganei vi raccogliete con i vostri sacerdoti per la Messa crismale di quest’anno, vogliate assicurarli della mia gratitudine, del mio affetto e benedizione. Durante questi giorni voi li avete portati ancora più vicino al mio cuore.

6. Voi avete prestato molta attenzione alla celebrazione della fede nella liturgia e nell’amministrazione dei sacramenti della Chiesa, specialmente del sacramento della Penitenza. In effetti uno dei primi requisiti dell’evangelizzazione, una delle richieste prioritarie che la fede rivolge a ogni persona che desidera abbracciare Cristo è la penitenza o la conversione. Nei primi versetti del vangelo di san Marco, Gesù presenta egli stesso una sintesi di questa chiamata alla salvezza con le parole: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15). Ai Vescovi della quinta regione venuti per la loro visita “ad Limina” ho suggerito che “la conversione proclamata da Cristo è un intero programma di vita e azione pastorale. É la base per una visione organica del ministero pastorale poiché è legata a tutti i grandi aspetti della rivelazione di Dio” (Allocutio ad quosdam episcopos Faederatorum Civitatum Americae Septentrionales limina Apostolorum visitantes, 2, die 31 maii 1988Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI, 2 [1988] 1696).

Avete discusso sulla conversione nella sua forma ed efficacia sacramentale. Uno dei bisogni universali della Chiesa, che è anche tra le esigenze speciali della Chiesa negli Stati Uniti, è il ripristino del sacramento della Penitenza e il rinnovamento della sua pratica (cf. Reconciliatio et Paenitentia, 28). Un tale rinnovamento avrà un importante influsso sulle famiglie, sui giovani e su tutti i laici; il suo uso appropriato e frequente può avere profondo impatto sulla vita religiosa, la promozione delle vocazioni, la preparazione spirituale dei seminaristi e il ministero dei nostri fratelli sacerdoti.

7. A questo punto ritorniamo alla difficoltà che è tante volte riaffiorata nelle nostre discussioni: il compito di trasmettere le verità della fede in un contesto culturale che mette in forse l’integrità e spesso la stessa esistenza della verità. Molto di ciò che è stato discusso riflette questa sfida fondamentale alla Chiesa contemporanea quando cerca di evangelizzare. Voi avete additato le diverse strade con cui i vari operatori dell’evangelizzazione possono essere aiutati a proclamare in modo più efficace le verità della Scrittura e della Tradizione. Vi incoraggio a considerare seriamente queste proposte.

É essenziale che gli operatori, e in primo luogo noi Pastori, proclamiamo il vero messaggio: “il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, il vangelo riguardo al Figlio suo. Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1, 1-5). Noi siamo i custodi di qualcosa che è stato dato, e dato alla Chiesa universale, qualcosa che non è il risultato della riflessione, per quanto competente, sulle questioni culturali e sociali del giorno, e non è soltanto il sentiero migliore fra tanti, ma l’unica strada della salvezza: “Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12). Il Popolo di Dio, i vicini e i lontani debbono sentire il nome. Noi siamo tutti - voi ed io - obbligati a fare un esame di coscienza su come stiamo adempiendo il compito, “perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1 Cor 1, 1). La vera misura del nostro successo consisterà in una più grande santità, in un servizio più amorevole verso coloro che sono nel bisogno, e la promozione della verità e della giustizia in ogni ambito della vita del vostro popolo e del vostro Paese. Come uno dei nostri fratelli molto opportunamente ha detto: “Il successo non può essere il criterio o la condizione della evangelizzazione. Il criterio e la condizione dell’evangelizzazione devono essere la fedeltà alla missione”.

8. Non mancheranno le difficoltà. Ciò che è importante è che le sfide o anche l’opposizione alla verità salvifica che la Chiesa professa siano affrontate nel contesto della fede. Il nostro Signore e salvatore Gesù Cristo in questa e in tutte le cose traccia la via per noi. Ricordate il racconto di san Giovanni circa l’insegnamento di Gesù che la Chiesa interpreta come rivelazione dell’Eucaristia (cf. Gv 6). La risposta di Pietro in quell’occasione deve essere la risposta di Pietro oggi, una risposta pronunciata nel nome degli apostoli e dei loro successori: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68).

In ultima analisi, nell’evangelizzazione noi siamo interessati a proclamare la verità di Gesù Cristo e della sua Chiesa, la verità che dà la vita, la verità che sola rende liberi. Gesù Cristo rivela a noi la verità che è Dio e la verità che è la persona umana totalmente libera. Il Signore ci parla mentre affrontiamo il nostro compito quando dice: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32).

9. Io sono certo che in questo incontro noi siamo tutti divenuti ancora più consapevoli delle ragioni della nostra certezza circa la nostra missione e il suo valore per il mondo d’oggi. La sorgente della nostra fiducia è Dio stesso ma noi siamo anche profondamente incoraggiati dalla santità e dal servizio generoso di tanti membri del Popolo di Dio: giovani e vecchi, ricchi e poveri, sacerdoti, religiosi e laici. Voi ritornerete alle Chiese particolari che sono ricche spiritualmente e già posseggono le risorse per una rinnovata evangelizzazione. Riferirete ai vostri fratelli Vescovi che il tema centrale che noi abbiamo discusso in fraternità e in amore è stato ed era la necessità di essere trovati fedeli nel trasmettere ciò che noi stessi abbiamo ricevuto (cf. 1 Cor 4, 2), fedeli nello spezzare il pane della verità e dell’amicizia con i vostri sacerdoti, fedeli nell’assicurare una totale e solida formazione dei seminaristi, fedeli nel venire incontro alla vita e ai carismi dei religiosi, fedeli nella catechesi, fedeli nell’incoraggiare i laici a prendere il loro proprio e giusto posto nella vita e missione della Chiesa, fedeli nel sostenere i valori della vita e dell’amore nel matrimonio e nella vita della famiglia.

Mentre ringrazio voi e i vostri fratelli Vescovi per il ministero che esercitate con amore e generosità, e mentre vi incoraggio a continuare ulteriormente le riflessioni di questi giorni, invito tutta la Chiesa negli Stati Uniti a vivere nella fede del Figlio di Dio, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cf. Gal 2, 20).

