Le Catacombe

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Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2008 23:40

Il 31 maggio 1578 la scoperta delle catacombe di via Anapo
Quella frana che fece nascere
la Roma sotterranea



di Fabrizio Bisconti

Nel tardo pomeriggio del 31 maggio del 1578, giusto 430 anni orsono, il piccone di un gruppo di cavatori di pozzolana intercettò una galleria di una catacomba, in una vigna romana allora di proprietà dello spagnolo Bartolomeo Sanchez. Erano trascorsi dieci anni da quando il religioso Onofrio Panvinio degli Eremitani Agostiniani aveva redatto un trattato sui cimiteri degli antichi cristiani, ovvero il De ritu sepeliendi mortuos apud veteros christianos et eorundem coemeteriis liber, edito appunto a Colonia nel 1568 e conosciuto come Libellus.

Ebbene, mentre quell'opuscolo di sole trentotto pagine dove, tra l'altro, si elencavano i quarantatré cimiteri romani di cui sino a quel momento si era avuta notizia, nel dodicesimo capitolo intitolato De coemeteriis urbis Romae, l'episodio accaduto nella vigna Sanchez, al secondo miglio della via Salaria nova, metteva a contatto i cultori di antichità cristiane, presenti a Roma in quello scorcio del xvi secolo e quasi tutti stretti attorno al vivacissimo oratorio di san Filippo Neri, con un monumento catacombale nuovo e alternativo rispetto a quei cimiteri paleocristiani mai obliterati e frequentati dagli antiquari, primi tra tutti quelli di san Sebastiano, di san Pancrazio e di san Valentino.

La nuova scoperta impressionò tutta Roma: in molti accorsero a vedere con i propri occhi quella voragine che si era aperta sulla via Salaria, tanto che il cardinale Giacomo Savelli, vicario del Pontefice Gregorio xiii, dovette prendere la decisione di far recingere la cava di pozzolana con uno steccato che, per la ressa del popolo, fu divelto. Della scoperta si diede notizia attraverso gli Avvisi romani e gli Annali di Gregorio xiii, inviati, con relazioni assai dettagliate, anche fuori d'Italia.

Cesare Baronio e Antonio Bosio, ci hanno lasciato testimonianze accurate del monumento rispettivamente negli Annali e nella Roma Sotterranea. Il racconto di quella fortunata scoperta ci è giunto attraverso una relazione contenuta in un manoscritto degli Avvisi Urbinati del mese di giugno del 1578, solo un mese dopo i fatti accaduti: "A porta Salara si è scoperto il cimiterio di Santa Priscilla matrona Romana, dove mentre visse ragunò molti corpi santi (...) et riconosciuto il luogo il Papa vi ha mandato il Cardinale Savello, il Generale de Giesuiti et Monsignore Marc'Antonio Mureto".
Il 2 agosto dello stesso anno, un altro avviso Urbinate ricorda dettagliatamente l'accorrere della folla, a cui si è già fatto cenno: "Vicino al cimiterio di Santa Priscilla (...) si sono scoperti sotto terra alquanti cappelletti ed oratori di stucco ornati con vaghissimi lavori, dove concorsi tutta Roma, rompindo li stecati fatti lì attorno per ordine del Cardinal Savello".

Nel cimitero appena scoperto penetrarono alcuni tra i più attivi cultori delle antichità romane, primo tra tutti il domenicano spagnolo Alfonso Ciacconio e il fiammingo Philippe de Winghe, i quali prepararono accurati disegni degli affreschi, che si rivelarono preziosissimi, dal momento che, di lì a poco, come vedremo, le catacombe scompaiono di nuovo.

I disegni del Ciacconio (1540-1599) e del de Winghe (+ 1592) confluirono nella Roma Sotterranea dell'archeologo maltese Antonio Bosio che, al momento della scoperta aveva solo tre anni. Anche un inglese, certo Anthony Munday, una sorta di "agente segreto" della corona britannica, che era presente a Roma, redasse un malizioso resoconto della scoperta, deridendo i "creduloni romani" che in ogni sepolcro riconoscevano ingenuamente il sepolcro di un martire.

Mentre si consumavano queste schermaglie tra riformisti e controriformisti, negli anni Novanta del 1500, la catacomba - come si anticipava - fu di nuovo obliterata dai cavatori di pozzolana che, proseguendo la loro pratica di scavo, furono seppelliti dal tufo, come ricorda Antonio Bosio, il quale, appena diciottenne, nel 1593, iniziava la sua grande avventura archeologica, che gli affiderà il soprannome di "Cristoforo Colombo delle catacombe romane".
Nemmeno gli studi accurati di Giovanni Battista de Rossi, riuscirono a intercettare nuovamente le gallerie di vigna Sanchez che, intanto, era diventata possesso di Monsignor della Rovere e poi del Collegio Irlandese. Il grande archeologo romano, però, corresse l'identificazione di quelle gallerie perdute con il grande complesso di Priscilla, pensando piuttosto di riconoscervi il coemeterium Iordanorum, ricordato dalle fonti che, però, Orazio Marucchi e, più tardi, Umberto M. Fasola identificarono con le catacombe che si estendono sotto Villa Massimo.

Ma torniamo alle gallerie scoperte nel 1578 e di nuovo dimenticate di lì ad un ventennio. Orbene, nel dicembre del 1921, mentre si stava costruendo un villino sulla attuale via Anapo, tornarono alla luce gli ambienti ipogei intercettati nel xvi secolo e che tanta eco avevano avuto nel dibattito controriformista del tempo. Fu Enrico Josi a penetrare in quei cubicoli e a riconoscere le epigrafi e le pitture disegnate dal Ciacconio e dal de Winghe.

Gli scavi furono eseguiti in fretta, dal momento che il tufo si presentava estremamente fragile ed il pericolo di frane suggeriva interventi strutturali rapidi e sicuri. Molte delle pitture viste nel passato e ben centoventi iscrizioni furono salvate, ma ancora si riconosceva nel complesso il coemeterium Iordanorum, fino a che, tra il 1965 e il 1969, alcuni mirati scavi degli archeologi della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra non riconobbero il cimitero dei Giordani nelle catacombe definite, fino ad allora, di Trasone, sull'altro lato della via Salaria, all'interno dell'attuale Villa Ada.

La nostra catacomba diveniva così anonima, anche se, nel 1973, durante alcuni lavori di ristrutturazione del villino, si intercettò la grande frana durante la quale, alla fine del 1500, persero la vita i cavatori di pozzolana. Tra il 1978 e il 1980, il padre Umberto Maria Fasola scavò alcune gallerie sfuggite ai cavatori e agli archeologi del passato e si riuscì a comprendere la nascita e l'evoluzione di un cimitero cristiano, inserito in un'antica miniera abbandonata.

Il complesso nasce da un ipogeo familiare, che si sviluppa, come si diceva, nel grande arenario, con uno sfruttamento che dalla fine del iii secolo giunge alla fine del iv, con caratteristiche comunitarie, come testimoniano le iscrizioni funerarie di un vescovo Demofilo, di un presbitero Evante e dei fossori Trofimus e Auxanon. Caratteristici appaiono i nicchioni dipinti, che trovano qualche affinità tipologica con le tombe dell'arenario delle vicine catacombe di Priscilla, mentre i formulari epigrafici risultano originali, specialmente per il termine benedictus, ripetuto in molti testi, suggerendo la presenza di una comunità speciale, forse dalle lontane origini orientali.

Il repertorio iconografico proposto dagli affreschi si allinea perfettamente a quello corrente tra l'età tetrarchia e quella appena successiva alla pace della Chiesa. Tra le altre, emerge la scena relativa al collegio apostolico, uno dei primi rappresentati nel buio delle catacombe, per sottolineare l'unità della Chiesa nei confronti dei ripetuti tentativi di decoesione promossi specialmente dal pensiero ariano. Per il resto, si dispiegano le scene canoniche di Giona, di Abramo, di Daniele, del buon pastore, della moltiplicazione dei pani, della resurrezione di Lazzaro, dei fanciulli nella fornace, del miracolo della fonte, dell'orante. Pochi frammenti di intonaco dipinto, rinvenuti dal Fasola, sembrano pertinenti alla rappresentazione del fossore Trofimus raffigurato in un ingenuo giardino di fiori, mentre è andata perduta l'interessante effige di un Paulus pastor disegnata, a suo tempo, dal Ciacconio.

La lunga storia del cimitero di via Anapo, rimasto anonimo, per il fatto che non conservava tombe di martiri e, per questo motivo, presto abbandonato, nel senso che qui non si innescò quel diffuso fenomeno della creazione delle tombe ad sanctos, rappresenta una delle testimonianze più eloquenti dell'incessante ricerca archeologica che, a più riprese, ha individuato questo singolare monumento che, per il fatto di essere stato scoperto così precocemente, è assunto a simbolo degli esordi degli studi dell'antichità cristiana e, dunque, dell'archeologia cristiana.

In quel tardo pomeriggio del 1578, infatti, si riprendeva contatto con un monumento catacombale, ovvero con uno di quei cimiteri concepiti e sfruttati dalla comunità cristiana romana della prima ora, all'insegna della esclusività e della comunitarietà.

Quei cimiteri - come si diceva - fatta eccezione per alcuni rari casi, scomparvero già nel v secolo, con le invasioni barbariche, che isolarono il suburbio di Roma e indussero a creare nuovi sistemi funerari all'interno della città. Riscoprire questi monumenti e leggerne i resti può permettere di ricostruire la prima pagina della storia del Cristianesimo nell'Urbe.
Proprio in questi giorni, una piccola frana nelle catacombe di via Anapo, ha ricondotto i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra all'interno di quelle gallerie tanto perlustrate nel passato, ma suscettibili di altre scoperte che potrebbero correggere le nostre idee sulla storia di questo suggestivo monumento.

Chi scrive, dirigendo gli scavi, proprio a 430 anni dalla scoperta delle catacombe di via Anapo, sente tutta l'emozione e la consapevolezza di chi deve sfogliare, con cura, le pagine del primo densissimo capitolo della storia cristiana di Roma.

(©L'Osservatore Romano - 31 maggio 2008)
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Vogliamo essere veramente segno di contraddizione?

“Altro non vi dico (…) Non vorrei più parole, ma trovarmi nel campo della battaglia, sostenendo le pene, e combattendo con voi insieme per la verità infino alla morte, per gloria e lode del nome di Dio, e reformazione della Santa Chiesa…”
(Santa Caterina da Siena, Lettera 305 al Papa Urbano VI ove lottò fino alla morte per difendere l’autorità del Pontefice)
Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2008 23:43


Catacombe

di Claudio Damioli

Gallerìe sotterranee utilizzate dai primi cristiani come cimiteri, luoghi segreti di culto e di riunione.


Il 7 giugno 1996 Papa Giovanni Paolo II, a proposito delle catacombe, così si esprimeva: "visitando questi monumenti, si viene a contatto con suggestive tracce del Cristianesimo dei primi secoli e si può, per così dire, toccare con mano la fede che animava quelle antiche comunità cristiane. Accostando quel mondo, i cristiani di oggi possono trarre utili incoraggiamenti per la loro vita e per un più incisivo impegno nella nuova evangelizzazione". La storia delle catacombe è la storia delle prime comunità di cristiani, degli albori della Chiesa di Roma. Una storia di fede ma anche di martiri e persecuzioni. Nei primi tre secoli la religione cristiana fu spesso vista con ostilità dalle autorità civili di Roma. Considerata "strana et illicita" e addirittura "malefica" venne posta fuori legge e i suoi seguaci perseguitati. Tanti furono i cristiani che, in quel tempo, pagarono con la vita la fedeltà al proprio credo. Le catacombe rappresentano la prova e il ricordo di quelle testimonianze di fede autentica e sono dunque considerate la culla del Cristianesimo. "Un grande archivio della Chiesa delle origini" le ha definite un archeologo del passato. Esse sono come un grande affresco in cui traspaiono tutti i simboli e i significati della fede cristiana: il pesce (in greco ichtùs, acrostico di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore), l'ancora simbolo della salvezza eterna, l'Alfa e l'Omega (Cristo è l'inizio e la fine di ogni cosa), la Fenice (la risurrezione dei corpi). Ma anche raffigurazioni di scene bibliche e soprattutto dei sacramenti e della Messa. Famoso l'affresco del "pesce eucaristico" con il cesto di pani e il bicchiere di vino rosso che simboleggiano chiaramente la moltiplicazione dei pani e dei pesci nonchè il sacrificio eucaristico (Cripte di Lucina nelle catacombe di S. Callista).

I primi cristiani consideravano i cimiteri, a differenza dei pagani, non come semplici città dei morti ma come veri e propri "luoghi del sonno" prima della risurrezione, quindi con un chiaro significato religioso. A Roma le catacombe più note sono cinque: San Callisto, San Sebastiano, Santa Domitilla, Santa Priscilla e Santa Agnese. Nel marzo del 1854 il grande archeologo G.B. De Rossi, considerato il padre dell'archeologia cristiana, rinvenne le tombe di nove santi papi, quasi tutti martiri, vissuti nel terzo secolo (Cripta dei Papi presso San Callista) e in seguito la Cripta di Santa Cecilia. Per il pellegrino in visita alle catacombe la venerazione dei martiri risulta essere un riappropriarsi delle proprie antiche radici. Radici che ci portano alle virtù fondamentali per quei cristiani: Fede, speranza e carità innanzitutto. Ma anche virtù umane e morali: sincerità, onestà, coraggio. C'è da chiedersi se, dopo duemila anni, esse alberghino ancora nei cristiani, se esse facciano ancora parte del "patrimonio genetico" di un politico, di un magistrato o di un padre di famiglia. Diversamente sarebbe il caso di recuperare questa identità e tornare ad essere uomini che dimorano sulla terra ma che sono cittadini del cielo.

Ricorda

" (...) il martirio dovrebbe essere, ed è, il sacrifìcio radicale della vita senza fanatismo, una pura grandezza senza ostentazione, l'amore che persiste sereno nell'odio più minaccioso e la morte che viene perfino amata, poichè la si avverte come un'unica cosa con la vita e come soglia della gloria definitiva".
(S.E. Mons. Alessandro Maggiolini, Meglio il martirio. Il Vangelo è ancora uno scandalo?, Leonardo Mondatori Editore, Milano 1995, p. 162).

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MARIA NELLE CATACOMBE



Impressionanti sono le dichiarazioni del vescovo Ignazio di Antiochia, morto martire a Roma verso la fine del primo secolo, il quale ha usato parole di straordinaria lode e ammirazione per la Chiesa romana, in una lettera indirizzata ai cristiani di quella comunità:

La Chiesa che presiede nel luogo della regione dei romani, degna di Dio, degna di onore, degna di essere chiamata beata, degna di successo, adorna di purezza, la quale presiede alla carità, depositarla della legge di Cristo e insignita del nome del Padre .

Sappiamo inoltre che verso la fine del I secolo, sotto il pontificato di Clemente I, la Chiesa di Roma intervenne con autorità e con energia in occasione di alcuni fatti incresciosi avvenuti nella comunità cristiana di Corinto2. Probabilmente la sua assenza dal dibattito teologico di quel periodo deve essere spiegata con il fatto che i problemi! dottrinali, i quali hanno tanto appassionato e diviso la cristianità orientale, non ebbero tanta presa in occidente, considerata anche la diversa mentalità romano-occidentale, più incline alle questioni pratiche che non alle speculazioni teologiche. Tuttavia proprio nell' antica Roma osserviamo un fenomeno di estremo interesse dal punto di vista storico-religioso:

la presenza della figura della Vergine madre nell'iconografia.


Maria nell'arte catacombale

Nelle antiche catacombe di Roma furono trovate, con una certa abbondanza, delle testimonianze artistiche importanti per la comprensione della fede e della vita cristiana di quel tempo. Si tratta di numerosi affreschi che si possono ammirare ancora oggi, in condizioni più o meno buone, e che rappresentano solitamente fatti e personaggi dell'Antico e del Nuovo Testamento.

Per i cristiani di allora queste pitture costituivano una forma di catechesi facile, destinata soprattutto alle persone semplici e illetterate, forse incapaci di un approccio fruttuoso con i documenti scritti della rivelazione e della catechesi ecclesiale. Ma sicuramente esse erano espressione della fede e della pietà del popolo cristiano nel suo insieme, che in questi fenomeni iconografici vedeva fissate le idee e le immagini di cui si nutriva la sua vita e attività religiosa.

Occorre prendere atto che fin dall'inizio la Vergine madre è presente in questa forma di arte, di catechesi e di devozione cristiana e che, se in alcuni casi la sua apparizione rivela un carattere puramente casuale, in altri la sua figura appare centrale e nelle vesti di una vera e propria protagonista. Le scene bibliche in cui Maria viene ritratta sono quelle del vaticinio profetico della sua maternità, dell'annuncio dell'angelo e dell'adorazione dei magi. Si nota pertanto un riferimento costante al mistero dell'incarnazione nel quale il rapporto tra Cristo e la madre sua appariva più ovvio. " Meglio che qualsiasi altro documento scritto durante il periodo delle persecuzioni — notava il Wilpert — queste pitture traducono in linee scarse ma efficaci la posizione di Maria nella Chiesa dei primi quattro secoli e mostrano che, quanto alla sostanza, essa è stata allora ciò che fu in seguito"



La Vergine con il profeta è il tema di un famoso affresco che ancora oggi si ammira nella volta dell'arenario delle catacombe di Priscilla, sulla via Salaria. Anche se deteriorato nella parte inferiore, il gruppo pittorico può considerarsi completo in quanto non manca di nessun personaggio. La Vergine, vestita di stola e di un velo corto, è seduta in atteggiamento di meditazione, con il capo legger-mente inclinato in avanti, verso la spalla destra. Con ambedue le mani tiene in grembo il bambino Gesù, nudo, il quale ha il capo rivolto alT indietro, quasi fosse stato chiamato da qualcuno. Sul lato sinistro della scena si staglia la figura eretta di un profeta, che tiene nella mano sinistra il rotolo delle Scritture e l'indice della mano destra puntato verso la Vergine.

La figura di questo profeta è stata variamente interpretata dagli esperti. Qualcuno, riferendosi a una stella a otto raggi posta sopra il capo di Maria, ritiene che si tratti del profeta Balaam, il quale preannunciò: "Una stella sorge da Giacobbe; uno scettro si leva da Israele " (Nm 24,17). Altri ritengono più probabile che si tratti di Isaia, il profeta per eccellenza dell'annuncio messianico: " Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emma-nuele " (Is 7,14). Sembra più normale pensare a quest'ultimo, mentre si osserva la figura del profeta con il dito puntato verso Maria. Quanto al simbolo della stella, è vero che Isaia non lo usa quando parla della venuta del Messia;


Una raffigurazione più tardiva della Vergine in atteggiamento orante e con il bambino in grembo è stata scoperta nel cosiddetto Cimitero Maggiore, sulla via Nomentana, e risale alla metà del IV secolo.

Il racconto evangelico dell''annunciazione è entrato presto nell'arte catacombale. Lo troviamo in un affresco delle catacombe di Priscilla, che risale alla fine del II secolo, e in una cripta delle catacombe dei santi Pietro e Marcelli-no, dove l'affresco sembra risalire al III secolo.

Questi due affreschi hanno un significato e un'importanza particolari non solo per l'arte, paleocristiana, ma anche per la storia della teologia e del culto. Se infatti in altre scene evangeliche Maria poteva entrare come figura secondaria, giacché la figura primeggiante era quella del Cristo, nella pittura dell'annunciazione invece non c'è dubbio che sia lei la protagonista principale.

Gli autori di questi affreschi hanno sicuramente voluto interpretare i sentimenti speciali che gli antichi cristiani di Roma nutrivano per la madre del Signore; in particolare il loro rispetto e la loro ammirazione verso di lei. L'angelo, vestito dei medesimi abiti che si osservano nelle figure dei santi, è ritratto in piedi, davanti alla figura della Vergine, con la destra sollevata, quasi in atto di parlare. Maria invece accoglie il messaggio divino seduta su una sedia ^ spalliera. Questo dettaglio vuole certamente indicare la ^a superiorità nei confronti dell'angelo.

L'affresco delle catacombe di Priscilla merita una particolare considerazione. Esso non si presenta come un quadro di una serie di raffigurazioni dei misteri del Signore. Se così fosse, la scena dovrebbe essere interpretata come un momento di una sequenza pittorica. Al contrario Fan nunciazione è un affresco del tutto isolato; l'unica scena di un intero soffitto. Ciò dimostra come, in questo caso. l'artista fosse direttamente interessato alla figura di Maria e al suo mistero di madre Vergine.


L'adorazione dei magi è la pittura catacombale più frequente Ìn cui ovviamente venga raffigurata la persona di Maria. Essa viene dipinta sempre seduta su una sedia a spalliera, con il piccolo Gesù tra le braccia, mentre i magi sono ritratti nell'atto di accostarsi per adorare il bambino e per offrire Ì loro doni. Gesù è indubbiamente il centro di convergenza di tutti gli elementi dell'affresco. E verso di lui che si rivolgono i magi ed è lui che viene presentato dalla madre. Questa tuttavia, nella sua posizione seduta, dimostra di essere stata riguardata dall'artista come una persona che merita speciale attenzione e rispetto.

In questi elementi pittorici, pur tanto sobrii, vediamo delle tracce sicure del posto rilevante che la Vergine santa incominciò molto presto ad occupare nella fede e nella devozione del popolo cristiano dei primi secoli. L'arte è una testimone assai eloquente, perché non parla alle orecchie, ma direttamente all'anima, attraverso le sue linee e i suoi colori.

Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2008 23:45
LE CATACOMBE

LE CATACOMBE CRISTIANE

Origini delle catacombe

Caratteristiche delle catacombe

Catacombe in Italia e nel mondo

L'arte delle catacombe

Le catacombe e la Madre di Dio

Il buon Pastore nelle catacombe

I martiri delle catacombe

Le catacombe e i Padri della Chiesa

I pontefici restaurano le catacombe

PER LE IMMAGINI CLICCATE QUI:
www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/archeo/documents/rc_com_archeo_doc_20011010_cataccrist_it.html...


Roma, Catacombe di Priscilla - galleria dell'arenario

Origini delle catacombe. Le catacombe nascono a Roma tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C., con il pontificato del papa Zefìrino (199-217) che affidò al diacono Callisto, il quale diverrà papa (217-222), il compito di sovrintendere al cimitero della Via Appia, dove saranno seppelliti i più importanti pontefici del III secolo. L’uso di seppellire i defunti in ambienti sotterranei era noto già agli etruschi, ai giudei e ai romani, ma con il cristianesimo nacquero dei sepolcreti ipogei molto più complessi ed ampi, per accogliere in un’unica necropoli tutta la comunità. Il termine antico per designare questi monumenti è coemeterium, che deriva dal greco e significa "dormitorio", sottolineando con ciò il fatto che per i cristiani la sepoltura non è altro che un momento provvisorio, in attesa della resurrezione finale. Il termine catacomba, esteso a tutti i cimiteri cristiani, definiva, in antico, soltanto il complesso di S. Sebastiano sulla Via Appia.

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Roma, Catacombe di Priscilla - galleria con loculi chiusi

Caratteristiche delle catacombe. Le catacombe sono, per lo più, scavate nel tufo o in altri terreni facilmente asportabili ma solidi, tanto da poter creare un’architettura negativa. Per questo le catacombe si trovano specialmente laddove ci sono terreni di tipo tufaceo e, cioè, nell’Italia centrale, in quella meridionale e in quella insulare. Le catacombe comportano la presenza di scale che conducono ad ambulacri chiamati, come nelle miniere, gallerie. Nelle pareti delle gallerie sono sistemati i “loculi”, ossia le sepolture dei cristiani ordinari realizzate nel senso della lunghezza; questi sepolcri sono chiusi con lastre di marmo o con mattoni. I loculi rappresentano il sistema sepolcrale più umile ed egualitario per rispettare il senso comunitario che animava i primi cristiani. Nelle catacombe si trovano, comunque, anche tombe più complesse, come gli arcosoli, che comportano lo scavo di un arco sulla cassa di tufo, e i cubicoli, che sono vere e proprie camere sepolcrali.

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Catacombe in Italia e nel mondo. La maggior parte delle catacombe si trovano a Roma, tanto da raggiungere il numero di una sessantina, mentre altrettante se ne contano nel Lazio. In Italia, le catacombe si sviluppano specialmente nel meridione, dove la consistenza del terreno è più tenace e, allo stesso tempo, più duttile allo scavo. La catacomba situata più a settentrione è quella che si sviluppa nell’isola di Pianosa, mentre i cimiteri ipogei più a sud sono quelli dell’Africa settentrionale e specialmente ad Hadrumetum in Tunisia. Altre catacombe si trovano in Toscana (Chiusi), Umbria (presso Todi), Abruzzo (Amiterno, Aquila), Campania (Napoli), Puglia (Canosa), Basilicata (Venosa), Sicilia (Palermo, Siracusa, Marsala e Agrigento), Sardegna (Cagliari, S. Antioco).

