La Quaresima e la Pasqua 2009 qui, con Benedetto XVI

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Caterina63
00martedì 3 febbraio 2009 19:52
Amici, come abbiamo fatto per l'Avvento e il Natale, riporteremo qui tutti i testi più importanti e le Sante Liturgie che il Pontefice svolgerà in questo Tempo...

Cominciamo dal Messaggio per la Quaresima....

Nel messaggio per la Quaresima il Papa invita a privarsi di qualcosa per aiutare gli altri
Il digiuno per essere amici di Dio
e attenti a chi ha bisogno


    "Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo". Lo scrive il Papa nel messaggio per la Quaresima 2009, presentato martedì mattina, 3 febbraio, nella Sala Stampa della Santa Sede. Benedetto XVI invita in particolare le parrocchie a riscoprire la pratica di donare ai poveri i frutti delle rinunce dei fedeli.

    Cari fratelli e sorelle!

    All'inizio della Quaresima, che costituisce un cammino di più intenso allenamento spirituale, la Liturgia ci ripropone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana - la preghiera, l'elemosina, il digiuno - per disporci a celebrare meglio la Pasqua e a fare così esperienza della potenza di Dio che, come ascolteremo nella Veglia pasquale, "sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace" (Preconio pasquale). Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest'anno a riflettere in particolare sul valore e sul senso del digiuno.

La Quaresima infatti richiama alla mente i quaranta giorni di digiuno vissuti dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica. Leggiamo nel Vangelo:  "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4, 1-2). Come Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge (cfr. Es 34, 28), come Elia prima di incontrare il Signore sul monte Oreb (cfr. 1 Re 19, 8 ), così Gesù pregando e digiunando si preparò alla sua missione, il cui inizio fu un duro scontro con il tentatore.

    Possiamo domandarci quale valore e quale senso abbia per noi cristiani il privarci di un qualcosa che sarebbe in se stesso buono e utile per il nostro sostentamento. Le Sacre Scritture e tutta la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce. Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l'invito a digiunare.

Già nelle prime pagine della Sacra Scrittura il Signore comanda all'uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito:  "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire" (Gn 2, 16-17). Commentando l'ingiunzione divina, san Basilio osserva che "il digiuno è stato ordinato in Paradiso", e "il primo comando in tal senso è stato dato ad Adamo". Egli pertanto conclude:  "Il "non devi mangiare" è, dunque, la legge del digiuno e dell'astinenza" (cfr. Sermo de jejunio:  PG 31, 163, 98). Poiché tutti siamo appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l'amicizia con il Signore. Così fece Esdra prima del viaggio di ritorno dall'esilio alla Terra Promessa, invitando il popolo riunito a digiunare "per umiliarci - disse - davanti al nostro Dio" (8, 21). L'Onnipotente ascoltò la loro preghiera e assicurò il suo favore e la sua protezione.

Altrettanto fecero gli abitanti di Ninive che, sensibili all'appello di Giona al pentimento, proclamarono, quale testimonianza della loro sincerità, un digiuno dicendo:  "Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!" (3, 9). Anche allora Dio vide le loro opere e li risparmiò.

    Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio.

Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6, 18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4, 4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr. Gv 4, 34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.

    Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr. At 13, 3; 14, 22; 27, 21; 2 Cor 6, 5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo:  "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43:  PL 52, 320. 332).

    Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio.

Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr. Cap. i). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr. Mt 22, 34-40).

    La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, ii, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva:  "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3:  PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo:  la fame e sete di Dio.

    Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce:  "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3, 17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr. Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo.

Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr. 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr. Didascalia Ap., v, 20, 18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.

    Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale:  "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".

    Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr. Enc. Veritatis splendor, 21). La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l'anima aprendola all'amore di Dio e del prossimo. Penso in particolare ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al Sacramento della Riconciliazione e nell'attiva partecipazione all'Eucaristia, soprattutto alla Santa Messa domenicale.

Con questa interiore disposizione entriamo nel clima penitenziale della Quaresima. Ci accompagni la Beata Vergine Maria, Causa nostræ laetitiæ, e ci sostenga nello sforzo di liberare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più "tabernacolo vivente di Dio". Con questo augurio, mentre assicuro la mia preghiera perché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra un proficuo itinerario quaresimale, imparto di cuore a tutti la Benedizione Apostolica.

    Dal Vaticano, 11 Dicembre 2008


(©L'Osservatore Romano - 4 febbraio 2009)
Caterina63
00mercoledì 18 febbraio 2009 19:12
Sarà il Cardinale Arinze a presiedere le meditazioni degli esercizi spirituali di Quaresima al Santo Padre e alla Curia romana dal 1° al 7 Marzo

CITTA’ DEL VATICANO - Si terranno dall'1 al 7 marzo e sarà il Cardinale Francis Arinze, Prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, a presiedere le meditazioni degli esercizi spirituali di Quaresima al Papa e alla Curia romana, sul tema: "Il sacerdote incontra Gesù e lo segue".

Durante la settimana saranno sospese tutte le udienze di Benedetto XVI. Il Cardinale Arinze ha festeggiato i 50 anni di sacerdozio lo scorso 23 novembre e a dicembre ha pubblicato "Riflessioni sul sacerdozio. Lettera a un giovane sacerdote".

Per gli esercizi di Quaresima, il porporato svolgerà 17 meditazioni: una, domenica 1 marzo (gli esercizi inizieranno alle 18.00), tre meditazioni al giorno dal 2 al 6 marzo, a ognuna delle quali seguirà l'adorazione e la benedizione Eucaristica, e una sabato 7 marzo, giorno conclusivo degli esercizi, che vedrà anche un intervento di Benedetto XVI.

Il corso di esercizi spirituali si svolgerà nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, e sarà scandito anche dalla recita delle Ore (lodi, ora nona, ora media, vespri).

Il Cardinale Arinze, nato a Eziowelle, in Nigeria, è il secondo africano a predicare gli esercizi di Quaresima. Prima di lui, nel 1984, Giovanni Paolo II aveva chiamato il Cardinale Alexandre do Nascimento, Arcivescovo di Lubango (Angola).

Vi ricordiamo che qui:
 
CARI SACERDOTI Lettera del card. Arinze sull'OBBEDIENZA


il card. Arinze ha dedicato di recente un libro sulla formazione del Sacerdote....e qui:
Omaggio al Card. Francis Arinze
abbiamo dedicato uno spazio per conoscere meglio il card. Arinze....

 [SM=g1740722]
Caterina63
00giovedì 19 febbraio 2009 08:56
Attenzione.....

ricordiamo a tutti che:

25 febbraio, Mercoledì delle Ceneri
Basilica di Sant'Anselmo, ore 16.30
Statio e Processione Penitenziale

Basilica di Santa Sabina, ore 17.00
Santa Messa, benedizione e imposizione delle Ceneri alla presenza del Santo Padre.

Diretta internet:

www.sat2000.it
telepace e
http://www.vatican.va/news_services/television/index_it.htm


Altre date fondamentali del Calendario Pontificio:

# MARZO

1° Domenica
I Domenica di Quaresima

Palazzo Apostolico
Cappella Redemptoris Mater, ore 18
Inizio degli esercizi spirituali per la Curia Romana

7 Sabato
Cappella Redemptoris Mater, ore 9
Conclusione degli esercizi spirituali

17 Martedì - 23 Lunedì
CLICCATE QUI SOTTO PER LA DIRETTA
Viaggio Apostolico in Africa

(Camerun e Angola)
accompagnamo il Papa con la Preghiera e con una Quaresima santa...[SM=g1740733] ..


29 Domenica
V Domenica di Quaresima

Visita pastorale alla Parrocchia del Santo Volto di Gesù alla Magliana
Santa Messa, ore 9

 

# APRILE

2 Giovedì
Basilica Vaticana, ore 18

CAPPELLA PAPALE
Santa Messa nell’Anniversario della morte del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II
con la partecipazione dei giovani di Roma

5 Domenica
Domenica delle Palme e della Passione del Signore

Piazza San Pietro, ore 9.30
Benedizione delle Palme, Processione e Santa Messa

9 Giovedì
Giovedì Santo


Basilica Vaticana, ore 9.30
Santa Messa del Crisma

Basilica di San Giovanni in Laterano, ore 17.30
CAPPELLA PAPALE
Inizio del Triduo Pasquale
Santa Messa nella Cena del Signore

10 Venerdì
Venerdì Santo


Basilica Vaticana, ore 17
CAPPELLA PAPALE
Celebrazione della Passione del Signore

Colosseo, ore 21.15
Via Crucis

11 Sabato
Sabato Santo

Basilica Vaticana, ore 21
CAPPELLA PAPALE
Veglia Pasquale nella notte santa

12 Domenica
Domenica di Pasqua[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740734]

Piazza San Pietro, ore 10.30
Santa Messa del giorno

Loggia centrale della Basilica Vaticana, ore 12
Benedizione "Urbi et Orbi"

www.vatican.va


Caterina63
00mercoledì 25 febbraio 2009 19:05
         
(Benedetto XVI in Processione per il Mercoledì delle Ceneri 25.2.2009)

da Agenzia SIR intanto un riassunto dell'Omelia che posteremo appena in rete...

Santa Quaresima a Tutti voi Sorriso

BENEDETTO XVI: LE “CENERI”, “CIASCUNO INTRAPRENDA UN CAMMINO DI VERA CONVERSIONE”

“Oggi, Mercoledì delle Ceneri - porta liturgica che introduce nella Quaresima -, i testi predisposti per la celebrazione tratteggiano, sia pure sommariamente, l’intera fisionomia del tempo quaresimale. La Chiesa si preoccupa di mostrarci quale debba essere l’orientamento del nostro spirito, e ci fornisce i sussidi divini per percorrere con decisione e coraggio, illuminati già dal fulgore del Mistero pasquale, il singolare itinerario spirituale che stiamo iniziando”: lo ha detto questa sera il Papa in Santa Sabina, aprendo l’omelia per il Mercoledì delle Ceneri.

Nel giorno che tradizionalmente la Chiesa dedica alla contrizione e al riconoscimento dei propri peccati, Benedetto XVI, dopo aver sottolineato che “l’appello alla conversione affiora come tema dominante in tutte le componenti dell’odierna liturgia”, ha quindi richiamato l’invito al popolo cristiano “a pregare perché ciascuno intraprenda ‘un cammino di vera conversione’”.

I tratti caratteristici della proposta spirituale del Mercoledì delle Ceneri sono il riconoscimento del “tarlo della vanità che porta all’ostentazione e all’ipocrisia, alla superficialità e all’autocompiacimento”. Il Papa ha così ribadito “la necessità di nutrire la rettitudine del cuore” indicando “il mezzo per crescere in questa purezza di intenzione: coltivare l’intimità con il Padre celeste”.

Nell’Anno Paolino, il Papa ha poi dedicato una ampia parte dell’omelia del Mercoledì delle Ceneri al commento di vari passi delle lettere paoline in cui si parla di conversione e riconciliazione. “L’Apostolo – ha sottolineato – è cosciente di essere stato scelto come esempio, e questa sua esemplarità riguarda proprio la conversione, la trasformazione della sua vita avvenuta grazie all’amore misericordioso di Dio”.

Più avanti, Benedetto XVI ha aggiunto a proposito di San Paolo: “L’intera sua predicazione, e prima ancora, tutta la sua esistenza missionaria furono sostenute da una spinta interiore riconducibile all’esperienza fondamentale della ‘grazia’ (…) si tratta di una consapevolezza che affiora in ogni suo scritto e ha funzionato come una ‘leva’ interiore su cui Dio ha potuto agire per spingerlo avanti, verso sempre ulteriori confini non solo geografici, ma anche spirituali”.

Ha quindi concluso esortando tutti a “riceve le ceneri sul capo in segno di conversione e di penitenza” aprendo “il cuore all’azione vivificante della Parola di Dio”. Ha così richiamato ad “una più intensa preghiera, uno stile di vita austero e penitenziale”.
Caterina63
00giovedì 26 febbraio 2009 12:32
OMELIA DEL SANTO PADRE Mercoledì delle Ceneri 2009


Cari fratelli e sorelle!

Oggi, Mercoledì delle Ceneri - porta liturgica che introduce nella Quaresima -, i testi predisposti per la celebrazione tratteggiano, sia pure sommariamente, l’intera fisionomia del tempo quaresimale. La Chiesa si preoccupa di mostrarci quale debba essere l’orientamento del nostro spirito, e ci fornisce i sussidi divini per percorrere con decisione e coraggio, illuminati già dal fulgore del Mistero pasquale, il singolare itinerario spirituale che stiamo iniziando.


"Ritornate a me con tutto il cuore". L’appello alla conversione affiora come tema dominante in tutte le componenti dell’odierna liturgia. Già nell’antifona d’ingresso si dice che il Signore dimentica e perdona i peccati di quanti si convertono; nella colletta si invita il popolo cristiano a pregare perché ciascuno intraprenda "un cammino di vera conversione". Nella prima Lettura, il profeta Gioele esorta a far ritorno al Padre "con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti… perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male e ricco di benevolenza" (2,12-13). La promessa di Dio è chiara: se il popolo ascolterà l’invito a convertirsi, Dio farà trionfare la sua misericordia e i suoi amici saranno colmati di innumerevoli favori. Con il Salmo responsoriale, l’assemblea liturgica fa proprie le invocazioni del Salmo 50, domandando al Signore di creare in noi "un cuore puro", di rinnovare in noi "uno spirito saldo". Vi è poi la pagina evangelica, nella quale Gesù, mettendoci in guardia dal tarlo della vanità che porta all’ostentazione e all’ipocrisia, alla superficialità e all’autocompiacimento, ribadisce la necessità di nutrire la rettitudine del cuore. Egli mostra al tempo stesso il mezzo per crescere in questa purezza di intenzione: coltivare l’intimità con il Padre celeste.