Per intercessione della beata Vergine Maria e a gloria della Santissima Trinità, possa “il Dio della pace essere con voi tutti. Amen” (Rm 15, 32).









Caterina63
00martedì 13 ottobre 2015 18:31

  MIRABILE INTERVENTO, A NOME DELLA CHIESA POLACCA, DI MONS STANISLAW GADECKI AL SINODO

Sabato 10 ottobre, 2015

Desidero sottolineare innanzitutto che questo discorso non è solo la mia opinione personale, ma rappresenta il parere di tutta la Conferenza episcopale polacca.

1. E 'ovvio, che la Chiesa del nostro tempo deve - nello spirito della misericordia - sostenere i divorziati che vivono nuove unioni civili, prendersi cura di loro con un amore speciale in modo che non si sentano tagliati fuori da la Chiesa quando in realtà, come battezzati, hanno il dovere di prendere parte alla vita della Chiesa.
Lasciate quindi che siano incoraggiati ad ascoltare la Parola di Dio, a prendere parte al sacrificio della Santa Messa, a perseverare nella preghiera, a sostenere le opere di carità e di iniziative comuni per la giustizia, ad educare i figli nella fede cristiana così come a coltivare uno spirito di penitenza con atti di penitenza, in modo che in questo modo, giorno dopo giorno, possono lavorare per la grazia di Dio. Lasciate che la Chiesa mostri se stessa come una Madre misericordiosa e in questo modo li fortifichi nella fede e nella speranza. (Papa Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 84)

2. Tuttavia la Chiesa, nell'insegnamento della somministrazione della Comunione ai divorziati che vivono nuove unioni civili, non può piegarsi alla volontà della persona, ma alla volontà di Cristo(cfr Paolo VI, "Discorso alla Rota Romana," 28.01 0,1978; Papa Giovanni Paolo II, "Discorso alla Rota Romana," 1992/01/23, 1996/01/29). 
La Chiesa non può permettersi di essere subordinata nè a falsi sentimentalismi nei confronti delle persone nè a falsi, anche se popolari, modelli di pensiero.

Convenire sul fatto che coloro che vivono more uxorio ["come se fossero sposati"] in unioni non sacramentali potrebbero essere in grado di ricevere la Santa Comunione è contro la Tradizione della Chiesa. Già fin dai primi sinodi Elwira, Arles, Neocezaria, che ha avuto luogo negli anni 304-319, i documenti confermano la dottrina della Chiesa, (cioè) che i divorziati risposati non possono ricevere la Santa Comunione.
La base di questo assunto sta nel fatto che il loro stato e il modo di vita è oggettivamente una negazione del vincolo di amore tra Cristo e la Chiesa ", che si esprime e realizza nell'Eucaristia" (Papa Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio , 84;. por 1 Kor 11, 27-29, Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 29; Francesco, Angelus, 16 Agosto 2015).

3. L'Eucaristia è il sacramento per i battezzati che vivono in uno stato di grazia sacramentale. Concedere Il permesso di ricevere la Santa Comunione a coloro che non sono in stato di grazia arrecherebbe un danno immenso alla grazia santificante, non solo nel ministero pastorale per le famiglie, ma anche nella dottrina della Chiesa.
In realtà la decisione di dare loro la Santa Comunione aprirebbe le porte a questo sacramento a tutti coloro che vivono in peccato mortale. Di conseguenza questo cancellerebbe il significato del sacramento della penitenza e distorcerebbe il senso della vita vissuta in stato di grazia. E ' inoltre necessario sottolineare che la Chiesa non può accettare il cosiddetto gradualismo della legge. (Papa Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 34).

( fonte Church Militant)

 
foto di Hermann Sta.
 


Caterina63
00mercoledì 14 ottobre 2015 17:28

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 31 luglio 1968


 

La premessa, i motivi, le finalità dell'Enciclica «Humanae vitae»

PRESENTAZIONE POSITIVA DELLA MORALE CONIUGALE IN ORDINE ALLA SUA VOCAZIONE

Diletti Figli e Figlie!

Le nostre parole hanno oggi un tema obbligato dalla Enciclica, intitolata Humanae vitae, che abbiamo pubblicato in questa settimana circa la regolazione della natalità. Riteniamo che vi sia noto il testo di questo documento pontificio, o almeno il suo contenuto essenziale, che non è soltanto la dichiarazione d’una legge morale negativa, cioè l’esclusione d’ogni azione, che si proponga di rendere impossibile la procreazione (n. 14), ma è soprattutto la presentazione positiva della moralità coniugale in ordine alla sua missione d’amore e di fecondità «nella visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna» (n. 7).

È il chiarimento d’un capitolo fondamentale della vita personale, coniugale, familiare e sociale dell’uomo, ma non è la trattazione completa di quanto riguarda l’essere umano nel campo del matrimonio, della famiglia, dell’onestà dei costumi, campo immenso nel quale il magistero della Chiesa potrà e dovrà forse ritornare con disegno più ampio, organico e sintetico.

Risponde questa Enciclica a questioni, a dubbi, a tendenze, su cui la discussione, come tutti sanno, si è fatta in questi ultimi tempi assai ampia e vivace, e su cui la Nostra funzione dottrinale e pastorale è stata fortemente interessata. Non vi parleremo adesso di questo documento, sia per la delicatezza e la gravità del tema, che Ci sembrano trascendere la semplicità popolare del presente settimanale discorso, sia per il fatto che non mancano già e non mancheranno, intorno all’Enciclica, pubblicazioni a disposizione di quanti s’interessano del tema stesso (cfr. ad esempio: G. Martelet, Amour conjugal et renouveau conciliaire).

A voi diremo semplicemente qualche parola non tanto sul documento in questione, quanto su alcuni Nostri sentimenti, che hanno riempito il Nostro animo nel periodo non breve della sua preparazione.