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Roma, Catacombe di Priscilla - tre fanciulli nella fornace
L’arte delle catacombe. Nelle catacombe si sviluppa, sin dalla fine del II secolo, un’arte estremamente semplice, in parte narrativa e in parte simbolica. Le pitture, i mosaici, i rilievi dei sarcofagi, le arti minori rievocano le storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, come per presentare gli esempi della salvezza del passato ai nuovi convertiti. È così che viene spesso rappresentato Giona salvato dal ventre della balena, dove il profeta era rimasto per tre giorni, con questo rievocando la resurrezione del Cristo.

Roma, Catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro - Giona rigettato
Roma, Catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro - Noè nell'arca

Ma vengono anche rappresentati i giovani di Babilonia salvati dalle fiamme della fornace, Susanna salvata dalle insidie degli anziani, Noè scampato al diluvio, Daniele che rimane illeso nella fossa dei leoni.

Dal Nuovo Testamento si selezionano i miracoli di guarigione (il cieco, il paralitico, l’emorroissa) e di resurrezione (Lazzaro, il figlio della vedova di Naim, la figlia di Giairo), ma anche altri episodi, come il colloquio con la samaritana al pozzo e la moltiplicazione dei pani.

Roma, Catacombe di S. Sebastiano - Iscrizione funeraria con simboli

L’arte delle catacombe è anche un’arte simbolica, nel senso che vengono rappresentati con semplicità alcuni concetti difficili da esprimere. Per indicare il Cristo viene raffigurato un pesce, per significare la pace del paradiso si rappresenta una colomba, per esprimere la fermezza della fede si disegna un’ancora. Sulle lastre di chiusura dei loculi sono spesso incisi dei simboli di diverso significato. In qualche caso viene rappresentato un attrezzo relativo al mestiere svolto in vita dal defunto. Alcuni simboli, come i bicchieri, i pani, le anfore alludono ai pasti funebri consumati in onore dei defunti, i cosiddetti refrigeria. La maggior parte dei simboli vanno riferiti alla salvezza eterna, come la colomba, la palma, il pavone, la fenice e l’agnello.

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Roma, Catacombe di Priscilla - Madonna con il Profeta

Le catacombe e la Madre di Dio. Nelle catacombe romane si conserva la più antica immagine della Madonna, rappresentata in pittura nel cimitero di Priscilla sulla via Salaria. L’affresco, riferibile alla prima metà del III secolo, raffigura la Vergine con il Bambino sulle ginocchia dinanzi ad un profeta (forse Balaam, forse Isaia) che indica una stella, per alludere al vaticinio messianico. Nelle catacombe sono rappresentati altri episodi con la Madonna, come l’adorazione dei Magi e le scene di presepe, ma si ritiene che, precedentemente al concilio di Efeso, tutte queste raffigurazioni abbiamo un significato cristologico e non mariologico.

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Roma, Catacombe di Priscilla - Buon Pastore

Il buon pastore nelle catacombe. Una delle immagini più rappresentate nell’arte delle catacombe è quella del buon pastore che, pur desumendo lo schema dalla cultura pagana, assume subito un significato cristologico, ispirandosi alla parabola della pecorella smarrita. Il Cristo viene, così, rappresentato come un umile pastore con una pecorella sulle spalle, mentre vigila un piccolo gregge, talvolta costituito da due sole pecore poste ai suoi fianchi.

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Roma, Catacombe di S. Sebastiano - graffiti devozionali

I martiri delle catacombe. Nelle catacombe vennero sepolti i martiri uccisi durante le cruente persecuzioni volute dagli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano. Intorno alle tombe dei martiri si sviluppò, ben presto, una forma di culto da parte dei pellegrini che lasciavano i loro graffiti e le loro preghiere presso questi sepolcri eccezionali. I cristiani cercavano di sistemare le sepolture dei loro defunti il più vicino possibile alle tombe dei martiri perché si riteneva che anche in paradiso si sarebbe stabilita questa mistica vicinanza.

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Le catacombe e i Padri della Chiesa. Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo i padri della Chiesa descrissero le catacombe. Per primo, S. Girolamo racconta che quando era studente si recava, di domenica, a visitare le tombe degli apostoli e dei martiri. insieme ai suoi compagni di studio: “Entravamo nelle gallerie, scavate nelle viscere della terra… Rare luci, provenienti dal sopratterra attenuavano un poco le tenebre… Si procedeva adagio, un passo dietro l’altro, completamente avvolti nel buio”. Il poeta iberico Prudenzio ricorda, inoltre, che, nei primi anni del V secolo, molti pellegrini venivano dai dintorni di Roma e anche dalle regioni limitrofe per venerare la tomba del martire Ippolito, che era sepolto nelle catacombe della via Tiburtina.

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I pontefici restaurano le catacombe. Nella seconda metà del IV secolo, il papa Damaso si pose alla ricerca delle tombe dei martiri dislocate nelle diverse catacombe di Roma. Ritrovati i sepolcri, li fece restaurare e fece incidere degli splendidi elogi in onore di quei primi campioni della fede. Nel VI secolo anche i papi Vigilio e Giovanni III restaurarono le catacombe dopo le incursioni dovute alla guerra greco-gotica. Anche in seguito, tra VIII e IX secolo, i pontefici Adriano I e Leone III ripristinarono i santuari martiriali delle catacombe romane. Dopo un lungo periodo di oblio, nel XVI secolo, la riscoperta di questi luoghi ipogei, offrì preziose testimonianze della genuina fede dei primi cristiani che vennero utilizzate dal movimento Controriformista. Infine, nel XIX il papa Pio IX istituì la Commissione di Archeologia Sacra per degnamente conservare e studiare i luoghi del cristianesimo primitivo.

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Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2008 23:48
APPROFONDIMENTI E RICERCHE

CLICCRE QUI:
www.catacombe.roma.it/it/ricerche/ricerche.html


1. Callisto e la sua comunità all'inizio del 3° secolo
La vita movimentata di Callisto, (schiavo, banchiere fallito, condannato, diacono, papa) nella Chiesa delle origini.

2. Le persecuzioni contro i Cristiani
La storia delle persecuzioni da Nerone a Diocleziano da parte dell'Autorità romana, del popolo e degli intellettuali.

3. I Papi del Complesso callistiano
La storia della Chiesa di Roma testimoniata dai Papi martiri e santi del 3° secolo.

4. Abitare l'eternità
Confronto tra la concezione cristiana e pagana della morte e della vita oltre la morte. Il cimitero e la depositio nella comunità cristiana.

5. Preghiera, speranza, devozioni
Aspetti della spiritualità cristiana - la devozione alla Vergine.

6. La "fractio panis"
L'immagine dell'Eucaristia nelle Catacombe di S. Callisto e di Priscilla

7. Il Battesimo come Risurrezione
L'antico rito del battesimo esprime meglio la morte al peccato e la rinascita a nuova vita.

8. La grazia del perdono
La rappresentazione del gallo che ricorda il peccato di Pietro afferma la volontà di perdono nella Chiesa primitiva.

9. I Martiri della Chiesa
I Martiri, testimoni e maestri di fede

10. La Storia delle catacombe di San Callisto

11. La catechesi nell'antichità

12. Comunità - In vita e in morte
Perché i cristiani costruivano le catacombe

13. Estratto dal libro: “Voci dal profondo”
Dal libro di Rainer Korte: " Voci dal profondo. Meditazioni sulle Catacombe cristiane di Roma". Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998. Pp. 14 – 19.

14. Vita coniugale e familiare dei primi cristiani in iscrizioni sepolcrali
Tratto da: Antonio Baruffa, Le Catacombe di San Callisto. Storia – archeologia - fede
Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2008 23:50
COLLEGAMENTO AL SITO

www.catacombe.roma.it/it/ricerche/ricerche.html

LA SPIRITUALITÀ DELLE CATACOMBE


Ad un ignoto cristiano dei primi tempi, mentre pellegrinava nella vasta necropoli callistiana, parve ad un tratto di essere entrato nella mistica Gerusalemme, nella città imporporata dal sangue dei martiri e rifulgente della loro gloria. All'uscirne egli incise con mano elegante, su una parete, queste parole che ancora oggi si possono leggere: "JERUSALEM CIVITAS ET ORNAMENTUM MARTYRUM DEI ..." "Gerusalemme, città ed ornamento dei martiri di Dio". Molto interessante questa attinenza della Chiesa di Roma con la Gerusalemme biblica!
Anche il pellegrino di oggi, con animo commosso, intravede nelle catacombe l'intimo segreto della spiritualità di quei pontefici martiri, di quelle vergini e di quella innumerevole folla di oscuri cristiani.
Le iscrizioni e le pitture, superstiti a tante devastazioni e depredazioni, rivelano, almeno in parte, tale segreto e ripetono ancora le parole di un antico epitaffio cristiano:"Tàuta o bìos" "Ecco: questa è la nostra vita".
La spiritualità delle catacombe è la stessa della Chiesa primitiva nella sua giovinezza di conquista e di martirio. Nutrita del midollo delle scritture, della Tradizione, semplice e potente, essa è la sorella delle più antiche liturgie; sicché chi visita le catacombe attinge alle fonti della spiritualità cristiana.

Sono vari gli aspetti di tale spiritualità:

Spiritualità cristocentrica

Questa spiritualità pone Gesù Cristo come figura dominante. Ciò che per il cattolico di oggi é il sacro Cuore di Gesù, vale a dire il segno della bontà di Cristo, per il cristiano antico era il Buon Pastore. Tra le raffigurazioni delle catacombe essa é la più frequente; appare dipinta nei soffitti tra ricche decorazioni floreali, incisa rozzamente nelle lastre sepolcrali, modellata in rilievo sui sarcofagi ed, infine, scolpita con greca eleganza in una delle più anticche statue cristiane che si conoscano ( 4º secolo, Musei Vaticani). L'agnello che posa sulle sue spalle fortemente tenuto dalle mani del pastore é il cristiano. Tutt'intorno c'è quell'atmosfera di fiducia che faceva dire a Paolo "Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, o l'angoscia, la persecuzione e la fame?" ( Rom 8,35).
Spesso il Salvatore è: nei bassorilievi o sulle pareti si vede Gesù che tocca gli occhi al cieco o che fa risorgere Lazzaro dalla tomba; che moltiplica i pani o cambia l'acqua in vino: è il Cristo che passa beneficando.
Ci sono poi i simboli. Le raffigurazioni più significative forse sono quelle nelle quali Cristo appare sotto il velo di un simbolo. Prima di Costantino, quando la croce era usata quotidianamente come patibolo di schiavi e di stranieri, il cristiano ne velava piamente l'aspetto repellente attraverso i simboli, come, per esempio, l'ancora.

Accanto a Gesù, i cristiani delle catacombe amarono raffigurare, con affetto filiale, la sua Vergine Madre. Ed ecco ,agli inizi del 3° secolo, nelle Catacombe di Priscilla, la figura soave di Maria, che si stringe al seno Gesù, mentre Balaam addita la stella che le splende sul capo.
Ecco ancora la Vergine che tiene in grembo il Figlio, mentre i Magi s'avvicinano per offrire i loro doni. L'adorazione dei Magi é ripetuta nelle varie catacombe nelle pitture, nelle sculture e in altri oggetti preziosi (reliquiari, avori, pendagli, anelli).

Spiritualità Sacramentale
La spiritualità delle catacombe è: Battesimo ed Eucaristia.
In nessun nostro cimitero si trovano tante figurazioni sacramentali quante ne troviamo nei Cubicoli dei Sacramenti in S. Callisto. Accenniamo a quei Sacramenti dei quali vi è più copiosa documentazione.


BATTESIMO. Non siamo ancora al tempo nel quale in onore di questo Sacramento verranno eretti splendidi edifici (ricordare il Battistero del Laterano). Il Battesimo veniva ancora conferito nelle domus Ecclesiae , che erano le dimore familiari, non di rado segretamente. Ma la grandezza del sacramento era nota. Paolo ne aveva parlato con termini grandiosi appunto nella Lettera ai Romani (capo 6). I cristiani sapevano che attraverso il rito battesimale l'uomo muore e risorge misticamente con Cristo, e dall' efficacia di questi atti redentori è associato alla vita divina.
Una delle più antiche pitture nei cosiddetti Cubicoli dei Sacramenti, in San Callisto ci rappresenta il Battesimo. A uno specchio d' acqua siede un pescatore che con la lenza trae fuori un pesce: ci piace vedere in questo personaggio un apostolo, che ubbidisce al comando di Gesù: "Seguitemi; vi farò diventare pescatori di uomini" (Mc 1,17).
Molti cristiani, "afferrati da Cristo" (Fil 3,12), dopo angosciose esperienze interiori, sentivano che il momento del Battesimo aveva segnato l' inizio di una vita nuova. Di qui quel nome che si legge su una lapide della tricora di San Callisto, nome che poi divenne così comune nella Cristianità: "Renatus" " Sono nato di nuovo! ".

EUCARISTIA. Ed ora eccoci davanti al gioiello di queste Cappelle: la trilogia eucaristica.
Nell'affresco, i cristiani assisi alla mensa eucaristica sono sette, come i discepoli che si raccolsero intorno a Gesù risorto sulle rive del lago; sui piatti dinanzi a loro sta il pesce: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Nella scena di sinistra il sacerdote stende le mani su un piccolo tavolo recante il pane eucaristico: chiara figurazione dell' atto consacratorio riservato ai ministri; all' altro lato del tavolo, un orante con le braccia alzate ci ricorda che, per andare in cielo, bisogna nutrirsi di quel pane consacrato (l'Eucaristia).

Il terzo pannello, a destra, è chiaro a chi ricordi le parole dell' inno eucaristico di S. Tommaso: "In figuris praesignatur cum Isaac immolatur" "Nella immolazione di Isacco si prefigura il sacrificio di Cristo".
Non possiamo tralasciare una figurazione che è preziosa per la sua antichità e per il suo grande valore pastorale. Nella Cripta di Lucina, risalente alla fine del 2º secolo, sulla parete di fronte all'entrata, sono rappresentati simmetricamente due pesci, davanti ai quali sono posti due canestri colmi di pani. Entro i canestri si intravvedono due bicchieri di vino. Il pesce è Cristo; pane e vino, invece, sono le specie sotto le quali Egli si fa presente nell'Eucaristia.
Siamo alle sorgenti della cristianità. Il cristiano antico, consapevole che "non vi é sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale si possono salvare, se non quello di Cristo" (At 4,14), sa anche che a Cristo non ci si può associare se non mediante i Sacramenti che Egli ha istituito a questo scopo.


Spiritualità Sociale
La spiritualità delle catacombe è inoltre "sociale": il cristiano abituato a dire nella preghiera non già "Padre mio", ma "Padre nostro", sa che nella famiglia di Dio non si vive isolatamente, ma socialmente : "Molti siamo un corpo solo in Cristo" (Rm 12,15). Le catacombe ci danno l'immagine di questo corpo mistico entro il quale in gerarchia di funzioni e in unità di spirito i cristiani ordinatamente convivono. Qui i Pontefici Martiri riposano in mezzo all'umile moltitudine anonima del loro gregge.
Dalla parte frontale di un sarcofago un giovinetto leva le mani nell'atteggiamento dell' orante beato nella visione di Dio: ai suoi lati Pietro e Paolo, i fondatori della Chiesa di Roma, pare lo introducano nella patria beata.

A Domitilla, nella pittura di un arcosolio, Veneranda arriva in abito da viaggio, pellegrina che ha terminato il suo esilio, alle soglie della patria: la santa del luogo, Petronilla, in aspetto soave, l'accoglie e la introduce.

C'è uno scambio di preghiere tra le diverse parti della Chiesa! Centinaia di pellegrini si raccomandano a Pietro e Paolo sepolti nella Memoria della Via Appia Antica (le Catacombe di S. Sebastiano), incidendo brevi preghiere sull' intonaco della triclia (ambiente per banchetti funerari, a cielo aperto): "Paolo e Pietro, pregate per Vittore - Pietro e Paolo, abbiate in mente Sozomeno".

All'ingresso del sepolcreto dei Papi in S. Callisto, la parete è costellata di preghiere: "S. Sisto, abbi in mente Aurelio Repentino" "Spiriti Santi...che Verecondo coi suoi, bene navighi". Talvolta non c'è una preghiera esplicita: per implorare basta una qualifica aggiunta al nome: "Felicione, sacerdote, peccatore".
Si contano a migliaia le iscrizioni con preghiere dei vivi per i defunti o con sollecitazioni ai morti perché preghino per i sopravvissuti. Nella socialità del Corpo Mistico, ogni singola persona è legata con l'intera Chiesa.

Spiritualità Escatologica

Il cristiano è proteso verso gli "éscata", cioè le realtà definitive della vita eterna: "Non abbiamo quaggiù una città stabile,ma cerchiamo quella futura" (Eb.13,14). "La nostra patria invece é nei cieli" (Fil. 3,20). Basta un breve giro in una catacomba per veder brillare questa verità della più viva luce.

Eccoci sulla scala che scende verso la Cripta dei Papi. Sulla parete sinistra una lapide ci parla di Agrippina, "cuius dies inluxit": il giorno della morte fu il giorno del suo ingresso nella luce, nella beatitudine sperata. Poco sotto ecco un' iscrizione greca di Adas; la quale "ecoimète" "si addormentò", come la fanciulla di Cafarnao, che - come dice il Vangelo -"non é morta, ma dorme" (Mc 3, 59), e attende la chiamata di Colui che é la risurrezione e la vita.
In una cappella, Giona, sfuggito alle fauci del mostro raffigurante la morte, riposa placidamente all' ombra di un pergolato. Più oltre il Buon Pastore si stringe con tenerezza l'agnello sulle spalle: la morte non é più terrificante per il cristiano, portato da Gesù verso i pascoli verdi.
Dalla parete di un cubicolo cinque cristiani levano le braccia nell'atto dell'adorazione; intorno un bellissimo giardino fiorito: è il paradisus, il giardino celeste. Da una lapide delle più antiche una croceàncora ci annuncia che é giunta al porto del paradiso una cristiana dal luminoso nome di stella: "Hèsperos".
Questi cimiteri, inoltre, sono pieni di pace. La risposta sta nella fede degli antichi cristiani, che parla sovente nel silenzio delle catacombe: " Perché cercate il vivente tra i morti?" (Lc 24,5). "Io sono la risurrezione e la vita" (Gv11,25). "Non temere, abbi solo fede" (Mc 5,36).


Spiritualità Biblica
Pittori e incisori, scultori ed epigrafisti, ci appaiono imbevuti e ispirati dalla Parola di Dio. Qui il Vecchio Testamento é tutto rimeditato e reinterpretato alla luce del Nuovo. Degli Evangeli e delle Lettere appaiono particolarmente sentiti i temi centrali. Come la Liturgia e la letteratura patristica, così la Spiritualità delle Catacombe si alimenta con le Sacre Scritture, sull'esempio della martire Cecilia che, secondo gli Atti, "semper evangelium Christi gerebat in pectore" (portava sempre con sé il Vangelo di Cristo), e nell'atto supremo del martirio indica con le dita l'Unità e la Trinità di Dio.


Spiritualità nuova e trasformatrice
Qui si scopre la vera rivoluzione operata dal Cristianesimo. In particolare sono presenti due tipi di personaggi di grande forza spirituale: il "martire" e la "vergine". Il "martire" dà la vita per attestare la certezza della propria fede; la dà con serenità e senza rammarico in mezzo allo scatenarsi delle brutalità e delle torture; muore senza odio per l'uccisore, implorando, anzi, il perdono per lui. Molti cristiani sepolti nelle catacombe hanno realizzato in modo sublime e in casi innumerevoli il martirio cruento.
La figura della "vergine" cristiana non manca nelle catacombe. A tale riguardo é significativo il carme damasiano in onore di sua sorella Irene, sepolta nel complesso callistiano:

"... Questa, quand'era ancora in vita, si era

votata a Cristo,
così che il santo pudore stesso provò

il merito della vergine...
Ed ora, quando Dio verrà da me,
ricordati di Damaso, o vergine,
affinché la tua fiaccola mi dia luce".

Uscendo dalle Catacombe di S. Callisto l'ultima grande lapide che si incontra al fondo della scala è quella di Baccis. Grandi e rudi caratteri rossi sulla pietra bigia raccontano un'umile storia. Chi la mediti vedrà, con l'occhio della fede, dietro alle lettere trasparire due volti: quello delicato della fanciulla morta, quello scabro del padre, su cui brilla un sorriso di tenerezza pieno di lacrime. Ecco le parole: "Baccis, dolce anima. Nella pace del Signore. Visse 15 anni, 75 giorni". (Morì) alla vigilia delle calende (il 1º) di dicembre. Il padre alla figliola sua dolcissima". Un' onda divina di purezza e di tenerezza era entrata anche nelle famiglie più umili con la fede di Cristo.





Nelle stesse catacombe scese un giorno a trovare conforto un pellegrino. Entrò pregando, e al fondo della scala, affidò alla parete un augurio di vita beata tra le anime dilette per la sua morta: "Sofronia vivas cum tuis". Sotto la scala il caro nome riappare con un augurio di vita in Dio: "Sofronia, vivas in Domino". Infine in un cubicolo a fianco di un arcosolio, la scritta compare una terza volta. Nella preghiera il lutto ha perso la sua amarezza ed é diventato una speranza piena di immortalità: "Sofronia dulcis semper vives in Deo", scrive in alto il pellegrino. Ma pare che dal suo cuore rasserenato la tenerezza trabocchi, ed egli incide ancora: "Sofronia, vives..." (Sì,Sofronia, tu vivrai !...).
Mirabile sintesi in cui si fonde un dramma umano di morte e di lutto con l' espressione appassionata della fede consolatrice: vita oltre la morte, vita tra i cari, vita perenne, vita in Dio.

Infine con i rapporti familiari appaiono nobilitati i rapporti sociali. Le tombe cristiane ignorano le diciture indicanti cariche ed onori, che negli epitaffi pagani sono abituali.
Frequenti invece sono le indicazioni, non solo delle professioni elevate, come quella del Dioniso medico e prete, ma anche dei più umili mestieri, dei poveri "banausòi" "operai", disprezzati dai sapienti del paganesimo. Ecco, solo in San Callisto, il contadino Valerio Pardo recante nella sinistra un fascio d' erbaggi e nella destra la roncola; Marcia Rufina, la degna patrona, a cui Secondo Liberto pone iscrizione con l' insegna dell' officina: un maglio e l' incudine. In un arcosolio l' erbivendola siede tra i suoi mazzi d' erbaggi, ecc. La religione del Fabbro di Nazaret aveva nobilitato il lavoro.
A questi aspetti della spiritualità illustrati dal compianto studioso D. Ugo Gallizia, SDB, professore di Esegesi del Nuovo Testamento e di Archeologia Cristiana nel Pontificio Ateneo Salesiano di Torino (Italia), può essere utile aggiungere un altro aspetto della spiritualità delle catacombe sovente trascurato, e cioé la spiritualità del silenzio.


Spiritualità del silenzio
Può sembrare strano parlare di una spiritualità del silenzio, perché il silenzio, a prima vista, è soltanto una vacuità senza senso, pura mancanza di parole, pensieri e sentimenti. In realtà il silenzio della parola, dell'immaginazione e dello spirito è una dimensione umana fondamentale: appartiene alla nostra essenza, perché è il custode del nostro mondo interiore, la condizione previa dell'ascolto, la necessaria premessa di ogni umana comunicazione.

Percorrendo le gallerie delle catacombe o sostando nelle cripte, siamo immersi in un' atmosfera di silenzio, che è tuttavia solo il silenzio di un antico cimitero. Ma esso ci colpisce intimamente, perché non è il silenzio della morte, del rimpianto senza speranza di tutto ciò che era caro ai Cristiani durante la loro vita. È un silenzio di pienezza, riempito dalle voci dei martiri che hanno vissuto la nostra vita, e che hanno però coraggiosamente e costantemente testimoniato la loro fede non soltanto in tempo di pace religiosa ma specialmente durante le persecuzioni.
Questo silenzio è pieno di pace, di speranza in una futura vita migliore, nella luce della risurrezione di Cristo. Il silenzio delle catacombe è pieno di storia e di mistero; è sacro, significativo e più eloquente delle stesse parole; è arricchente perché ci porta a riflettere sulla Chiesa delle origini, sull'eroica testimonianza dei Martiri, come sull'ordinaria testimonianza dei semplici cristiani, che non seppellirono la loro fede sottoterra, ma la vissero nella vita di ogni giorno, nella famiglia, in società, al lavoro, in ogni compito e professione.
È un silenzio comunicativo, che parla al cuore e alla mente dei pellegrini, che rivela loro il mondo sconosciuto della Chiesa primitiva, con le sue classi sociali, sentimenti ed affetti; con le pene e le speranze dei Cristiani sepolti nelle catacombe. Non possiamo soffocare questo silenzio, che parla per se stesso, o piuttosto grida imperiosamente. San Gregorio il Grande parlò dello "strepitus silentii", del "fragore del silenzio", un contrassegno che si adatta perfettamente al silenzio delle catacombe.