Particolarmente gradita in questo anno giubilare, commemorativo del bimillenario della nascita di san Paolo, ci giunge la parola della seconda Lettera ai Corinti: "Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (5,20). Questo invito dell’Apostolo suona come un ulteriore stimolo a prendere sul serio l’appello quaresimale alla conversione. Paolo ha sperimentato in maniera straordinaria la potenza della grazia di Dio, la grazia del Mistero pasquale di cui la stessa Quaresima vive. Egli si presenta a noi come "ambasciatore" del Signore. Chi allora meglio di lui può aiutarci a percorrere in maniera fruttuosa questo itinerario di interiore conversione? Nella prima Lettera a Timoteo scrive: "Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io", ed aggiunge: "Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1,15-16). L’Apostolo è dunque cosciente di essere stato scelto come esempio, e questa sua esemplarità riguarda proprio la conversione, la trasformazione della sua vita avvenuta grazie all’amore misericordioso di Dio. "Prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento – egli riconosce - ma mi è stata usata misericordia … e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato" (ibid. 1,13-14). L’intera sua predicazione, e prima ancora, tutta la sua esistenza missionaria furono sostenute da una spinta interiore riconducibile all’esperienza fondamentale della "grazia". "Per grazia di Dio sono quello che sono – scrive ai Corinzi – … ho faticato più di tutti loro [gli apostoli], non io però, ma la grazia di Dio che è con me" (1 Cor 15,10). Si tratta di una consapevolezza che affiora in ogni suo scritto ed ha funzionato come una "leva" interiore su cui Dio ha potuto agire per spingerlo avanti, verso sempre ulteriori confini non solo geografici, ma anche spirituali.


San Paolo riconosce che tutto in lui è opera della grazia divina, ma non dimentica che occorre aderire liberamente al dono della vita nuova ricevuta nel Battesimo. Nel testo del capitolo 6 della Lettera ai Romani, che sarà proclamato durante la Veglia pasquale, scrive: "Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia" (6,12-13). In queste parole troviamo contenuto tutto il programma della Quaresima secondo la sua intrinseca prospettiva battesimale. Da una parte, si afferma la vittoria di Cristo sul peccato, avvenuta una volta per tutte con la sua morte e risurrezione; dall’altra, siamo esortati a non offrire al peccato le nostre membra, cioè a non concedere, per così dire, spazio di rivincita al peccato. La vittoria di Cristo attende che il discepolo la faccia sua, e questo avviene prima di tutto con il Battesimo, mediante il quale, uniti a Gesù, siamo diventati "viventi, ritornati dai morti". Il battezzato però, affinché Cristo possa regnare pienamente in lui, deve seguirne fedelmente gli insegnamenti; non deve mai abbassare la guardia, per non permettere all’avversario di recuperare in qualche modo terreno.

Ma come portare a compimento la vocazione battesimale, come essere vittoriosi nella lotta tra la carne e lo spirito, tra il bene e il male, lotta che segna la nostra esistenza? Nel brano evangelico il Signore ci indica oggi tre utili mezzi: la preghiera, l’elemosina e il digiuno. Nell’esperienza e negli scritti di San Paolo troviamo anche al riguardo utili riferimenti. Circa la preghiera, egli esorta a "perseverare" e a "vegliare in essa, rendendo grazie" (Rm 12,12; Col 4,2), a "pregare ininterrottamente" (1 Ts 5,17). Gesù è nel fondo del nostro cuore. La relazione con Lui è presente e rimane presente anche se parliamo, agiamo secondo i nostri doveri professionali. Per questo nella preghiera c’è la presenza interiore nel nostro cuore della relazione con Dio, che diventa volta a volta anche preghiera esplicita. Per quanto concerne l’elemosina, sono certamente importanti le pagine dedicate alla grande colletta in favore dei fratelli poveri (cfr 2 Cor 8-9), ma va sottolineato che per lui è la carità il vertice della vita del credente, il "vincolo della perfezione": "sopra tutte queste cose – scrive ai Colossesi - rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto" (Col 3,14). Del digiuno non parla espressamente, esorta però spesso alla sobrietà, come caratteristica di chi è chiamato a vivere in vigilante attesa del Signore (cfr 1 Ts 5,6-8; Tt 2,12). Interessante è pure il suo accenno a quell’"agonismo" spirituale che richiede temperanza: "ogni atleta – scrive ai Corinzi – è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre" (1 Cor 9,25). Il cristiano deve essere disciplinato per trovare la strada ed arrivare realmente al Signore.


Ecco dunque la vocazione dei cristiani: risorti con Cristo, essi sono passati attraverso la morte e ormai la loro vita è nascosta con Cristo in Dio (cfr Col 3,1-2). Per vivere questa "nuova" esistenza in Dio è indispensabile nutrirsi della Parola di Dio. Solo così possiamo realmente essere congiunti con Dio, vivere alla sua presenza, se siamo in dialogo con Lui. Gesù lo dice chiaramente quando risponde alla prima delle tre tentazioni nel deserto, citando il Deuteronomio: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4; cfr Dt 8,3). San Paolo raccomanda: "La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati" (Col 3,16). Anche in questo, l’Apostolo è innanzitutto testimone: le sue Lettere sono la prova eloquente del fatto che egli viveva in permanente dialogo con la Parola di Dio: pensiero, azione, preghiera, teologia, predicazione, esortazione, tutto in lui era frutto della Parola, ricevuta fin dalla giovinezza nella fede ebraica, pienamente svelata ai suoi occhi dall’incontro con Cristo morto e risorto, predicata per il resto della vita durante la sua "corsa" missionaria. A lui fu rivelato che Dio ha pronunciato in Gesù Cristo la Parola definitiva, sé stesso, Parola di salvezza che coincide con il mistero pasquale, il dono di sé nella Croce che diventa poi risurrezione, perché l’amore è più forte della morte. San Paolo poteva così concludere: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo" (Gal 6,14). In Paolo la Parola si è fatta vita, ed unico suo vanto è Cristo crocifisso e risorto.

Cari fratelli e sorelle, mentre ci disponiamo a ricevere le ceneri sul capo in segno di conversione e di penitenza, apriamo il cuore all’azione vivificante della Parola di Dio. La Quaresima, contrassegnata da un più frequente ascolto di questa Parola, da più intensa preghiera, da uno stile di vita austero e penitenziale, sia stimolo alla conversione e all’amore sincero verso i fratelli, specialmente quelli più poveri e bisognosi. Ci accompagni l’apostolo Paolo, ci guidi Maria, attenta Vergine dell’ascolto e umile Serva del Signore. Potremo così giungere, rinnovati nello spirito, a celebrare con gioia la Pasqua. Amen!

[00331-01.01] [Testo originale: Italiano]


Caterina63
00sabato 28 febbraio 2009 19:10
Dal 1° al 7 marzo
diciassette meditazioni[SM=g1740717] [SM=g1740720] 

    Iniziano il 1° marzo, prima domenica di Quaresima, nella cappella Redemptoris Mater in Vaticano, gli esercizi spirituali con la partecipazione di Benedetto XVI. Le meditazioni sono proposte quest'anno dal cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, sul tema "Il sacerdote incontra Gesù e lo segue".

    Gli esercizi hanno il seguente svolgimento: 

domenica 1° marzo, alle ore 18, esposizione eucaristica, celebrazione dei vespri, meditazione introduttiva, adorazione, benedizione eucaristica;

nei giorni successivi,
alle ore 9, celebrazione delle lodi, meditazione;
alle ore 10.15, celebrazione dell'ora terza, meditazione;
alle ore 17, meditazione;
alle ore 17.45, celebrazione dei vespri, adorazione e benedizione eucaristica;

sabato 7 marzo, alle ore 9, celebrazione delle lodi, meditazione conclusiva.

Diciassette in tutto le meditazioni che saranno dettate dal cardinale Arinze a partire da alcuni passi della Sacra Scrittura.

La prima riflessione di domenica sera inizierà proprio dall'esortazione ad "accettare l'invito di Gesù di seguirlo e restare con lui" e si riferirà, in particolare, alle espressioni evangeliche "Venite dietro a me" (Matteo, 4, 19; Marco, 1, 17), "Seguimi" (Luca, 5, 27; Giovanni 1, 43) e "Quel giorno rimasero con lui" (Giovanni, 1, 39).
L'ultima meditazione, invece, proporrà sabato mattina una lettura escatologica del tema, con riferimenti a Qoelet, 3, 2 ("C'è un tempo per nascere e un tempo per morire"), a Ebrei, 13, 14 (Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura") e al Salmo 122, 1 ("Quale gioia, quando mi dissero:  Andremo alla casa del Signore").

    Nella settimana degli esercizi spirituali vengono sospese tutte le udienze private e speciali, compresa l'udienza generale di mercoledì 4 marzo.[SM=g1740733]


Il cardinale Arinze anticipa i temi degli esercizi spirituali che predicherà a Benedetto XVI e alla Curia romana
Se il prete non incontra e segue Gesù la sua vocazione non ha senso


di Nicola Gori

    "Il sacerdote incontra Gesù e lo segue":  è questo il tema degli esercizi spirituali per il Papa e la Curia romana che il cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, tiene nella cappella Redemptoris Mater dal 1° al 7 marzo. Un tema scelto per sottolineare che l'incontro e la sequela non rappresentano solo il centro del sacerdozio ma anche l'essenza di ogni autentica esperienza di fede. "Le riflessioni che offrirò a Benedetto XVI - spiega il porporato in questa intervista al nostro giornale alla vigilia dell'inizio degli esercizi - non sono esclusivamente sacerdotali ma valgono per tutti, perché il cristianesimo è l'incontro di ogni uomo con Gesù".

    Perché ha scelto questo tema per gli esercizi spirituali del Papa?

    Ho pensato che nell'incontrare e seguire Gesù possiamo vedere la sintesi di tutto il cristianesimo. Da una parte c'è Gesù che ci chiama. Dall'altra ci siamo noi con la nostra risposta:  lo incontriamo, lo seguiamo e questo diventa un programma per tutta la vita. Così accadde per i primi apostoli:  Gesù li vide e disse loro di seguirli. Nella sequela sono compresi l'ascolto, il suo insegnamento, i miracoli, la preghiera. Possiamo dire che gli apostoli hanno fatto tre anni di seminario maggiore e il rettore era il Figlio di Dio.

    Però la chiamata di Gesù non vale soltanto per i preti.

    Certo. Anche le riflessioni che offrirò al Papa non sono esclusivamente sacerdotali ma valgono per tutti, perché il cristianesimo è l'incontro di ogni uomo con Gesù. Ciascuno può applicarlo a se stesso secondo la propria vocazione e missione. E ciascuno può dare una risposta diversa. Tra i discepoli, c'è stato chi subito ha lasciato le reti e si è messo alla sua sequela. Ma c'è stato anche chi è rimasto attaccato alle cose materiali, ha chiesto tempo, ha voluto prima tornare dai suoi cari per congedarsi.

    Da allora sono passati duemila anni. L'uomo di oggi può ancora incontrare Gesù?

    Se vuole può incontrarlo. Sempre che riesca a superare due grandi ostacoli. Il primo è la superficialità, la distrazione. E il secondo è la paura. Ponzio Pilato rappresenta il paradigma di quelli che hanno paura di incontrare la verità. Gesù gli parla, ma lui ha paura. Gli dice:  "Io vengo per dare testimonianza alla verità". E Pilato domanda "Cos'è la verità?". Ma la sua domanda non è quella di un filosofo che attende la risposta. Infatti se ne va senza ascoltare, senza aspettare. Senza rendersi conto che la verità sta proprio davanti a lui. Anche oggi tante persone mancano all'appuntamento con la verità, perché hanno paura di ciò che Gesù rappresenta e del suo messaggio. Non si rendono conto che la fede non è un intralcio all'esistenza, ma una promessa di vita e di verità che va oltre il contingente.

    Quali sono i luoghi in cui può avvenire questo incontro?

    Uno dei luoghi fondamentali - non fisico ma spirituale - è la preghiera. La preghiera è lasciare posto a Dio. È fare silenzio non solo esternamente, ma soprattutto internamente. È ascoltare. Nelle meditazioni che proporrò al Papa parlerò in particolare di questo, ricordando le lunghe ore di preghiera che Gesù trascorreva da solo e sottolineando che gli stessi discepoli gli hanno chiesto:  "Signore, insegnaci a pregare".
    Un altro luogo di incontro è la Scrittura:  Gesù è la Parola di Dio che diventa uomo. La Scrittura è Parola di Dio scritta. Quando leggiamo la Bibbia e quando la proclamiamo durante la liturgia, è Dio che parla. Il Vangelo non è un libro polveroso del passato. È la voce di Dio oggi.
    Un terzo luogo è la Chiesa, corpo mistico di Cristo. Egli stesso ne ha scelto i primi pilastri, ha dato la garanzia di essere sempre con lei e ha promesso lo Spirito Santo. Nelle meditazioni sottolineerò proprio questa dimensione:  la Chiesa è il corpo di Cristo che ne è il capo. E come tale si ritrova nella liturgia, dove incontra realmente e sostanzialmente Gesù attraverso la comunione eucaristica. E si riconosce nella carità, soprattutto verso gli ammalati, gli anziani, i rifugiati, i poveri. Gesù può parlarci in tutte queste situazioni. Paolo VI ha detto che la Chiesa guarda al volto di ogni persona che soffre e vede Gesù. Non attendiamo che Gesù ci appaia, perché ce lo abbiamo già vicino.