UNO STUDIO COMPLETO PROFONDO SOFFERTO PER RISOLVERE IL GRAVE PROBLEMA

Il primo sentimento è stato quello d’una Nostra gravissima responsabilità. Esso Ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e alla elaborazione di questa Enciclica. Vi confideremo che tale sentimento Ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente. Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del Nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato.
Alcune circostanze a ciò relative vi sono note: dovevamo rispondere alla Chiesa, all’umanità intera; dovevamo valutare, con l’impegno e insieme con la libertà del Nostro compito apostolico, una tradizione dottrinale, non solo secolare, ma recente, quella dei Nostri tre immediati Predecessori; eravamo obbligati a fare Nostro l’insegnamento del Concilio da Noi stessi promulgato; Ci sentivamo propensi ad accogliere, fin dove Ci sembrava di poterlo fare, le conclusioni, per quanto di carattere consultivo, della Commissione istituita da Papa Giovanni: di venerata memoria, e da Noi stessi ampliata, ma insieme doverosamente prudenti; sapevamo delle discussioni accese con tanta passione ed anche con tanta autorità, su questo importantissimo tema; sentivamo le voci fragorose dell’opinione pubblica e della stampa; ascoltavamo quelle più tenui, ma assai penetranti nel Nostro cuore di padre e di pastore, di tante persone, di donne rispettabilissime specialmente, angustiate dal difficile problema e dall’ancor più difficile loro esperienza; leggevamo le relazioni scientifiche circa le allarmanti questioni demografiche nel mondo, suffragate spesso da studi di esperti e da programmi governativi; venivano a Noi da varie parti pubblicazioni, ispirate alcune dall’esame di particolari aspetti scientifici del problema, ovvero altre da considerazioni realistiche di molte e gravi condizioni sociologiche, oppure da quelle, oggi tanto imperiose, delle mutazioni irrompenti in ogni settore della vita moderna . . .

Quante volte abbiamo avuto l’impressione di essere quasi soverchiati da questo cumolo di documentazioni, e quante volte, umanamente parlando, abbiamo avvertito l’inadeguatezza della Nostra povera persona al formidabile obbligo apostolico di doverCi pronunciare al riguardo; quante volte abbiamo trepidato davanti al dilemma d’una facile condiscendenza alle opinioni correnti, ovvero d’una sentenza male sopportata dall’odierna società, o che fosse arbitrariamente troppo grave per la vita coniugale!

LA COSCIENZA DEL PADRE APERTA ALLA VOCE DELLA VERITÀ E DELLA NORMA DIVINA

Ci siamo valsi di molte consultazioni particolari di persone di alto valore morale, scientifico e pastorale; e, invocando i lumi dello Spirito Santo, abbiamo messo la Nostra coscienza nella piena e libera disponibilità alla voce della verità, cercando d’interpretare la norma divina che vediamo scaturire dall’intrinseca esigenza dell’autentico amore umano, dalle strutture essenziali dell’istituto matrimoniale, dalla dignità personale degli sposi, dalla loro missione al servizio della vita, non che dalla santità del coniugio cristiano; abbiamo riflesso sopra gli elementi stabili della dottrina tradizionale e vigente della Chiesa, specialmente poi sopra gli insegnamenti del recente Concilio, abbiamo ponderato le conseguenze dell’una o dell’altra decisione; e non abbiamo avuto dubbio sul Nostro dovere di pronunciare la Nostra sentenza nei termini espressi dalla presente Enciclica.

ESATTA VALUTAZIONE PASTORALE DEI LECITI SUGGERIMENTI DELLA SCIENZA E DELLA REALTÀ SOCIOLOGICA

Un altro sentimento, che Ci ha sempre guidato nel Nostro lavoro, è quello della carità, della sensibilità pastorale verso coloro che sono chiamati a integrare nella vita coniugale e nella famiglia la loro singola personalità; e abbiamo volentieri seguito la concezione personalistica, propria della dottrina conciliare, circa la società coniugale, dando così all’amore, che la genera e che la alimenta, il posto preminente che gli conviene nella valutazione soggettiva del matrimonio; abbiamo accolto poi tutti i suggerimenti formulati nel campo della liceità, per agevolare l’osservanza della norma riaffermata.
Abbiamo voluto aggiungere all’esposizione dottrinale qualche indicazione pratica di carattere pastorale. Abbiamo onorato la funzione degli uomini di scienza per il proseguimento degli studi sui processi biologici della natalità e per la retta applicazione dei rimedi terapeutici e della norma morale a ciò inerente.
Abbiamo riconosciuto ai coniugi la loro responsabilità e quindi la loro libertà, quali ministri del disegno di Dio sulla vita umana, interpretato dal magistero della Chiesa, per il loro bene personale e per quello dei loro figli. E abbiamo accennato all’intento superiore che ispira la dottrina e la pratica della Chiesa, quello di giovare agli uomini, di difendere la loro dignità, di comprenderli e di sostenerli nelle loro difficoltà, di educarli a vigile senso di responsabilità, a forte e serena padronanza di sé, a coraggiosa concezione dei grandi e comuni doveri della vita e dei sacrifici inerenti alla pratica della virtù e alla costruzione d’un focolare fecondo e felice.

VIVA FIDUCIA NEGLI SPOSI CRISTIANI E IN TUTTO IL POPOLO DI DIO

E finalmente un sentimento di speranza ha accompagnato la laboriosa redazione di questo documento; la speranza ch’esso, quasi per virtù propria, per la sua umana verità, sarà bene accolto, nonostante la diversità di opinioni oggi largamente diffusa, e nonostante la difficoltà che la via tracciata può presentare a chi la vuole fedelmente percorrere, ed anche a chi la deve candidamente insegnare, con l’aiuto del Dio della vita, s’intende; la speranza, che gli studiosi specialmente sapranno scoprire nel documento stesso il filo genuino, che lo collega con la concezione cristiana della vita, e che Ci autorizza a far Nostra la parola dell’Apostolo: «Nos autem sensum Christi habemus», noi poi teniamo il pensiero di Cristo (1 Cor. 2, 16). E la speranza infine che saranno gli sposi cristiani a comprendere come la Nostra parola, per severa ed ardua che possa sembrare, vuol essere interprete dell’autenticità del loro amore, chiamato a trasfigurare se stesso nell’imitazione di quello di Cristo per la sua mistica sposa, la Chiesa; e che essi per primi sapranno dare sviluppo ad ogni pratico movimento inteso ad assistere la famiglia nelle sue necessità, a farla fiorire nella sua integrità, e ad infondere nella famiglia moderna la spiritualità sua propria, fonte di perfezione per i singoli suoi membri e di testimonianza morale nella società (cfr. Apostolicam actuositatem, n. 11; Gaudium et Spes, n. 48).