Questa atmosfera di silenzio, evocativa della vita e del sacrificio dei primi Cristiani, costituisce un luogo privilegiato di meditazione spirituale, di revisione di vita, di rinnovamento della fede. La loro testimonianza coraggiosa e fedele ci interpella personalmente. Qual'è la "nostra" risposta oggi all'amore di Dio, in una società che forse non è così ostile come la loro, ma che è principalmente indifferente ai valori religiosi?
Le catacombe ci lasciano un messaggio di fede silenzioso, ma chiaro, tanto più necessario poiché la nostra età è malata di rumore, esteriorità, superficialità. Qui le parole non sono necessarie, perchè le catacombe parlano da se stesse.

Questo è il Cristianesimo, al massimo grado di semplicità e d'intensità, incorporato in figure di martiri, confessori e vergini, parlanti dalle cripte e dagli ambulacri, dalle pitture e dalle lapidi consacrate da quasi due millenni di venerazione. È appunto questo carattere di essenzialità elementare, efficace, inesauribile, che ha reso le catacombe romane una delle mete predilette della Cristianità pellegrinante.
Sui passi dei martiri e dei primi cristiani, la spiritualità delle catacombe ci aiuterà a celebrare il Giubileo con un vero e profondo rinnovamento della nostra fede per "vivere della pienezza della vita in Dio" (Tertio Millennio Adveniente, n.6).
Caterina63
00lunedì 15 dicembre 2008 19:38
Scheda 1 [ I simboli catacombali ]
Scheda 2
[
Il sacramento dell'Eucaristia nelle pitture catacombali ]
Scheda 3 [
Le cripte di Lucina ]
Scheda 4 [
La corrispondenza tra le Chiese di Cartagine e Roma ]
Scheda 5
[ La stele di Abercio ]
Scheda 6
[
I Papi del complesso callistiano ]
[
Documenti storici ] [ Epigrafi ][ Libri antichi ] [ Luoghi ed eventi ] [ Monete ] [ Resti archeologici ] [ Varie ] [ Pitture catacombali ]




   

Pagina del "Sacramentario Gelasiano"
contenente il simbolo niceno
in greco e in latino.
Codice del sec. VIII.
Biblioteca Apostolica Vaticana,
Regin. lat. 316, fol. 46

" Liber Diurnus".
E' il più antico documento
dell' Archivio Segreto Vaticano (sec. VIII-IX).
Raccoglie formule di documenti ecclesiastici,
in gran parte pontifici, e notizie sull'amministrazione
e la disciplina della Chiesa nei sec. VI-IX.
" Privilegium Othonis". Redatto il 13/2/962,
stabiliva che ogni nuovo pontefice
doveva prestare giuramento
davanti ai delegati dell'l'imperatore
e che tutti i beni pontifici rimanevano ai papi,
ma sotto la tutela imperiale.
L'infeudazione del papato all'impero
fu la radice del conflitto che oppose i papi
agli imperatori (sec. XI-XIII).


http://www.monasterovirtuale.it/antiquitasmain.html
Caterina63
00venerdì 5 giugno 2009 17:11
Le catacombe romane di San Callisto

Un alfabeto visivo della salvezza


Le catacombe romane di San Callisto - in occasione della sosta delle reliquie di don Bosco e degli ottant'anni di custodia salesiana del comprensorio - hanno ospitato una tavola rotonda sul tema "Don Bosco ieri e oggi". Pubblichiamo quasi integralmente il testo di uno degli interventi dedicato alla storia archeologica del sito.


di Fabrizio Bisconti


Molte piste si dipartono dal comprensorio callistiano, ossia da quel triangolo di terra definito dalla via Appia antica, dall'Ardeatina e dal vicolo delle Sette Chiese, che racchiude uno dei luoghi più significativi della "Roma sotterranea cristiana", così come sul finire del Cinquecento il grande archeologo mantese Antonio Bosio definì quella nebulosa di cimiteri ipogei cristiani, che costellava il suburbio, sino al terzo miglio delle più importanti vie consolari.

Queste piste disegnano sul comprensorio appio-ardeatino una trama di percorsi e di storie, che fanno assurgere quell'area a luogo privilegiato delle scoperte consumate negli anni centrali dell'Ottocento; di una devozione, avviata dai cristiani della prima ora e proseguita, nei secoli sino ai nostri giorni; della gestione ordinata di un pellegrinaggio, orientato verso una catechesi sensibile alle testimonianze concrete dei monumenti del cristianesimo primitivo; di una tutela che garantisce la salvaguardia di emergenze archeologiche significative.

La storia delle catacombe di San Callisto viene da lontano, da quando Papa Zefirino (199-217) - secondo quanto riferiscono il Liber Pontificalis e lo Pseudo Ippolito - affidò al diacono Callisto, futuro Papa tra il 217 e il 222, il compito di sovraintendere al "cimitero" della grande chiesa di Roma, proprio in corrispondenza del terzo miglio della via Appia. 

catacombe di san Callisto Quel piccolo cimitero, che rappresenta il nucleo genetico delle catacombe, ma anche una sorta di prototipo dei cimiteri ipogei concepiti dai cristiani, come "dormitori provvisori" in attesa della resurrezione, fu obliterato già al tempo delle invasioni barbariche, agli esordi del v secolo. Ebbene, il suburbio fu abbandonato, le tombe furono sistemate nelle basiliche funerarie e alcune entrarono addirittura all'interno della cinta muraria.

Mentre alcune catacombe, annesse ai più amati santuari romani, come San Sebastiano, San Lorenzo e San Pancrazio, rimasero praticabili, le catacombe di San Callisto - come di diceva - soffrirono per un progressivo e irreversibile abbandono.

Quell'inesorabile dimenticanza fu infranta dall'archeologo romano Giovanni Battista de Rossi che, nell'estate del 1844 - ad appena ventidue anni - assieme al fratello Michele Stefano entrò nella vigna Molinari, che si estendeva sulla via Appia e fu attratto dalla cosiddetta Tricora Occidentale, ossia dal mausoleo triabsidato, allora ridotto a cantina, che doveva ospitare i corpi dei martiri e dei Pontefici che le fonti riferivano alle catacombe di San Callisto. In quegli anni, iniziava la grande avventura archeologica del de Rossi, che scavò l'intero complesso callistiano, a cominciare da quell'area, il cuore del cimitero, da identificare con quello voluto da Zefirino e continuando con le regioni di Sotere, di Papa Milziade, di Papa Liberio, a cui si aggiungeranno l'area di Lucina, il cimitero dei santi Marco, Marcelliano e Damaso e la catacomba anonima della via Ardeatina.
 
Tutte le operazioni archeologiche del  de  Rossi  non  sarebbero  state possibili senza il consenso, del beato Pio IX che, il 6 gennaio del 1852 istituì una Commissione di Archeologia Sacra "per la efficace tutela e sorveglianza dei cimiteri e degli antichi edifici cristiani di Roma e del suburbano, per la sistematica e scientifica escavazione ed esplorazione degli stessi cimiteri". Le scoperte del de Rossi entusiasmarono il Papa, che in molte occasioni si recò personalmente a prendere visione degli scavi. Emozionante fu la discesa nella cripta dei Papi, durante la quale, Pio ix, leggendo gli epitaffi dei Pontefici del III secolo, si commosse sino alle lacrime. L'archeologo romano, però, non trovava una soluzione per i continui furti degli operai che, "pagati per scavare le catacombe, sottraevano le reliquie dei martiri e altri oggetti preziosi, per farne traffico presso i fedeli".

Fu così che Leone XIII, nel 1884, si preoccupò di fondare una "trappa" nel comprensorio callistiano e, segnatamente, nel casale di San Tarcisio, ove accogliere un gruppo di cistercensi riformati, tutti ex zuavi pontifici, che, da quel momento, si occuparono degli scavi e della custodia delle catacombe di San Callisto. I padri trappisti piantarono, nel comprensorio, fiorenti vigne, sfidando avversità come la malaria, e, nel 1910, iniziarono anche la produzione di cioccolato.

Dopo il primo conflitto mondiale, nel  1922  sale  al  soglio  pontificio Pio xi, particolarmente sensibile alle questioni legate all'archeologia cristiana, anche per l'affetto che lo legava a monsignor Giulio Belvederi, primo segretario del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, fondato con motu proprio l'11 dicembre 1925.

L'entusiasmo di monsignor Belvederi ispirò l'apertura del noviziato delle Sorelle dei poveri di Santa Caterina, che fu sistemato nell'attuale casa delle catacombe di San Callisto. Furono queste sorelle a occuparsi dei paramenti e degli oggetti liturgici, dando lavoro alle donne della zona, che appresero l'arte del cucito e del ricamo, mentre rifocillavano i pellegrini, che giungevano alle catacombe, con sostanziose colazioni.

I trappisti concludevano, intanto, il loro gravoso compito di pionieri e si ritirarono alle Frattocchie, nell'antico possesso dei Colonna, mentre, nel 1930, i salesiani presero possesso della custodia delle catacombe di San Callisto. Era il 9 settembre e un piccolo numero di guide, iniziò il pellegrinaggio sistematico nei meandri delle più famose catacombe di Roma.

Parlare dell'attività dei salesiani al San Callisto, negli ultimi Ottanta anni, significa fare la storia di un pellegrinaggio gestito in perfetto equilibrio tra conoscenza e fede. Qui i turisti, i visitatori, i fedeli escono dalle gallerie con uno sguardo diverso. Si ha la sensazione che i salesiani li abbiano accompagnati, per mano, attraverso un viaggio emozionante che, appunto, segue i passi dei primi cristiani nella loro iniziale stagione di vita.

I salesiani, infatti ti accompagnano sino alla cripta dei Papi, dinnanzi alla tomba di Sisto ii, trucidato il 6 agosto del 258, assieme ai suoi quattro diaconi, proprio mentre celebrava San Callisto. Poi ti conducono anche nella cripta di Santa Cecilia, sciogliendo, con semplicità e competenza, uno dei nodi agiografici più intricati della storia del culto antico. E ti guidano sino alle cappelle dei sacramenti, indicando le scene della più antica iconografia cristiana, facendo scoprire le prime manifestazioni di un'arte propriamente catechetica. I salesiani diventano, così, maestri dinanzi all'alfabetario visivo della salvezza, con un metodo semplice eppure incisivo, che è tipico dei grandi educatori.

Le guide delle catacombe di San Callisto, in questi giorni, salutano la presenza, nella Tricoria Occidentale, delle reliquie del loro fondatore san Giovanni Bosco, che, forse non aveva mai visto quel cimitero dove i suoi figli avrebbero operato con tanta dedizione, ma che conosceva sicuramente le catacombe, per aver visitato quelle di San Pancrazio e quelle di San Sebastiano, già nel 1858, facendosi un'idea ben precisa di quegli oscuri cimiteri, che rappresentavano la testimonianza viva ed eloquente della Chiesa primitiva, guardata dall'osservatorio della devozione martiriale e del culto delle reliquie.

Oggi le catacombe di San Callisto rappresentano un lembo di Terra Santa, che ancora aiuta i pellegrini a raccogliersi in una riflessione, ispirata, in punta di piedi, con garbo e grande professionalità, dai salesiani, instancabili educatori dello spirito, formidabili guide delle anime, semplici compagni di viaggio attraverso le gallerie, frequentate dai primi fratelli della fede, che in quegli oscuri meandri, fecero deporre i corpi dei loro cari, convinti di collocarli in un abbraccio colmo di fede e di speranza.


(©L'Osservatore Romano - 5 giugno 2009)
Caterina63
00lunedì 10 agosto 2009 11:29
Il linguaggio dei gesti e dei segni nell'iconografia paleocristiana

In battaglia a braccia distese e mani aperte


di Fabrizio Bisconti

segni cristianiIl repertorio dei gesti assunti dai personaggi, che animano le scene della più antica arte cristiana, assume un significato di estrema importanza per l'interpretazione degli episodi e delle figure simboliche, che si affacciano sullo scenario iconografico tardoantico. È vero che il linguaggio dei gesti e degli atteggiamenti aveva sempre rivestito un ruolo di rilievo nelle manifestazioni figurative antiche, ma è anche vero che in tali espressioni artistiche, complicate dalla convergenza di molti altri elementi, sia per quanto attiene il vero e proprio apparato figurativo, sia per quel che riguarda l'ambientazione, intesa come assieme di attributi più o meno complementari, i gesti assurgono a un livello di secondaria importanza, per l'interpretazione globale della scena.

Nelle prime manifestazioni iconografiche cristiane, invece, quando le scene mostrano un accelerato impoverimento delle presenze figurative, si acuisce il significato delle pose, degli atteggiamenti e dei gesti, talché alcuni di essi denunciano immediatamente un'evidente ventaglio di significati. In questo contesto può essere collocata una gamma di gesti-base, come quelli che ruotano attorno all'orbita filosofica che vedono i saggi e i santi levare le braccia nel gesto dell'adlocutio o sorreggere la virga, per potenziare la forza taumaturgica di questi personaggi eccezionali.

Altri gesti denunciano un'ascendenza diretta dal patrimonio iconografico classico, come quello che comporta una mano sollevata all'altezza del mento, in atteggiamento altamente riflessivo, per indicare l'humor melanconicus, che la letteratura attribuisce agli eroi della tragedia e della mitologia come Medea ed Eracle.

Ebbene, nell'arte paleocristiana, tale gesto pare significare una presa di coscienza nei confronti di un destino infausto. Per questo assumono l'atteggiamento melanconico alcune figure che si concentrano verso un futuro tormentato, come quello di Pietro nell'episodio della negazione, dei protoparenti dopo il peccato, di Giuseppe e Maria nella scena di natività, di Isacco nel momento del sacrificio, di Pilato in occasione del giudizio. Un significato polivalente assume, infine, il gesto dell'impositio manuum che serve a indicare l'accusa, la benedizione, la guarigione e la grazia del battesimo.

Ma il gesto più diffuso nell'arte cristiana delle origini è quello comunemente conosciuto come l'atteggiamento di orante, nel quale si intravede una continuità tra la posizione assunta dalla personificazione pagana della pietas e la condizione cristiana della preghiera. Nei coni monetali di epoca romana, infatti, appare spesso una figura femminile in atteggiamento di orante, commentata dalle legende:  vota publica, pietas, pietas publica, pietas Augustae, pietas Augustorum. La figura appare con le mani levate all'altezza del petto, in un atto di virtuale proposizione verso un interlocutore, collegandosi al concetto più intimo della pietas, che pone l'uomo nella condizione di adempiere ai propri doveri nei confronti dei genitori, dei figli, della famiglia, della gens, della razza.

Questa virtù si dirige verso due diverse vie interpretative, ossia verso i componenti della famiglia in vita, ma anche verso i defunti, verso i parentes, nei confronti dei quali si praticavano veri e propri atti cultuali. E poiché gli dei romani erano considerati un po' i parentes della patria, la devozione nei loro confronti veniva intesa proprio come l'espressione della pietas. Ne consegue un reciproco rapporto tra imperatore e popolo:  mentre il primo, come pater patriae, riceveva una forma di rispetto e devozione, il secondo riconosceva al sovrano l'appellativo di pius, che si estendeva anche agli altri componenti della famiglia imperiale.

Insomma, il termine pietas riunisce due vie significative difficilmente conciliabili:  da una parte emerge la pietas adversus deos, secondo la formula ciceroniana, dall'altra, possiamo intravedere la pietas erga homines, nel senso più ampio del termine, che include i concetti di rispetto, devozione e pietà. Mentre, in epoca molto antica, la componente umana prevale su quella cultuale, in età imperiale le due componenti sembrano combinarsi, come dimostra la monetazione, dove la pietas assume l'atteggiamento solenne del voto, dell'impegno, del giuramento, della promessa.

Nella cultura figurativa paleocristiana, il gesto dell'orante appare come la posizione più naturale che l'uomo assume nel momento della preghiera, quasi a instaurare un intenso rapporto con il Signore.

Questa urgente interpretazione proviene direttamente da alcuni luoghi veterotestamentari:  "Quando Mosè alzava le mani Israele era più forte, ma quando le lasciava cadere era più forte Amalek " (Esodo, 17, 11); "Innalziamo i nostri cuori al di sopra delle mani verso Dio nei cieli" (Lamentazioni, 3, 41); "Alzerò le mani verso i tuoi precetti che amo, mediterò le tue leggi (Salmi, 118, 48); "Come incenso salga la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera" (Salmi, 140, 2):  "Tutto il giorno ti ho chiamato, o Signore, verso di te protendo le mie mani" (Salmi, 138, 10); "Ho teso le mani ogni giorno a un popolo ribelle" (Isaia, 65, 2).

Anche nella letteratura romana si desume che il gesto fosse utilizzato nella preghiera, a cominciare da Catullo, il quale riferisce che a Calvo, accusato di broglio elettorale, non rimane che rivolgersi agli dei, levando loro le mani (Carmina, 53, 4-5); Virgilio, nell'ambito del racconto della tragica fine di Troia narrata da Enea a Didone, ricorda che Anchise, accingendosi a pregare Giove, levò gli occhi pieni di speranza verso le stelle e tese le mani al cielo (Eneide, ii, 687) e ancora nell'Eneide (vi, 314), le anime, che attendevano di essere traghettate da Caronte, levano le mani in segno di preghiera; Cicerone, infine, attesta di elevare le mani anche in occasione di preghiera rivolta ad altri uomini (Epistulae ad familiares, vii, 5).

Il gesto delle mani levate compare, nel corso del iii secolo, nei cosiddetti sarcofagi criptocristiani e nelle pitture delle catacombe, interessando alcune immagini maschili e femminili, assieme a figure di filosofi, pescatori e pastori.

Da quel momento, il gesto interessò i personaggi più diversi:  quelli veterotestamentari (fanciulli nella fornace, Daniele tra i leoni, Noè nell'arca, Susanna tra i vecchioni) per indicare la salvezza già avvenuta; quelli neotestamentari (il cieco, il lebbroso); quelli dei defunti, dei martiri e dei santi, per rendere il concetto della condizione beatifica, di ricongiunzione alla grazia divina, dopo il peccato. 

gesti cristiani Pian piano, il gesto assume un significato simbolico, allontanandosi dal concetto stretto di preghiera per approdare alla manifestazione della felicità nella pace divina e nella beatitudine celeste.

Non possiamo, comunque, allontanarci completamente dall'idea della preghiera, che nutre il significato fondamentale dell'atto in riferimento speciale a quella preghiera continua che, per il cristiano, non finisce in terra, ma perdura anche nell'aldilà e che si era iniziata con il battesimo:  da quel momento l'uomo, coerente alle sue promesse e fedele al consiglio di Paolo (1 Tessalonicesi, 5, 17), canta incessantemente, senza mai interrompersi, la gloria di Dio.

Tale interpretazione è sostenuta dalle fonti patristiche, anticipate da un altro eloquente luogo paolino:  "Voglio, dunque, che gli uomini preghino dovunque si trovino, alzando le mani pure, senza ire e senza contese (1 Timoteo, 2, 8), mentre Clemente di Roma nella sua lettera ai Corinzi puntualizza:  "Avviciniamoci a Lui nella santità dell'anima, alzando le mani pure e senza macchia" (29, 1). Ancora più precisa appare la testimonianza di Minucio Felice, che, tra l'altro, farebbe intuire la perfetta identità di atteggiamento tra pagani e cristiani (Octavius, 19), mentre Tertulliano tiene a precisare:  Nos, vero, non attollimus tantum, sed etiam expandimus manus (De oratione, 16, 1). Oltre a Origene e a Tertulliano - che dedicarono opere specifiche alla preghiera - si riferiscono al gesto Ambrogio, Ireneo, Ippolito di Roma, Clemente Alessandrino e Cipriano.

Dall'esame di questi testi risulta sostanzialmente che il gesto ha, innanzi tutto, un significato antropologico, nel senso che l'elevazione delle mani esprime la tensione di tutto l'essere umano verso Dio, collegando il singolo fedele all'opera redentrice del Cristo, dal momento che riproduce la posizione assunta dal Salvatore sulla croce.



(©L'Osservatore Romano - 9 agosto 2009)
(Teofilo)
00venerdì 25 settembre 2009 12:42
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Da: Soprannome MSN7978Pergamena  (Messaggio originale)Inviato: 21/01/2004 10.26

Una Chiesa di martiri
Cause delle persecuzioni

Di Giovanni Del Col
Direttore delle Catacombe di San Callisto

L’IMPORTANZA DELLE CATACOMBE

Dopo una visita virtuale o reale alle catacombe cristiane di Roma, la lettura di libri e la visione di videocassette su di loro viene spontaneo chiedersi: qual è l’importanza delle catacombe cristiane di Roma sotto l’aspetto storico-archeologico e quale sotto l’aspetto religioso-spirituale? La prima e più immediata impressione è che le catacombe sono la prova storica che la Chiesa delle origini fu una Chiesa di martiri. I martiri furono moltissimi e le catacombe ne conservano la testimonianza. In questa traccia ci proponiamo di approfondire l’argomento sul numero dei martiri romani, sul significato e valore del martirio, sulle cause delle persecuzioni e sul loro svolgimento.

Un altro aspetto dell’importanza delle catacombe è la loro testimonianza sulla vita della Chiesa primitiva, sulla continuità della nostra fede con quella dei primi secoli, sulla loro spiritualità e sull’attrattiva che le Catacombe hanno esercitato sui cristiani nel corso dei secoli.

Quanti furono i martiri?

Non ne conosciamo il numero esatto. Gli storici ritengono che furono approssimativamente alcune migliaia; gli Atti dei Martiri, che sono i protocolli giudiziari dei processi ai cristiani, ci hanno conservato il ricordo di tanti martiri, ma non possiamo trarre da loro una lista completa dei martiri.

Secondo Tacito, nella grande persecuzione scatenata da Nerone, essi furono una "ingens multitudo". S. Clemente Romano parla di "una grande moltitudine di eletti". Il martirologio Geronimiano ne enumera ben 979. In seguito S.Cipriano scriverà che "il popolo dei martiri fu incalcolabile"("martyrum innumerabilis populus"). Più ancora che negli scrittori cristiani del tempo noi troviamo la testimonianza dei martiri nelle catacombe, cui era legato lo stesso culto dei martiri.

Accenniamo brevemente ai martiri più conosciuti delle catacombe romane aperte al pubblico. Nella sola catacomba di S. Callisto furono sepolti ben 46 martiri, conosciuti per nome. Tra questi i papi martiri Zefirino, Ponziano, Fabiano, Sisto II, Eusebio, Cornelio; i quattro diaconi dei papa Sisto II, Santa Cecilia, Santa Sotere, Marco e Marcelliano, Calocero e Partenio, Cereale e Sallustio,Tarcisio,ecc.

A Domitilla i martiri Nerco ed Achilleo; a S. Sebastiano lo stesso titolare della catacomba S. Sebastiano e S. Massimo; a Priscilla i martiri Felice e Filippo, Marcellino papa, Crescenzione, Prisca, Paolo, Mauro, Simetrio e molti loro compagni; a S. Agnese la martire fanciulla e S. Emerenziana. Anche le altre catacombe, situate lungo le vie consolari, conservano il ricordo di numerosi martiri. Ai martiri conosciuti per nome e venerati nella Chiesa dei primi secoli dobbiamo aggiungere il numero certamente molto più grande dei martiri ignoti sepolti nelle catacombe. I martiri appartengono ad ogni categoria d’età, sesso, provenienza sociale, mestiere e cultura. Essi costituiscono modelli per i cristiani di ogni luogo e di ogni tempo. Sono i testimoni di una fede invincibile, di una fedeltà totale a Cristo confermata con l’offerta della propria vita.

Significato e valore del martirio.

Il discorso dei martiri ci fa riflettere sul significato e sul valore del martirio. Martire, dal greco "martire", vuoi dire testimone e indica chi si sacrifica e soffre o muore per un ideale o per una missione. Il termine fu applicato propriamente ai cristiani dei primi secoli che hanno affrontato persecuzione e morte a difesa della fede.

La Chiesa delle origini ebbe tanti martiri da meritare il titolo di "Chiesa dei martiri" e quei secoli di persecuzione furono detti "l’era dei martiri" (Aera Martyrum).

L’importanza e la valenza ecumenica dei martirio nella Chiesa delle origini, come pure nella Chiesa del nostro tempo, è stata fortemente rilevata dal papa Giovanni Paolo Il nella Lettera Apostolica "Tertio Millennio Adveniente": " La Chiesa del primo millennio nacque dal sangue dei martiri "Sanguis martyrum semen christianorum" (Tertulliano). Gli eventi storici legati alla figura di Costantino Il Grande non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della Chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane.

Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri.

Le persecuzioni nei riguardi dei credenti – sacerdoti, religiosi e laici – hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo. La testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti, come rilevava già Paolo VI nella omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi.

È una testimonianza da non dimenticare. La Chiesa dei primi secoli, pur incontrando notevoli difficoltà organizzative, si è adoperata per fissare in appositi martirologi la testimonianza dei martiri. Tali martirologi sono stati aggiornati costantemente attraverso i secoli… Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi "militi ignoti " della grande causa di Dio … Occorre che le Chiese locali facciano di tutto per non lasciar perire la memoria di quanti hanno subito il martirio… Ciò potrà avere anche un respiro e un eloquenza ecumenica. L’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più convincente".