    Se per il cristiano incontrare Gesù vuol dire seguirlo, che cosa succede quando questo atteggiamento di sequela manca da parte del sacerdote?

    È Gesù che dà senso alla vita del prete. Senza di Lui il sacerdote non si comprende, non ha più senso. Direi che la sua vocazione diventa come una farsa. In nome di chi, infatti, celebra, predica, agisce? San Paolo ha detto:  per me vivere è Cristo. Il sacerdote è ambasciatore di Cristo. Perciò se è necessario per ogni cristiano seguire Gesù, a maggior ragione lo è per il sacerdote. La sua testimonianza è sotto gli occhi di tutti, soprattutto di chi non crede. Certo, è possibile che ci siano mancanze anche nei sacerdoti. Non tutti i preti sono stati e sono santi. Lo stesso Vangelo non nasconde debolezze e cadute dei discepoli di Cristo. C'è stato chi ha chiesto a Gesù di incendiare una città di Samaria o chi si è attribuito il diritto di essere il primo fra tutti. E poi c'è Giuda iscariota, che è stato con Gesù ma non lo ha amato. Ha indurito il suo cuore, lo ha chiuso all'amore. Questo dimostra che il cuore umano può venir meno, che la libertà dataci da Dio può essere usata male. Nella storia della Chiesa questo purtroppo è successo altre volte.

    La dimensione penitenziale della quaresima può aiutare il sacerdote a rinnovare l'esperienza dell'incontro con Cristo?

    Sì, a cominciare dal gesto di ricevere le ceneri, che vuol dire accettare di essere peccatori. La Chiesa chiede di pregare molto durante la quaresima non solo in segno di adorazione a Dio ma anche di pentimento per i peccati commessi. E non basta ricevere il perdono da Dio, bisogna anche riconoscere che abbiamo offeso l'amore di Dio. E poi c'è il digiuno, al quale il Papa ha dedicato il suo messaggio quaresimale. È un gesto oggi poco considerato, ma che va inteso nel giusto significato. Il suo senso autentico è fare a meno di qualche cosa che piace e condividere i beni con i poveri. La solidarietà con chi soffre è anche un modo di mostrare l'autenticità della nostra celebrazione eucaristica. Alla fine della messa il sacerdote ci dice:  andate e vivete ciò che è stato celebrato, ascoltato, meditato e pregato. Aiutare chi è anziano, solo, carcerato, disabile, è un modo di vivere l'Eucaristia. Benedetto XVI lo dice chiaramente nella Deus caritas est:  l'Eucaristia che non si traduce in opere di carità è frammentata, incompleta.

    Ma è ancora attuale il richiamo alla sobrietà che il Papa ha rilanciato nel messaggio di quest'anno?

    Digiunare è accettare che siamo peccatori. È fare a meno di qualcosa. È anche uno strumento di "allenamento" spirituale, simile a quello che praticano gli atleti per riuscire in una disciplina sportiva. C'è poi la dimensione più dinamica, che è appunto quella di aiutare i poveri. Spendere meno e aiutare i fratelli che hanno meno:  è lo stile di vita raccomandato dal Papa anche nel messaggio per la Giornata mondiale della pace di quest'anno. Lo spirito cristiano deve andare nella direzione opposta rispetto al consumismo senza freni. Avere le credenze e gli armadi pieni - colmi di cose che spesso non ci servono o che usiamo appena qualche volta - è un'offesa ai poveri.

    Cosa significa per lei predicare gli esercizi spirituali a Benedetto XVI?

    Non è una cosa da poco. Si può immaginare i sentimenti di chi riceve questo invito. Posso dire che non me lo attendevo, ma proprio per questo è un impegno che prendo molto sul serio. Mi sono detto:  il Papa poteva trovare un bravo teologo, come mai si è rivolto a me? Ma poi ho pensato:  è lui che lo chiede, allora questa è la volontà di Dio. Perché non avere la semplicità di condividere quel poco che ho? È con questo spirito che ho accolto l'invito.



(©L'Osservatore Romano - 1 marzo 2009)
Caterina63
00domenica 1 marzo 2009 13:47
Stupenda catechesi del Papa oggi, 1.3.2009, I* di Quaresima...
parlando delle tentazioni che Gesù dovette subire, il Papa mette in risalto la tentazione ma anche il sostegno degli Angeli per combatterle....


Cari fratelli e sorelle!

Oggi è la prima domenica di Quaresima, e il Vangelo, con lo stile sobrio e conciso di san Marco, ci introduce nel clima di questo tempo liturgico: "Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana" (Mc 1,12). In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio. Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.

Quasi di sfuggita, nella brevità del racconto, di fronte a questa figura oscura e tenebrosa che osa tentare il Signore, appaiono gli angeli, figure luminose e misteriose. Gli angeli, dice il Vangelo, "servivano" Gesù (Mc 1,13); essi sono il contrappunto di Satana. "Angelo" vuol dire "inviato". In tutto l’Antico Testamento troviamo queste figure, che nel nome di Dio aiutano e guidano gli uomini. Basta ricordare il Libro di Tobia, in cui compare la figura dell’angelo Raffaele, che assiste il protagonista in tante vicissitudini. La presenza rassicurante dell’angelo del Signore accompagna il popolo d’Israele in tutte le sue vicende buone e cattive.

Alle soglie del Nuovo Testamento, Gabriele è inviato ad annunciare a Zaccaria e a Maria i lieti eventi che sono all’inizio della nostra salvezza; e un angelo, del quale non si dice il nome, avverte Giuseppe, orientandolo in quel momento di incertezza. Un coro di angeli reca ai pastori la buona notizia della nascita del Salvatore; come pure saranno degli angeli ad annunciare alle donne la notizia gioiosa della sua risurrezione. Alla fine dei tempi, gli angeli accompagneranno Gesù nella sua venuta nella gloria (cfr Mt 25,31).
Gli angeli servono Gesù, che è certamente superiore ad essi, e questa sua dignità viene qui, nel Vangelo, proclamata in modo chiaro, seppure discreto. Infatti anche nella situazione di estrema povertà e umiltà, quando è tentato da Satana, Egli rimane il Figlio di Dio, il Messia, il Signore.

Cari fratelli e sorelle, toglieremmo una parte notevole del Vangelo, se lasciassimo da parte questi esseri inviati da Dio, i quali annunciano la sua presenza fra di noi e ne sono un segno. Invochiamoli spesso, perché ci sostengano nell’impegno di seguire Gesù fino a identificarci con Lui. Domandiamo loro, in particolare quest’oggi, di vegliare su di me e sui collaboratori della Curia Romana che questo pomeriggio, come ogni anno, inizieremo la settimana di Esercizi spirituali. Maria, Regina degli Angeli, prega per noi!








Caterina63
00giovedì 5 marzo 2009 22:46
VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello

La quaresima: tempo del giudizio


Città del Vaticano (Agenzia Fides)

Il tempo quaresimale, con tutta la tradizione biblica e cristiana che ne caratterizza la storia, il significato teologico e l’origine liturgica, è anche, necessariamente, un tempo di giudizio.

Le pratiche tradizionali della preghiera, del digiuno e dell’elemosina, necessariamente si traducono, per chi le vive in modo non superficiale, in un giudizio sulla propria vita, su ciò che realmente conta, su quante energie si impiegano in ciò che non è poi così necessario e su come si potrebbe realmente vivere in modo più impegnato e, per conseguenza, autentico.

Ma oltre al giudizio personale sulla propria esistenza, la quaresima richiama anche, con forza, la realtà del “giudizio in sé”, cioè quella verità di fede che annuncia che ogni uomo è responsabile delle proprie azioni; quindi - dal latino “respondeo” - dovrà risponderne al Signore della vita, sia nel giudizio particolare, dopo la morte di ciascuno, sia nel giudizio universale alla fine dei tempi.
Come ricordato dal Santo Padre Benedetto XVI nell’Enciclica
Spe Salvi “La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio” (n. 41).

In questo senso la quaresima, con i suoi riti, l’invito alla sobrietà, le pie pratiche penitenziali etc., è una grande scuola di giudizio e di speranza è uno “spazio sacro”, nel quale le coscienze possono essere ri-educate o educate al riconoscimento della presenza del mistero nella propria esistenza.

L’arte sacra, quella autentica, ha da sempre espresso questa consapevolezza e certezza: “Nella conformazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re – l'immagine della speranza –, sul lato occidentale, invece, il Giudizio finale come immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava ed accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianità” (Ivi).

Allora il giudizio non deve essere vissuto come qualcosa di minaccioso, tenebroso o lontano dalla vita di ciascuno. Il giudizio, che è richiamato anche dal tempo quaresimale, altro non è se non “il risplendere” della responsabilità e quindi, potremmo dire, un inno alla libertà che è chiamata ad operare per il vero e per il bene, nell’amore.

“Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto.

Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore.” (Spe Salvi n. 44).
La quaresima sia tempo per un effettivo ed affettivo recupero di questa certezza.

© Copyright (Agenzia Fides 5/3/2009; righe 37, parole 492)

Caterina63
00sabato 7 marzo 2009 16:06
Conclusi gli Esercizi Spirituali del Papa e la Curia

Si sono conclusi questa mattina in Vaticano gli esercizi spirituali per la Quaresima guidati dal cardinale Francis Arinze, nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Papa e della Curia Romana. Le meditazioni del prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino hanno avuto per tema “Il sacerdote incontra Gesù e lo segue”. A conclusione il Papa ha rivolto il suo caloroso grazie al porporato nigeriano. Il servizio di Sergio Centofanti. 
 
(canto)

 
Con la celebrazione cantata delle Lodi e l’ultima meditazione del cardinale Arinze, centrata sulla visione cristiana della vita eterna, si è conclusa la settimana di esercizi spirituali iniziata domenica scorsa. Poi sono arrivati i ringraziamenti di Benedetto XVI:

 
“E’ una delle belle funzioni del Papa dire ‘grazie’. In questo momento vorrei, a nome di tutti noi e di tutti voi, di cuore dire grazie a lei, eminenza, per queste meditazioni che ci ha donato. Ci ha guidato, illuminato, aiutato a rinnovare il nostro sacerdozio. La sua non è stata un’acrobazia teologica. Non ci ha offerto acrobazie teologiche, ma ci ha dato una sana dottrina, il pane buono della nostra fede … la Parola di Dio che ci dà il vero nutrimento. La sua predicazione è stata permeata della Sacra Scrittura, con una grande familiarità con la Parola di Dio letta nel contesto della Chiesa viva, dai Padri fino al catechismo della Chiesa cattolica, sempre contestualizzata nella lettura, nella liturgia”.

 
Non “una teologia astratta”, dunque – ha aggiunto il Pontefice - ma una teologia “marcata da un sano realismo”:

 
“Ho ammirato e mi è piaciuta questa esperienza concreta dei suoi 50 anni di sacerdozio, dei quali lei ha parlato e alla luce dei quali ci ha aiutati a concretizzare la nostra fede. Ci ha detto parole giuste, concrete per la nostra vita, per il nostro comportamento da sacerdoti. E spero che molti leggeranno anche queste parole e le prendano a cuore”.

 
Il Papa ha quindi commentato il tema delle meditazioni iniziate sulla “sempre di nuovo affascinante, bella storia dei primi discepoli” che chiedono a Gesù: “Maestro, dove abiti?”. E il Signore che risponde: “Venite e vedrete!”:

 
“Per ‘vedere’ dobbiamo 'venire', dobbiamo camminare e seguire Gesù, che ci precede sempre. Solo camminando e seguendo Gesù possiamo anche vedere. Lei ci ha mostrato dove abita Gesù, dove è la sua dimora: nella sua Chiesa, nella sua Parola, nella Santissima Eucaristia. Grazie, eminenza, per questa sua guida. Con nuovo slancio e con nuova gioia intraprendiamo il cammino verso la Pasqua. Auguro a tutti voi buona Quaresima e buona Pasqua".

 
(canto)

 
Ma ascoltiamo adesso, sull’esperienza di questi esercizi spirituali, lo stesso cardinale Arinze, al microfono di Sergio Centofanti:

R. – L’esperienza è stata molto positiva: ho visto la comunità del Santo Padre e dei suoi più vicini collaboratori, che hanno formato una comunità di preghiera e di lavoro. Lavoro e preghiera fanno un tutt’uno. Vedere tutti che meditano, pregano, con Gesù in mezzo, l’adorazione eucaristica ogni giorno, e poi un tempo individuale per ognuno … il tutto in silenzio … E’ edificante ed è molto positivo per la Chiesa!

 
D. – Qual è stato il centro delle sue meditazioni? Cosa ha voluto dire al Papa e alla Curia?

 
R. – Che il sacerdote accetta l’invito di Gesù, lo incontra e segue Gesù. E come i primi apostoli sono rimasti con lui quel giorno e sono rimasti con lui tre anni, noi cerchiamo di restare con Gesù, in modo che tutta la nostra vita sia come la processione dell’offertorio. Quindi, Gesù al centro, il sacerdote che lo incontra e lo segue e lo trova. Trova Gesù credendo in lui, trova Gesù nella Chiesa, nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Trova Gesù nelle persone che servono nella Chiesa, trova Gesù nella gente che soffre: la gente che ha bisogno di giustizia, di pace, di solidarietà. Trova Gesù nella preghiera, trova Gesù nella Sacra Scrittura dove Gesù ci parla. E’ questo il centro delle riflessioni, con la Sacra Scrittura e la Liturgia come guide.