È, come vedete, Figli carissimi, una questione particolare, che considera un aspetto estremamente delicato e grave dell’umana esistenza; e come Noi abbiamo cercato di studiarlo e di esporlo con la verità e con la carità che tale tema voleva dal Nostro magistero e dal Nostro ministero, così a voi tutti, interessati direttamente che voi siate o no alla questione stessa, chiediamo di volerlo considerare col rispetto che merita, nell’ampio e luminoso quadro della vita cristiana.

Con la Nostra Benedizione Apostolica.


Saluto a studenti di varie Nazioni presso l’Università del Sacro Cuore

Di un saluto particolare. siamo debitori al gruppo di Alunni, che partecipano ai «Corsi estivi di lingua e cultura italiana per stranieri», organizzati dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, nella sua sede di Roma. È una iniziativa assai meritevole, che, aggiungendosi alle altre numerose, provvidamente istituite dal diletto Ateneo Cattolico, raduna ogni anno giovani di innumerevoli Nazioni, accomunati dal desiderio di approfondire la conoscenza della lingua d’Italia, e di particolari aspetti della storia della civiltà italiana. E, ogni anno, abbiamo il piacere di incontrarCi con codesta eletta rappresentanza di gioventù studiosa internazionale.

La vostra presenza Ci procura viva consolazione, perché vediamo in voi gli antesignani e gli ambasciatori di un’intesa pacifica tra i popoli, i realizzatori di una promettente fusione di menti e di cuori, quale la Chiesa auspica e l’umanità aspetta. Tornando ai vostri Paesi di origine, porterete il ricordo di queste costruttive giornate di studio e di collaborazione; sarete un fermento di pace e di progresso; vi impegnerete alla costruzione di una società sempre più giusta e armoniosa, fondata sul rispetto della persona e sulla perennità dei valori dello spirito.

È questo il Nostro augurio, con cui vi accompagniamo all’inizio dei vostri Corsi, invocando ogni eletto dono del Signore su di voi, su le vostre aspirazioni e studi, sui vostri Cari lontani, mentre esprimiamo il Nostro compiacimento alla Direzione e al Corpo insegnante: con l’Apostolica Nostra Benedizione.





 

QUANDO IL MITE PAOLO VI PERSE LE STAFFE CONTRO CHI VOLEVA SABOTARE LA DOTTRINA SUL MATRIMONIO

Quando il mite Paolo VI perse le staffe contro chi voleva sabotare la dottrina sul matrimonio

Testo tratto da Giuseppe Virgilio,Paolo VI dimenticato. «La Chiesa può dirsi conservatrice», pp.21-22

 

«Riportiamo una parte del verbale redatto dal Segretario generale Pericle Felici di una riunione tenutasi nello studio papale la mattina del 26 Novembre 1965 per discutere del ricorso fatto da Monsignor Luigi Carli, circa la mancata accoglienza, nei modi presentati in Aula Conciliare, della petizione, sottoscritta da numerosi padri. riguardante la condanna del comunismo. 

Alla fine della riunione il Papa coglie l’occasione per protestare contro la Commissione, che aveva opposto resistenza alla sua richiesta di citare gli insegnamenti di Pio XI e Pio XII circa il matrimonio. Il tono del Papa è fermo e ci rivela un inedito Paolo VI.

Inoltre le parole da lui pronunciate, a nostro modesto avviso, ci mostrano un Papa che, riguardo al matrimonio e all’uso degli anticoncezionali, ha le idee ben chiare già prima della contestatissima Humanae Vitae del 1968.
Questo sminuirebbe inoltre la vulgata di un Papa angosciato e indeciso nell’iter che ha preceduto la pubblicazione dell’Humanae Vitae. L’angoscia, se c’è stata, a nostro parere, è come quella del Getsemani: ha preceduto la crocifissione che avrebbe seguito la promulgazione della sua ultima enciclica.


Ex.mus PERICLES FELICI

Secretarius generalis Concilii

ANNOTATIO EX OFFICIO

26 Novembre 1965

Ore 9, nello studio del Santo Padre (III piano) sono presenti i Cardd. Tisserant e Cicognani, Monsignor Garrone, Monsignor Dell’Acqua ed io. Presiede il Santo Padre […].

Passando poi a parlare delle proposte fatte dal Papa sulle questioni del matrimonio, il Papa esprime il suo disappunto per la reazione provocata nella Commissione; comunque Egli accetta pure altre formulazioni, purché rispondano al suo pensiero: se gli altri hanno la coscienza, anch’egli ha la sua, e deve seguirla, per non compromettere la vera dottrina della Chiesa, che in tutto lo schema non è sempre esposta con la dovuta limpidezza. E, poi, cos’è tutto questo parlare di amore, amore, amore, senza dire che il fine primario del matrimonio è il bonum prolis? E perché non denunziare gli antifecondativi e i contraccettivi, quando si condanna l’aborto e l’infanticidio? […].[1]

+ Pericle Felici segr. gen


[1] Acta Synodalia Sacrosancti Concillii Oecumenici Vaticani II. Volumen V .Processus Verbales. Commissio de  concilii laboribus coordinandis ( Sessiones XVIII-XXIII: 15 octobris 1964-1 Decembris 1965). Moderatores ( 30 Octobris 1963-26 Octobris 1965 ), pp.609-610».

 






EDITORIALE
Papa Paolo VI
 

«La condizione presente della fede esige un maggiore sforzo, perché  tale parola nella sua pienezza e (...) le opere compiute da Dio siano mostrate senza alcuna adulterazione». Lo scriveva Papa Paolo VI nel 1970, nella sua Esortazione apostolica Quinque iam anni II. Un testo (clicca qui) da meditare anche in questi tempi difficili.

di Paolo VI

Per la loro estrema attualità e per comprendere l'origine del disorientamento oggi presente nella Chiesa, riproponiamo alcuni passaggi di un documento scritto da papa Paolo VI nel lontano 1970.