LE PERSECUZIONI E LE LORO CAUSE

Lasciando agli studiosi la presentazione storica di questo periodo glorioso della diffusione del Cristianesimo, ci limitiamo qui ad elencare brevemente le varie persecuzioni e i loro responsabili. 1 testi di storia della Chiesa, come quelli specifici sulle persecuzioni, riportano ampie bibliografie alle quali rimandiamo per uno studio approfondito dell’argomento in questione. Fin dalla sua origine il cristianesimo si diffuse rapidamente in tutto l’impero romano, esercitando un fascino irresistibile in ogni classe sociale. Esso infatti proponeva uno stile di vita nuovo, fondato sulla libertà e sull’amore: uno stile che si differenzia radicalmente da quello della società e della religione romana.

La religione cristiana fu totalmente rifiutata dai Romani, posta fuori legge come "strana, illecita, perniciosa, malvagia, sfrenata, nuova e malefica, oscura e nemica della luce, detestabile" e perseguitata, anche se non in una forma continua e generale. Come è possibile che la religione per eccellenza della giustizia e dell’amore sia stata giudicata così duramente e perseguitata sia dagli imperatori e dall’autorità politica come anche dalla gente comune, dai pagani che convivevano con i cristiani?

I primi secoli del Cristianesimo segnano il passaggio dalla civiltà romana pagana alla civiltà cristiana. Le due civiltà si presentano in antitesi nei loro principi, esigenze e giustificazioni. Il processo di transizione si attua attraverso alterne vicende che provocarono urti e resistenze presso gli organi di governo politico, l’imperatore e il Senato e presso le stesse masse popolari. In realtà le persecuzioni sono la manifestazione della lotta del mondo pagano contro la religione cristiana.

La religione cristiana è una religione nuova, soprannazionale, universale, liberatrice. I suoi principi investono tutta la vita dell’uomo e della società. I cristiani infatti sanciscono l’indissolubilità del matrimonio ed esaltano la fedeltà coniugale e il valore della verginità; il culto all’unico Dio, con il rigetto di ogni altra divinità; affermano il principio della libertà e dignità di ogni uomo, rifiutando ogni forma di sfruttamento del prossimo, in particolare della schiavitù che costituiva il necessario supporto della società romana; diffondono la dottrina dell’immortalità dell’anima e della vita futura, oltre la morte; praticano una morale severa, e svolgono un’intensa opera caritativa, specialmente verso i bisognosi e gli schiavi, tale da suscitare il riconoscimento e l’ammirazione degli stessi avversari pagani.

Tutti questi principi di libertà, di eguaglianza, di giustizia, di carità sono valori insoliti e in parte sconosciuti e incomprensibili al modo di pensare e di vivere pagano. La filosofia e la cultura pagana manifestano disprezzo verso la religione cristiana, ritenuta religione di barbari e di incolti. Per confutare l’ingiustizia delle persecuzioni e l’incomprensione della cultura pagana, gli Apologisti scrivono le difese dell’innocenza dei cristiani, della loro fedeltà alle leggi e all’imperatore e della loro partecipazione attiva alla vita della società romana ed affermano il valore della dottrina e dell’ideale di vita cristiani, in sostanza la superiorità della religione cristiana su quella pagana.

Una delle cause principali delle persecuzioni fu appunto il contrasto tra le due religioni pagana e cristiana. La religione cristiana fu quindi considerata come il nemico più pericoloso dell’impero, perché ostacolava la restaurazione delle tradizioni e dei potere di Roma, basato sull’antica religione e sul culto dell’imperatore, strumento e simbolo dell’unità dell’impero. Le persecuzioni hanno quindi un motivo religioso-politico. La religione cristiana è nuova e rivoluzionaria; rifiuta la religione tradizionale di Roma. Per questo il governo romano, generalmente così aperto e tollerante verso le religioni straniere, si dimostrò sovente ostile e intransigente verso la religione cristiana, per la differenza radicale tra la religione cristiana e le altre religioni.

Inoltre le altre religioni erano considerate sostanzialmente come un affare privato, senza importanza sociale e politica. Esse si abbassarono infatti al compromesso, adattandosi al culto ufficiale dell’imperatore. Invece la religione cristiana lo rifiutava decisamente, perché ciò avrebbe costituito un atto di empietà, una negazione di Dio.

Secondo molti studiosi, il fondamento giuridico delle persecuzioni è il Senato-consulto dell’anno 35, quando l’imperatore Tiberio propose al Senato di Roma la "consecratio Christi", cioè il riconoscimento della sua divinità e quindi la legittimità dei suo culto. Il senato romano respinse la proposta e dichiarò la religione cristiana "illecita ". "Non licet esse christianos". Con il suo "veto" Tiberio si oppose all’applicazione del decreto dei Senato. Così il decreto rimase lettera morta fino a Nerone, che per salvarsi dall’accusa di aver incendiato Roma ne scaricò la colpa sui cristiani, accusandoli di praticare una religione nuova e malefica. Sul loro conto furono diffuse tra la gente comune le calunnie più fantasiose ed infamanti, che fomentarono l’odio e il furore popolare. Sono i "flagitia", le infamie vergognose attribuite ai cristiani, pratiche atroci ed oscene.

Travisando mostruosamente la cena eucaristica, i cristiani furono accusati di cannibalismo e di infanticidio; furono accusati di incesto per l’uso di chiamarsi fratelli e sorelle e di darsi il bacio di pace; di ateismo e di empietà perché rifiutavano il culto tradizionale agli dei di Roma; di delitto di lesa maestà (crimen maiestatis) perché non offrivano il sacrificio all’imperatore; di associazione segreta ed illegale, pericolosa per l’impero; di odio contro il genere umano, perché ritenuti la causa delle pubbliche calamità, come la peste, le inondazioni, la carestia, le invasioni barbariche. Difatti i cristiani si rifiutavano di partecipare alle celebrazioni religiose in onore degli dei per placarne la maledizione. Per comprendere la dinamica delle persecuzioni bisogna tenere sempre presente questo atteggiamento ostile delle masse popolari, anche se, in generale, l’atteggiamento del governo romano verso i cristiani fu tollerante e talora benevolo.

continua........



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Da: Soprannome MSN7978PergamenaInviato: 21/01/2004 10.36

STORIA DELLE PERSECUZIONI

Le persecuzioni sono un argomento di studio vasto e complesso, con molti aspetti politici e religiosi che investirono sia la classe dirigente (imperatore, senato, governatori delle province romane), sia gli stessi cittadini. Le persecuzioni costituiscono la difesa a oltranza, in parte utopistica, di un ordine giuridico incapace ormai di garantire la pax romana, la sicurezza e il benessere delle popolazioni dell’impero.

Quante furono le persecuzioni e per quanto tempo durarono?

Fin dall’inizio, al messianismo politicamente rivoluzionario e apertamente antiromano dei Giudei, i cristiani opposero un messianismo senza implicazioni politiche e pacifico; per questo gli organi di governo romani furono neutrali o addirittura benevoli nei confronti della nuova religione, che trovava ascolto e simpatia persino in ambienti della classe dirigente. La svolta decisiva avvenne durante il regno di Nerone (54-68), che accusò i cristiani dell’incendio di Roma, incriminandoli come membri di una "superstitio illicita", formula che richiama la dichiarazione del Senato-consulto dei 35. Pare che questa fosse in sostanza la giustificazione giuridica di tutte le persecuzioni, anche se si aggiunsero altre motivazioni politiche e religiose.

La prima grande persecuzione durò quattro anni, dall’incendio di Roma dei 19 luglio 64 al 9 giugno 68, morte di Nerone.

Seguì un periodo di circa trent’anni di completa tranquillità. Domiziano (81-96), che aveva accentuato il culto dell’imperatore, negli ultimi due anni dì vita scatenò un breve persecuzione.

Nel secondo secolo scoppiò una nuova persecuzione sotto Traiano (98-117), per il divieto di costituire società non permesse (le "eterie").La quarta grande persecuzione avvenne al tempo dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), quando l’impero fu funestato da carestie e pestilenze e minacciato dai barbari. Di tutte queste calamità furono accusati i cristiani.

All’inizio del terzo secolo, sotto Settimio Severo (193-21 1) ci furono altri fenomeni di persecuzione scatenati dal furore popolare contro i cristiani dichiarati nemici pubblici e accusati di lesa maestà. Non sembra tuttavia che l’imperatore abbia mai pubblicato un editto di persecuzione. Una persecuzione più di natura politico-personale che religiosa fu poi ordinata da Massimino Trace (235-238), che infierì contro i sostenitori, tra cui molti cristiani, del suo predecessore Alessandro Severo. Nel 244 assunse il potere imperiale il cristiano M. Giulio Filippo (244-249) che nei cinque anni di regno si oppose decisamente agli ambienti più intransigenti del paganesimo e al fanatismo delle folle. Per questo fu da loro odiato e disprezzato come un traditore della religione e della tradizione pagana.

Il suo avversario Decio (249-251) praticò infatti una politica di restaurazione dell’antica religione nazionale romana. Con un editto del 249-250 ordinò a tutti i sudditi dell’impero di offrire pubblicamente un sacrificio propiziatorio ("una supplicatio") agli dei della patria. Una delle prime vittime fu il papa Fabiano. La persecuzione fu breve, ma intensissima e generale.

Il successore di Decio, Treboniano Gallo (251-253), in occasione di una nuova grave pestilenza che devastò tutto l’impero, ordinò sacrifici espiatori (holocausta), ai quali i cristiani non poterono partecipare, scatenando così ancora una volta, come reazione, l’odio e il furore del popolo.

Al tempo di Valeriano (253-260) la persecuzione, da individuale e limitata a determinate regioni, divenne collettiva e generale; cioè il cristianesimo fu perseguitato in tutto l’impero come chiesa, come gerarchia, come struttura. Fu imposta la chiusura degli edifici sacri, la confisca dei cimiteri (editto del 257), la pena di morte per i capi religiosi (vescovi, preti e diaconi); la perdita della dignità e la confisca dei beni per tutti gli altri cristiani (editto del 258).

L’anno seguente la persecuzione cessò sostanzialmente con la cattura dell’imperatore nella guerra persiana (259). La persecuzione fu ripresa in forma violenta e generalizzata da Diocleziano e Galerio agli inizi del IV secolo con gli editti dei 303 e 304, che imponevano la distruzione delle chiese, la consegna dei libri sacri e l’ordine a tutti i cristiani di sacrificare agli dei, pena la condanna a morte.

Con l’editto di tolleranza del 311 e l’editto di Milano del 313 cessarono le persecuzioni e furono concesse alla Chiesa piena libertà di culto e di riunione e la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati. La religione cristiana fu così apertamente riconosciuta come "religio licita", ma sarà solo nel 394 che l’imperatore Teodosio I obbligherà il Senato a decretare l’abolizione del paganesimo in tutte le sue forme e da quel momento il Cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’impero romano.

LA VITA DELLA CHIESA DELLE ORIGINI TESTIMONIATA DALLE CATACOMBE

Le catacombe ci fanno rivivere la vita della primitiva Roma cristiana. È vero che le catacombe sono soltanto dei cimiteri, ma esse ci parlano con la testimonianza storica di un patrimonio ricchissimo di pitture, sculture, iscrizioni che illustrano gli usi, i costumi, la vita degli antichi cristiani, la loro cultura, la loro fede. Infatti ogni comunità che vive, necessariamente si esprime e traduce la propria fede in documenti scritti o visivi. I cimiteri, in molte civiltà, sono luoghi dove si "oggettiva" l’interpretazione della vita e della morte. Così, per esempio, la maggior parte di quello che conosciamo della cultura egiziana proviene dalle tombe. Le catacombe non raccontano solo la storia delle persecuzioni, l’olocausto e il culto dei martiri; presentano anche con chiarezza la fede della Chiesa apostolica e dei primi secoli. La visita alle tombe degli Apostoli e alle catacombe, memoriale dei martiri, è un ritorno alle radici, alle sorgenti antiche della fede e della vita della Chiesa dei primi secoli. Le catacombe ne sono la testimonianza storica. Esse sono state giustamente definite "la culla del cristianesimo e l’archivio della Chiesa delle origini" (0. Marchi).

La spiritualità delle Catacombe è cristocentrica, sacramentale, sociale, escatologica, biblica, nuova e trasformatrice. Essa non è solo una documentazione della fede della Chiesa primitiva, ma è uno stimolo forte a rinnovare personalmente la fede e a testimoniarla nella propria vita. I pellegrini, che ogni giorno visitano le catacombe, ne colgono il valore apologetico e ritengono la visita una vera esperienza spirituale. Sono soprattutto i giovani che scoprono il valore religioso delle catacombe. "Le catacombe non mi erano mai piaciute… ora mi mancano". "Di tutti i centri religiosi che abbiamo visto, incluse le grandi basiliche, le catacombe hanno avuto su di noi l’impatto maggiore. La purezza di fede dei primi cristiani, l’offerta totale della loro vita ci ha umiliati… Ci eravamo immaginati un luogo buio e repellente; abbiamo trovato un luogo che irraggia pace e grazia". "La visita ci ha offerto una vera e propria lezione di vita". "Ricorderò le catacombe come la cosa più bella della mia vita". "Sono la cosa più bella che abbia mai visitato". "Alle catacombe ho capito bene tutto il coraggio e l’amore dei Martiri. Nelle cripte dei Papi e di Santa Cecilia ho capito che di fronte al coraggio di quegli uomini e donne tutto quello di cui noi siamo capaci e proprio niente…".

Le catacombe svelano l’intimo segreto della spiritualità della Chiesa dei primi secoli nella sua giovinezza di conquista e di martirio. Questo è il motivo per cui fin dall’inizio si sviluppò il culto dei martiri. 1 cristiani sentirono il bisogno di radunarsi presso le loro tombe per festeggiare la ricorrenza del martirio e invocare la protezione di quei gloriosi campioni della fede.

Milioni di visitatori da ogni parte del mondo, nel corso dei secoli, hanno compiuto il pellegrinaggio alle catacombe cristiane di Roma accolti dai martiri della Chiesa e dagli innumerevoli cristiani che hanno testimoniato la loro fede nella vita di ogni giorno. È interessante notare che molti pellegrini hanno anche firmato la visita, incidendo nell’intonaco delle pareti il loro nome e, talvolta, frasi di invocazione per ottenere la protezione dei martiri stessi. Sono i graffiti che si vedono numerosi vicino alle tombe dei martiri.

I pellegrini vengono da ogni contrada dell’impero, dall’Oriente vescovi illustri come Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Abercio di Gerapoli e semplici fedeli, perché tutti – al dire di S. Giovanni Crisostomo – "guardano a Roma con i suoi due luminari Pietro e Paolo, i cui raggi rischiarano il mondo".

Dai paesi occidentali arrivano pellegrini, fin dalla lontana Irlanda. Sull’esempio di S. Patrizio (5° sec.), che fu creato da Papa Leone primate di quella nazione, schiere di pellegrini affrontano a piedi un viaggio lungo, faticoso e rischioso. Anche dagli altri paesi il flusso dei pellegrini è notevole e costante. Ricordiamo che dai paesi nordici sono soprattutto i missionari apostoli che giungono a Roma per attingere alle tombe sante e dal papa autorità e forza per predicare la fede, riportando talora in patria reliquie di martiri e di santi.

Dal primo giubileo del 1300 le Cronache degli Anni Santi registrano la presenza di folle di pellegrini sempre in aumento, che fanno della visita alle catacombe una meta quasi obbligata del loro itinerario di fede e di devozione.

Tra i pellegrini meritano particolare menzione quelli divenuti santi, come S. Brigida di Svezia ( 14° sec.), S. Filippo Neri e S. Carlo Borromeo (16° sec.), S. Giovanni Bosco, S. Teresa di Gesù Bambino e S. Maria Mazzarello. Commuove pure vedere nei registri di S. Callisto le firme dei moderni testimoni della fede, come il Card. Giuseppe Slipy, martire dell’Ucraina e il card. Giuseppe Mindzenty, primate d’Ungheria.

Il card. Slipy era stato condannato ai lavori forzati in Siberia, nel durissimo carcere di Mordavia, da dove fu liberato per interessamento di papa Giovanni nel 1963. Venuto a Roma visitò le catacombe di S. Callisto, scrivendo che lo faceva "post quadraginta annos miraculosae liberationis" "dopo 40 anni di una miracolosa liberazione".

I 40 anni risalgono agli inizi degli anni 20, quando i comunisti assunsero il controllo dell’Ucraina che divenne Repubblica Sovietica Socialista. "Ho dovuto soffrire – spiegò il Cardinale – di essere arrestato di notte, tribunali segreti, interrogatori interminabili, sorveglianza continua, maltrattamenti morali e fisici, umiliazioni, tortura e fame. Mi sono trovato davanti a inquisitori e giudici perfidi, prigioniero inerme, silenzioso testimone che, fisicamente e psicologicamente esausto, difendeva la sua Chiesa, essa stessa silenziosa e condannata a morte. Prigioniero per la causa di Cristo, trovavo la forza sapendo che il mio gregge spirituale, il mio popolo, tutti i Vescovi, sacerdoti e fedeli, padri e madri, bambini, gioventù militante come vecchi inermi, camminavano al mio fianco. Non ero solo". Sembra di leggere una pagina degli Atti dei Martiri!

Il secondo, arrestato nel 1948, dopo inaudite torture e un processo-farsa, era stato condannato all’ergastolo. Dopo gli anni di prigione e il domicilio coatto nell’ambasciata degli USA a Budapest, appena liberato venne a Roma e visitò di nuovo le catacombe, scrivendo sul registro dei Visitatori illustri: "Plenus consolationibus fidei prim. suae Ecclesiae – pieno di consolazioni per la fede della sua Chiesa delle origini". Schiere di consacrati, personaggi illustri, Re e Regine, Capi di Stato, Autorità civili di ogni rango e di tanti paesi hanno visitato con interesse e con fede le catacombe cristiane di Roma. Ma i pellegrini più illustri sono stati i Sommi Pontefici e questo fin dai primissima secoli dei Cristianesimo, anzi fin dalle origini stesse delle catacombe. Come non ricordare tra i Papi che hanno amato le Catacombe lo stesso Papa Callisto, scelto ancora diacono da Papa Zeffirino quale amministratore e custode del Cimitero ufficiale della Chiesa, le catacombe che da lui presero il nome? E nel 4° secolo il grande papa S. Damaso, che curò, abbellì e illustrò con splendide iscrizioni latine le catacombe di Roma?

Nei secoli bui delle invasioni barbariche i Pontefici assistettero impotenti alla distruzione sistematica dei monumenti, ai saccheggi e alle ripetute devastazione delle catacombe. All’inizio dei 7° secolo, S. Gregorio Magno esclamava: "Ubique mors, ubique luctus, ubique desolatio, undique percutimur, undique amaritudinibus replemur" "Dovunque la morte, il lutto, le desolazioni; da ogni parte siamo percossi, da ogni parte ripieni di amarezze".

I Papi Paolo I, Adriano I, Leone III e soprattutto Pasquale I furono quindi costretti ad ordinare la traslazione dei corpi dei martiri nelle chiese della città, per motivi di sicurezza, per evitare la loro profanazione: nella sola basilica di S. Prassede il 20 luglio dell’817 furono portati ben 2.300 corpi santi. In seguito molti altri furono portati al Pantheon, già dedicato da Bonifacio IV (608-615) al culto della Vergine col nome di S. Maria ad martyres.

Dopo le clamorose scoperte delle tombe dei martiri a S. Callisto, il papa Pio IX istituì la Commissione di Archeologia Sacra (6 -1 -1852) e nel 1854 visitò le catacombe di S. Callisto. Con profonda commozione sostò in preghiera nella cripta dei Papi, prendendo in mano i frammenti delle iscrizioni dei suoi predecessori.

Pio XI e Pio XII nel ministero della parola hanno frequenti riferimenti alle catacombe, gemma che rende bella la Chiesa di Roma. Pio XII così si esprimeva: "La Roma cristiana vive di vita indistruttibile; la sua archeologia è l’archeologia della vita e i documenti di vita cristiana nei suoi primordi e nel suo svolgimento storico, dottrinale, artistico, iconografico, epigrafico e liturgico, alimenta la nostra Chiesa". Giovanni XXIII fu il primo papa dopo Pio IX a visitare le catacombe. Raccontò allora di aver visitato per la prima volta le catacombe di S. Callisto quand’era seminarista al Laterano e gustava le lezioni dell’insigne archeologo Orazio Marucchi. Eletto papa, egli aveva detto: "Voglio venire alle catacombe. Devo venire a pellegrinare e a pregare, come fanno tanti visitatori" e il 19 settembre 1961 il papa poté attuare il suo proposito. La visita – secondo il desiderio del Pontefice – doveva servire di esempio a tutti i fedeli di Roma.

"La storia della Chiesa – disse allora il Papa – è storia di lotta, ma anche storia di trionfi. Noi, persone consacrate, ne siamo a conoscenza più di tutti. Quindi serena fiducia nonostante tutto; Dio è con noi. La Chiesa di oggi trionferà, come ha trionfato la Chiesa delle Catacombe". A sua volta il Papa Paolo VI volle visitare due insigni santuari dei Martiri Romani: le catacombe di Domitilla e quelle di S. Callisto. A S. Callisto il 12 settembre 1965 sostò lungamente in preghiera nella cripta dei Papi e in quella di S. Cecilia, e raccomandò alle guide di aiutare i pellegrini "a intravedere l’umile splendore della primitiva testimonianza cristiana". Infine Giovanni Paolo II già da vescovo (1965) era giunto pellegrino presso le tombe dei Martiri. Eletto Papa, volle che con lui anche i giovani romani rinnovassero i sentimenti di fede meditando sulle tombe dei primi cristiani. Il Papa ha confidato che giovane sacerdote aveva letto "Roma sotterranea" del grande archeologo maltese Antonio Bosio (1575-1629) e che riteneva le catacombe una valida testimonianza storica ed apologetica della Chiesa delle origini.

Le catacombe sono i monumenti archeologia più significativi della Roma cristiana dei primi secoli. "Questi monumenti – ha affermato recentemente il papa Giovanni Paolo II, ricevendo, il 7 giugno 1996, i membri della Commissione Archeologica e i Direttori delle Catacombe – rivestono un alto significato storico e spirituale. Visitando questi monumenti, si viene a contatto con suggestive tracce del cristianesimo di primi secoli e si può, per così dire, toccare con mano la fede che animava quelle antiche Comunità cristiane… Come non commuoversi dinanzi alle vestigia, umili, ma così eloquenti di questi primi testimoni della fede?

Caterina63
00giovedì 15 ottobre 2009 00:09
San Callisto e gli affreschi delle catacombe a lui intitolate

Il Papa che insegna
nell'oscurità



di Giovanni Carrù
Segretario della Pontificia Commissione
di Archeologia Sacra


"Callisto, figlio di Domizio, di origine romana, della regione del Trastevere, pontificò per sei anni, due mesi, dieci giorni. Visse ai tempi di Macrino ed Elagabalo, durante il consolato di Antonino (218) e di Alessandro (222). Fu sepolto il 14 ottobre, nel cimitero di Calepodio, al iii miglio della via Aurelia. Fece anche un altro cimitero sulla via Appia - dove riposano molti presbiteri e martiri - che ancora oggi si chiama cimitero di S. Callisto" (Liber Pontificalis, i, 144). Questo è l'essenziale ritratto proposto, nel corso del vi secolo, dal biografo del Liber Pontificalis, che sembra ispirarsi al busto del Papa nell'antica serie dei clipei pontifici, che decoravano, forse già nel V secolo, la navata centrale della basilica di San Paolo fuori le mura, ma anche ai vetri dorati più antichi, almeno dal IV secolo.

La figura di Papa Callisto si colloca nell'atmosfera religiosa inaugurata dalla dinastia dei Severi, connotata da un atteggiamento tollerante, come si desume da un brano dell'Historia Augusta, che sembra parlarci di un filocristianesimo, tanto è vero che l'imperatore Alessandro avrebbe fatto incidere sugli edifici pubblici e sul suo stesso palazzo la massima giudea e cristiana: "Non fare ad altro ciò che non vuoi sia fatto a te" (Historia Augusta, Alessandro Severo, 51, 7-8). D'altra parte, i cristiani cercarono di mantenere un atteggiamento leale nei confronti dell'imperatore e, anzi, Tertulliano ricorda un episodio emblematico a questo riguardo. "I cristiani d'Africa temevano che, per un'imprudenza commessa da un soldato cristiano, si mettesse a repentaglio tam bonam et tam longam pacem" (Tertulliano, De corona, i, 5).

Se dal concitato panorama africano, torniamo a Roma, il clima generale non cambia, anche se la comunità dell'Urbe era mossa da controversie interne, tutte improntate alle questioni e alle disquisizioni teologiche, al centro delle quali si impegnano e prendono posizione proprio Callisto e lo Pseudo Ippolito. Tra i due, fu il presbitero identificato con un Ippolito - secondo le ultime valutazioni degli storici del cristianesimo antico - piuttosto che il pratico e concreto Callisto, a dare l'apporto più consistente per il dibattito teologico, che si muoveva specialmente attorno alle questioni trinitarie. In questo clima, si sviluppa il grande scontro tra i due Padri della Chiesa, talché lo Pseudo Ippolito ci ha lasciato un ritratto di Callisto a tinte fosche (Philosophumena, ix, 12), anche se quest'ultimo salì al soglio pontificio nel 217. Era stato Papa Zefirino ad affidare all'allora diacono Callisto la sovrintendenza del cimitero ufficiale della Chiesa di Roma, al iii miglio della via Appia.