 
D. – Il Papa ha avuto per lei un caloroso ringraziamento …

 
R. – Veramente! Io naturalmente sono molto riconoscente al Santo Padre per questo; ho cercato di condividere quel mio Gesù – se io posso dire così – senza la pretesa di essere un grande professore, ma cercando, con la Sacra Scrittura come guida e la liturgia, di seguire Gesù e di condividere quello che potevo. Le parole del Santo Padre sono per me un grande incoraggiamento, e io ne faccio tesoro. E quando l’Osservatore Romano pubblicherà tutto, come lei può immaginare, io ne farò una bella copia!

 
D. – La ringrazio e buona Quaresima!

 
R. – Anche a lei e a tutti i nostri ascoltatori auguro tutte le grazie della Quaresima in preparazione della Pasqua!


da Radio Vaticana....
(si tenga sotto osservazione allora l'OR)



[SM=g1740733]
Caterina63
00sabato 7 marzo 2009 22:08
l Papa conclude gli esercizi spirituali in Vaticano predicati dal cardinale Arinze

Il pane buono della nostra fede


Solo camminando e seguendo Cristo possiamo anche giungere alla sua dimora e vedere dove egli abita:  nella Chiesa, nella Parola, nell'Eucaristia. Lo ha detto il Papa sabato mattina, 7 marzo, a conclusione degli esercizi spirituali quaresimali predicati dal cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Prendendo la parola nella cappella "Redemptoris Mater", Benedetto XVI ha evidenziato la concretezza delle meditazioni del porporato, che non hanno offerto "acrobazie teologiche, ma una sana dottrina, il pane buono della fede".

Eminenza, cari venerati Confratelli,
è una delle belle funzioni del Papa dire "grazie". In questo momento vorrei, a nome di tutti noi e di tutti voi, di cuore dire grazie a Lei, Eminenza, per queste meditazioni che ci ha donato. Ci ha guidato, illuminato, aiutato a rinnovare il nostro sacerdozio. La Sua non è stata un'acrobazia teologica. Non ci ha offerto acrobazie teologiche, ma ci ha dato una sana dottrina, il pane buono della nostra fede.
 
Ascoltando le Sue parole mi è venuta in mente una profezia del profeta Ezechiele interpretata da sant'Agostino. Nel libro di Ezechiele il Signore, il Dio pastore, dice al popolo:  io guiderò le mie pecore sui monti di Israele, su pascoli erbosi. E sant'Agostino si chiede dove sono questi monti di Israele, che cosa sono questi pascoli erbosi. E dice:  i monti di Israele, i pascoli erbosi sono la Sacra Scrittura, la Parola di Dio che ci dà il vero nutrimento.

La sua predicazione è stata permeata dalla Sacra Scrittura, con una grande familiarità con la Parola di Dio letta nel contesto della Chiesa viva, dai Padri fino al catechismo della Chiesa cattolica, sempre contestualizzata nella lettura, nella liturgia. E proprio così la Scrittura è stata presente nella sua piena attualità. La sua teologia, come ci ha detto, non è stata una teologia astratta, ma marcata da un sano realismo. Ho ammirato e mi è piaciuta questa esperienza concreta dei suoi cinquant'anni di sacerdozio, dei quali Lei ha parlato e alla luce dei quali ci ha aiutati a concretizzare la nostra fede. Ci ha detto parole giuste, concrete per la nostra vita, per il nostro comportamento da sacerdoti. E spero che molti leggeranno anche queste parole e le prenderanno a cuore.

All'inizio Lei ha cominciato con questo sempre affascinante e bel racconto dei primi discepoli che seguono Gesù. Ancora un po' incerti e timidi chiedono:  Maestro, dove abiti? E la risposta, che Lei ci ha interpretato, è:  "venite e vedrete". Per vedere dobbiamo venire, dobbiamo camminare e seguire Gesù, che ci precede sempre. Solo camminando e seguendo Gesù possiamo anche vedere. Lei ci ha mostrato dove abita Gesù, dov'è la sua dimora:  nella sua Chiesa, nella sua Parola, nella santissima Eucaristia.

Grazie, Eminenza, per questa Sua guida. Con nuovo slancio e con nuova gioia intraprendiamo il cammino verso la Pasqua. Auguro a tutti voi buona Quaresima e buona Pasqua.




La meditazione finale
del cardinale Arinze
agli esercizi spirituali in Vaticano


Dimissioni:  una parola che non devono aver paura di pronunciare i sacerdoti e i vescovi colpiti da una malattia che verosimilmente li terrà a lungo lontani dal loro ministero. Devono piuttosto lasciare il timone nelle mani più salde "di chi gode di maggiore salute", per non penalizzare la comunità che gli è affidata.

Del resto, come si legge nel libro del Qoelet (3,2) "c'è un tempo per nascere e un tempo per morire". Un argomento molto realistico quello affrontato dal cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nel proporre - sabato mattina 7 marzo, nella cappella Redemptoris Mater - l'ultima meditazione per gli esercizi spirituali in Vaticano alla presenza di Benedetto XVI e della Curia Romana.

"Non arriva forse il momento in cui - ha detto il porporato - chi ha servito a lungo Dio e la Chiesa, e adesso non sta bene, deve chiedere di essere sollevato dalle grandi responsabilità per permettere a chi gode di maggiore salute di prendere il timone?". Non è forse anche un modo per permettere al malato di prepararsi meglio all'incontro con il Signore? "Senza dubbio - ha proseguito il porporato - le persone vicine al vescovo diocesano o al parroco che sono ammalati, esiteranno a pronunciare la parola dimissioni per non apparire ingrati, ma non dovrebbe essere forse l'ammalato stesso a sollevare la questione? In questo modo, sarebbe tutto più semplice, tenendo conto che il Codice di diritto canonico chiede e ammonisce di avere sempre in mente che la salvezza delle anime deve essere la legge suprema della Chiesa". Da qui l'invito a riflettere, prima che sopraggiunga la malattia, su come comportarsi in qualità di sacerdote o vescovo nel caso di malattia abbastanza lunga:  "Cosa sarebbe meglio che facessi per il bene della parrocchia o della diocesi?".

Il porporato, affrontando poi con molto realismo il significato che assume, soprattutto per un vescovo o per un sacerdote, il periodo durante il quale, più o meno consapevolmente, ci si avvicina al tramonto dell'esistenza, ha invitato non solo a "prepararsi per tempo" ma anche a riflettere sull'atteggiamento che in tali circostanze egli deve tenere. In particolare il cardinale si è concentrato sul genere di omelia che un sacerdote o un vescovo malato, sono portati a tenere. "Qualcuno - ha ricordato in proposito - ha osservato che il servo di Dio Giovanni Paolo II ci ha insegnato più dalla sua sedia a rotelle che nelle 14 lettere ed encicliche.
 
Certo, questo è un modo di dire, di sottolineare la sua completa accettazione della volontà di Dio, anche dopo tanti ricoveri in ospedale, interventi chirurgici, difficoltà anche nel camminare, e nel parlare. Si può dire che egli abbia vissuto in prima persona la lettera apostolica Salvifici doloris del 1984". "Non è superfluo ricordare al sacerdote o al vescovo - ha detto concludendo - ciò che sanno, cioè il senso cristiano della morte. Tale considerazione li aiuterà a vivere con più serenità i momenti finali della loro vita in questa valle di lacrime". La morte del cristiano "ha grande valore quando viene vissuta in unione con Cristo. Inoltre, la morte insegna a tutti in modo perentorio la necessità di lasciare tutto, di seguire Gesù".

 


(©L'Osservatore Romano - 8 marzo 2009)
Caterina63
00domenica 8 marzo 2009 14:16


Angelus 8.3.2009

Cari fratelli e sorelle!


Nei giorni scorsi, come sapete, ho fatto gli Esercizi spirituali, insieme con i miei collaboratori della Curia Romana. E’ stata una settimana di silenzio e di preghiera: la mente e il cuore hanno potuto dedicarsi interamente a Dio, all’ascolto della sua Parola, alla meditazione dei misteri di Cristo. Fatte le debite proporzioni, è un po’ quello che accadde agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni quando Gesù li portò con sé su un alto monte, in disparte, loro soli, e mentre pregava si "trasfigurò": il suo volto e la sua persona apparvero luminosi, splendenti.

La liturgia ripropone questo celebre episodio proprio oggi, seconda domenica di Quaresima (cfr Mc 9,2-10). Gesù voleva che i suoi discepoli, in particolare quelli che avrebbero avuto la responsabilità di guidare la Chiesa nascente, facessero un’esperienza diretta della sua gloria divina, per affrontare lo scandalo della croce. In effetti, quando verrà l’ora del tradimento e Gesù si ritirerà a pregare nel Getsemani, terrà vicini gli stessi Pietro, Giacomo e Giovanni, chiedendo loro di vegliare e pregare con Lui (cfr Mt 26,38). Essi non ce la faranno, ma la grazia di Cristo li sosterrà e li aiuterà a credere nella Risurrezione.


Mi preme sottolineare che la Trasfigurazione di Gesù è stata sostanzialmente un’esperienza di preghiera (cfr Lc 9,28-29). La preghiera, infatti, raggiunge il suo culmine, e perciò diventa fonte di luce interiore, quando lo spirito dell’uomo aderisce a quello di Dio e le loro volontà si fondono quasi a formare un tutt’uno. Quando Gesù salì sul monte, si immerse nella contemplazione del disegno d’amore del Padre, che l’aveva mandato nel mondo per salvare l’umanità.

Accanto a Gesù apparvero Elia e Mosè, a significare che le Sacre Scritture erano concordi nell’annunciare il mistero della sua Pasqua, che cioè il Cristo doveva soffrire e morire per entrare nella sua gloria (cfr Lc 24,26.46). In quel momento Gesù vide profilarsi davanti a sé la Croce, l’estremo sacrificio necessario per liberare noi dal dominio del peccato e della morte. E nel suo cuore, ancora una volta, ripeté il suo "Amen". Disse sì, eccomi, sia fatta, o Padre, la tua volontà d’amore. E, come era accaduto dopo il Battesimo nel Giordano, vennero dal Cielo i segni del compiacimento di Dio Padre: la luce, che trasfigurò il Cristo, e la voce che lo proclamò "il Figlio amato" (Mc 9,7).


Insieme con il digiuno e le opere della misericordia, la preghiera forma la struttura portante della nostra vita spirituale. Cari fratelli e sorelle, vi esorto a trovare in questo tempo di Quaresima prolungati momenti di silenzio, possibilmente di ritiro, per rivedere la propria vita alla luce del disegno d’amore del Padre celeste.
 
Lasciatevi guidare in questo più intenso ascolto di Dio dalla Vergine Maria, maestra e modello di preghiera. Lei, anche nel buio fitto della passione di Cristo, non perse ma custodì nel suo animo la luce del Figlio divino. Per questo la invochiamo Madre della fiducia e della speranza!

www.vatican.va

           


Caterina63
00lunedì 16 marzo 2009 17:20
Pasqua 2009. Benedetto XVI sceglie un vescovo indiano per le meditazioni della Via Crucis al Colosseo

Sarà un vescovo indiano a redigere le meditazioni della Via Crucis del Venerdì Santo, al Colosseo.

Il dramma dei cristiani perseguitati in India, infatti, sarà al centro del testo, secondo quanto riferisce la rivista Mondo e Missione.

La scelta del Papa è caduta su mons. Thomas Menamparampil, arcivescovo di Guwahati, nello Stato dell'Assam. A lanciare la notizia è stata l'agenzia SarNews - l'agenzia della stampa cattolica indiana - ed è stata rilanciata oggi con grande evidenza anche dal sito internet della Conferenza Episcopale indiana.

 La scelta di Menamparampil rappresenta un segno concreto della vicinanza e della solidarietà del Pontefice ai cristiani perseguitati in India. Gli episodi più gravi si sono verificati a partire dall'agosto scorso nello Stato dell'Orissa: 50mila i cristiani sfollati, 130 le vittime accertate, ancora oggi 3 mila cristiani risiedono in campi profughi. Lo scorso anno era stata la volta di un cinese, il cardinale Joseph Zen Ze-kiun. Un gesto concreto dell'attenzione di Benedetto XVI alla Cina. L'arcivescovo Menamparampil è una delle figure di spicco oggi della Chiesa asiatica.

Non a caso - durante l'ultimo Sinodo dei vescovi tenutosi in ottobre in Vaticano - a lui era stata affidata una delle cinque relazioni introduttive sulla Parola di Dio nella vita della Chiesa in ciascuno dei cinque continenti. L'arcivescovo di Guwahati è anche una figura di riconciliazione. Lo Stato indiano dell'Assam è infatti da tempo teatro di scontri tra le popolazioni tribali Bodo e i musulmani locali. All'inizio di febbraio mons. Menamparampil si è fatto promotore di un incontro tra i leader delle diverse etnie. Da questo incontro è nato un tavolo comune che si propone di aiutare a superare le tensioni etniche.