 

Esortazione apostolica Quinque iam anni (8.12.1970) A cinque anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, n. II in EV 3/2874-2876.

 

/ n. 2874 > / (...) la condizione presente della fede esige da parte di noi tutti un maggiore sforzo, perché tale parola, nella sua pienezza, giunga ai nostri contemporanei e le opere compiute da Dio siano a essi mostrate senza alcuna adulterazione, con tutta l’intensità d’amore della verità che li salva. Infatti, nel momento stesso in cui 

- la proclamazione della parola di Dio nella liturgia registra, grazie al Concilio, un meraviglioso rinnovamento;

- l’uso della Sacra Scrittura diventa sempre più familiare in mezzo al popolo cristiano;

- i progressi della catechesi, purché attuati secondo gli orientamenti conciliari, permettono di evangelizzare in profondità;

- la ricerca biblica, patristica e teologica offre spesso un prezioso contributo all’espressione viva del dato rivelato:

ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. 

Tali sono: i dogmi della SS. Trinità e cristologico, il mistero della SS. Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Sacra Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione.

n. 2875 > / Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo,vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla tradizione ininterrotta, che lo ricollega alla fede degli apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi.

n. 2876 > / Eccoci allora chiamati - noi tutti che abbiamo ricevuto, con l’imposizione delle mani, laresponsabilità di conservare puro e integro il deposito della fede e la missione di annunciare incessantemente il Vangelo - a offrire la testimonianza dalla nostra comune obbedienza al Signore. Per il popolo, che ci è stato affidato, è diritto imprescindibile e sacro il ricevere la parola di Dio, tutta la parola di Dio, di cui la Chiesa non ha cessato di acquistare una sempre più profonda comprensione. Per noi è grave e urgente dovere di annunciargliela instancabilmente, perché esso cresca nella fede e nella intelligenza del messaggio cristiano e dia testimonianza, con tutta la sua vita, della salvezza in Gesù Cristo.

   














Caterina63
00venerdì 23 ottobre 2015 16:06
[SM=g1740722]

PRIMA DELL'EPILOGO SINODALE, LA PAROLA A RATZINGER: «ECCO I PADRI CHE TOLGONO I PECCATI DEL MONDO»

da «Una compagnia sempre riformanda», discorso tenuto dal cardinale Joseph Ratzinger al Meeting di Rimini del 1990


Ratzinger, Meeting di Rimini 1990//Discorso di Sua Eminenza il Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

"Gli sbarramenti che la Chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, poiché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del traffico, affinché la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Esse riguardano il mio cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Esse esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il dolore della rinuncia. Non si vuole forse negarci i frutti più belli del giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? E il pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l'uscita da una simile tutela spirituale? E l'unica vera riforma, non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora cosa rimane ancora di questa compagnia?

L'amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti, in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili costrizioni, si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà, in cui di tanto in tanto ci si può ritirare. "


e ancora leggiamo [SM=g1740733]


«Là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi.
A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: “Ecce patres, qui tollunt peccata mundi”! Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi “moralisti”, non c’è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato.

Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò, come essi ritengono, non hanno bisogno di lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di lui. La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il “prezzo d’acquisto”, l’“equivalente nello scambio”, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra “morale-perdono-espiazione” non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto.

E proprio per la circolarità tra “morale-perdono-espiazione”, pur nella difficoltà di comunicare, ricorda che alla Chiesa non basta rimettere tutto alla giustizia terrena, perché il proprio della Chiesa è l’ordine della grazia, che va al di là della legge, e significa “fare penitenza, riconoscere ciò che si è sbagliato, aprirsi al perdono, lasciarsi trasformare”».

www.youtube.com/watch?v=DAfBfpOSIok


qui invece troverete il testo integrale
difenderelafede.freeforumzone.leonardo.it/d/8746849/Non-di-una-Chiesa-pi%C3%B9-umana-abbiamo-bisogno-ma-di-una-Chiesa-DIVINA-Ratzinger-1990-/discussi...










[SM=g1740736]




Caterina63
00sabato 31 ottobre 2015 18:18
San Giovanni Paolo II
 

Venti anni fa Giovanni Paolo II pubblicava l’enciclica Evangelium vitae. In questo ventennio, l’aborto è passato da eccezione a "diritto" e nella Chiesa ormai ci si convive. Quali le cause di questo fallimento? Perché anche nella Chiesa è penetrato un nuovo paradigma del pensiero filosofico e teologico, secondo il quale la vita di fede avviene dentro l'esistenza storica. In questa prospettiva cessano di esistere azioni intrinsecamente cattive, perché nella complessità dell’esistenza occorre sempre interpretare.

di Stefano Fontana

Venti anni fa Giovanni Paolo II pubblicava l’enciclicaEvangelium vitae (25 marzo 1995) “sul valore e l’inviolabilità della vita umana”. Fatto salvo l’impegno di quanti in questi anni si sono impegnati e si impegnano per la vita, il suo bilancio non lascia soddisfatti. L’aborto è passato da eccezione a diritto e nella Chiesa ormai ci si convive, raramente i pastori intervengono e si è formata un’ampia opinione contraria alla mobilitazione sociale e politica su questo tema. 

Quali le cause di questo fallimento? L’enciclica di San Giovanni Paolo II sulla vita si collocava in un contesto di pensiero filosofico e teologico costituito, oltre dall’enciclica suddetta, anche dalla Fides et ratio (1998) sul rapporto tra la fede e la ragione e dalla Veritatis splendor (1993) su alcune questioni relative alla morale. Bisogna chiedersi se quel quadro sia oggi ritenuto ancora valido o se sia penetrato nella Chiesa un nuovo “paradigma”, all’interno del quale le riflessioni della Evangelium vitae non trovano più il respiro necessario. 