Gli scavi della metà dell'Ottocento da parte di Giovanni Battista de Rossi hanno rimesso in luce questo piccolo cimitero scavato in un'area di 70 metri per 30, caratterizzato da due scale parallele, che davano accesso a due gallerie, interessate da loculi semplici e tutti uguali, riservati ai fratelli della comunità. Nell'area, però, furono ritrovati anche ambienti più spaziosi: primo fra tutti quello dove trovarono riposo i più celebri pontefici del iii secolo, tra i quali Sisto ii, ucciso, con i suoi diaconi, durante la persecuzione di Valeriano nel 257. Ma altri piccoli cubicoli mostrano una decorazione ad affresco, rappresentata da scene e figure riconducibili alla più antica catechesi cristiana, tanto che l'iconografo tedesco Joseph Wilpert definì questi ambienti con la suggestiva denominazione di "cappelle dei sacramenti".

Queste semplici immagini ricordano i brani più commoventi del vangelo, riferibili al colloquio della samaritana al pozzo, alla resurrezione di Lazzaro, alla parabola del Buon Pastore, al battesimo del Cristo, al banchetto eucaristico. E non mancano gli episodi veterotestamentari, come il sacrificio di Isacco, il prodigio di Mosè che fa scaturire l'acqua dal deserto, l'incredibile storia di Giona. Le due economie testamentarie si intersecano, dando luogo a un emozionante intreccio delle storie emblematiche della salvezza, dove l'Antico Testamento prefigura il Nuovo, dove i profeti annunciano l'avvento del Messia.

Queste ingenue pitture, forse pensate proprio da Callisto e dal suo entourage, rappresentano le prime forme di catechesi figurata rivolta al grande popolo di Dio, forse poco abituato a leggere i Sacri Testi, ma assai sensibile alla lezione delle scuole del catecumenato, che potevano utilizzare questa semplice, ma estremamente significativa, biblia pauperum. La storia della salvezza, raccontata dalle decorazioni delle catacombe più celebri di Roma, non era riferita soltanto attraverso i più emblematici episodi biblici, ma veniva espressa anche da sintetici simboli, che riconducevano immediatamente alle idee fondamentali della salvezza e della resurrezione. Ecco, allora, che sulle pareti dei cubicoli, ma anche sulle lastre di chiusura dei loculi, si riconoscono i segni inconfondibili di un linguaggio ad alto tenore soterico: il pesce, che allude al Cristo Salvatore; la colomba, che ricorda l'aereo volo dell'anima; la fenice, che vuole evocare la resurrezione della carne; il pavone, che riconduce all'idea di un empireo paradisiaco; l'agnello, che, da un lato, allude pure all'oltremondo bucolico e, dall'altro, alla vittima sacrificale.

Tutte queste immagini semplici o complesse nacquero nel mondo oscuro delle catacombe, con gli auspici di una Chiesa, che si stava organizzando, anche per i suggerimenti e le idee di Callisto, che curò, custodì e valorizzò uno dei cimiteri cristiani più antichi dell'Urbe, che sarebbe divenuto il punto di riferimento della comunità romana della Chiesa del tempo.

Anche, ai nostri giorni, il cimitero di San Callisto, gestito in maniera esemplare dalla comunità salesiana, costituisce, per i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, il monumento più rappresentativo per i pellegrini che, giungendo a Roma, vogliono comprendere i primi gesti della comunità cristiana, che aveva accolto i principi degli apostoli e a cui proprio Paolo aveva indirizzato la lettera più complessa e ricca del suo prezioso epistolario.




(©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009)
Caterina63
00sabato 17 ottobre 2009 18:45
L'iconografia di Ottato di Vescera nel complesso callistiano

Un vescovo africano a Roma


di Fabrizio Bisconti


Nel cuore delle Catacombe di San Callisto, a fianco della celebre Cripta dei Papi, negli anni centrali dell'Ottocento, il grande archeologo romano Giovanni Battista de Rossi si imbatté nella monumentale Cripta di Santa Cecilia, che mostrò una serie infinita di sistemazioni, restauri e decorazioni. Tra le altre immagini, in un angolo, come ricorda il de Rossi, si riconoscevano "l'immagine di una giovane santa in ricco vestito, cinta il capo del nimbo, le braccia aperte nell'orazione (...) il busto del Salvatore dipinto dentro l'incavo di una nicchia (...) l'effigie di un vescovo col nome suo scrittogli da presso:  Urbanus" (Città del Vaticano, 1864-1877, La Roma sotterranea cristiana, ii, pp. 113-114). Queste decorazioni, anche in seguito alle valutazioni dell'iconografo tedesco Joseph Wilpert, denunciano una cronologia avanzata che dal momento bizantino giunge al medioevo.
 
Nella cripta si apre un ampio lucernario affrescato e descritto, nel corso del tempo, dal de Rossi, dal Wilpert e da Paul Styger, anche se lo stato di conservazione non aveva mai permesso una lettura dettagliata e coerente, seppure era apparsa sempre evidente una teoria di santi martiri e l'immagine di una santa orante, forse proprio Cecilia, venerata nel complesso catacombale di San Callisto.

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, i restauratori della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, coordinati da chi scrive, iniziarono un intervento di restauro, capace di chiarire lo sviluppo del programma iconografico:  un monumentale scenario, organizzato in grandi pannelli sovrapposti, che emulano la decorazione dei catini absidali delle basiliche paleocristiane romane. Nel riquadro più in alto - sotto a un pannello illeggibile, campito, forse, da una mano divina che impugna la corona trionfale - laddove si era sempre riconosciuta la figura di Cecilia in preghiera, è, dunque, ora ben riconoscibile un uomo in assoluto e rigido prospetto, vestito di una candida tunica percorsa da linee scure e mossa da esili e rare panneggiature. Il personaggio sostiene un codice aperto; il volto, completamente perduto, era incorniciato da un ampio nimbo dorato a disco; ai suoi lati sono accesi due ceri.

Il pannello inferiore accoglie una coppia di bianchi ovini ai lati di una croce, mentre, nel quadro inferiore, tre personaggi in tunica e pallio sono definiti dalle didascalie:  Sebastiano, Quirino e Policamo. Alcuni lacerti di affresco delle pareti laterali mostrano brevi tratti di altre teorie di santi anonimi. Le caratteristiche iconografiche e le peculiarità stilistiche avvicinano queste pitture agli affreschi più tardi delle catacombe romane e napoletane, accompagnandoci verso il momento dei pellegrinaggi nei santuari ipogei e in particolare verso i primi anni del VI secolo, cioè verso quella stagione figurativa composita che risente della prima lezione ravennate - come dimostra il pannello degli agnelli alla croce - e verso la tradizione africana. A questo ultimo riguardo, dobbiamo soffermarci sui due ceri posti ai lati della figura del lettore, che rappresentano una connotazione assai fortunata nell'iconografia funeraria d'area africana, specialmente nei mosaici tombali. Dall'Africa il motivo delle candele accese si diffuse nell'altoadriatico, a Ravenna, in Pannonia, in Illiria e specialmente in Campania e a Roma.

Individuata, dunque, la forte componente africana e compresa - nelle grandi linee - la cronologia, che sembra attestarsi e oscillare tra il V e il VI secolo, non resta che riconoscere il personaggio centrale di tutta la scenografia, che è poi il nodo di tutto il programma iconografico. Il primo istinto ci farebbe pensare a Cipriano, per la colleganza con Sisto ii sepolto nella cripta adiacente. I due sono congiunti, ma solo alla fine dell'VIII secolo, nei pannelli dipinti posti a decorare la tomba di Papa Cornelio nello stesso complesso. Il vescovo cartaginese godeva in San Callisto di un culto forte e antico, se già la depositio martyrum, il più antico documento agiografico romano, documenta una regolare celebrazione in suo onore.

Il personaggio potrebbe anche essere identificato con Numidiano, un santo africano ricordato nella lista di Papi e martiri fatta incidere da Sisto III, nel V secolo, in una lastra sistemata nella cripta dei Papi e ora perduta, ove erano ricordati Sisto ii, Cornelio, Ponziano, Fabiano, Eusebio, Dionisio, Eutichiano, Gaio, Felice, Milziade, Stefano, Lucio, Antero, Laudiceo, Policarpo, Urbano, Manno, Giuliano, Numidiano e Ottato.

Su quest'ultimo personaggio, forse aggiunto in un secondo momento nella lista sistina, abbiamo altre notizie provenienti dal cimitero di San Callisto:  la raffigurazione nel pannello della tomba di Cornelio, di cui si è detto, e un'epigrafe, trovata in frammenti dal de Rossi, che ci parla di un Optatus episcopus vesceretanus che recessit Numidiae. Sfogliando le liste episcopali africane ci imbattiamo in un Ottato vescovo di Vescera, attuale Biskra nel sud dell'Algeria, che prese parte al concilio di Cartagine del 411 e a quello di Zerta del 412. Questo si può identificare, presumibilmente, con il vescovo ricordato da Agostino in una lettera inviata al tribuno Bonifazio, incaricato della difesa del limes numidico, lungo il quale si attestava appunto Vescera (Epistulae, 185, 2, 2), da non identificare, invece, con l'Ottato definito, in un'altra lettera, novellus rudisque doctor, con il quale Agostino discute sull'origine dell'anima (Epistulae, 202, 3, 7).

Ottato di Vescera, dunque, giunto probabilmente a Roma a seguito delle persecuzioni vandaliche, o giuntene le spoglie, ebbe sistemazione e memoria a San Callisto, come testimoniano l'epigrafe funeraria, la pittura del lucernario della cripta di Santa Cecilia, di cui si è detto, la menzione al 27 novembre nel Martirologio Geronimiano e il ricordo del tardo itinerario del pellegrino malmesburiense che, tra l'altro, lo associa all'altro africano Policamo, pure ritratto nel santorale di Santa Cecilia. Le reliquie di Ottato, nelle traslazioni altomedievali di Paolo I in San Silvestro in Capite e di Pasquale i in Santa Prassede, sono sempre ricordate unitamente a quelle di Policamo. La congiunzione anche nel lucernario di Santa Cecilia, a questo punto, si arricchisce di suggestioni.

La decorazione del lucernario, a nostro modo di vedere, non può essere associata agli interventi di Sisto iii, seguiti alla prima ondata degli esuli africani, ma deve essere avvicinata agli ultimi anni del pontificato di Simmaco, quando, avendo Teodorico abbandonato al suo destino l'antipapa Lorenzo e i suoi seguaci filobizantini, il Papa poté finalmente esercitare appieno le sue funzioni, aiutando i cattolici perseguitati dai sovrani ariani. Sotto Trasamondo (496-523), infatti, si verificò l'ennesima, ma estrema, recrudescenza delle violenze contro i cattolici. Non è escluso che le nostre pitture riflettano proprio questo stato di cose, se si pone al centro di tutto il programma decorativo la figura di Ottato, che a Roma in genere e a Callisto in specie, poteva essere assurta a manifesto politico-religioso cattolico della interminabile questione vandalo-ariana.

L'ideatore del complesso programma decorativo, forse ispirato dalla lunga lista sistina, compone attorno all'immagine dell'africano Ottato un ampio santorale della via Appia, ma anche un ricco manifesto della recuperata padronanza cattolica dell'autorità pontificia. L'insieme figurativo, da ultimo, testimonia, da un lato, il fenomeno della integrazione e della interazione delle chiese e, dall'altro, il largo gesto dell'accoglienza della comunità di Roma nei confronti dei fratelli d'Africa.


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
Caterina63
00lunedì 23 novembre 2009 20:04
Artisti nelle catacombe

Mimo, funambolo e martire




di Fabrizio Bisconti

È piuttosto rigido l'atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti dei mestieri che ruotano attorno all'orbita artistica, relativamente al pericolo che alcune professioni, pertinenti all'arte e allo spettacolo, possano far incorrere i fedeli nel peccato di idolatria. Se, poi, dalla teoria, talora asseverativa e rigorosa, si passa alla prassi, dobbiamo constatare che alcuni mestieri, tradizionalmente vietati o, comunque, posti in seria discussione dalle fonti canoniche, appaiono tra quelli esercitati dai primi cristiani, come documenta la produzione epigrafica delle catacombe romane.

I divieti e gli inviti a stare in guardia dei Padri della Chiesa si riferiscono specialmente agli spettacoli, a cominciare da Clemente Alessandrino, che considera teatro e stadio come "cattedre di pestilenza (Pedagogus, iii, 76, 3), per continuare con Tertulliano che ritiene ispiratori di idolatria i giochi atletici e violenti, ed inutili il pugilato e la lotta (De spectaculis, 11-18). Gli apologisti condannano, senza attenuanti, il circo e l'anfiteatro, in quanto vedere uccidere un uomo è come ucciderlo, mentre per Cipriano lo spettacolo in genere può e deve essere identificato con l'idolatria (De spectaculis, 4). Ma è la testimonianza di Agostino a dare un'idea più chiara e complessiva della visione cristiana dello spettacolo e del travaglio che tormenta i Padri della Chiesa a questo proposito: "Sono i catecumeni - egli rimprovera - a scandalizzarsi per il fatto che i medesimi uomini riempiano le chiese nelle feste cristiane e i teatri in quelle pagane" (De catechizandis rudibus, 25, 48).

Nonostante il tono asseverativo di questi richiami alla vigilanza, molti documenti romani ci parlano di "teatranti cristiani e non solo di aurighi, ginnasti e musici, ma anche di mimi e pantomimi che, come è noto, erano particolarmente invisi ai Padri della Chiesa, specialmente quando, durante la controversia ariana, scelsero come temi preferiti di pantomima i misteri cristiani, parodiando il battesimo e il martirio (Agostino, De baptismo, vii, 53).

Eppure non mancano alcuni celebri mimi romani sicuramente cristiani, fra tutti va ricordato Vitale, sepolto a San Sebastiano nel V secolo e rammentato da un interminabile epitaffio metrico, dove si ricorda, tra l'altro, la sua abilità nell'imitazione delle donne. Vitale, come si desume dal testo epigrafico, era talmente bravo che la sua sola presenza suscitava ilarità ed allegria; qualsiasi ora con lui era lieta; il suo unico rimpianto consisteva nel fatto che tutti coloro che aveva imitato in vita morissero con lui. Ancora a San Sebastiano era sepolto un famoso funambolo (catadromarius) e a San Paolo fuori le Mura un pantomimo che, come è noto, comporta una messa in scena più completa, con mimo, danza e recitazione.

Altre testimonianze epigrafiche ricordano ancora un danzatore a San Paolo e un musico a San Sebastiano, mentre, per quanto attiene alle donne di spettacolo, resta il ricordo di una suonatrice di lira da San Lorenzo fuori le Mura e di una cantante, moglie di un ciabattino, dal cimitero Maggiore, sulla via Nomentana.

Queste due ultime testimonianze sembrano rispondere a un giudizio molto severo sulle "donne di teatro" considerate di infima condizione sociale e di dubbia reputazione (Giovanni Crisostomo, Contra ludos et theatra, 2). L'atteggiamento ostile su certi mestieri nasce da un'etica del lavoro, in base alla quale alcune attività non risultano consone alla dottrina cristiana. Il lavoro eseguito da un cristiano, secondo tale teoria, non deve essere disonesto, immorale e idolatrico: per questo non si accettano alcune attività e si consigliano i cristiani di cambiare mestiere, se prima della conversione avessero esercitato una professione poco consona con la nuova vita che si stava per condurre. Tertulliano, a questo riguardo, si sofferma proprio sui mestieri permessi ai cristiani o, meglio, esorta ogni cristiano a evitare tutte quelle professioni che potevano accostarlo al culto degli dei (De idolatria, 12, 4).

Non si accettano, innanzi tutto, coloro che praticano o gestiscono la prostituzione, gli aurighi, i circensi, i gladiatori, i sacerdoti, i custodi dei templi pagani, i maghi, gli ipnotizzatori, gli indovini, gli interpreti dei sogni, i fabbricanti di amuleti, gli scultori e i pittori (Tradizione apostolica, 11, 2-15). Proprio questi ultimi, invece, appaiono nelle catacombe romane e, segnatamente, nelle incisioni figurate sui marmi di chiusura dei loculi: una evoca la professione di un defunto intento a comporre una lastra di opus sectile e un'altra riproduce la bottega dello scultore di sarcofagi Eutropos e non mancano allusioni a pittori, scultori di clipei e musivi vari.

Come si diceva, la prassi e la teoria non parlano la stessa lingua e i cristiani di Roma impongono leggi e divieti troppo rigidi.
L'unico timore tenuto presente anche dalla base sociale della comunità è quello di incorrere nel peccato d'idolatria, che il severo Tertulliano paragona a un cancro, le cui metastasi minano il corpo sociale e da cui occorre difendersi con antidoti estremi (De idolatria, 12, 4). L'apologista africano, come sempre, si riferisce a episodi che stavano accadendo in quel tempo sulla sua chiesa, episodi che da Roma ci accompagnano verso la realtà cartaginese dell'epoca severiana, ma che fioriscono nell'idea generale della tormentata conversione al cristianesimo nei primi secoli. Tertulliano ricorda, infatti, un episodio estremo, che dà il senso delle infrazioni alle regole della Chiesa: "I costruttori di idoli vengono ammessi nell'ordine ecclesiastico. Quale crimine!".



(©L'Osservatore Romano - 23-24 novembre 2009)

Caterina63
00sabato 19 dicembre 2009 18:54
I cimiteri paleocristiani in Sabina

Per chiedere ai morti notizie dei vivi


di Fabrizio Bisconti

Una lunga e ininterrotta tradizione degli studi già nell'ultimo scorcio del Cinquecento, con le scoperte e i sopralluoghi del maltese Antonio Bosio, pone le catacombe cristiane al centro della restituzione storica della diffusione della nuova fede che, dall'Urbe, si muove, per giungere, innanzi tutto, nei territori laziali. Questa tradizione annovera, tra i suoi maggiori esponenti, un cospicuo numero di antiquari, stretti attorno all'oratorio filippino e al cardinale Cesare Baronio, e, poi, di veri e propri archeologi che acquisiscono metodo ed esperienza, sino a proporre, negli anni centrali dell'Ottocento, un approccio solidamente topografico.

Tra questi studiosi, spicca la figura dell'archeologo romano Giovanni Battista de Rossi, che fece confluire le risultanze della sua densissima attività di archeologo sul campo, oltre che nel "Bollettino di Archeologia Cristiana", nei poderosi volumi de La Roma sotterranea cristiana (1864-1877). Il suo metodo, che, in pratica, faceva funzionare in maniera interattiva le notizie provenienti dalle fonti con i dati propriamente archeologici, divenne normativa di riferimento per i suoi allievi prediletti Orazio Marucchi, Mariano Armellini e, specialmente, Enrico Stevenson, il più promettente e il più aderente al suo approccio interdisciplinare.

La scuola romana, dopo qualche incertezza, riprese energia e, se negli anni Trenta del secolo scorso, Paul Styger riprese il filo dei ragionamenti topografici che pareva interrotto, di lì a qualche anno tale scuola riprese fiato e coraggio prima con gli scavi e gli studi di Antonio Ferrua e poi con l'instancabile attività di Enrico Josi, che creò un vero e proprio nuovo orientamento degli studi recuperando le grandi coordinate metodologiche disegnate dal de Rossi, ma scrollando la disciplina da quelle superfetazioni confessionali, che, ancora, in qualche modo, la appesantivano.

E fu così che, attorno a Ferrua, nacque una nuova scuola romana, che annoverò prima Josi - per molti anni docente di topografia cimiteriale al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana - e poi il suo migliore allievo, il padre barnabita Umberto Maria Fasola (scomparso giusto venti anni orsono), assieme a Pasquale Testini, pure attivo, assieme a Sandro Carletti, nelle fila della nuova generazione dei topografi delle catacombe cristiane di Roma. Una scuola aperta, quella romana, se accolse volentieri studiosi provenienti da esperienze più tecniche o anche specialisti stranieri.
Trascorrono gli anni e giungiamo al passato prossimo, quando, prima Hugo Brandenburg e poi Jean Guyon si immisero nella lunga strada percorsa dalla scuola romana, dedicando rispettivamente studi generali o estremamente innovativi, basati sulla tecnica della fotogrammetria applicata all'area callistiana e monografie più tradizionali.

La scuola romana si popola di tanti altri nomi:  da quello di Philippe Pergola, che spenderà molte energie per affrontare lo studio del complesso di Domitilla, a quello di Aldo Nestori, che si occupò della catacomba di Calepodio; da quello di Carlo Carletti che seguirà gli scavi del cimitero dell'ex vigna Chiaraviglio a San Sebastiano e studierà il cimitero di Commodilla, dopo l'edizione ormai datata di padre Bellarmino Bagatti, a quello di Gabriele Bertoniere, che si occupò della catacomba di Sant'Ippolito; da quello di Patrick Saint Roch, che ha considerato a fondo le catacombe di Marco e Marcelliano, a quello di Nino Verrando, che ha guardato con "occhio agiografico" alle catacombe della via Aurelia; da quello di Lucrezia Spera, che ha rivisitato le catacombe di Pretestato, a quello di Raffaella Giuliani che, come ispettrice delle catacombe romane, ha diretto gli scavi di molti cimiteri dell'Urbe.

Fino a Vincenzo Fiocchi Nicolai che, subito dopo la morte del maestro Fasola, ha ereditato la prestigiosa cattedra di topografia cimiteriale di via Napoleone iii, dimostrando severità, rigore e metodo scientifico. Rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Fiocchi Nicolai è particolarmente legato al suo incarico di ispettore delle catacombe del Lazio per la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, attività che gli permette di scavare, studiare, tutelare e valorizzare i monumenti che gli sono più cari.

La considerazione delle catacombe del Lazio non è stata e non è operazione semplice. Molti monumenti, segnalati nel passato, sono scomparsi e solo la tenacia di Fiocchi Nicolai ne ha permesso la riscoperta e il recupero conservativo, in collaborazione con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Uno sforzo confluito, venti anni orsono, in una poderosa monografia dedicata ai Cimiteri paleocristiani del Lazio, con riferimento particolare all'Etruria meridionale (Città del Vaticano, 1988) e che proprio in questi giorni vede un suo aggiornamento. Il Pontificio Istituto di Archeologia Sacra ha infatti pubblicato il secondo volume dedicato alla Sabina (I cimiteri paleocristiani del Lazio, ii. Sabina, Città del Vaticano, 2009, pagine 510, euro 120, "Monumenti di Antichità Cristiana", ii serie, XX). Una vera e propria "fatica" dedicata a Pasquale Testini e consumata sul territorio sabino "per fornire - come spiega l'autore - un contributo essenziale alla storia del cristianesimo primitivo (tempi della cristianizzazione, consistenza e composizione delle comunità, organizzazione ecclesiastica) e, quindi, a quella società romana alla fine del mondo antico, ma anche, più in generale, alla ricostruzione degli aspetti topografici delle città e delle campagne nella tarda antichità".

Negli ultimi anni, spiega Fiocchi Nicolai, "l'importanza dello studio dei cimiteri e delle chiese, per la definizione dei quadri insediativi tardoromani, è stata largamente riconosciuta" e tale riconoscimento - a nostro modo di vedere - dipende anche dagli studi sistematici, implacabili, di Fiocchi Nicolai che, recuperando la mappa delle "presenze funerarie", suggerisce, ovvero costruisce, le "presenze dei vivi", gli insediamenti, le popolazioni, le dinamiche sociali per un tempo e per un territorio disattesi e oscurati dalle ombre lunghe di un falso medioevo e di una "teoria della decadenza" che, ancora, nonostante le correzioni degli storici, pesano e proiettano coni oscuri su una civiltà, invece viva, seppure sfaccettata, intermittente e, in parte, ancora da comprendere sino in fondo.

Lo studio si muove lungo le arterie principali che attraversano il territorio, facendo lo stesso percorso che il cristianesimo dovette seguire ai tempi della sua diffusione. Così, si percorre la via Salaria, toccando Fidenae, la basilica di San Michele (VII miglio), la basilica di Sant'Antimo (XII miglio), Cures Sabini, Farfa, la basilica di San Massimo (XXX miglio), Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino), Rieti, Antrodoco. Si passa, poi, a considerare i monumenti dislocati lungo la via Salaria "Tiberina":  un cimitero presso Passo Corese, il cimitero di San Getulio (XXX miglio), Vescovio (Forum Novum), i sarcofagi di Colle Rosa, Stimigliano e Villa Cencelli. Dopo aver considerato le valli del Turano e del Salto, si analizzano i monumenti sorti lungo la via Nomentana e, segnatamente, il cimitero e la basilica di Sant'Alessandro (VII miglio), i centri di Ficulea e di Nomentum, i complessi di San Restituto (XVI miglio) e di Sant'Eutiche (XVIII miglio).

Questo studio a tappeto non vuole disegnare soltanto la geografia dei monumenti cimiteriali paleocristiani, ma entra nelle pieghe più nascoste delle "storie interne" dei singoli monumenti", come accade con il complicatissimo insieme architettonico di Sant'Alessandro sulla via Nomentana, al quale, nell'economia della densissima opera, viene dedicata una "monografia nella monografia".