[SM=g1740722]

Caterina63
00lunedì 30 marzo 2009 18:10
CELEBRAZIONI DELLA SETTIMANA SANTA 2009 PRESIEDUTE DAL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

 

5 aprile 2009
DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

XXIV Giornata mondiale della Gioventù sul tema:
«Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente» (1Tm 4, 10).

Piazza San Pietro: ore 9.30

Il Santo Padre benedirà le palme e gli ulivi e, al termine della processione, celebrerà la Santa Messa della Passione del Signore.

 

9 aprile 2009
GIOVEDÌ SANTO

SANTA MESSA DEL CRISMA
Basilica Vaticana: ore 9.30

Il Santo Padre presiederà la concelebrazione della Santa Messa Crismale con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma, quale segno della stretta comunione tra il Pastore della Chiesa universale e i suoi fratelli nel Sacerdozio ministeriale.

 

TRIDUO PASQUALE

9 aprile 2009
GIOVEDÌ SANTO

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

Cappella Papale
Basilica di San Giovanni in Laterano: ore 17.30

Il Santo Padre presiederà la concelebrazione della Santa Messa e farà la lavanda dei piedi a dodici sacerdoti. Durante il rito i presenti saranno invitati a compiere un atto di carità a sostegno della comunità cattolica di Gaza. La somma raccolta sarà affidata al Santo Padre al momento della presentazione dei doni.

Al termine della celebrazione avrà luogo la traslazione del Santissimo Sacramento alla Cappella della reposizione.

 

10 aprile 2009
VENERDÌ SANTO[SM=g1740720]

CELEBRAZIONE DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

Cappella Papale
Basilica Vaticana: ore 17

Il Santo Padre presiederà la Liturgia della Parola, l’Adorazione della Croce e il Rito della Comunione.

VIA CRUCIS
Colosseo: ore 21.15


Il Santo Padre presiederà il pio esercizio della «Via Crucis», al termine del quale rivolgerà la Sua parola ai fedeli ed impartirà la Benedizione Apostolica.

 

11 – 12 aprile 2009
DOMENICA DI PASQUA NELLA RISURREZIONE DEL SIGNORE

VEGLIA PASQUALE[SM=g1740717]

Cappella Papale
Basilica Vaticana: ore 21


Il Santo Padre benedirà il fuoco nuovo nell’atrio della Basilica di San Pietro; dopo l'ingresso processionale in Basilica con il cero pasquale e il canto dell'Exsultet, presiederà la Liturgia della Parola, la Liturgia Battesimale e la Liturgia Eucaristica, che sarà concelebrata con i Signori Cardinali.

SANTA MESSA DEL GIORNO
Sagrato della Basilica Vaticana: ore 10.15

Il Santo Padre celebrerà la Santa Messa sul sagrato della Basilica di San Pietro.

Dalla loggia centrale della Basilica impartirà quindi la Benedizione «Urbi et Orbi».

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Come possiamo ben ricordare l'anno scorso il Papa non potè salire sulla Loggia centrale a causa di un vero e proprio nubifragio che si abbattè su Roma durante la Messa....speriamo che quest'anno vada meglio... Occhiolino

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Caterina63
00sabato 4 aprile 2009 10:32
VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA

a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello

La Croce è salvezza e giudizio

Città del Vaticano (Agenzia Fides)

Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, “autore e perfezionatore” della nostra fede, non possiamo in questi giorni carichi di santa tensione spirituale, non porre in evidenza lo stretto legame che intercorre tra la Croce di Cristo e la missione della Chiesa.
La Croce è il segno dell’identificazione dei Cristiani e, per conseguenza, di ogni luogo toccato dalla loro presenza, abitato da una “presenza nuova”, da coloro che sono chiamati a divenire sempre più “corpo mistico” del Signore, sua presenza nel mondo.

In tal senso la Croce è potentemente ed oggettivamente missionaria: annunciare e portare la Croce è annunciare e portare Cristo, il quale, vincendo la morte, ha dato un significato nuovo alla sofferenza, aprendole quell’orizzonte redentivo e partecipativo, che ne fa un vero “luogo di salvezza”.

La Croce di Cristo è luogo di salvezza, è fonte di ogni possibile salvezza: tutti coloro ai quali è offerta la salvezza, anche non cristiani, se saranno salvati, lo saranno unicamente per la Croce di Cristo, e non senza la partecipazione della mediazione ecclesiale (cfr.
Dominus Jesus). Tale certezza sostiene e anima costantemente la missione, rendendo ciascun battezzato un “portatore della croce” sia in senso esplicitamente visibile, sia in senso spirituale.

La medesima Croce, davanti alla quale ogni uomo, direttamente o indirettamente, è chiamato a trovarsi, in certo modo a ricomprendersi radicalmente, è anche “luogo di giudizio”. In questo contesto, giudizio e salvezza non sono da intendere in contrapposizione, ma profondamente legati l’uno all’altro, in quella necessaria complementarietà senza la quale non ci sarebbe un reale rispetto ed una autentica partecipazione della libertà umana al disegno salvifico.
Come ricordato dal Santo Padre: “Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva – questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore.

Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono” (
Spe Salvi 45).

La Croce domanda il nostro atto di fede, domanda la chiarezza dell’annuncio franco dell’unica verità che salva e, soprattutto, la disponibilità ad “offrire se stessi come sacrificio vivente a Dio gradito” per la salvezza propria e del mondo. Dal martirio quotidiano delle “piccole croci” di ciascuno, alla grande chiamata alla testimonianza suprema, ogni cristiano sa bene che “in hoc signo”, nel segno della Croce è la sua vittoria e quella del mondo intero.



                                                     [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]
Caterina63
00domenica 5 aprile 2009 14:54
PER TUTTE LE FOTO DELLA DOMENICA DELLE PALME CON IL PAPA, ANDATE QUI:
Cosa veste il Papa per la Liturgia?


qui procediamo alla meditazione del Magistero benedettiano.... Occhiolino

Un magistero davvero sublime quello di oggi....[SM=g1740734]

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

cari giovani!

Insieme con una schiera crescente di pellegrini, Gesù era salito a Gerusalemme per la Pasqua. Nell’ultima tappa del cammino, vicino a Gerico, Egli aveva guarito il cieco Bartimeo che lo aveva invocato come Figlio di Davide, chiedendo pietà. Ora – essendo ormai capace di vedere – con gratitudine si era inserito nel gruppo dei pellegrini. Quando, alle porte di Gerusalemme, Gesù sale sopra un asino, l’animale simbolo della regalità davidica, tra i pellegrini scoppia spontaneamente la gioiosa certezza: È Lui, il Figlio di Davide! Salutano perciò Gesù con l’acclamazione messianica: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore", e aggiungono: "Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!" (Mc 11, 9s). Non sappiamo che cosa precisamente i pellegrini entusiasti immaginavano fosse il Regno di Davide che viene. Ma noi, abbiamo veramente compreso il messaggio di Gesù, Figlio di Davide? Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?

San Giovanni, nel suo Vangelo, dopo il racconto dell’ingresso in Gerusalemme, riporta una serie di parole di Gesù, nelle quali Egli spiega l’essenziale di questo nuovo genere di Regno. A una prima lettura di questi testi possiamo distinguere tre immagini diverse del Regno nelle quali, sempre in modo diverso, si rispecchia lo stesso mistero. Giovanni racconta innanzitutto che, tra i pellegrini che durante la festa "volevano adorare Dio", c’erano anche alcuni Greci (cfr 12, 20). Facciamo attenzione al fatto che il vero obiettivo di questi pellegrini era di adorare Dio. Questo corrisponde perfettamente a ciò che Gesù dice in occasione della purificazione del Tempio: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni" (Mc 11, 17).

Il vero scopo del pellegrinaggio deve essere quello di incontrare Dio; di adorarlo e così mettere nell’ordine giusto la relazione di fondo della nostra vita. I Greci sono persone alla ricerca di Dio, con la loro vita sono in cammino verso Dio. Ora, per il tramite di due Apostoli di lingua greca, Filippo ed Andrea, fanno giungere al Signore la richiesta: "Vogliamo vedere Gesù" (Gv 12, 21). Una parola grande. Cari amici, per questo ci siamo riuniti qui: Vogliamo vedere Gesù. A questo scopo, l’anno scorso, migliaia di giovani sono andati a Sydney. Certo, avranno avuto molteplici attese per questo pellegrinaggio. Ma l’obiettivo essenziale era questo: Vogliamo vedere Gesù.

Riguardo a questa richiesta, in quell’ora che cosa ha detto e fatto Gesù? Dal Vangelo non risulta chiaramente se ci sia stato un incontro tra quei Greci e Gesù. Lo sguardo di Gesù va molto più in là. Il nucleo della sua risposta alla richiesta di quelle persone è: "Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12, 24). Ciò significa: non ha importanza ora un colloquio più o meno breve con alcune poche persone, che poi ritornano a casa. Come chicco di grano morto e risorto verrò, in modo totalmente nuovo e al di là dei limiti del momento, incontro al mondo e ai Greci. Mediante la risurrezione Gesù oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo. Come Risorto, Egli è in cammino verso la vastità del mondo e della storia.

Sì, come Risorto va dai Greci e parla con loro, si mostra loro così che essi, i lontani, diventano vicini e proprio nella loro lingua, nella loro cultura, la sua parola viene portata avanti in modo nuovo e compresa in modo nuovo – viene il suo Regno. Possiamo così riconoscere due caratteristiche essenziali di questo Regno. La prima è che questo Regno passa attraverso la croce. Poiché Gesù si dona totalmente, può come Risorto appartenere a tutti e rendersi presente a tutti. Nella santa Eucaristia riceviamo il frutto del chicco di grano morto, la moltiplicazione dei pani che prosegue sino alla fine del mondo e in tutti i tempi. La seconda caratteristica dice: il suo Regno è universale. Si adempie l’antica speranza di Israele: questa regalità di Davide non conosce più frontiere. Si estende "da mare a mare" – come dice il profeta Zaccaria (9, 10) – cioè abbraccia tutto il mondo.

Questo, però, è possibile solo perché non è una regalità di un potere politico, ma si basa unicamente sulla libera adesione dell’amore – un amore che, da parte sua, risponde all’amore di Gesù Cristo che si è donato per tutti. Penso che dobbiamo imparare sempre di nuovo ambedue le cose – innanzitutto l’universalità, la cattolicità. Essa significa che nessuno può porre come assoluto se stesso, la sua cultura, il suo tempo e il suo mondo. Ciò richiede che tutti ci accogliamo a vicenda, rinunciando a qualcosa di nostro. L’universalità include il mistero della croce – il superamento di se stessi, l’obbedienza verso la comune parola di Gesù Cristo nella comune Chiesa. L’universalità è sempre un superamento di se stessi, rinuncia a qualcosa di personale. L’universalità e la croce vanno insieme. Solo così si crea la pace.

La parola circa il chicco di grano morto fa ancora parte della risposta di Gesù ai Greci, è la sua risposta. Poi, però, Egli formula ancora una volta la legge fondamentale dell’esistenza umana: "Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna" (Gv 12, 25). Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per se stesso, stringere tutto a sé e sfruttarne tutte le possibilità – proprio costui perde la vita. Essa diventa noiosa e vuota. Soltanto nell’abbandono di se stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’io in favore del tu, soltanto nel "sì" alla vita più grande, propria di Dio, anche la nostra vita diventa ampia e grande. Così questo principio fondamentale, che il Signore stabilisce, in ultima analisi è semplicemente identico al principio dell’amore.

L’amore, infatti, significa lasciare se stessi, donarsi, non voler possedere se stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su se stessi – cosa sarà di me –, ma guardare avanti, verso l’altro – verso Dio e verso gli uomini che Egli mi manda. E questo principio dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è ancora una volta identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo in Cristo.

Cari amici, è forse relativamente facile accettare questo come grande visione fondamentale della vita. Nella realtà concreta, però, non si tratta di semplicemente riconoscere un principio, ma di vivere la sua verità, la verità della croce e della risurrezione. E per questo, di nuovo, non basta un’unica grande decisione. È sicuramente importante osare una volta la grande decisione fondamentale, osare il grande "sì", che il Signore ci chiede in un certo momento della nostra vita. Ma il grande "sì" del momento decisivo nella nostra vita – il "sì" alla verità che il Signore ci mette davanti – deve poi essere quotidianamente riconquistato nelle situazioni di tutti i giorni in cui, sempre di nuovo, dobbiamo abbandonare il nostro io, metterci a disposizione, quando in fondo vorremmo invece aggrapparci al nostro io. Ad una vita retta appartiene anche il sacrificio, la rinuncia. Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente. Non esiste una vita riuscita senza sacrificio. Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto "sì" ad una rinuncia sono stati i momenti grandi ed importanti della mia vita.

Infine, san Giovanni ha accolto, nella sua composizione delle parole del Signore per la "Domenica delle Palme", anche una forma modificata della preghiera di Gesù nell’Orto degli Ulivi. C’è innanzitutto l’affermazione: "L’anima mia è turbata" (12, 27). Qui appare lo spavento di Gesù, illustrato ampiamente dagli altri tre evangelisti – il suo spavento davanti al potere della morte, davanti a tutto l’abisso del male che Egli vede e nel quale deve discendere. Il Signore soffre le nostre angosce insieme con noi, ci accompagna attraverso l’ultima angoscia fino alla luce.

Poi seguono in Giovanni le due domande di Gesù. La prima, espressa solo condizionatamente: "Che cosa dirò – Padre, salvami da quest’ora?" (12, 27). Come essere umano, anche Gesù si sente spinto a chiedere che gli sia risparmiato il terrore della passione. Anche noi possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirGli: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!" (Gen 32, 27).