Secondo il paradigma “delle tre encicliche” il tema della vita è collocato all’interno di un ordine sociale naturale perché gli uomini, come dice il bellissimo paragrafo 20 della Evangelium vitae, non sono ammucchiati uno sull’altro come dei sassi, ma esiste un ordine naturale della vita sociale e politica che gli uomini possono conoscere con le loro capacità naturali e difendere con le loro volontà naturali, nonostante non riescano mai pienamente a farlo a causa del peccato delle origini, in conseguenza del quale anche per raggiungere i propri fini naturali c’è bisogno della rivelazione e della grazia. La Evangelium vitae rimanda quindi alla dimensione dell’indisponibile – tra cui il mistero della vita e la dignità della procreazione in stretta continuità con laHumanae vitae di Paolo VI e la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II – che noi possiamo già conoscere sul piano naturale ma che diventa pienamente comprensibile sul piano soprannaturale. 

E proprio questo incontro era il tema della Fides et ratio, secondo la quale l’uomo è capace di Dio perché è capace dell’essere e può conoscere l’ordine delle cose e collocarne la conoscenza in un universo di senso, in un “cosmo della ragione” come poi dirà Benedetto XVI

L’uomo è capace di moralità (ecco la Veritatis splendor), perché è capace dell’essere. La sua libertà si configura pienamente quando si lascia vincere dalla verità, la sua coscienza trova pienamente se stessa quando è riempita dalla realtà, tra legge e coscienza non c’è opposizione in quanto la legge esprime la verità del bene umano di cui la coscienza ha una nozione connaturale. Poiché l’uomo è capace dell’essere, egli vede le cose ordinate finalisticamente a Dio e ciò rappresenta per lui un dovere morale. Vede anche scelte che non possono essere mai ordinate a Dio, che sono disordinate intrinsecamente e che quindi non si possono mai fare.

Ma per il secondo paradigma, nel frattempo subentrato, le cose stanno diversamente e i concetti di natura umana, di ordine naturale e sociale, di peccato, di finalismo, di coscienza e di moralità sono cambiate radicalmente. 

La vita di fede, secondo questo paradigma, avviene dentro l’esistenza storica e non ci mette mai davanti all’essere né davanti a Dio come Essere, ma sempre davanti, o meglio dentro, alle nostre situazioni, che non possiamo trascendere. Non abbiamo accesso all’essere e alla verità, ma solo alle nostre progressive interpretazioni dall’interno dell’esistenza. Dio si rivela in questo modo, non mediante delle verità di ordine trascendente che entrano nella storia, ma mediante la storia stessa e la sua progressiva evoluzione. La rivelazione è storica e progressiva ed avviene in tutti gli uomini e non solo nella Chiesa.

In questa prospettiva diventa impossibile parlare di un ordine naturale e sociale. Dal punto di vista esistenziale tutto è come mescolato con tutto: le persone, nelle situazioni esistenziali, sono contemporaneamente nella verità e nell’errore, sono maschili e insieme femminili, credenti e contemporaneamente atei, giusti e peccatori. Non possiamo mai sapere se siamo in peccato, non esistono azioni intrinsecamente cattive perché nella complessità dell’esistenza occorre sempre interpretare, sapendo di non finire mai di farlo. L’esistenza è un susseguirsi di situazioni tutte diverse tra loro e la ridda dei fenomeni non permette di conoscere nessuna struttura permanente e solida.

Non ci sono più nemici, nonostante la Evangelium vitae parlasse di «uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e la vita, la cultura della morte e la cultura della vita» (n. 28), né battaglie da combattere, né processi legislativi da influenzare con la forza della presenza e della manifestazione. La manifestazione del 20 giugno 2015 organizzata dal Comitato “Difendiamo i nostri figli”, le veglie delle Sentinelle in piedi oppure l’opposizione al gender oggi vengono valutati negativamente, anche da parroci e Vescovi, come qualcosa che contrasta con la vera pastorale della Chiesa che non dovrebbe mai essere di contrapposizione, ma solo di dialogo.

Il congelamento della Evangelium vitae è dovuto al progressivo indebolimento del quadro di pensiero costituito dal plesso delle tre encicliche di San Giovanni Paolo II, dentro il quale si inseriva – come a casa propria – l’enciclica sulla vita. Sono bastati solo dodici anni dalla morte di Giovanni Paolo II (2 aprile 2005) e solo un anno dalla sua canonizzazione (27 aprile 2014), per trascurare questi suoi insegnamenti tanto importanti. 

Bisogna però tenere conto di due cose. La prima è che queste teorie erano già presenti all’epoca delle tre encicliche. La seconda è che nella Chiesa molti fedeli pensano tuttora che questa sia la via da seguire. E tra costoro pongo anche me stesso.




LETTERA
Inferno
 

Lettera a mia nipote Olivia nata un mese fa per spiegare il mondo e la Chiesa che troverà tra vent'anni, quando magari penserà di sposarsi. Stiamo assistendo al trionfo della gnosi, con l'annientamento delle autorità morali e la confusione ispirata dagli stessi pastori. Una situazione che fa perdere la strada della salvezza a tante anime.

di Ettore Gotti Tedeschi


Lettera a mia nipote Olivia, nata un mese fa, da leggersi tra venti anni per capire il mondo in cui si troverà.

Cara Olivia,

fra 20 anni potresti desiderare di sposarti, ma quello che sarà il sacramento matrimoniale fra 20 anni dipenderà da noi oggi, o meglio, dipenderà dall’assise dei fedeli, via referendum….  Un Sinodo sul matrimonio si è concluso qualche giorno fa e leggendo i giornali si direbbe che hanno trionfato tutti (progressisti e conservatori), proprio come succede dopo le elezioni politiche cui siamo abituati. Anche se, leggendo la lettera al Corriere della Sera (27ottobre) del segretario del Sinodo (card. Baldisseri), si ha l’impressione che chi deciderà saranno gli utenti (il popolo di Dio) che verranno consultati con questionario per evidenziare il sensus fidei. Ciò perché il gregge possiede il proprio “fiuto” per discernere ciò che la Chiesa deve fare in una materia che riguarda loro. E poi la voce dello Spirito Santo risuona anche nella voce dei credenti, naturalmente. A questo punto, per capire quale sacramento ti attende, temo che dovremo attendere l’assemblea giudicante dei fedeli interessati alla materia…  

Cara Olivia,
ogni epoca ha sempre avuto le sue miserie, tragedie e grandezze. Ciò è stato fin quando l’uomo ha cercato di dare un senso alla propria vita ed azioni. E ciò è sempre successo perché le autorità morali delle varie religioni volevano e cercavano di spiegare le ragioni del bene e del male. La tua epoca rischia invece di veder scomparire le autorità morali, relativizzate ed omogeneizzate nel mondo globale, con il pretesto di evitare conflitti globali dovuti alla affermazione di dogmi e fondamentalismi, proposti soprattutto in contesti di evangelizzazione. Temo che le autorità morali non saranno più le stesse e questo con pregiudizio sulla conoscenza della Verità e della conquista della fede. Te ne accorgerai fra qualche anno quando farai catechismo. 