E lo studio non si ferma dinanzi ai muri, alle gallerie, alle fasi, alle evoluzioni monumentali, ma guarda, con occhio mobile e attento, alle questioni storiche e a quelle delicatissime d'ordine agiografico. "Solo dalle leggende agiografiche - precisa l'autore, a questo riguardo - sappiamo che le tombe di santa Vittoria, di san Restituto, dei santi Primo e Feliciano e di san Getulio si trovavano in ambiente sotterraneo. Quelle di sant'Evenzio, Alessandro e Teodulo sono note grazie ai fortunati scavi che, alla metà dell'Ottocento, riportarono alla luce il loro santuario". Ecco, dunque, come le fonti - anche più tarde e solitamente destituite di fondamento storico - e i monumenti possono dialogare. Sta al giudizio severo dell'archeologo, abituato a discernere la storia dalla pietà popolare, valutare quanto e come il livello monumentale e quello letterario possano coincidere e trovare motivo di interrelazione.

Da questo studio, così rigoroso, emerge un quadro molto più ricco di quanto era stato intuito nel passato e si è potuto rilevare un processo della cristianizzazione che, dall'età precostantiniana, giunge sino all'altomedioevo, sfociando anche nel fenomeno del pellegrinaggio, se i santuari dei martiri continuano a essere frequentati ancora attorno alla metà del VII secolo.

Questa ultima fatica di Vincenzo Fiocchi Nicolai conferma quanto era già emerso dallo studio sistematico del territorio dell'Etruria meridionale. Anche in Sabina, il cristianesimo arriva molto presto, forse già nel III secolo, sicuramente all'esordio del iv. Ce lo assicurano i santuari martiriali, che sorgono in corrispondenza delle tombe dei campioni della fede situate nei complessi catacombali dislocati lungo le principali arterie viarie. Ce lo suggerisce la presenza di personalità gravitanti attorno all'orbita di una gerarchia ecclesiastica, che pure si affaccia nel territorio in tempi piuttosto precoci.

Ce lo dicono le tipologie funerarie, gli arredi, le decorazioni, i corredi, così simili a quelli più antichi rinvenuti nell'Urbe. Il cristianesimo si muove presto da Roma, viaggia per la fitta rete viaria attiva in Sabina nella tarda antichità, si ferma e si innerva subito negli abitati grandi e piccoli, conosce la prova del martirio, vede la nascita dei santuari e della devozione, propone le forme di un culto inarrestabile, che valicherà i confini delle diocesi locali, per diffondersi naturalmente e, con urgenza, prima nei territori circonvicini e poi presso le genti dell'ecumene cristiano.


(©L'Osservatore Romano - 20 dicembre 2009)
Caterina63
00martedì 22 dicembre 2009 18:29
Natale nelle catacombe

In pellegrinaggio con i Magi
nelle viscere di Roma


di Giovanni Carrù
Segretario della Pontificia Commissione
di Archeologia Sacra


Con l'approssimarsi delle festività natalizie molti pellegrini giungono a Roma per vivere in prima persona il Natale, così come emerge dalle solenni celebrazioni pontificie, ma anche per respirare l'atmosfera di una città che, da sempre, ovvero dalla prima diffusione del cristianesimo, ha tradotto in figura i primi momenti dell'infanzia del Salvatore. Questa particolarità si apprezza specialmente visitando le basiliche paleocristiane decorate con splendidi mosaici che, assai spesso, ritraggono l'immagine della Madonna con il Bambino, secondo un'iconografia che doveva interessare anche l'abside dell'antica basilica di Santa Maria Maggiore, prima dei lavori medievali, che trasformarono tutto il presbiterio, che accolse, proprio nella nuova abside, il suggestivo mosaico di Jacopo Torriti con l'incoronazione della Vergine e la sua "Dormizione".

Ebbene, della basilica paleocristiana, fatta erigere da Sisto III sulla sommità dell'Esquilino, dopo il concilio di Efeso del 431, che sancì il dogma del parto verginale di Maria, restano i mosaici delle navate, ma anche il grande arco trionfale, che evoca i momenti salienti relativi alla nascita del Salvatore:  dall'annunciazione alla presentazione al tempio, dall'adorazione dei magi al soggiorno in Egitto, dalla strage degli innocenti alla reggia del re Erode.

Questi episodi figurativi non nascono dal nulla, ma trovano il loro naturale antefatto nell'arte delle catacombe che, com'è noto, rappresenta la testimonianza figurativa più antica per quanto riguarda un'iconografia propriamente cristiana. È noto che i primi quadri ispirati alla natività sono da rintracciare nella catacomba di Priscilla, sulla via Salaria, una delle cinque catacombe romane che la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha aperto al pubblico e che rappresenta una meta privilegiata per il pellegrinaggio, o anche per la semplice visita di chi, da tutto il mondo, arriva alla Città eterna in questi giorni.

Nelle gallerie delle catacombe di Priscilla, già nel III secolo, vengono riprodotti ad affresco le celebri scene dell'Annunciazione, della Natività e dell'adorazione dei Magi. Ma anche le altre catacombe aperte al pubblico conservano le tracce eloquenti del racconto evangelico del Natale, come in un arcosolio del cimitero di San Sebastiano sulla via Appia antica, che presenta un dipinto estremamente deteriorato ma, per fortuna, fatto disegnare da Giovanni Battista de Rossi nel 1877. Nel sottarco del monumento era dipinto il Bambino fasciato e nimbato, disteso su un umile giaciglio tra il bue e l'asino, mentre un busto giovanile nimbato sovrasta la scena, per impersonare il Cristo adulto e protrarre nel tempo l'evento incipitario del Natale.

Questo semplice affresco, da riferire al pieno IV secolo, nasconde significati simbolici sottesi, che attribuiscono alla scena un cumulo di significati, che solo la letteratura patristica e gli scritti apocrifi possono sciogliere. Le fasce del Bambino, a esempio, alludono alla sistemazione del corpo del Cristo al momento della deposizione, ma anche alle bende da cui si libera Lazzaro durante l'evento miracoloso della resurrezione, suggerendo una paradossale analogia tra la mangiatoia e il sepolcro. La mangiatoia - d'altra parte - è qui rappresentata come un tavolo, ovvero come un altare coperto da un drappo, secondo un significato simbolico che giustappone i luoghi della Natività e dell'eucarestia.

La presenza del bue e dell'asino rimanda a un referente apocrifo sorto in funzione della mangiatoia. Come simboli della Natività essi traggono la loro origine dalle Sacre Scritture e, in particolare:  "Il bue ha conosciuto il suo possessore e l'asino la greppia del suo padrone" (Isaia, 1,3) e "Tu ti manifesterai in mezzo a due animali" (Abacuc, 3,2). Ma è il vangelo dello Pseudo-Matteo a riferire, più in dettaglio, la dinamica dell'adorazione degli animali:  "Ora, il tredicesimo giorno successivo alla nascita del Signore, Maria uscì dalla grotta, entrò in una stalla e depose il bambino nella mangiatoia, e il bue e l'asino l'adorarono" (capitolo xiv).

Il nostro viaggio attraverso le catacombe romane aperte al pubblico ci accompagna verso altre decorazioni relative alla infanzia del Salvatore e, in particolare - come abbiamo detto - già nella prima metà del III secolo, nelle catacombe romane di Priscilla, dove appare la prima adorazione dei Magi, anche se il tema appare pure nei cimiteri chiusi al pubblico e, in particolare, nelle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, dei Santi Marco e Marcelliano, dei Giordani, di San Callisto, della via Latina e del Maius sulla via Nomentana.

Il numero dei Magi varia da rappresentazione a rappresentazione e nella catacomba di Domitilla essi sono addirittura quattro e si dispongono simmetricamente ai lati della Madonna con il Bambino. I re, vestiti all'orientale, in quanto appartenenti alla classe sacerdotale persiana, hanno avvistato la stella della Natività e sono stati fatti, dunque, partecipi della profezia messianica. Un risvolto simbolico assumono i doni recati; se, infatti, Matteo ricorda che i Magi presentarono al Bambino, in dono, oro, incenso e mirra (Matteo, 2, 1-12) non si precisa il numero degli offerenti, per cui è proprio la variazione degli oggetti preziosi a indirizzare verso il gruppo ternario dei personaggi. Per questo, nelle più antiche pitture delle catacombe, il loro numero oscilla da due a cinque e solo nella cultura figurativa di età bizantina diventa fisso il gruppo dei tre.

Il pellegrinaggio attraverso le catacombe di Roma propone ai devoti un gruppo cospicuo di scene ispirate al Natale e all'Epifania, dimostrando come, tra il III e il IV secolo, la comunità cristiana dell'Urbe fosse particolarmente sensibile alla narratio evangelica e/o apocrifa relativa ai primi momenti della vita di Gesù.

Questa attenzione sottolinea un approccio cristocentrico del pensiero cristiano occidentale dei primi secoli, ma dichiara una speciale intenzione soterica dell'arte concepita dai primi cristiani, che vedono il Natale come momento saliente del piano salvifico divino e come incontro tra profezia e attuazione evangelica, dando luogo ad un naturale processo di concordia tra le due economie testamentarie.



(©L'Osservatore Romano - 23 dicembre 2009)
Caterina63
00giovedì 14 gennaio 2010 19:43
I verbiti nel cimitero romano di Domitilla

Guide speciali
per la catacomba più vasta


di Giovanni Carrù

Il 15 gennaio è festa grande per i missionari verbiti, che celebrano la solennità del loro fondatore Arnoldo Janssen, dichiarato santo, insieme al confratello Giuseppe Freinademetz, da Giovanni Paolo ii il 5 ottobre 2003. Sant'Arnoldo nacque a Goch, nella diocesi di Münster, il 5 novembre 1837.

Ordinato sacerdote nel 1859, maturò ben presto una speciale venerazione, imitazione e predicazione del Verbo incarnato, che lo portò a sviluppare da un lato l'uso dei mezzi di comunicazione, precorrendo per certi versi i tempi attuali, e dall'altro la vocazione missionaria, che lo condusse, fin dalla nascita della congregazione, fuori dalla Germania, ove, in pieno Kulturkampf, la Chiesa cattolica subiva molte opposizioni. Il primo passo fu l'Olanda, ove sant'Arnoldo fondò a Steyl la casa missionaria Saint Michael (8 settembre 1875). L'anno successivo, inaugurò la prima tipografia missionaria che stampava in migliaia di copie le riviste "Kleiner Herz Iesu Bote" e "Die heilige Stadt Gottes". Nel 1878 partirono i primi missionari da lui inviati in Cina:  padre Giuseppe Freinademetz e padre Johann Anzer. Tra il 1884 e il 1886 si collocano i passaggi determinanti per la nascita della Societas Verbi Divini, di cui padre Janssen è eletto superiore generale a vita.

La prima approvazione venne dal vescovo di Roermond; nel 1901 la Santa Sede emise il decretum laudis della società. Ben presto sant'Arnoldo inviò i suoi figli anche in America e in Africa; intanto si aprivano case in Europa e a Roma, per la formazione del clero. Nel 1889, Arnoldo istituì la congregazione delle Suore Serve dello Spirito Santo, e, nel 1896, quella delle Suore Serve dello Spirito Santo per l'Adorazione Perpetua.

Il 15 gennaio 1909 padre Janssen morì a Steyl, con una congregazione, oggi nota come missionari verbiti, che contava già una cinquantina di sacerdoti e alcune centinaia di laici. Se in origine la famiglia religiosa di Steyl aveva una forte caratterizzazione tedesca ed europea, oggi circa la metà degli oltre diecimila membri (padri, fratelli e suore di Steyl), provengono da Paesi dell'emisfero meridionale e soprattutto dall'Asia.

Dal mese di gennaio 2009 la famiglia religiosa dei verbiti ha accolto un nuovo servizio nel quale può pienamente esprimere quella vocazione missionaria e quella caratteristica di internazionalità che per precisa volontà del suo fondatore la contraddistinguono. È da un anno, infatti, che la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha affidato ai missionari verbiti la gestione delle catacombe romane di Domitilla, avvicendandoli alla famiglia dei fratelli della Misericordia di Maria Ausiliatrice. L'accoglienza dei visitatori delle catacombe e la presentazione dei contenuti di storia, archeologia e fede specifici del sito archeologico dell'Ardeatina, si propongono come una nuova missione che i padri verbiti hanno accolto con entusiasmo, impegnandosi a ricercare nuove vie e nuovi metodi per andare incontro alle esigenze sempre più articolate dei tanti visitatori.

L'esperienza di numerosi anni di gestione delle visite nelle catacombe ha dimostrato che il visitatore di questi luoghi non è solo un turista più o meno frettoloso, interessato all'arte e all'archeologia. Chi viene in catacomba, infatti, indipendentemente dalla sua fede, e anche se non coltiva una particolare convinzione religiosa, avverte immediatamente l'attrazione particolare esercitata da queste mete, che proprio per aver dato l'estrema dimora a tanti martiri, sono paradigma di un'esperienza spirituale totalizzante, che interroga l'uomo d'oggi e lo pone necessariamente dinanzi a una dimensione più profonda. In questo senso la visita delle catacombe appare come un'opportunità unica, sia per il visitatore, sia per la comunità religiosa che lo accoglie, da un lato per stabilire una comunicazione feconda, dall'altro per rispondere a quel forte bisogno di sacro, di silenzio e di riflessione che l'uomo moderno, da qualsiasi latitudine provenga, manifesta, particolarmente on the road.

È compito specifico della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e delle comunità religiose custodi delle catacombe cercare di rispondere a questi bisogni nel modo più adeguato, avvalendosi anche di approcci innovativi, che portino a una valorizzazione delle numerose potenzialità insite nei monumenti, spesso misconosciute.

È appunto il caso del coemeterium Domitillae. Allo stato attuale delle conoscenze, è questa la catacomba romana più vasta, scavata nel sottosuolo delle proprietà suburbane della nobile Flavia Domitilla, nipote dell'imperatore Domiziano, il quale nell'anno 95 ne fece condannare a morte il marito, il console Flavio Clemente, e la esiliò, con l'accusa per entrambi di ateismo e pratiche giudaiche. Dietro tale accusa, che colpì con l'esilio anche una nipote del console, omonima della zia, si alludeva probabilmente all'avvicinamento - assai pericoloso per l'establishment imperiale - della importante casata dei Flavi, o almeno di una parte di essa, alla fede cristiana.

Testimonianze epigrafiche confermano che Flavia Domitilla concesse nelle sue vaste proprietà dell'Ardeatina, l'ius sepulcri a privati, tra i quali alcuni membri della comunità cristiana della prima ora. A partire da queste prime limitate strutture funerarie si avviò quel processo di aggregazione progressiva di ipogei originariamente autonomi alla base della formazione della colossale necropoli paleocristiana sotterranea.

Nell'ultimo ventennio la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha dedicato molti interventi di restauro conservativo all'immenso patrimonio pittorico e scultoreo di questo cimitero, attualmente in corso di censimento da parte dell'Accademia delle Scienze di Vienna. Per citarne alcuni, possiamo annoverare i restauri degli arcosoli di Veneranda e degli Apostoli Piccoli, degli ipogei dei Flavi e di Ampliato, degli oltre mille reperti scultorei della basilica dei Santi Nereo ed Achilleo, quest'ultimo a completamento dell'opera di ricostruzione della grande copertura lignea ottocentesca dell'edificio, crollata - miracolosamente senza danni alle persone - in una notte dell'agosto 1998.

Gli interventi attuati hanno posto all'attenzione degli operatori l'assoluta necessità, da un lato di proseguire nel monitoraggio attento dello stato conservativo dello sterminato patrimonio archeologico, dall'altro di affiancare ai nuovi restauri un programma organico di manutenzione, mediante il quale "tesaurizzare" il più possibile nel tempo i risultati positivi dell'opera di risanamento già attuata.

Inoltre al momento è in corso da parte della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra - accogliendo le richieste della comunità religiosa custode - uno studio paesaggistico volto alla valorizzazione delle vaste aree esterne verdi della catacomba, fino a oggi molto trascurate, al fine di migliorare lo standard qualitativo generale della fruizione del monumento da parte dei visitatori, sotto il profilo dell'accessibilità, dell'accoglienza e di una più gradevole permanenza temporanea dei gruppi. In particolare, sono allo studio approcci migliorativi per la fruizione di gruppi particolari, come quelli di, o con, bambini; e anche di visitatori con difficoltà motorie o di altro tipo.


(©L'Osservatore Romano - 15 gennaio 2010)
Caterina63
00mercoledì 31 marzo 2010 23:02
La raffigurazione del banchetto alle origini dell'iconografia paleocristiana

Pane e uva
per non morire mai


di Giovanni Carrù


Al centro dell'arco di fondo della "cappella greca" nelle catacombe di Priscilla si staglia la suggestiva scena di un banchetto dipinto, alla metà del iii secolo, su un vivace fondo rosso, che solleva l'immagine in un'atmosfera simbolica, che, in passato, ha suggerito agli iconografi di interpretare la singolare rappresentazione come la prima testimonianza dell'Eucarestia nell'arte cristiana. La scena, come è noto, propone una situazione conviviale costituita da sette personaggi sistemati attorno a una tavola a forma di sigma:  tra questi, un uomo anziano, che occupa il posto di onore in cornu dextro, sembra spezzare il pane con grande solennità, mentre sulla tavola sono disposti coppe e piatti colmi di pesci e pani. Ai lati, sono sistemati sette cesti di pani, a memoria del miracolo neotestamentario della moltiplicazione (Matteo, 14, 13-21; Marco, 6, 32-44; Luca, 9, 12-17; Giovanni, 9, 26-37). Un'altra particolarità della scena è rappresentata dalla presenza di una donna a capo velato, che partecipa al banchetto, secondo un uso che si diffonderà per la solennità della celebrazione eucaristica.

La pittura della "cappella greca", che è associata ad altre scene neotestamentarie (guarigione del paralitico, resurrezione di Lazzaro, l'adorazione dei Magi) e veterotestamentarie (Noè nell'arca, Daniele tra i leoni, il sacrificio di Abramo, Susanna tra i vecchioni, i tre fanciulli nella fornace, Mosè che batte la rupe) e ad alcuni simboli riconducibili alla Resurrezione (la fenice, le stagioni), ha dato luogo a molte discussioni relativamente alla sua interpretazione. Se, infatti, il grande iconografo tedesco Joseph Wilpert intese la situazione figurativa come una vera e propria fractio panis, più di recente la nostra scena è stata interpretata come un più semplice banchetto funerario, secondo una tradizione iconografica già sorta nell'arte pagana e ripresa anche dai cristiani, specialmente negli affreschi delle catacombe dei santi Pietro e Marcellino, dove molte rappresentazioni alludono, con ogni evidenza, al rito funerario del refrigerium, ossia a quel banchetto simbolico organizzato in onore dei defunti, in occasione del dies natalis dei fratelli scomparsi.

Tutto questo ci induce a pensare che l'immagine del banchetto, nella cultura paleocristiana, propone diverse accezioni, nel senso che può alludere ora ai banchetti edonistici di puro intrattenimento, ora a un rito funerario, ora a una condizione paradisiaca, ora alla moltiplicazione dei pani, ora all'Eucarestia. Questa ultima accezione, comunque, nei primi secoli, appare assai raramente, come per una sorta di discrezione nei confronti di un mistero estremamente delicato e solenne, nell'ambito della genesi dei sacramenti cristiani.

Per questo motivo, oltre all'affresco delle catacombe di Priscilla, con le dovute cautele, possiamo intravedere un'ipotetica componente eucaristica in altri affreschi cimiteriali. Tra i più interessanti, dobbiamo ricordare quelli che decorano uno dei cubicoli cosiddetti dei Sacramenti nell'Area i callistiana, che possiamo riferire agli anni 230-240 circa. Ebbene, tra le altre scene (fossori, filosofi, pescatori, Giona, Mosè, Samaritana, battesimo), sulla parete di fondo di questo ambiente si riconoscono una scena di banchetto attorniata dai soliti cesti di pani, una curiosa situazione figurativa riconducibile a una sorta di sacrificio con un officiante che pone le mani sui pani e pesci sistemati su un tondo dinanzi a una donna orante, e una rappresentazione del sacrificio di Isacco. La sequenza figurativa sembra alludere al concetto del banchetto eucaristico inteso come sacrificio, recuperando antichi schemi pagani e collegandosi anche alla prefigurazione veterotestamentaria del "sacrificio sventato" di Abramo.

D'altra parte, il concetto di sacrificio associato a quello dell'Eucarestia è ben presente nella letteratura patristica, tanto che Cipriano abbina l'Eucarestia alla passione e alla Resurrezione del Cristo, alle quali rispondono anche i fedeli con il loro sacrificio. Altre allusioni alla materia eucaristica possono essere individuate nella volta di un altro cubicolo dei Sacramenti, dove compaiono la sintesi delle offerte - o meglio un tripode e i cesti dei pani - come per ridurre il più complesso schema del banchetto.

Ancora più sintetici appaiono i cosiddetti "pesci eucaristici" dipinti, nella prima metà del iii secolo, nelle cripte di Lucina. Qui, due grandi pesci fungono da base ad altrettanti cesti di pani, al cui interno si intravedono due bicchieri di vino rosso. Se tutta la prima stagione figurativa dell'arte delle catacombe presenta scene ancora ambigue dal punto di vista di una interpretazione sicuramente eucaristica, dal momento bizantino, le allusioni iconografiche divengono più chiare, come possiamo riscontrare nel presbiterio di San Vitale a Ravenna, dove Abele e Melchisedech sono rappresentati ai lati di un altare, mentre Abramo offre ospitalità ai tre personaggi a Mambre e si accinge a sacrificare Isacco.

Ancora a Ravenna, la più antica scena dell'ultima cena si riconosce nel ciclo cristologico concepito in età teodoriciana, nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo. Lo schema riprende l'organizzazione classica del banchetto e viene utilizzato anche, sempre nel vi secolo, nel codice purpureo di Rossano Calabro e in quello di Rabula, ora conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze. La scena avrà grande fortuna anche negli oggetti liturgici in materiali preziosi, come nelle patere argentee di Riha e di Stumma presso Antiochia, sempre di età bizantina.

Ma il cristiano delle origini, per tornare al suggestivo mondo delle catacombe, doveva pensare al sacrificio eucaristico anche e soprattutto quando osservava con stupore semplice e immediato i simboli incisi sulle tombe dei confratelli, ossia quei grappoli d'uva, quei pesci, quei cesti di pani che riconducevano naturalmente all'accezione eucaristica e soterica del banchetto, che rappresenta il momento più alto del piano salvifico divino.


(©L'Osservatore Romano - 1 aprile 2010)
Caterina63
00martedì 22 giugno 2010 23:54
Dopo quelle di Paolo e di Pietro vengono alla luce nelle catacombe di Santa Tecla
le più antiche rappresentazioni iconografiche devozionali di Andrea e Giovanni

Il laser svela gli apostoli


Risalgono al IV secolo gli affreschi scoperti sulla via Ostiense grazie a moderne tecniche di indagine

Nella mattinata di martedì 22 giugno si è svolta a Roma, presso la basilica di San Paolo fuori le Mura, la conferenza stampa di presentazione delle ultime scoperte archeologiche emerse all'interno delle catacombe romane di Santa Tecla nel corso degli scavi e dei restauri curati dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Pubblichiamo i contributi degli esperti che hanno partecipato all'incontro:  Fabrizio Bisconti, sovrintendente archeologico delle catacombe, Barbara Mazzei, responsabile del restauro, e Giovanni Carrù, segretario della commissione. È intervenuto anche l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra che, nel testo seguente, illustra i dettagli della scoperta.

di Gianfranco Ravasi


Il delicato e meticoloso intervento di restauro, avviato due anni orsono, nel cubicolo dipinto delle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, offrì una importante sorpresa proprio lo scorso giugno, quando si concludevano le celebrazioni dell'anno paolino. In quell'occasione, attraverso le pagine de "L'Osservatore Romano", i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, annunciavano la scoperta di una suggestiva raffigurazione di san Paolo, rappresentato in busto, in un clipeo aureo, databile agli ultimi anni del iv secolo o ai primi del seguente, assurgendo, così, agli onori della più antica icona di san Paolo.

L'immagine pensierosa dell'apostolo delle genti fece il giro del mondo, emozionando devoti e studiosi, che cercavano in quel volto il carattere, la sapienza, la psicologia del più raffinato pensatore del cristianesimo della prima ora. Gli occhi spalancati, le rughe di atteggiamento, le guance scavate, la calvizie, la lunga e scura barba appuntita assicurarono anche i più scettici che ci si trovava dinanzi al ritratto volitivo e graffiante di chi cambiò radicalmente il suo stile di vita, in nome di una folgorante conversione.