Ma poi viene la seconda domanda di Gesù: "Glorifica il tuo nome!" (Gv 12, 28 ). Nei sinottici, questa domanda suona così: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!" (Lc 22, 42). Alla fine la gloria di Dio, la sua signoria, la sua volontà è sempre più importante e più vera che il mio pensiero e la mia volontà. Ed è questo l’essenziale nella nostra preghiera e nella nostra vita: apprendere questo ordine giusto della realtà, accettarlo intimamente; confidare in Dio e credere che Egli sta facendo la cosa giusta; che la sua volontà è la verità e l’amore; che la mia vita diventa buona se imparo ad aderire a quest’ordine. Vita, morte e risurrezione di Gesù sono per noi la garanzia che possiamo veramente fidarci di Dio. È in questo modo che si realizza il suo Regno.

Cari amici! Alla fine di questa Liturgia, i giovani dell’Australia consegneranno la Croce della Giornata Mondiale della Gioventù ai loro coetanei della Spagna. La Croce è in cammino da un lato del mondo all’altro, da mare a mare. E noi la accompagniamo. Progrediamo con essa sulla sua strada e troviamo così la nostra strada. Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo – noi – da dare il Figlio unigenito per noi (cfr Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Ma tocchiamo anche la legge fondamentale, la norma costitutiva della nostra vita, cioè il fatto che senza il "sì" alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo giorno per giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore – per amore della verità e dell’amore di Dio – possiamo fare anche qualche rinuncia, tanto più grande e più ricca diventa la vita. Chi vuole riservare la sua vita per se stesso, la perde. Chi dona la sua vita – quotidianamente nei piccoli gesti, che fanno parte della grande decisione – questi la trova. È questa la verità esigente, ma anche profondamente bella e liberatrice, nella quale vogliamo passo passo entrare durante il cammino della Croce attraverso i continenti. Voglia il Signore benedire questo cammino. Amen.

[00533-01.01] [Testo originale: Italiano]








 
[SM=g1740733]
Caterina63
00martedì 7 aprile 2009 22:27
Monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, spiega i riti della Settimana santa

Nel cuore
del mistero della salvezza


di Gianluca Biccini

Il Resurrexit prima dell'inizio della celebrazione eucaristica e una breve omelia di Benedetto XVI durante la messa. Nella liturgia della domenica di Pasqua alcune particolarità nei riti presieduti dal Papa durante la Settimana santa 2009. Le ha anticipate in quest'intervista al nostro giornale il Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, che nella fedeltà alla tradizione continua a rinnovare le cerimonie papali.

Può indicarci un tema di fondo, l'idea guida del triduo sacro 2009?

È in una frase del vangelo di Giovanni "Li amò fino alla fine" (13, 1). I riti liturgici della Settimana Santa, del resto, ci conducono al cuore del mistero della salvezza, al centro del disegno provvidenziale mediante il quale Dio ha voluto salvare l'umanità. Ogni celebrazione, con la modalità propria del segno liturgico, fatto di parole, gesti, silenzi, immagini, musica e canto, intende condurre alla contemplazione dolorosa del mistero della miseria umana. Quest'ultimo a sua volta è illuminato dal mistero dell'infinita misericordia del Salvatore:  solo in Cristo risorto da morte, "via, verità e vita", trova luce il mistero dell'uomo. Tutto deve lasciare trasparire la bellezza del volto di Dio i cui tratti sono la verità e l'amore, la Verità che è Amore:  "li amò fino alla fine".

Quali risvolti possono avere queste considerazioni per i fedeli, nel vissuto di ogni giorno?

Dalla contemplazione si è condotti alla pratica della vita:  perché lo sguardo attento allo svolgersi del mistero della salvezza è autentico nella misura in cui ciascuno percorre, nella propria esistenza quotidiana, il passaggio dal peccato alla grazia, dalla lontananza da Dio alla vicinanza con Dio, dalla mediocrità alla santità.

Sta in questo l'attualità della Pasqua?

Direi di sì. In virtù della celebrazione liturgica il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore non è solo un fatto della storia passata, ma è anche un avvenimento per l'oggi di ogni uomo e a cui tutti possono attingere per avere in dono la vita. Cristo risorto da morte è il Vivente.

A un mese dal viaggio del Papa in Terra Santa, appare anche evidente il riferimento ai luoghi dell'incarnazione, con un duplice richiamo.

È consuetudine che le offerte raccolte nel corso della messa crismale del Giovedì santo vengano devolute per prestare aiuto a qualche realtà bisognosa. Per quest'anno è stata individuata la comunità cattolica di Gaza.
Va inoltre aggiunto che alla Via Crucis al Colosseo, gli ultimi due a prendere in mano la grande croce lignea saranno due frati della Custodia francescana di Terra Santa.

Veniamo al calendario delle celebrazioni. Si inizia giovedì mattina, 9 aprile, con la messa crismale nella basilica di San Pietro. Quali sono le peculiarità di questo rito particolarmente importante per i preti?

Con Benedetto XVI concelebreranno 1.600 sacerdoti del clero secolare e religioso della diocesi di Roma e dei collegi romani. Nella circostanza rinnoveranno le promesse sacerdotali. Verranno inoltre benedetti gli oli dei catecumeni e degli infermi e il crisma. La presentazione degli oli dei catecumeni sarà accompagnata da alcuni neofiti che saranno battezzati la notte di Pasqua; quella degli oli degli infermi, da ammalati che riceveranno il sacramento dell'unzione; quella del crisma, da giovani cresimandi e da due diaconi in procinto di essere ordinati sacerdoti.
Tre delle anfore contenenti gli oli sono di Mario Toffetti, al quale si deve anche il fonte battesimale usato per la veglia pasquale e per i battesimi nella Cappella Sistina. Le altre tre, in argento, sono un dono di qualche anno fa, proveniente dalla Spagna. L'olio per la celebrazione è offerto dalla cooperativa "Arte e alimentaciòn sl" di Castelseras in Spagna; l'essenza profumata per il crisma, dal consorzio del bergamotto, di Reggio Calabria. Al termine della messa gli oli verranno portati a San Giovanni in Laterano, dove saranno distribuiti ai sacerdoti della diocesi di Roma per l'amministrazione dei sacramenti nel corso dell'anno.

E nella cattedrale di Roma il Papa celebrerà la messa nella Cena del Signore, destinando le offerte ai cattolici di Gaza. Oltre al gesto della lavanda dei piedi, quali saranno le altre caratteristiche di questa celebrazione?

Benedetto XVI siederà alla cattedra papale:  quella di San Giovanni è infatti la cattedra propria del vescovo di Roma. Il Pontefice inoltre compirà il gesto della lavanda dei piedi a dodici sacerdoti, canonici lateranensi. Viene dunque riproposto il gesto stesso di Gesù agli apostoli, rivelazione del mistero di Dio e segno di donazione totale della vita. Com'è consuetudine, inoltre, Benedetto XVI distribuirà la comunione ad alcuni membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Al termine si svolgerà la breve processione con la reposizione del Santissimo Sacramento all'altare della cappella di San Francesco.

Due gli appuntamenti per venerdì 10:  prima nella basilica Vaticana per la celebrazione della Passione del Signore; poi al centro di Roma, per la suggestiva Via Crucis al Colosseo. Cosa unisce i due momenti?

La centralità della croce. Le luci soffuse della basilica saranno il segno del clima penitenziale della prima celebrazione. All'inizio Benedetto XVI si inginocchierà alcuni minuti davanti alla croce pregando in silenzio, in segno di richiesta di perdono e di penitenza; poi ostenderà la croce, presentandola all'adorazione dei fedeli, e la bacerà togliendo le scarpe, sempre in segno di penitenza. Il crocifisso, austero e artistico, usato per l'ostensione risale al pontificato di Leone xiii. Il racconto della Passione sarà cantato da tre diaconi con il concorso della Cappella Sistina. L'omelia sarà tenuta dal predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino Raniero Cantalamessa.
La sede papale, come già avvenuto in altre occasioni, sarà collocata di fronte alla statua di San Pietro, nella navata centrale della basilica. I cardinali diaconi che assisteranno il Pontefice sono Stanislaw Rylko e Giovanni Lajolo.
Per quanto riguarda la Via Crucis è già noto che i testi sono stati preparati dal vescovo salesiano di Guwahati, monsignor Thomas Menamparampil. Possiamo aggiungere che le immagini del libretto a uso dei fedeli sono un prodotto tipico dell'arte indiana. Ne è autrice suor Marie Claire Naidu, della chiesa dell'Assunzione della Beata Vergine Maria, a Bangalore.
Nell'anfiteatro le torce accanto alla croce saranno portate da due giovani della diocesi di Roma; mentre quest'ultima passerà tra le mani del cardinale vicario, Agostino Vallini, di una famiglia, di due religiose indiane e di una giovane indiana, di un disabile, di due ragazze africane, di un malato sulla sedia a rotelle accompagnato da due assistenti, dei due citati frati di Terra Santa.

Sabato notte, alle ore 21, la veglia pasquale nella basilica Vaticana, che sant'Agostino chiamava la "madre di tutte le veglie". Qualche ulteriore dettaglio?

L'inizio della celebrazione avrà luogo nell'atrio antistante la basilica, dove avverrà il rito della benedizione del fuoco e dell'accensione del cero pasquale, preparato come di consueto dalla Comunità del cammino neocatecumenale. Nella basilica il passaggio dal buio alla luce simboleggerà l'ingresso della Luce che è Cristo, via, verità e vita, nel mondo tenebroso del peccato, della solitudine e della morte. Il Papa amministrerà il battesimo, la confermazione e la prima comunione a cinque catecumeni adulti preparati dal Vicariato di Roma:  due uomini e tre donne, tra le quali una cinese cinquantaseienne. I cinque riceveranno la comunione sotto le due specie del pane e del vino, Corpo e Sangue del Signore. La collocazione del fonte battesimale di Toffetti al centro ai piedi della Confessione con accanto il cero pasquale, intende anche sottolineare l'importanza simbolica del fonte battesimale, nella liturgia della Veglia di Pasqua.

Terminiamo con la Pasqua di Risurrezione e con le novità già accennate per i fedeli che troveranno piazza San Pietro addobbata, come di consueto, con i fiori offerti dagli olandesi.

All'inizio della celebrazione è previsto il rito del Resurrexit con l'apertura dell'immagine del Risorto. Si tratta della neo Acheropita, un'icona realizzata prestando la debita attenzione al prototipo medioevale. La nuova icona, come quella antica, è costituita dall'immagine dipinta del Salvatore - seduto in trono - con due sportelli laterali. Quest'anno, per una adesione maggiore al significato originale di questo rito, che anticamente era compiuto prima e al di fuori della messa, nella basilica lateranense, da cui il Papa procedeva processionalmente per recarsi in Santa Maria Maggiore dove celebrava l'eucaristia, il rito è collocato prima dell'inizio della celebrazione.
Il Papa, inoltre, compirà il rito dell'aspersione a ricordo del battesimo come atto penitenziale che introduce alla celebrazione dei Santi Misteri del Signore; e, a differenza degli anni scorsi, terrà una breve omelia.
Infine, al termine della messa - assistito dai cardinali Agostino Cacciavillan, protodiacono, e Julián Herranz - impartirà come di consueto la benedizione urbi et orbi dalla loggia centrale della basilica Vaticana.



(©L'Osservatore Romano - 8 aprile 2009)
Caterina63
00mercoledì 8 aprile 2009 16:19
Mi dispiace non poter seguire con voi la Pasqua qui dal forum....a Dio piacendo domani siamo in partenza per Trieste e rientreremo per Lunedì dell'Angelo.....

Vi ricordo, per le dirette:

http://magisterobenedettoxvi.blogspot.com/2007/03/feste-pasquali-2006-2007.html

il Blog di Raffaella è spesso il primo a postare in rete i testi integrali de Pontefice...prima ancora del sito del Vaticano. [SM=g1740721]

Diretta video audio:
www.sat2000.it

oppure dal sito vaticano:
http://www.vatican.va/news_services/television/index-plugin_it.htm

Per le foto cliccate qui
http://benedettoxviforum.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8281109&a=2#last

non sono proprio in diretta, ma le amiche del forum dopo qualche ora vi posteranno tutte le foto che troveranno in rete.... [SM=g1740722]


Sperando di riuscire a vivere gli impegni ecclesiali e con voi in unione di Preghiera e con il Papa, auguro a tutti voi una serena Pasqua



                        [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]

[SM=g1740733]

Cattolico_Romano
00venerdì 10 aprile 2009 10:33
 
Giovedi Santo 9 Aprile

Omelia alla Messa in Coena Domini

L'Eucarestia è l'inizio della trasformazione del mondo

  


Cari fratelli e sorelle!

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem: così diremo oggi nel Canone della Santa Messa. “Hoc est hodie” – la Liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola “oggi”, sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato “oggi” che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo “oggi” è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo “oggi”. Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso.

Con la parola “oggi”, la Liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione così come la Chiesa,  in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.

Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: qui pridie. Questo “qui” aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, “… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo”. In questo modo, il racconto dell’istituzione è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo.

Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel Cenacolo, poiché l’agire di Gesù viene descritto con le parole: “gratias agens benedixit – rese grazie con la preghiera di benedizione”. Con questa espressione, la Liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico berakha è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini eucharistía ed eulogía. Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La Liturgia romana ha ragione nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: “offriamo”, “supplichiamo”, “chiediamo di accettare”, “di benedire queste offerte”. Tutto questo si nasconde nella parola “eucaristia”

C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. “Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili…”. Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani, che ha imposto agli uomini; alle mani, che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perché mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’Ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinché diventino mani di benedizione. Preghiamo il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!

Dall’introduzione alla Preghiera sacerdotale di Gesù (cfr Gv 17, 1), il Canone prende le parole: “Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente…” Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore. A sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinché non accolgano e lascino entrare in noi le “vanitates” – le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinché diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinché guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della  nostra azione.

Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere – con-dividere è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero “pane per la vita del mondo” (cfr Gv 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinché diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.

Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola “agape” i significati di Eucaristia e amore si compènetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo, se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una – l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.

Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come “praeclarus calix” (come calice glorioso), alludendo con ciò al Salmo 23 [22], quel Salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: “Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici … Il mio calice trabocca” – calix praeclarus. Il Canone romano interpreta questa parola del Salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso – il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo – il calice colmo del vino del suo amore. Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’“ora”, alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione “novum Testamentum”. Questo calice è il nuovo Testamento – “la nuova Alleanza nel mio sangue”, come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Cor 11, 25). Il Canone romano aggiunge: “per la nuova ed eterna alleanza”, per esprimere l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di Alleanza, ma di Testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica Alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore – se stesso. Certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente “partner” e si realizza il mistero nuziale dell’amore.

Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, “ratificare un’alleanza” significa “entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così in una comunione di diritti l’uno con l’altro”. In questo modo si crea una consanguineità reale benché non materiale. I partner diventano in qualche modo “fratelli della stessa carne e delle stesse ossa”. L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr ThWNT II 105 – 137).

Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una “consanguineità” tra sé e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinché comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinché esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.

Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel Cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: “Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo…” (Gv 10, 18). Nessuno può toglierGli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.

Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Pènetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo “oggi”. Rendici strumenti della tua pace!
Amen.

www.avvenire.it

Cattolico_Romano
00venerdì 10 aprile 2009 10:38
 
 
 

 

 

 
Cattolico_Romano
00sabato 11 aprile 2009 13:41
Benedetto XVI a San Giovanni in Laterano per la messa «in cena Domini»

Occhi per guardare il mondo con amore
Mani per spezzare e condividere il pane


Benedetto XVI ha aperto il triduo pasquale celebrando nel pomeriggio del 9 aprile, Giovedì Santo, la messa "in cena Domini" nella basilica di San Giovanni in Laterano. Durante il rito, nel quale si ricorda l'istituzione dell'Eucaristia, il Papa ha ripetuto il gesto della lavanda dei piedi con dodici sacerdoti.

Cari fratelli e sorelle!
Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem:  così diremo oggi nel Canone della Santa Messa. "Hoc est hodie" - la Liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola "oggi", sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata.

È stato "oggi" che Egli l'ha fatto:  per sempre ha donato se stesso a noi nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo "oggi" è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora.
Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo "oggi". Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso.
Con la parola "oggi", la Liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell'istituzione così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.
Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell'istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo:  qui pridie. Questo "qui" aggancia l'intero racconto alla precedente parola della preghiera, "... diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo".
In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l'intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera.
E soltanto nella preghiera si realizza l'atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo.
Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l'avvenimento nel Cenacolo, poiché l'agire di Gesù viene descritto con le parole:  "gratias agens benedixit - rese grazie con la preghiera di benedizione".
Con questa espressione, la Liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell'ebraico berakha è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini eucharistía ed eulogía.
Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, "frutto della terra e del lavoro dell'uomo", per riceverlo nuovamente da Lui.
Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La Liturgia romana ha ragione, quindi, nell'interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole:  "offriamo", "supplichiamo", "chiediamo di accettare", "di benedire queste offerte". Tutto questo si nasconde nella parola "eucharistia".

C'è un'altra particolarità nel racconto dell'istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest'ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell'ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. "Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili...".
Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani, che ha imposto agli uomini; alle mani, che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto:  prendere nelle mani il pane perché mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell'Ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinché diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest'ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!

Dall'introduzione alla Preghiera sacerdotale di Gesù (cfr. Gv 17, 1), il Canone prende poi le parole:  "Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente..." Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore. A sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinché non accolgano e non lascino entrare in noi le "vanitates" - le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza.
Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinché diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinché guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione.

Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell'ospitalità con cui lo straniero, l'ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere - con-dividere è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all'amore sino alla morte.
Egli distribuisce se stesso, il vero "pane per la vita del mondo" (cfr. Gv 6, 51). Il nutrimento di cui l'uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l'inizio della trasformazione del mondo. Affinché diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell'uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.

Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell'unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l'intima natura dell'Eucaristia:  essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola "agape" i significati di Eucaristia e amore si compènetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l'amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema:  Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo.
Allo stesso tempo vediamo che l'Eucaristia non può mai essere solo un'azione liturgica. È completa solo, se l'agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una - l'essere gratificati dal Signore nell'atto cultuale e il culto dell'amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest'ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell'Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.
 

Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino.
Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come "praeclarus calix" (come calice glorioso), alludendo con ciò al Salmo 23 [22], quel Salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge:  "Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici ... Il mio calice trabocca" - è calix praeclarus.
Il Canone romano interpreta questa parola del Salmo come una profezia, che si adempie nell'Eucaristia:  Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso - il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo - il calice colmo del vino del suo amore.
Il calice significa le nozze:  adesso è arrivata l'"ora", alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l'Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell'autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell'Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l'espressione "novum Testamentum".
Questo calice è il nuovo Testamento - "la nuova Alleanza nel mio sangue", come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Kor 11, 25). Il Canone romano aggiunge:  "per la nuova ed eterna alleanza", per esprimere l'indissolubilità del legame nuziale di Dio con l'umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di Alleanza, ma di Testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l'infinita distanza tra Dio e l'uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica Alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore - se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente "partner" e si realizza il mistero nuziale dell'amore.
 

Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, "ratificare un'alleanza" significa "entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l'altro nella propria federazione ed entrare così in una comunione di diritti l'uno con l'altro". In questo modo si crea una consanguineità reale benché non materiale. 

I partner diventano in qualche modo "fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa". L'alleanza opera un'insieme che significa pace (cfr. ThWNT II 105 - 137). Possiamo adesso farci almeno un'idea di ciò che avvenne nell'ora dell'Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l'Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una "consanguineità" tra sé e noi. Mediante l'incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso.

Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinché comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinché esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.


Ora, però, emerge ancora un'altra domanda. Nel Cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è:  in quell'ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore:  "Nessuno mi toglie la mia vita:  io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo..." (Gv 10, 18). Nessuno può toglierGli la vita:  Egli la dà per libera decisione. In quell'ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.


Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Pènetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo "oggi". Rendici strumenti della tua pace! Amen.



(©L'Osservatore Romano - 11 aprile 2009)
Cattolico_Romano
00sabato 11 aprile 2009 13:45

 






 




 
Cattolico_Romano
00domenica 12 aprile 2009 06:51
 La Passione del Signore nella basilica Vaticana e la Via Crucis al Colosseo

Le celebrazioni del Venerdì santo
presiedute dal Papa


Enorme, pesante la Croce mostrata venerdì notte dal Papa sul Colle Palatino. Su di essa, abbracciate al Cristo crocifisso, le vittime dell'immane tragedia che ha sconvolto l'Abruzzo. Ai suoi piedi un popolo affranto dal dolore. Capisce, ma fa difficoltà ad accettare. Lungo il percorso migliaia di Cirenei pronti a prodigarsi nell'aiutare a sostenerne il peso. E non sono mancate novelle Veroniche. Non avevano teli, ma coperte, tende e un pasto caldo.

È stata senza dubbio la riproposizione più lunga della Via Dolorosa quella vissuta ieri, Venerdì santo, 10 aprile. Alle 11 del mattino nella scuola della Guardia di finanza a Coppito, in provincia dell'Aquila, la prima stazione. Poco dopo le 22.40, sul Colle Palatino, a Roma, la quattordicesima e ultima.


 
La croce, una volta di più venerdì sera, e con una forza incredibile, si è mostrata protagonista nella storia dell'umanità. Da quelle bare allineate sul campo della città dell'uomo, ferita ma non distrutta, la croce si è innalzata tra le mani del Papa, mostrata al mondo intero come simbolo della Città di Dio, nella luce eterna della indomita speranza cristiana.

Ha assunto toni particolari la tradizionale celebrazione della Via Crucis con il Papa tra il Colosseo e il Colle Palatino. Un appuntamento che solitamente richiama centinaia di milioni di persone collegate in mondovisione. Ieri poi c'era un motivo in più per essere in qualche modo presenti. C'era da pregare per le vittime del terremoto. Con il Papa. Ed è straordinario come la prima delle meditazioni che hanno accompagnato la pia pratica, composte più di un mese fa da monsignor Thomas Menamparampil, arcivescovo di Guwahati, India, sembrava essere stata scritta proprio all'indomani di questa immane tragedia. "Siamo venuti qui - si legge tra l'altro - a cantare insieme un inno di speranza. Vogliamo dire a noi stessi che tutto non è perduto nei momenti di difficoltà. Quando le cattive notizie si susseguono... quando la disgrazia ci colpisce da vicino... quando una calamità fa di noi le sue vittime... In tempi difficili non vediamo nessun motivo per credere e per sperare. Eppure crediamo. Eppure speriamo".

La croce era nelle mani del cardinale Vicario di Roma Agostino Vallini, all'interno dell'Anfiteatro Flavio. Il Papa era inginocchiato sul Colle Palatino. La preghiera corale delle migliaia di persone che gremivano tutta l'area attorno al Colosseo - tra i presenti il sindaco di Roma e il direttore del nostro giornale - ha scandito i passi dell'itinerario della croce, passata di mano di stazione in stazione. Da quelle del cardinale Vallini a quelle di Simon Pugsley, diversamente abile, la cui sedia a rotelle era spinta da un medico e da un infermiere del Sovrano Militare Ordine di Malta, a quelle di Piero e Paola Fusco che avevano attorno Matteo, Elena e Marco i loro tre piccoli bambini; a quelle di Mauro Libianchi, anch'egli sofferente per una grave malattia; a quelle di tre religiose asiatiche Suor Lidia e le novizie Philomina Solomon e Jincy, a quelle di Maureen e Cèdric, due giovani del Burkina Faso, per essere poi sorretta nell'ultima stazione da due frati della Custodia di Terra Santa, Gianfranco Pinto Ostuni e Jihad Krayen. È stato poi il cardinale Vallini a consegnare la croce nelle mani del Papa perché la mostrasse al mondo con il suo carico di dolore ma nella luce della speranza.


Di fronte a quella stessa croce Benedetto XVI aveva poco prima sostato in silenziosa adorazione durante la celebrazione della Passione del Signore svoltasi nel pomeriggio nella basilica Vaticana. Scalzo, vestito solo con il camice bianco e la stola rossa, il Pontefice si è inginocchiato e ha baciato l'antico crocifisso ligneo - risalente al pontificato di Leone xIII - posto davanti all'altare della Confessione, spoglia di fiori e di arredi. Un gesto ripetuto poi da cardinali, arcivescovi, vescovi, prelati della Curia romana, canonici della basilica, e da una rappresentanza di sacerdoti, religiosi e laici.



La venerazione della croce è stata il momento centrale del rito che il Papa ha presieduto dalla cattedra posta dinanzi alla statua di san Pietro nella navata centrale della basilica, le cui luci soffuse hanno dato il senso del clima penitenziale della celebrazione. Ad assistere Benedetto XVI i cardinali diaconi Lajolo e Rylko, che insieme con lui si sono inginocchiati in silenziosa preghiera davanti all'altare della Confessione all'inizio della liturgia. Il racconto della passione del Signore, tratto dal vangelo di Giovanni (18, 1 - 19, 42), è stato cantato in latino da tre diaconi, con intermezzi della Cappella Sistina diretta dal maestro Liberto. Successivamente il predicatore della Casa Pontificia padre Raniero Cantalamessa ha tenuto l'omelia.


Al termine il Pontefice ha guidato la preghiera universale:  dieci intenzioni tramandate dall'antica liturgia romana e proclamate in francese, inglese, polacco, russo, tedesco, portoghese, filippino, swahili, arabo e spagnolo. Quindi un diacono ha portato all'altare il crocifisso velato da un drappo rosso, che il Papa ha scoperto mentre per tre volte è risuonato nella basilica l'Ecce lignum Crucis. Al termine Benedetto XVI ha alzato la croce presentandola all'adorazione dei fedeli. Il rito si è concluso con la comunione, amministrata ai fedeli dal Pontefice e da novanta sacerdoti.
 
Alla celebrazione hanno partecipato ventisette cardinali, tra i quali Sodano, decano del collegio cardinalizio, Bertone, segretario di Stato, e Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi. Con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede erano gli arcivescovi Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, e Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, i monsignori Caccia, assessore, Parolin, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, e Nwachukwu, capo del Protocollo. Tra i numerosi presuli presenti, gli arcivescovi Viganò, nunzio apostolico, delegato per le Rappresentanze Pontificie, e Sardi, nunzio apostolico con incarichi speciali.

Accanto alla cattedra del Papa avevano preso posto gli arcivescovi del Blanco Prieto, elemosiniere di Sua Santità, e Harvey, prefetto della Casa Pontificia, il vescovo De Nicolò, reggente della Prefettura, e i monsignori Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e Xuereb, della segreteria particolare.