A chi attribuire la responsabilità di tutto ciò se non alla gnosi che sta vincendo ovunque? In filosofia, essendo riuscita a relativizzare persino ciò che è assoluto. In antropologia, essendo riuscita a far autoridurre l’uomo ad animale più o meno intelligente, ma cancro della natura. In economia, essendo riuscita a far credere che sia la miseria economica a provocare quella morale. In scienza e tecnica, riuscendo a far credere che debbano entrambe avere autonomia morale. Le autorità morali (delle varie religioni) reagiscono differentemente a questa azione di ridimensionamento. In alcuni ambiti e culture reagiscono violentemente. In altri, si lasciano intimidire per timore di esser emarginate e, per non esser considerate fondamentaliste, arrivano persino a giustificare e camuffare abilmente il peccato, l’errore, il disordine.

Olivia, 
il mondo in cui diventerai grande confermerà la teoria evoluzionistica, ma al contrario: l’uomo creatura di Dio si sta evolvendo in selvaggio. In questo mondo, in cui diverrai grande, fronteggerai alcuni rischi per superare i quali dovrai essere ben preparata. Il primo rischio starà nel non saper comprendere se la Verità venga prima o dopo la libertà di cercarla, e se nasca o no solo dal dialogo con altre verità. Il secondo rischio starà nel non riuscire a comprendere quale è l’origine dei mali che affliggono l’uomo, se è veramente l’inequità economica o l’iniquità morale. Altro rischio sarà faticare a comprendere la sottile difficoltà a scegliere tra misericordia e giustizia, quando queste sembrano esser in conflitto. Questi, e tanti altri, rischi diventano più gravi quando le autorità morali confondono le acque, rinunciando a ispirare e correggere le idee ed i comportamenti dell’uomo, e adeguandosi invece agli stessi, scusando e includendo, anziché pensare a convertire. Ciò, adeguandosi ai tempi che chiedono dinamicità evolutiva sulla comprensione delle leggi naturali. 

Certo la Santa Chiesa, nel tempo, ha saputo, grazie ai Santi, operare cambiamenti per rettificare gli errori (degli uomini): si pensi alle eresie, al protestantesimo, al modernismo. Ma oggi la gnosi riesce persino a negare la verità dove dovrebbe essere e mettere la libertà di coscienza dove non dovrebbe stare. La gnosi oggi riesce a negare alla Chiesa il diritto di evangelizzare (per rispetto delle altre culture), chiedendole invece di lasciare alla coscienza (malformata come mai) decidere cosa sia bene o male. Ciò equivale a chiedere a un cieco di passare un semaforo dove non può veder il rosso e rischiare di farsi investire. Si chiede alla Chiesa di lasciare all’uomo la libertà di stabilire in coscienza cosa è bene per lui, non riflettendo che equivale a metter un topolino davanti a un formaggino messo nella trappola ben camuffata. Si chiede alla Chiesa di lasciare ai pastori decidere la maturità di coscienza dei fedeli per tornare al gregge, quando son gli stessi pastori che li hanno fatti uscire. 

Ecco, tutto ciò mi permette di spiegarti, cara Olivia, perché c’è il riscaldamento terrestre globale. C’è grazie al numero esagerato di anime che vanno a bruciare all’inferno, grazie alla confusione sulla dottrina. 




IL RISCHIO DI UNA NUOVA DOTTRINA C'E'  E SE ACCADESSE, SAREBBE UN VERO CATACLISMA.....






Il noto filosofo francese, Thibaud Collin, ha scritto sul quotidiano francese La Croix, dove ha un suo blog, un interessante analisi del sinodo appena concluso.

Per fare un bilancio del lungo cammino il filosofo ritiene utile porsi nella “prospettiva dell’intenzione del Papa che l’ha convocato”. L’orizzonte è quella “conversione pastorale” più volte richiamata nelle “sue dichiarazioni e nelle sue scelte”, con l’obiettivo di una “chiesa ospedale da campo”.

Secondo Collin, “il Santo Padre desidera eliminare alcuni ostacoli che rendono incomprensibile e anche scandaloso agli occhi dei nostri contemporanei la morale della Chiesa sulla sessualità e il matrimonio. Riprendendo di fatto l’agenda del cardinale Martini esposta nel 1999 al sinodo sull’Europa, egli cerca di sciogliere alcuni nodi disciplinari”.

Francesco vuole “una chiesa vicina alle vulnerabilità delle persone, ai loro fallimenti e ai loro tortuosi percorsi biografici”. Vorrebbe, quindi, “una Chiesa amorevole e tenera e non più una Chiesa altezzosa e colpevolizzanti”.

La discussione al sinodo si è comunque concetrata sulla questione dell’accesso all’Eucaristia dei divoriziati risposati. Ma, dice Collin, “questo argomento è diventato centrale non per una moda dettata dai media, ma per volontà stessa del Papa che di ritorno dalla GMG di Rio (estate 2013) ha avviato il dibattito, e poi ha chiesto al cardinale Kasper, celebre oppositore di Giovanni Paolo II e Bendetto XVI sull’argomento, di aprire la riflessione e di porre la problematica al concistoro del febbraio 2014”.

E’ evidente “che i tre numeri del testo finale del Sinodo riferiti a questo tema (n°84, 85 e 86) non concludono il problema. E per una buona ragione…questi numeri sono il frutto del compromesso maturato nel circolo Germanicus, in cui vi erano i cardinali Kasper e Muller.”