E proprio mentre il laser, usato dai restauratori per la prima volta in un ambiente catacombale angusto ed estremamente umido, definiva, in tutti i suoi particolari, nel soffitto del cubicolo spuntò un altro clipeo campito dal busto di Pietro, riconoscibile dalle peculiarità fisionomiche tipiche dei più antichi ritratti dell'apostolo-pescatore:  la chioma e la barba bianca, il volto squadrato, le sembianze tipiche di un uomo anziano.
I responsabili della Commissione chiesero, a quel punto, alla stampa e agli specialisti il tempo utile per restaurare l'intero cubicolo, promettendo altre importanti scoperte, intuite dagli addetti ai lavori, ma bisognose di verifiche, di studi approfonditi, di ordine iconografico, storico artistico e stilistico.

I restauratori tornarono al lavoro con il prodigioso strumento nel silenzio e nel buio delle catacombe di Santa Tecla. Non è stato semplice, in questi mesi mantenere la tranquillità necessaria per procedere coerentemente nel lavoro di asportazione delle concrezioni scure che avevano obliterato quelle importanti pitture. E non è stato facile neppure mantenere segrete le scoperte che si succedevano, emozionando, prima, i restauratori e, poi, i responsabili scientifici del restauro che, come è evidente, comunicavano solo ai Superiori le novità, che provenivano da quel fortunato intervento conservativo.

Oggi i tempi sono maturi per svelare, nella sua interezza, la scoperta del programma decorativo del cubicolo, che si propone come una sontuosa e decorata tomba di una nobildonna, appartenente all'aristocrazia romana dell'ultimo scorcio del IV secolo, quando a Roma si consumavano gli ultimi tentativi del senato di arroccarsi nella difesa estrema di una religione pagana, che, proprio al tempo di Teodosio, proporrà le sue ultime manifestazioni.

Ebbene, la Roma degli "ultimi pagani" era anche la Roma di una sistematica cristianizzazione, che, appunto, toccherà anche i più alti livelli della gerarchia dell'impero. San Girolamo è molto vicino a un gruppo di pie matrone, che iniziarono a praticare forme di "ascesi domestica", a cominciare da Marcella, che si rinchiuse in periferia nel suo palazzo dell'Aventino, dando avvio ad un tipo di vita religiosa riservata alle matrone della "Roma bene", che intrattenevano con Girolamo un fitto scambio di lettere e che, in qualche caso, la seguirono sino in Terra Santa, alla ricerca dei luoghi della memoria dei patriarchi, dei profeti, del Cristo e degli apostoli.

Le vedove, le vergini, le pie donne dell'aristocrazia romana promossero anche un culto nei confronti dei martiri romani, sulla scia del progetto politico-religioso di Papa Damaso, ma anche nei confronti degli apostoli. Le memorie di questi ultimi, d'altra parte, furono collocate al centro dell'Apostoleion costantinopolitano, voluto da Costantino nella nuova Roma per accogliere le sue stesse spoglie. E sant'Ambrogio, nella basilica apostolorum fatta costruire a Milano sulla via romana, fece sistemare al centro della basilica cruciforme le reliquie degli apostoli provenienti da Concordia, da Aquileia o da Roma.

Il nostro percorso, che ha attraversato i luoghi salienti del culto per gli apostoli e che potrebbe anche toccare Antiochia, Gerasa, Aosta e infiniti altri centri dell'orbis christianus antiquus, ci riporta a Roma e al cubicolo di Santa Tecla. Su quel soffitto, che imitava un prezioso cassettonato, oltre alle immagini di Paolo e di Pietro, sono venute alla luce altri due clipei che accolgono due apostoli ben caratterizzati fisiognomicamente:  uno mostra l'irruenza e la potenza di Andrea, l'altro la delicatezza e l'aspetto giovanile di Giovanni. Queste ultime identificazioni, confortate dal confronto con monumenti musivi ravennati (Battistero degli ortodossi, Battistero degli ariani, Cappella arcivescovile, Basilica di San Vitale, Basilica di Sant'Apollinare Nuovo), ma anche orientali (Monastero di Santa Caterina al Sinai), che, spesso, mostravano le didascalie di definizione, ci permettono di considerare i due busti come e le più antiche rappresentazioni di Andrea e Giovanni.

Il laser ha continuato a svelare, in questi mesi, altre immagini, appena intraviste dagli studiosi del passato e, così, nell'ambiente antistante il cubicolo, modificato per l'apertura di un grande lucernario, accanto alle rappresentazioni del Cristo maestro, del paralitico, di Lazzaro, di Daniele tra i leoni è apparso un maestoso collegio apostolico dipinto su uno squillante fondo rosso definito da fasce azzurre e serti fioriti, mentre, ai piedi degli apostoli, è stata scoperta una teoria di sei ovini che si abbeverano, anticipando un tema caro ai grandi scenari musivi dei catini absidali romani, pronti ad accogliere le teofanie di ispirazione apocalittica.

Il cubicolo presenta una semplice pianta quadrata con tre arcosoli ai lati, secondo l'organizzazione dei mausolei nobiliari, che si addensavano attorno ai grandi santuari martiriali del suburbio romano. Ebbene, in uno degli arcosoli è apparsa l'immagine di una nobildonna, sontuosamente abbigliata e ingioiellata, in compagnia della figlia orante, tra due santi che introducono le defunte nell'aldilà. Questa defunta va, presumibilmente identificata con una di quelle nobildonne di cui si diceva in apertura.

Il resto del cubicolo è costellato di scene bibliche (Giona, Daniele, Pietro che fa scaturire l'acqua nel carcere Tulliano, Maria con i Magi, Abramo e Isacco) rappresentate contro fondali neri incorniciati da fasce gialle e rosse, come per emulare l'opus sectile con cui si decoravano i più prestigiosi edifici della tarda antichità.

Il meticoloso intervento di restauro ha, quindi, recuperato uno dei monumenti sepolcrali più tardi e più decorati delle catacombe romane, quando queste stanno per esaurire la loro funzione funeraria, a favore di una stagione devozionale, allorquando i pellegrini dell'intero orbe cristiano si recano a visitare le tombe sante. In questo frangente, alcuni cubicoli monumentali fungono da "mausolei sotterranei", posizionati in una catacomba assai prossima al martyrium paolino, che al tempo dei tre imperatori Teodosio, Valentiniano ii e Arcadio, viene ampliato e decorato, come ricorda Prudenzio (Peristephanon, xii, 24-25), che si sofferma a descrivere proprio il prezioso soffitto, che può aver funzionato come prototipo per la volta del cubicolo di Santa Tecla. Anche i quattro clipei, con le raffigurazioni dei santi Pietro, Paolo e degli appena riscoperti Andrea e Giovanni, in questo senso possono rappresentare uno stralcio di una teoria apostolica o pontificia, di cui conosciamo la redazione leoniana, ma che poteva essere già prevista nell'impianto teodosiano della basilica.

La scelta di sistemare il cubicolo in una catacomba non lontana dalla memoria paolina, che, tra l'altro, assumerà la denominazione di Santa Tecla - così come un piccolo ipogeo scavato nella roccia di san Paolo prenderà il nome significativo di San Timoteo, disegnando una "mappa paolina" attorno al ii miglio della via Ostiense - rappresenta un importante intervento devozionale nei confronti dell'apostolo delle genti che, sin dal pontificato di Papa Damaso (366-384), vedrà potenziato il suo ruolo, nell'ambito di quel progetto politico-religioso che verterà proprio sulla concordia apostolorum e sulla riabilitazione di Paolo, che verrà considerato il promotore della conversione degli ultimi pagani, di cui si diceva in apertura.


(©L'Osservatore Romano - 23 giugno 2010)
Caterina63
00martedì 22 giugno 2010 23:57
Cronaca di un restauro

E con una buona terapia
i colori tornano a brillare



di Barbara Mazzei


La cronaca dell'eccezionale rinvenimento dei più antichi ritratti degli apostoli non può che prendere avvio dal momento in cui, durante la programmazione delle attività per l'anno 2008 della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, si verificava la possibilità di potersi dedicare, senza essere pressati da "lavorazioni d'urgenza", ad un progetto di restauro di più ampio respiro. Si decise, quindi, di accogliere i numerosi appelli, giunti negli anni passati ripetutamente e da più parti ai responsabili della Commissione, riguardanti il desolante stato in cui versavano le pitture del cubicolo doppio delle catacombe romane di Santa Tecla.

L'ambiente decorato non presentava, fortunatamente, condizioni di precarietà strutturale, né si osservavano evidenti segnali di distacchi degli strati d'intonaco, in più, la scarsa frequentazione del singolare impianto ipogeo aveva preservato le superfici affrescate da nocivi attacchi biologici. Il danno più evidente era costituito, fondamentalmente, da uno spesso strato di incrostazione calcarea omogeneamente disteso sulle superfici, che offuscava pressoché totalmente le pitture del cubicolo.
La favorevole circostanza di poter intraprendere un intervento di restauro senza particolari "pressioni" ha determinato sin da subito l'impostazione sperimentale del cantiere, stabilendo di cogliere l'opportunità per procedere ad un approfondimento della tecnica esecutiva della pittura catacombale e ad una messa a punto delle metodologie di restauro più idonee per questa peculiare tipologia di monumenti.

L'esperienza oramai ventennale che la Commissione di Archeologia Sacra ha acquisito nell'intervenire all'interno degli ambienti delicati e sensibili delle catacombe, ha portato alla consapevolezza di dover stilare un protocollo d'intervento autonomo e specifico per questi manufatti, selezionando dall'ampio panorama di esperienze conservative le operazioni più caute e le procedure più "innocue" per il fragile ambiente catacombale, condizionato da un incomparabile livello di umidità relativa. Per affrontare una tale impresa si è, quindi, stabilito di mettere in campo una équipe specificatamente preparata nell'affrontare le differenti problematiche, con consulenze proprie per i vari aspetti scientifici.

L'impostazione del lavoro, come anticipato, prevedeva l'acquisizione di maggiori informazioni riguardo la tecnica esecutiva impiegata dagli antichi artifices nella realizzazione delle pitture, argomento ampiamente dibattuto nel passato sia remoto che prossimo, ancora dominato da una oramai vetusta impostazione che relega l'arte catacombale in un limbo decadente della parabola evolutiva dell'arte classica.

Per scandagliare la materia pittorica ci si è quindi avvalsi della consulenza dell'Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali del Consiglio nazionale delle ricerche italiano di Sesto Fiorentino (Firenze); lo studio della chimica dei composti pittorici ha rilevato l'impiego di differenti tecniche, dalle più semplici, come una sottile scialbatura a calce con colori applicati a fresco, alle più raffinate e articolate, come stratificazioni di varie stesure di colore con progressivo aumento di legante, mai di natura organica, dimostrando la compresenza di diversificati livelli qualitativi dell'esecuzione.

In seguito si è passati alla redazione di un'ampia documentazione grafica, fotografica e macrofotografica (microscopio a contatto) attraverso cui sono state registrate le cause del degrado, registrate su una puntuale mappatura delle pareti redatta sfruttando il preciso rilievo scanner-laser dell'ambiente.

Il fenomeno più macroscopico si è rivelato essere una variegata e tenace incrostazione calcarea, caratteristico degrado degli ambienti catacombali, che si manifesta sotto forma di uno strato carbonatico di colore scuro, più o meno sottile, particolarmente presente sulle volte e sulle zone alte delle pareti dei cubicoli. Ulteriori approfondite indagini hanno permesso di riconoscere la genesi del fenomeno, definito "del carsismo", che, con una alternanza di fasi, dissolutiva e costruttiva, provoca il sovrapporsi degli strati all'interno dei quali rimangono inglobate particelle di nerofumo. Del degrado, frequentemente incontrato in altri cantieri in ambienti ipogei, si era in precedenza giunti a determinare l'impossibilità della completa rimozione, vista l'eccessiva adesione sulla pellicola pittorica.

Comunque, una volta acquisiti tutti i dati necessari per la conoscenza del manufatto su cui intervenire, si è dato avvio al lavoro secondo le modalità stabilite inizialmente, che prevedevano, principalmente, l'asportazione meccanica delle tenacissime croste calcaree. Il lavoro procedeva con lentezza e particolare difficoltà, le potenzialità di asportazione di bisturi, trapanini e frese erano, considerato anche il pericolo di danneggiare l'opera, assai limitate. Ma, sebbene scarsi, i risultati così ottenuti iniziavano a far intravvedere brani di pittura estremamente interessanti, accrescendo il desiderio di pervenire a risultati di maggiore soddisfazione.

L'aggiornamento costante sulle novità apportate nel campo della conservazione, ha suggerito, a questo punto, la possibilità di sperimentare una recente tecnologia introdotta nel restauro delle pitture murali:  l'ablazione laser. Ampiamente applicata su manufatti lapidei e metallici, questa tecnica era stata da poco tempo testata, con ottimi risultati, anche su intonaci scialbati, ma la perplessità maggiore rimaneva nell'efficacia della tecnica applicata in ambiente ipogeo, avendo avuto esperienze pregresse in cui sistemi impiegati in monumenti subaerei si erano rivelati inefficaci, quando non dannosi, all'interno delle catacombe.

Una seppure vaga speranza di addivenire ad una soluzione positiva ha portato alla esecuzione di un test di prova. L'aspettativa è stata ampiamente ripagata:  il laser agiva risolutamente sulle incrostazioni calcaree, lasciando inalterata la pellicola pittorica che, finalmente, poteva mostrare tutta la sua vasta gamma di cromie e brillantezza.

A seguito di questo primo eclatante risultato, lo spirito di cautela ha portato al coinvolgimento dell'Istituto di Fisica applicata "Nello Carrara" (Cnr, Sesto Fiorentino) per ottenere un sostegno scientifico all'impresa che si stava per intraprendere. I risultati dei test, ampiamente documentati, hanno assicurato l'effettiva efficacia del procedimento di pulitura laser, accertando, di contro, l'innocuità dell'azione ablativa. La sperimentazione è risultata doppiamente soddisfacente visto che il particolare caso di Santa Tecla ha fornito un contributo interessante anche per lo sviluppo della ricerca scientifica sulla tecnica esecutiva dell'ablazione laser.

Il laser non si è comunque rivelato uno strumento "miracoloso"; il lavoro è proceduto per gradi e con non poche difficoltà. Sono stati impiegati macchinari con differenti caratteristiche a secondo del grado di spessore e tenacità della concrezione, fattore che ha comportato un diverso approccio al lavoro rispetto alle procedure standard, seguendo il percorso degli strati concrezionali piuttosto che affrontando omogeneamente porzioni di pareti. È doverosa anche una piccola nota sulle difficoltà di ordine prettamente pratico costituite dalla non agevole operazione di trasporto dei macchinari all'interno delle gallerie catacombali e dalla nociva influenza della condensa; per questo sono stati concepiti dalla El.En. di Calenzano (Firenze), ditta che ha fornito i laser, numerosi accorgimenti ad hoc per adattare la strumentazione alle particolari condizioni microclimatiche in cui si doveva operare.

La felice conclusione dell'intervento di restauro conservativo ha restituito leggibilità al partito decorativo, rivelando particolarità iconografiche e iconologiche particolarmente avvincenti per gli studiosi dell'arte tardoantica, che con entusiasmo si sono avvicinati alle "nuove" pitture per indagarne le peculiarità esecutive e per apprezzarne le suggestioni, al fine di ricucire le linee evolutive che hanno portato al concepimento di un così articolato e complesso programma iconografico, che si pone quale testimonianza tangibile del pensiero storico-religioso dello scorcio del iv secolo.

Coerentemente alla linea intrapresa della massima condivisione, parallelamente alla pubblicazione del presente volume ci si è rivolti alla dottoressa Laura Pecchioli (Ruprecht-Karls-Universität, Heidelberg) che ha ideato un sistema informatico grazie al quale, all'interno di una ricostruzione tridimensionale virtuale degli ambienti, è possibile inserire e visualizzare, anche automaticamente durante l'esplorazione, un'ampia mole di informazioni di natura eterogenea come foto, filmati, testi. Le informazioni acquisite - sia storico-artistiche che tecnico-scientifiche - sono state inserite nell'applicazione informatica Isee, ideata a questo scopo.


(©L'Osservatore Romano - 23 giugno 2010)
Caterina63
00martedì 22 giugno 2010 23:59
Quando il culto approdò nelle famiglie aristocratiche della città

Una pia donna della Roma "bene" di allora


di Fabrizio Bisconti

Ancora prima del sacco del 410, che, per la popolazione romana, e per tutto il mondo antico, rappresentò un poco il corrispettivo del trauma violento, che, ai nostri giorni, ha provocato nell'immaginario collettivo l'episodio delle "torri gemelle", le catacombe romane avevano subito un progressivo fenomeno di abbandono; nel senso che il suburbio non rappresentò più l'unica sede preposta ai sepolcreti cristiani, che, in parte, furono sistemati all'interno della cinta muraria aureliana e, in parte, comunque, lasciarono i siti ipogei, per insediarsi e addensarsi all'interno e nei dintorni immediati dei più importanti santuari martiriali:  inaugurando una consuetudine, che si diffonderà in tutto l'orbis christianus antiquus.

Il declino della funzione funeraria delle catacombe, comunque, non si consuma in maniera traumatica e anzi, in corrispondenza delle tombe dei martiri, si assiste, nell'ultimo scorcio del iv secolo, in corrispondenza con il pontificato di Papa Damaso (366-384),  a una densissima concentrazione di sepolture intorno ai sepolcri di quei primi "testimoni" della fede cristiana, che documentano concretamente un improvviso incremento della devozione.

Alcune di queste sepolture denunciano, per sistemazione, decoro e arredo una committenza estremamente elevata, vuoi per quanto riguarda il rango attinente alla più alta gerarchia ecclesiastica e/o aristocratica, vuoi per il cospicuo potenziale economico. Questo intenso sfruttamento degli spazi funerari a ridosso delle "tombe eccellenti" dà luogo a speciali aree funerarie, definite eloquentemente retrosanctos.

Come si diceva, il fenomeno si verifica anche attorno ai santuari martiriali del sopraterra e, specialmente, in corrispondenza delle basiliche circiformi, che spuntarono al tempo dei Costantinidi, presso le tombe di san Lorenzo, di sant'Agnese, dei santi Pietro e Marcellino, di Papa Marco e nella memoria apostolorum sulla via Appia Antica. Alcune di queste tombe assumono le proporzioni e le caratteristiche  del  mausoleo imperiale, come nei casi celebri dei grandi sepolcri a pianta  centrale dove furono sepolte rispettivamente Costanza, sulla via Nomentana, ed Elena, sulla via Labicana.

Accanto a queste tombe imperiali, che presentano sontuose decorazioni in opus sectile e in mosaico, dobbiamo segnalare tutta una serie di mausolei meno impegnativi per dimensioni e arredo, ma ugualmente rappresentativi di una tensione, che dimostra il desiderio di emulare i sepolcri dei potentiores.

Anche nelle catacombe, nell'ultimo segmento della loro vita funeraria, sorgono importanti cubicoli dipinti, che, pur rinunciando alla vicinanza con le tombe dei martiri e anche al privilegio di sistemarsi nelle sedi visibili del sopraterra, sviluppano "architetture negative" complesse e programmi decorativi di elevato impegno artistico e devozionale. Così, nelle catacombe di Domitilla, viene realizzato il sontuoso cubicolo della corporazione dei pistores; così, nelle catacombe di Commodilla, viene scavato nel tufo e decorato con un apparato pittorico estremamente sofisticato il cubicolo dell'officiale dell'annona Leone. Ancora più significativo risulta l'ipogeo di diritto privato rinvenuto lungo la via Latina, i cui committenti, appartenenti alla più elevata aristocrazia senatoriale, fanno capo a un gruppo di famiglie, in parte pagane, in parte già convertite al cristianesimo, dando luogo a una curiosa forma di sincresi religiosa. Questo monumento, pure collocato nella seconda metà del quarto secolo, dimostra il travaglio della conversione al cristianesimo degli ultimi pagani, arroccati, come è noto, nell'entourage senatoriale dell'Urbe.

In questo contesto si inserisce un cubicolo dipinto nelle catacombe romane di Sant Tecla sulla via Ostiense, noto già dal Settecento, ma sottoposto a un intervento di restauro estremamente sofisticato, che ha restituito un complesso programma decorativo, commissionato alla fine del quarto secolo da un'abbiente e aristocratica famiglia romana che fece creare, nelle propaggini di un cimitero comunitario, il sontuoso cubicolo duplex, nel senso che il vero e proprio ambiente sepolcrale è fornito di un avancorpo, che reimpiega un più antico cubicolo di età costantiniana.
Ebbene, il primo ambiente, viene riconcepito e fornito di un grande lucernario, che enfatizza il nostro ambiente con una maestosa rappresentazione di quel collegio apostolico, arricchito da un gregge di ovini, che vuole esprimere la solidarietà della Chiesa e la sua potente coesione nei confronti delle eresie e, specialmente, dell'affaire ariano, che aveva messo in dubbio la consustanzialità del Padre e del Figlio.

Il cubicolo vero e proprio, dopo il fortunato restauro, ha rivelato, nel soffitto, che imita un cassettonato, assai simile a quello che doveva decorare la basilica di San Paolo fuori le Mura, voluta dai tre imperatori Teodosio, Valentiniano ii e Arcadio, nell'ultimo scorcio del quarto secolo, cinque suggestivi clipei figurati. Al centro è l'immagine del buon pastore, ai quattro angoli si riconoscono i busti di san Paolo - di cui si ragionò nelle pagine di questo giornale proprio lo scorso anno - quello di san Pietro, quello di sant'Andrea e quello di san Giovanni. I quattro apostoli sono riconoscibili dai tratti fisionomici:  Paolo mostra le sembianze intimidenti del pensatore pneumatico; Pietro quelle del concreto e sicuro punto di riferimento della Chiesa romana; Andrea quelle dell'irruenza scomposta e rude; Giovanni quelle della dolcezza e dell'amabilità.

Se le immagini di Pietro e Paolo rappresentano il manifesto di quella concordia apostolorum, che, dai tempi di Papa Damaso, era diventata lo slogan di una politica religiosa, che vede nella riabilitazione dell'apostolo delle genti, un tentativo di riequilibrare le partes della Chiesa e dell'Impero, le effigi di Andrea e Giovanni, che qui affiorano per la prima volta, sorprendendo tutti coloro che rimandavano quest'apparizione all'avanzato quinto secolo se non alla stagione bizantina, ci parlano di un culto allargato nei confronti degli apostoli.

Tale culto doveva essere alimentato dalla circolazione delle reliquie degli apostoli e da una devozione proveniente dai pellegrinaggi praticati nei memoriali apostolici in Terra Santa. Per quanto riguarda il primo punto, non possiamo dimenticare che Costantino fece erigere nella capitale d'Oriente una basilica apostolorum a pianta cruciforme - che sarebbe diventata anche la sua tomba - al centro della quale, nei pressi di una sorta di grande ciborio, erano sistemate delle stele, che ricordavano proprio i dodici apostoli. Ambrogio, per quanto attiene il secondo punto, fece edificare a Milano una basilica apostolorum, pure a pianta cruciforme, laddove depose le reliquie degli apostoli - forse provenienti da Aquileia, da Concordia o da Roma - in un prezioso cofanetto argenteo.

È questo il tempo dei grandi viaggi in Terra Santa, finalizzati a frequentare le sedi delle memorie bibliche, dalle quali venivano riportate in patria i ricordi dei grandi prodigi del Vecchio Testamento e dei miracoli operati dal Cristo e dagli Apostoli. Se, nella maggior parte dei casi, i pellegrini riportarono dai santuari piccole ampolle in metallo o in ceramica colme d'acqua e di sabbia o medagliette devozionali, in altri casi recano nella loro memoria l'immagine dei protagonisti della storia della salvezza. Il viaggio di Egeria è celebre, ma altre nobildonne, rimaste anonime, o menzionate nell'epistolario di san Girolamo, viaggiano alla volta di quei suggestivi santuari. Anche i presbiteri, i diaconi e i cristiani ordinari - sull'esempio illustre di Elena - si posero alla ricerca di reliquie da sistemare nei monumenti dell'ecumene cristiano, all'interno di contenitori preziosi, come la celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, pure della fine del quarto secolo, che riproduce, tra l'altro, i clipei del Cristo e degli apostoli o l'ancor più famosa capsella eburnea di Samagher, riferibile, però, già al quinto secolo e decorata con spaccati di santuari presumibilmente romani. e, dunque, collegabile a un pellegrinaggio alla "città santa" d'Occidente.

La decorazione del cubicolo di Santa Tecla, quindi, si inquadra proprio in questo spirito, che si inserisce in quel filone del "culto apostolico", inventato da Ambrogio e approdato a Roma, presso le famiglie aristocratiche della città. Sono presumibilmente le matrone, per prime, a venerare i martiri, ma anche gli apostoli, in quell'incipiente forma di monachesimo inaugurato - come si diceva - da san Girolamo, che promosse una sorta di "ascetismo domestico", che si sviluppò attorno al palazzo della vedova Marcella all'Aventino.

È sintomatico che nel cubicolo di Santa Tecla sia rappresentata l'immagine di una nobile matrona, sontuosamente vestita con tunica, palla, acconciatura raffinata e preziosi gioielli, mentre mostra il rotolo della Legge, che ben conosceva, dal momento che - secondo quanto ricorda Girolamo - alcune vedove e vergini del "circolo dell'Aventino" conoscevano i Sacri Testi in greco e in latino. La nobildonna è rappresentata assieme alla figlioletta, che si atteggia nel gesto della preghiera, mentre due santi (ancora Pietro e Paolo ?) le accolgono nell'aldilà, dimostrando una sorprendente confidenza con gli apostoli e i martiri, rompendo ogni forma di tabù e inaugurando una religio amicitiae tra questi cristiani eccellenti e privilegiati e i santi.
 