(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)
Cattolico_Romano
00lunedì 13 aprile 2009 07:16
Santa Messa del Crisma...






































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00lunedì 13 aprile 2009 07:17
Santa Messa in Coena Domini...





















 
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00lunedì 13 aprile 2009 07:17
Liturgia della Passione...























 
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00lunedì 13 aprile 2009 07:18
Liturgia della Passione...



































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00lunedì 13 aprile 2009 07:18
Via Crucis...























 
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00lunedì 13 aprile 2009 07:19
Via Crucis...























Cattolico_Romano
00lunedì 13 aprile 2009 07:21

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Sabato Santo, 11 aprile 2009

 

Cari fratelli e sorelle! 

San Marco ci racconta nel suo Vangelo che i discepoli, scendendo dal monte della Trasfigurazione, discutevano tra di loro su che cosa volesse dire “risorgere dai morti” (cfr Mc 9, 10). Prima il Signore aveva annunciato loro la sua passione e la risurrezione dopo tre giorni. Pietro aveva protestato contro l’annuncio della morte.

Ma ora si domandavano che cosa potesse essere inteso con il termine “risurrezione”. Non succede forse la stessa cosa anche a noi? Il Natale, la nascita del Bambino divino ci è in qualche modo immediatamente comprensibile. Possiamo amare il Bambino, possiamo immaginare la notte di Betlemme, la gioia di Maria, la gioia di san Giuseppe e dei pastori e il giubilo degli angeli. Ma risurrezione – che cosa è? Non entra nell’ambito delle nostre esperienze, e così il messaggio spesso rimane, in qualche misura incompreso, una cosa del passato. La Chiesa cerca di condurci alla sua comprensione, traducendo questo avvenimento misterioso nel linguaggio dei simboli nei quali possiamo in qualche modo contemplare questo evento sconvolgente. Nella Veglia Pasquale ci indica il significato di questo giorno soprattutto mediante tre simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo – l’alleluia. 

C’è innanzitutto la luce. La creazione di Dio – ne abbiamo appena ascoltato il racconto biblico – comincia con la parola: “Sia la luce!” (Gen 1, 3). Dove c’è la luce, nasce la vita, il caos può trasformarsi in cosmo. Nel messaggio biblico, la luce è l’immagine più immediata di Dio: Egli è interamente Luminosità, Vita, Verità, Luce. Nella Veglia Pasquale, la Chiesa legge il racconto della creazione come profezia. Nella risurrezione si verifica in modo più sublime ciò che questo testo descrive come l’inizio di tutte le cose. Dio dice nuovamente: “Sia la luce!”.

La risurrezione di Gesù è un’eruzione di luce. La morte è superata, il sepolcro spalancato. Il Risorto stesso è Luce, la Luce del mondo. Con la risurrezione il giorno di Dio entra nelle notti della storia. A partire dalla risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno. Solo questa Luce – Gesù Cristo – è la luce vera, più del fenomeno fisico di luce. Egli è la Luce pura: Dio stesso, che fa nascere una nuova creazione in mezzo a quella antica, trasforma il caos in cosmo. 

Cerchiamo di comprendere questo ancora un po’ meglio. Perché Cristo è Luce? Nell’Antico Testamento, la Torah era considerata come la luce proveniente da Dio per il mondo e per gli uomini. Essa separa nella creazione la luce dalle tenebre, cioè il bene dal male. Indica all’uomo la via giusta per vivere veramente. Gli indica il bene, gli mostra la verità e lo conduce verso l’amore, che è il suo contenuto più profondo. Essa è “lampada” per i passi e “luce” sul cammino (cfr Sal 119, 105). I cristiani, poi, sapevano: in Cristo è presente la Torah, la Parola di Dio è presente in Lui come Persona. La Parola di Dio è la vera Luce di cui l’uomo ha bisogno. Questa Parola è presente in Lui, nel Figlio. Il Salmo 19 aveva paragonato la Torah al sole che, sorgendo, manifesta la gloria di Dio visibilmente in tutto il mondo. I cristiani capiscono: sì, nella risurrezione il Figlio di Dio è sorto come Luce sul mondo. Cristo è la grande Luce dalla quale proviene ogni vita. Egli ci fa riconoscere la gloria di Dio da un confine all’altro della terra. Egli ci indica la strada. Egli è il giorno di Dio che ora, crescendo, si diffonde per tutta la terra. Adesso, vivendo con Lui e per Lui, possiamo vivere nella luce. 

Nella Veglia Pasquale, la Chiesa rappresenta il mistero di luce del Cristo nel segno del cero pasquale, la cui fiamma è insieme luce e calore. Il simbolismo della luce è connesso con quello del fuoco: luminosità e calore, luminosità ed energia di trasformazione contenuta nel fuoco – verità e amore vanno insieme. Il cero pasquale arde e con ciò si consuma: croce e risurrezione sono inseparabili. Dalla croce, dall’autodonazione del Figlio nasce la luce, viene la vera luminosità nel mondo. Al cero pasquale noi tutti accendiamo le nostre candele, soprattutto quelle dei neobattezzati, ai quali in questo Sacramento la luce di Cristo viene calata nel profondo del cuore. La Chiesa antica ha qualificato il Battesimo come fotismos, come Sacramento dell’illuminazione, come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione di Cristo. Nel Battesimo Dio dice al battezzando: “Sia la luce!”. Il battezzando viene introdotto entro la luce di Cristo. Cristo divide ora la luce dalle tenebre. In Lui riconosciamo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è la luminosità e che cosa il buio. Con Lui sorge in noi la luce della verità e cominciamo a capire. Quando una volta Cristo vide la gente che era convenuta per ascoltarlo e aspettava da Lui un orientamento, ne sentì compassione, perché erano come pecore senza pastore (cfr Mc 6, 34).

In mezzo alle correnti contrastanti del loro tempo non sapevano dove rivolgersi. Quanta compassione Egli deve sentire anche del nostro tempo – a causa di tutti i grandi discorsi dietro i quali si nasconde in realtà un grande disorientamento. Dove dobbiamo andare? Quali sono i valori, secondo cui possiamo regolarci? I valori secondo cui possiamo educare i giovani, senza dare loro delle norme che forse non resisteranno o esigere delle cose che forse non devono essere loro imposte? Egli è la Luce. La candela battesimale è il simbolo dell’illuminazione che nel Battesimo ci vien donata. Così in quest’ora anche san Paolo ci parla in modo molto immediato. Nella Lettera ai Filippesi dice che, in mezzo a una generazione tortuosa e stravolta, i cristiani dovrebbero risplendere come astri nel mondo (cfr Fil 2, 15). Preghiamo il Signore che il piccolo lume della candela, che Egli ha acceso in noi, la luce delicata della sua parola e del suo amore in mezzo alle confusioni di questo tempo non si spenga in noi, ma diventi sempre più grande e più luminosa. Affinché siamo con Lui persone del giorno, astri per il nostro tempo. 

Il secondo simbolo della Veglia Pasquale – la notte del Battesimo – è l’acqua. Essa appare nella Sacra Scrittura, e quindi anche nella struttura interiore del Sacramento del Battesimo, in due significati opposti. C’è da una parte il mare che appare come il potere antagonista della vita sulla terra, come la sua continua  minaccia, alla quale Dio, però, ha posto un limite. Per questo l’Apocalisse dice del mondo nuovo di Dio che lì il mare non ci sarà più (cfr 21, 1). È l’elemento della morte. E così diventa la rappresentazione simbolica della morte in croce di Gesù: Cristo è disceso nel mare, nelle acque della morte come Israele nel Mar Rosso. Risorto dalla morte, Egli ci dona la vita. Ciò significa che il Battesimo non è solo un lavacro, ma una nuova nascita: con Cristo quasi discendiamo nel mare della morte, per risalire come creature nuove.  

L’altro modo in cui incontriamo l’acqua è come sorgente fresca, che dona la vita, o anche come il grande fiume da cui proviene la vita. Secondo l’ordinamento primitivo della Chiesa, il Battesimo doveva essere amministrato con acqua sorgiva fresca. Senza acqua non c’è vita. Colpisce quale importanza abbiano nella Sacra Scrittura i pozzi. Essi sono luoghi dove scaturisce la vita. Presso il pozzo di Giacobbe, Cristo annuncia alla Samaritana il pozzo nuovo, l’acqua della vita vera. Egli si manifesta a lei come il nuovo Giacobbe, quello definitivo, che apre all’umanità il pozzo che essa attende: quell’acqua che dona la vita che non s’esaurisce mai (cfr Gv 4, 5–15). San Giovanni ci racconta che un soldato con una lancia colpì il fianco di Gesù e che dal fianco aperto – dal suo cuore trafitto – uscì sangue e acqua (cfr Gv 19, 34). La Chiesa antica ne ha visto un simbolo per il Battesimo e l’Eucaristia che derivano dal cuore trafitto di Gesù. Nella morte Gesù è divenuto Egli stesso la sorgente. Il profeta Ezechiele in una visione aveva visto il Tempio nuovo dal quale scaturisce una sorgente che diventa un grande fiume che dona la vita (cfr Ez 47, 1–12) – in una Terra che sempre soffriva la siccità e la mancanza d’acqua, questa era una grande visione di speranza. La cristianità degli inizi capì: in Cristo questa visione si è realizzata. Egli è il vero, il vivente Tempio di Dio. E Lui è la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo fruttifica e rinnova  il mondo; il grande fiume di acqua viva, il suo Vangelo che rende feconda la terra. In un discorso durante la Festa delle capanne, Gesù ha però profetizzato una cosa ancora più grande: “Chi crede in me … dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva” (Gv 7, 38).

Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Noi tutti conosciamo persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle quali promana un’atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata. Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte della sua verità e del suo amore! 

Il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è di natura tutta particolare; esso coinvolge l’uomo stesso. È il cantare il canto nuovo – l’alleluia. Quando un uomo sperimenta una grande gioia, non può tenerla per sé. Deve esprimerla, trasmetterla. Ma che cosa succede quando l’uomo viene toccato dalla luce della risurrezione e in questo modo viene a contatto con la Vita stessa, con la Verità e con l’Amore? Di ciò egli non può semplicemente parlare soltanto. Il parlare non basta più. Egli deve cantare. La prima menzione del cantare nella Bibbia, la troviamo dopo la traversata del Mar Rosso. Israele si è sollevato dalla schiavitù. È salito dalle profondità minacciose del mare. È come rinato. Vive ed è libero. La Bibbia descrive la reazione del popolo a questo grande evento del salvamento con la frase: “Il popolo credette nel Signore e in Mosè suo servo” (cfr Ex 14, 31).

Ne segue poi la seconda reazione che, con una specie di necessità interiore, emerge dalla prima: “Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…”. Nella Veglia Pasquale, anno per anno, noi cristiani intoniamo dopo la terza lettura questo canto, lo cantiamo come il nostro canto, perché anche noi mediante la potenza di Dio siamo stati tirati fuori dall’acqua e liberati alla vita vera. 

Per la storia del canto di Mosè dopo la liberazione di Israele dall’Egitto e dopo la risalita dal Mar Rosso, c’è un parallelismo sorprendente nell’Apocalisse di san Giovanni. Prima dell’inizio degli ultimi sette flagelli imposti alla terra, appare al veggente qualcosa “come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare di cristallo. Hanno cetre divine e cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell’Agnello…” (Ap 15, 2s). Con questa immagine è descritta la situazione dei discepoli di Gesù Cristo in tutti i tempi, la situazione della Chiesa nella storia di questo mondo. Considerata umanamente, essa è in se stessa contraddittoria. Da una parte, la comunità si trova nell’Esodo, in mezzo al Mar Rosso. In un mare che, paradossalmente, è insieme ghiaccio e fuoco.

E non deve forse la Chiesa, per così dire, camminare sempre sul mare, attraverso il fuoco e il freddo? Umanamente parlando, essa dovrebbe affondare. Ma, mentre cammina ancora in mezzo a questo Mar Rosso, essa canta – intona il canto di lode dei giusti: il canto di Mosè e dell’Agnello, in cui s’accordano l’Antica e la Nuova Alleanza. Mentre, tutto sommato, dovrebbe affondare, la Chiesa canta il canto di ringraziamento dei salvati. Essa sta sulle acque di morte della storia e tuttavia è già risorta. Cantando essa si aggrappa alla mano del Signore, che la tiene al di sopra delle acque. Ed essa sa che con ciò è sollevata fuori dalla forza di gravità della morte e del male – una forza dalla quale altrimenti non ci sarebbe via di scampo – sollevata e attirata dentro la nuova forza di gravità di Dio, della verità e dell’amore. Al momento si trova ancora tra i due campi gravitazionali. Ma da quando Cristo è risorto, la gravitazione dell’amore è più forte di quella dell’odio; la forza di gravità della vita è più forte di quella della morte. Non è forse questa veramente la situazione della Chiesa di tutti i tempi?

Sempre c’è l’impressione che essa debba affondare, e sempre è già salvata. San Paolo ha illustrato questa situazione con le parole: “Siamo … come moribondi, e invece viviamo”, (2 Cor 6, 9). La mano salvifica del Signore ci sorregge, e così possiamo cantare già ora il canto dei salvati, il canto nuovo dei risorti: alleluia! Amen.

 

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Cattolico_Romano
00lunedì 13 aprile 2009 07:22
Veglia Pasquale...































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