Frutto di questo incontro fra posizioni agli antipodi ha prodotto un testo che “può essere letto secondo due ermeneutiche opposte, quella della rottura con il magistero anteriore, o anche quello della continuità. Un segno di questa indeterminazione è che i tre testi che servono da riferimento (FC 84, CCC 1735 e la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 24/06/2002) sono indicati in modo così incompleto che possono legittimare sia una interpretazione che conferma lo status quo ante (con l’idea che un testo deve essere compreso secondo la sua propria logica e il suo contesto), sia una interpretazione legittimante la “novità pastorale” (secondo l’idea che il silenzio volontario o l’omissione significhino una presa di distanza)”.

Secondo Collin la soluzione del “foro interno” finisce per non essere una soluzione, ma semplicemente il sinodo “rimanda al mittente”, il Papa, la risposta chiara sulla questione. Infatti, può “un prete, in certi casi, dare l’assoluzione a un fedele che si trova in una situazione coniugale oggettivamente in contraddizione con il sacramento del matrimonio? Se questo fosse il caso, è difficile non vedere una messa in discussione di fatto della dottrina dell’indissolubilità e di Familiaris Consortio (il n°84…letto nella sua interezza)”




Mons. Fulton Sheen: "Il Falso Profeta e l'Anticristo"

 
Il vescovo statunitense Fulton Sheen è ricordato, oltre che come teologo grave e profondo, anche come eccellente comunicatore attraverso la radio, la stampa e la Tv. Tenne conferenze, molto seguite, sia in patria che all’estero, nelle quali appassionava e conquistava l'uditorio.

Nel 1930, alla NBC, teneva un programma fisso la domenica sera:  L’ora cattolica.
 
Un'attività fruttuosa di conversioni. 

Fu nominato vescovo da Pio XII e mandato come Ausiliare a New York, ma continuò nella sua attività di conferenziere e scrittore. Ricordiamo: La pace dell’animaLa felicità del cuoreIl primo amore del mondo (sulla Vergine), La filosofia della religione, in cui dimostra come nel nostro tempo la filosofia abbia raggiunto il livello più basso di irrazionalismo con cui guarda con disprezzo assoluto a Dio e alle Verità eterne e indica il cammino della sana ragione, illuminata dalla fede, orientata al Padre, in Cristo, unica Via Verità e Vita. 
Riprendiamo da gloria.tv il testo che segue, che è preceduto da una breve introduzione:
Premessa
L'Arcivescovo Fulton Sheen disse nel 1950: «Stiamo vivendo nei giorni dell'apocalisse gli ultimi giorni della nostra epoca .... Le due grandi forze il Corpo mistico di Cristo e del Corpo Mistico dell'anticristo stanno cominciando a elaborare le linee di battaglia per la fine». (Flynn T & L. Il Tuono di giustizia. Maxkol Communications, Sterling, VA, 1993 p. 20)
Disse anche: «Il Falso Profeta avrà una religione senza croce. Una religione senza un mondo a venire. Una religione per distruggere le religioni. Ci sarà una chiesa contraffatta. La Chiesa di Cristo [la Chiesa cattolica] sarà una. E il falso profeta ne creerà un'altra. La falsa chiesa sarà mondana, ecumenica e globale. Sarà una federazione di chiese. E le religioni formeranno un certo tipo di associazione globale. Un parlamento mondiale delle chiese. Sarà svuotato di ogni contenuto divino e sarà il corpo mistico dell'Anticristo. Il corpo mistico sulla terra oggi avrà il suo Giuda Iscariota, e sarà il falso profeta. Satana lo assumerà tra i nostri vescovi».
Mons. Fulton Sheen sull'anticristo:
L'Anticristo non si chiamerà così; altrimenti avrebbe seguaci. Egli non indosserà calze rosse, né vomiterà zolfo, né porterà un tridente né una coda come Mefistofele nel Faust. Questo per aiutare il Diavolo a convincere gli uomini che egli non esiste. Quando l'uomo lo nega, più diventa potente. Dio ha definito Sé stesso come "Io sono colui che sono", e il Diavolo come "Io sono colui che non sono."

Da nessuna parte nella Sacra Scrittura troviamo descritto il Diavolo come un buffone. Piuttosto è descritto come un angelo caduto dal cielo, come "il principe di questo mondo", il cui scopo è convincerci che non c'è la vita eterna. La sua logica è semplice: se non c'è il paradiso non c'è inferno; se non c'è l'inferno, allora non c'è peccato; se non c'è peccato, allora non c'è nessun giudice, e se non c'è giudizio, allora il male è bene e il bene è il male. Ma come farà a convincerci alla sua religione?
La convinzione russa pre-comunista, è che egli verrà travestito come il Grande umanitario; parlerà di pace, prosperità e abbondanza non come mezzo per condurci a Dio, ma come fini in sé. . .
 
. . . La terza tentazione in cui Satana chiese a Cristo di adorarlo e tutti i regni del mondo sarebbero stati suoi, diventerà la tentazione di avere una nuova religione, senza una croce, una liturgia, senza un mondo a venire, una religione per distruggere una religione, o una politica che è una religione - quella che rende a Cesare anche le cose che sono di Dio.
 
In mezzo a tutto il suo amore per l'umanità e apparente suo discorso di libertà e di uguaglianza, si avrà un grande segreto che egli non dirà a nessuno: egli non crede in Dio. Perché la sua religione sarà la fratellanza senza la paternità di Dio, egli vuole ingannare anche gli eletti. Egli ha istituito una controchiesa che sarà la scimmia della Chiesa, perché lui, il Diavolo, è la scimmia di Dio. Avrà tutte le note e le caratteristiche della Chiesa, ma in senso inverso e svuotata del suo contenuto divino. Sarà un corpo mistico dell'Anticristo che in tutte le cose esteriori somiglierà al corpo mistico di Cristo. . .
 
. . . Ma il XX secolo si unirà alla controchiesa perché sostiene di essere infallibile quando il suo capo visibile parla ex cathedra da Mosca sul tema dell'economia e della politica, e come capo pastore del comunismo mondiale'.
(Arcivescovo Fulton J. Sheen, Communism and the Conscience of the West [Bobbs-Merril Company, Indianapolis, 1948], pp. 24-25)




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