Se il resto del cubicolo accoglie altre scene bibliche (Daniele tra i leoni, Pietro che percuote la roccia, l'adorazione dei Magi, il sacrificio di Isacco), lo sguardo del visitatore si ferma su quelle prime immagini degli apostoli, che la defunta e/o la sua famiglia scelgono come protettori, facendo assurgere quei busti al rango di vere e proprie icone che rivelano, per la prima volta, i caratteri, le peculiarità, la psicologia dei primi seguaci di Cristo.

Ma questa non è l'unica scoperta! Non ci dobbiamo tanto meravigliare dell'apparizione dei busti degli apostoli nel buio di una catacomba pressoché sconosciuta, in un tempo, che si considera, al solito, di passaggio, di congedo della prima grande stagione cristiana, in attesa della civiltà bizantina che, più in Oriente che in Occidente, inventa il tipo e il culto delle icone. Dobbiamo sicuramente salutare l'antichità inaspettata di queste effigi, così caratterizzate, così riconoscibili, pronte a donare le sembianze degli apostoli all'arte ravennate, con quasi un secolo di anticipo. Ma, poi, dopo il momento della meraviglia e della sorpresa, dobbiamo calare l'importantissima scoperta nell'atmosfera storica e devozionale di un frangente che conosce la conversione degli "ultimi pagani, delle aristocrazie, del senato, all'insegna di un dialogo internazionale, che vede protagonisti gli "aristocratici" Padri della Chiesa Damaso, Ambrogio, Paolino di Nola e Girolamo veri promotori e "direttori d'orchestra" di quel culto dei santi, che inciderà, connoterà e segnerà profondamente l'ultima antichità e l'alto medioevo, con la creazione dei grandi martyria romani, con la dislocazione strategica dei santuari milanesi, la caratterizzazione monastica del grande centro della venerazione per il confessore Felice a Cimitile, con la frequentazione "guidata" dei pellegrini presso le memorie bibliche in Terra Santa.


(©L'Osservatore Romano - 23 giugno 2010)
Caterina63
00mercoledì 23 giugno 2010 00:02
Istituita il 6 gennaio 1852 per volontà di Pio IX

Le attività della Pontificia Commissione
di Archeologia Sacra



di Giovanni Carrù

Il restauro del cubicolo doppio di Santa Tecla sulla via Ostiense si inquadra in un progetto, oramai ventennale, inaugurato dai responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra per recuperare il ricco patrimonio pittorico - oltre quattrocento manifestazioni - conservato nelle catacombe romane.

Oltre tre quarti delle decorazioni ad affresco sono state meticolosamente restaurate, sotto la guida attenta dei curatori della Commissione, che hanno acquisito esperienza attraverso un lungo percorso di esperimenti, utili ad affrontare un tipo di degrado estremamente complesso, dovuto all'alto tasso di umidità degli ambienti catacombali. Queste operazioni, lente e onerose, hanno riconsegnato agli esperti e ai visitatori un patrimonio iconografico molto importante per ricostruire la storia della comunità cristiana di Roma.

Il restauro delle pitture catacombali si inserisce coerentemente nell'attività della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra che, come è noto, fu istituita a partire da un'idea di Giovanni Battista de Rossi, l'archeologo romano che gettò le basi scientifiche dell'archeologia cristiana, studiando e scavando le catacombe romane secondo un moderno metodo topografico, che tiene simultaneamente in considerazione fonti storiche e monumenti.

Tale istituzione fu suggerita a Papa Pio IX per meglio organizzare scavi, restauri e tutela del grande complesso catacombale che stava tornando alla luce sulla Via Appia. La notizia si diffuse il 7 febbraio del 1852, anche se l'istituzione vera e propria va riferita al 6 gennaio. Nel 1925 la Commissione fu dichiarata "Pontificia" da Pio xi e ne vennero particolarmente definite le competenze, ribadite, ancora di recente, nelle convenzioni tra la Santa Sede e lo Stato Italiano.

Durante l'ultimo ventennio, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha ricevuto un grande impulso, sia per quanto riguarda le attività archeologiche e conservative, eseguite secondo i più moderni criteri di scavo e di restauro, sia per quanto attiene l'organizzazione tecnica, documentaria e operativa, che vede impegnata una équipe molto giovane, ma estremamente efficiente.

I responsabili della Commissione, durante questi ultimi anni, hanno intensificato le loro attività per adeguare i monumenti e le strutture di accoglienza al cospicuo incremento di visitatori. Nell'ambito di questi interventi, si sono stabiliti proficui rapporti con le istituzioni preposte alla salvaguardia dei monumenti dello Stato Italiano, prima tra tutte la Soprintendenza Archeologica di Roma. Ma altri contatti, sempre estremamente positivi, sono stati istituiti con il Comune di Roma, con l'Istituto Centrale del Restauro, con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il Consiglio Europeo per il Patrimonio, con i Comuni e le Diocesi d'Italia.

Importanti indagini archeologiche, si sono svolte anche nel sopratterra delle catacombe, con la concessione del Ministero italiano per i Beni e le attività culturali. Secondo questa prassi, sono state indagate la basilica di Papa Marco nel comprensorio callistiano, la basilica di Santa Mustiola a Chiusi, la basilica di Villa San Faustino a Chiusi, la basilica di San Ilario a Valmontone. Altre importanti indagini archeologiche si sono svolte nelle catacombe romane. Sono stati inoltre scavati, studiati e restaurati molti monumenti del Lazio, tra cui le catacombe di Zotico sulla via Labicana, di Santa Vittoria a Monteleone Sabino, di Santa Cristina a Bolsena, di Santa Teodora a Rignano Flaminio, di San Senatore ad Albano Laziale, di Roma Vecchia agli Acquedotti di Paliano. Alcuni scavi sistematici si sono svolti, infine, nelle catacombe di Pianosa e in quelle di Porta d'Ossuna a Palermo.

Ma le attività della Commissione si sono concentrate in modo particolare nel settore del restauro degli affreschi. Gli interventi hanno interessato specialmente le catacombe romane e, segnatamente, quelle di Priscilla; dei Santi Pietro e Marcellino; di via Dino Compagni; di Ponziano; di Generosa; di Pretestato; di San Callisto; di San Sebastiano; dell'Ardeatina; di Domitilla; di Chiaraviglio; nell'ipogeo degli Aureli e nelle catacombe dei Giordani.

Tutte queste attività hanno contribuito a recuperare e a conoscere in maniera più approfondita le catacombe cristiane d'Italia, ma, nello stesso tempo, hanno permesso di valorizzare un patrimonio culturale e religioso che, rappresenta una testimonianza eloquente e significativa del cristianesimo delle origini.


(©L'Osservatore Romano - 23 giugno 2010)
Caterina63
00martedì 29 giugno 2010 10:33
Il culto dei due apostoli nei graffiti della via Appia

Rozzi «viatores» per Pietro e Paolo


di Carlo Carletti

Nell'opinione corrente, abbondantemente alimentata dall'azione di un malinteso turismo religioso-culturale, il culto dei santi Pietro e Paolo è per lo più collegato ai due siti "storici" che, per primi, accolsero la loro memoria funeraria:  le due aree sepolcrali in Vaticano e sulla via Ostiense, rimaste quasi nascoste per tre secoli e poi, nel primo trentennio del iv secolo, "segnalate" e rese visibili dall'iniziativa evergetica di Costantino con la costruzione di due monumentali basiliche, che assolsero alla duplice funzione memoriale e sepolcrale.

Ma, in relazione a una diffusa e partecipata utenza popolare, la storia della devozione dei martiri del 29 giugno, trova senza dubbio il suo punto di riferimento più rilevante, in termini di spessore documentario e definizione cronologica, nel complesso della memoria apostolorum sulla via Appia:  un semplice e quasi dimesso cortile porticato su tre lati (triclia), che, dagli anni 250-260 e fino a circa il primo decennio-ventennio del iv secolo (cioè fino alla costruzione della basilica costantiniana che vi si sovrappose), vide la frequentazione di parecchie migliaia di visitatori lì richiamati da una tradizione che in quel sito aveva fissato una memoria dei due apostoli.

Che questa tradizione si sostanziasse di una presenza reale o presunta di reliquie o che si fondasse sull'immaginario devozionale di una sosta temporanea degli apostoli al loro arrivo a Roma, è argomento di difficilissima decifrazione, sul quale peraltro in passato si sono affaticate le menti di molti studiosi senza giungere a risultati pienamente plausibili:  a ipotesi sono susseguite altre ipotesi e così via, per quasi un secolo.

Al di là delle divergenti posizioni della critica, c'è un dato storico oggettivo e incontestabile:  le infrastrutture della triclia (pozzo, canalizzazione, banchi in muratura) e soprattutto le circa cinquecento iscrizioni graffiate sull'intonaco delle pareti indicano in questo ambiente un centro di culto funerario, nel quale i visitatori consumavano il pasto rituale del refrigerium, lasciando testimonianza scritta di un atto devozionale compiuto in onore di Pietro e Paolo.
I visitatori, per lo più provenienti dalla città stessa o dalle regioni circonvicine, si rivelano complessivamente poco pratici nello scrivere:  tracciano "a fatica", con strumenti occasionali (chiodi o spilloni) non sempre idonei allo scopo, rozze e spesso deformate lettere capitali (peculiari dei semialfabeti) talvolta alternate a caratteri minuscoli:  esiti grafici tipici di chi era rimasto al livello minimale delle cosiddette competenze "elementari di base", apprese ai primissimi gradini dell'istruzione elementare; analogamente sul piano linguistico - pur trattandosi di testi di estensione mediamente molto ridotta - emergono molteplici e caratteristici fenomeni grafo-fonetici, che riflettono la lingua della quotidianità in uso negli strati sociali di medio-basso livello culturale.

La gran parte di queste scritte, latine e in misura minore greche, contiene preghiere e invocazioni rivolte a Pietro e Paolo, espresse generalmente nelle locuzioni "ricordatevi del tale" (in mente habete, eis mneían échete), "proteggete il tale" (synterésate, terésate), "pregate per il tale" (petite, orate, rogate pro), "aiutate il tale" (subvenite, adiutate) sia in riferimento ai vivi sia in ricordo di congiunti defunti. Le strutture formulari, pur stereotipe e ripetitive, lasciano comunque trasparire la spontanea e quasi confidenziale consuetudine di un rapporto interpersonale con i due apostoli, che, per oltre duecento volte, sono direttamente evocati per nome, senza - salvo poche eccezioni (Inscriptiones christianae, v, 12955, 13002, 13600) - la titolatura di martyres, sancti, beati, che diverrà ufficiale nella seconda metà del iv secolo e senza le locuzioni fissate nella prassi liturgica, che, in diversa ambientazione culturale, avrebbero per esempio suggerito se non obbligato il normativo Petre et Paule mementote ("Pietro e Paolo ricordatevi di") in luogo del "popolare" Petre et Paule in mente habete, che è la formula incipitaria base che introduce la gran parte delle iscrizioni devozionali della memoria apostolorum:  non a caso tra i visitatori vi è una ridottissima presenza di ecclesiastici che, rispetto ai laici, quasi naturalmente avrebbero potuto veicolare lessico e formule di estrazione liturgica.

I viatores - così si autodefiniscono i devoti frequentatori (Inscriptiones christianae, v, 12988, 12963) - si recavano in questo sito della via Appia per lo più in gruppi familiari, ma non mancano aggregazioni più ampie e articolate che possono definirsi comunitarie. Agli apostoli si richiede di "intercedere" per chi era fisicamente presente o per amici e parenti assenti:  "Pietro e Paolo intercedete (petite) per Vittore"; "Paolo e Pietro intercedete (petite) e pregate (rogate) per Eros"; "Pietro e Paolo intercedete per F... e Quinta perché possano raggiungervi (ut possimus ad vos venire)" (Inscriptiones christianae, v, 12989, 12937, 12970). Nelle intenzioni degli scriventi emerge anche un intento devozionale-commemorativo, laddove all'intercessione degli apostoli vengono affidati i fedeli defunti, definiti - con espressione tipicamente popolare - spirita sancta, "anime sante":  "Pietro e Paolo ricordatevi delle anime sante, Marco e...". (Inscriptiones christianae, v, 12954).

Le richieste di protezione sono talvolta motivate con espliciti riferimenti alla quotidianità:  un tale Restitutus chiede di poter sperare in una buona navigazione (nabiga - cioè naviga - felix) e un visitatore, rimasto per noi anonimo, anche a nome dei compagni di viaggio, chiede protezione per un'imminente traversata:  rogo vos ut bene navigent (Inscriptiones christianae, v, 12973, 12959). In questo ambito non ci si aspetterebbe di trovare un numero consistente di graffiti figurati che rappresentano le immagini di cavalli paludati con la testa palmata (Inscriptiones christianae, v, 13088 a-c, 13089 a-d):  traducono con ogni evidenza - seppure con qualche reticenza - la speranza del favore dei due apostoli per la vittoria del cavallo o dell'auriga preferiti nelle corse del circo ovvero un'ingenua forma di gratiarum actio per una richiesta esaudita.

In un ambito come quello della memoria apostolorum, funzionale nelle sue strutture per lo svolgimento della mensa funeraria, vi sono naturalmente espliciti riferimenti al banchetto funerario - il refrigerium - consumato in onore di Pietro e Paolo. Una pratica atavica che dall'ambito familiare e collegiale dei comuni mortali si inserisce nello specifico devozionale connesso al culto dei martiri dove acquisisce una dimensione comunitaria, che proprio nella memoria apostolorum della via Appia trova la sua più antica esemplificazione, in forma di specifici moduli epigrafici:  Tomius Coelius refrigerium fecit; Dalmatius / votum eis (cioè agli apostoli) promisit / refrigerium; xiiii kal(endas) apriles / refrigeravi / Parthenius laddove è da notare l'inserimento del giorno del mese - il 19 marzo - nel quale Partenio consumò un pasto in onore degli apostoli (Inscriptiones christianae, v, 12981). Ma qui refrigerium è anche impiegato in senso traslato (un tipico slittamento semantico), in riferimento cioè non più al banchetto reale, ma a quello ultraterreno della felicità eterna:  "Pietro e Paolo prendete con voi nell'eterno refrigerio (ad se adugant et in aeterno refrigerio) le vostre anime sante; Petre et Paule / in mente abete / Ursinum in refrigerium, che anche qui è quello eterno dell'aldilà (Inscriptiones christianae, v, 12975, 12993).

Il carattere indubbiamente "popolare" e nel contempo di vasta e pubblica fruizione che emerge in questa documentazione epigrafica, costituisce la cifra caratterizzante dell'origine e del primo sviluppo del culto di Pietro e Paolo a Roma. Quanto tuttora si osserva sulle pareti del cortile porticato al terzo miglio della via Appia, è il segno esplicito di una pratica devozionale venuta e gestita dal "basso", che solo dopo circa un cinquantennio viene ufficialmente legittimata e quindi monumentalizzata con gli interventi prima di Costantino e poi di Damaso. La genesi e il primo sviluppo di questa realtà devozionale insediatasi al terzo miglio della via Appia sfugge totalmente alla rete del modello interpretativo - presuntivamente onnicomprensivo - delineato da Peter Brown (Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino, 2002), che vede nella nascita del culto dei martiri e dei santi un fenomeno di "riassetto sociale" (la riproposizione del rapporto patronus - clientes), voluto, promosso e gestito dall'autorità ecclesiastica e specificamente dal vescovo. E in questo caso nemmeno reggerebbe la vecchia teoria illuministica dei "due piani" (David Hume, Edward Gibbon), cioè della tensione tra le esigenze semplici e banali del "volgo" e quelle più alte ed esigenti delle élites, laiche ed ecclesiastiche.



(©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)
Caterina63
00domenica 31 ottobre 2010 00:28
Caratteri e contesti delle sepolture paleocristiane

Tombe umili
e sepolcri privilegiati


di Fabrizio Bisconti
 

Rispetto alle consuetudini funerarie elaborate dalle civiltà antiche e, specialmente, dall'esperienza ellenistico-romana, la prassi funeraria paleocristiana presenta immediatamente caratteri e tendenze che conducono verso sistemi sepolcrali più uniformi, omogenei ed egualitari. Tali caratteri dipendono proprio da un mutamento di mentalità, ma anche di ritualità, che comportano, ad esempio, l'uso esclusivo dell'inumazione, la quale, come è intuitivo, dà luogo a un primo livellamento delle tipologie funerarie, che abbatte quell'articolazione delle morfologie sepolcrali provocate dalla coesistenza dell'incinerazione e della inumazione e, dunque, dei contenitori dei resti umani, ora ridotti a semplici urne cinerarie, ora a più importanti monumenti che, dall'umile fossa, giungono al solenne mausoleo.

Il livellamento delle tipologie funerarie dipese solo da uno spirito di eguaglianza che, messo in pratica nel vivere quotidiano, va a interessare anche il mondo dei morti, il quale si cala, sin dalle prime manifestazioni sepolcrali, in un contesto neutrale, quasi anonimo, talora asintomatico per quanto attiene la dichiarazione del cristianesimo, nel senso che i tipi epigrafici e decorativi non mostrano segnali evidenti di aderenze alla nuova forma religiosa, spesso simbolica, comunque non declinata in senso cristiano.

Già dal ii secolo, i cristiani abbandonarono i sepolcreti misti e concepirono aree proprie, distinte da altri insediamenti funerari, connotate da questo forte principio egualitario, che produceva i cosiddetti coemeteria, come ricordano rispettivamente le testimonianze patristiche occidentali e orientali:  da Ippolito per Roma (Philosophumena ix, 12, 14) a Origene per Alessandria (Homeliae in Ieremiam iv, 3, 16).

Nello stesso frangente cronologico, intorno al 203, Tertulliano attesta la presenza dei primi insediamenti funerari a Cartagine e, segnatamente, nell'Ad Scapulam (3, 1), dove menziona delle areae sepulturarum nostrarum, la cui proprietà era fortemente osteggiata dalla plebe pagana; la protesta del popolo:  areae non sint, areae eorum non fuerumt ci assicura come l'esclusività dei sepolcreti cristiani non rimontasse a epoca troppo più antica.

Oltre a quello dell'esclusività, i primi sistemi funerari cristiani proponevano - come si è anticipato - il carattere dell'egualitarismo e della comunitarietà, ambedue sostenuti dall'irrinunciabile principio della solidarietà, della carità in funzione propriamente funeraria, come ricorda ancora Tertulliano, che fa riferimento all'esistenza di una cassa comune, alimentata dalla generosità dei fratres, che serviva, tra l'altro, alla sepoltura dei bisognosi (Apologeticum 39, 6). Alle parole di Tertulliano fanno eco quelle della Traditio apostolica (40), dove si ricorda come a Roma il vescovo dovesse farsi carico della gestione dei cimiteri, affinché in questi potessero accedere tutti i poveri. Ancora negli anni Sessanta del iv secolo, l'imperatore Giuliano l'Apostata dovrà constatare amaramente come proprio "la sollecitudine per i seppellimenti dei defunti" avesse costituito una delle carte vincenti dell'affermazione del cristianesimo.

I caratteri dell'uguaglianza, della estrema semplicità delle tipologie, dell'uniformità dei complessi, della comunitarietà, della solidarietà si percepiscono specialmente nei primi insediamenti funerari cristiani, come nel cimitero di San Callisto, gestito dalla gerarchia ecclesiastica, già agli esordi del iii secolo. Nello stesso frangente altre catacombe romane, come quelle di Priscilla, Pretestato, Calepodio e Novaziano, presentano - nei loro nuclei genetici - delle aree egualitarie, sfruttate con il sistema essenziale dei loculi alle pareti ma, lasciando Roma, tali situazioni si ripetono nel complesso di Vigna Cassia a Siracusa, nelle catacombe tunisine di Hadrumetum, in quelle di Santa Caterina di Chiusi, in quelle di Bonaria a Cagliari e in quelle di Sant'Agata a Malta.

Salendo al sopraterra, molte aree cimiteriali cristiane sub divo mostrano i caratteri dell'omologazione delle tipologie funerarie, con l'allineamento dei sepolcri a cassa scavati come formae nel suolo, secondo un fronte di sfruttamento ordinato e indifferenziato. Così nella necropoli, scavata in anni recenti nei cortili dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, non lontano dal cimitero ad Martyres, con un sistema funerario sparso ma indifferenziato; così nella necropoli all'aperto cielo di Agrigento, prospiciente la catacomba della Grotta Fragapane, tra i templi di Giunone e di Ercole, all'interno della cinta muraria, nel settore meridionale della città; così nello sterminato cimitero di Santa Salsa a Tipasa; in quello salonitano di Manastirine; in quello sardo di Cornus (Oristano) dove risultano molto evidenti i segni della ritualità funeraria, sotto forma di mense marmoree o musive, di pozzi, letti funebri, negozi, elementi questi che non contribuiscono a differenziare alcuni settori dei cimiteri, proponendo qualche motivo di privilegio per alcuni sepolcri, ma che, anzi, sottolineano l'aspetto comunitario.

Questo clima comunitario viene spesso infranto dal fenomeno delle "inumazioni privilegiate":  i primi segni del privilegio riguardano questioni eminentemente concrete, legate, per lo più, al potenziale economico del gruppo a cui appartiene il defunto, che possono comportare, innanzi tutto, privilegi di tipo monumentale, quando, cioè, si abbandonano le semplici fosse e i poveri loculi, optando per tombe più importanti, come gli arcosoli, i cubicoli e i mausolei. Il privilegio può consistere anche nelle decorazioni che, nei primi monumenti, appaiono appena percettibili e spesso combinate con un epitaffio, la cui presenza può anche essere considerata una vera e propria forma di differenziazione, dal momento che molte tombe risultano anepigrafi e aniconiche. È noto come quest'arte, prima sommessa nelle sue manifestazioni, quasi per proporre dei semplici elementi mnemonici, poi più organizzata e programmata, raggiungerà livelli ragguardevoli, se pensiamo alle "pinacoteche" romane dei Santi Pietro e Marcellino e di via Dino Compagni e ai sarcofagi di produzione romana, ispanica, provenzale e ravennate.
 
Un altro importante segnale del "privilegio" è rappresentato dalla ricchezza e dalle caratteristiche del corredo, solitamente povero e, per molto tempo, confuso, negli scavi del passato con la suppellettile - specialmente ceramica o vitrea - pertinente, invece, al refrigerium. L'aspetto più caratteristico dell'associazione del corredo alle tombe paleocristiane sta, forse, nella consuetudine, più evidente nei complessi catacombali, di esporre i materiali, sistemandoli e fissandoli attorno ai loculi, dando luogo a una sorta di esplosione del corredo all'esterno del sepolcro, costituendo un singolare fenomeno di decorazione alternativa e succedanea delle "arti maggiori", ma anche un sintomo evidente di privilegio o, almeno, di distinzione, di caratterizzazione della tomba rispetto alle circostanti sepolture.

La monumentalità, la decorazione, la ricchezza del corredo propongono, comunque, aspetti del privilegio molto generali, rispetto a quello rappresentato dalla postazione assunta dalla tomba nell'ambito del contesto in cui è calata. Un primo caso di privilegio, in questo senso, è costituito dal sistema del gruppo di tombe speciali, siano esse riunite in un recinto, che distingue questa realtà dal resto della necropoli, sia quando si creano spazi particolari nell'ambito dei cimiteri comunitari.

Per il primo gruppo possiamo ricordare i celebri esempi africani e, specialmente, quelli di Tipasa e Cherchel, ma anche quelli della necropoli di Alyscamps ad Arles, del cimitero di San Fruttuoso a Tarragona, dei complessi salonitani e della necropoli di Concordia Sagittaria, non lontana da Aquileia. Per l'altro gruppo dobbiamo citare, ancora a Tipasa, il cimitero orientale del vescovo Alessandro che, nel iv secolo, fece costruire per il clero locale un solenne ipogeo circolare. Anche nelle catacombe del suolo italico, sul modello della cripta dei Papi a San Callisto, si creano - come nel cimitero ad Decimum a Grottaferrata - delle aree riservate a gruppi speciali e, segnatamente, alla gerarchia ecclesiastica o agli operatori dei cimiteri (fossores).

Un altro espediente per sottolineare il privilegio di una tomba è quello di isolarla rispetto alle aree comunitarie. Mi riferisco a casi eccezionali, come quello davvero speciale della tomba di Petrus Paparario, l'ebreo convertito sepolto nella basilichetta paleocristiana di Grado, dove il privilegio è vieppiù sottolineato dal fatto che tale monumento è addirittura situato entro la cinta muraria, fornendo, per il v secolo, uno dei primi esempi di sepoltura in urbe. Mi riferisco alla tomba del medico Dioscuro, amico di sant'Agostino, sistemata nell'absidiola della basilica apostolorum fatta edificare a Milano da sant'Ambrogio. E, rimanendo a Milano, vengono in mente le tombe laiche, ma monumentali e destinate, forse, agli imperatori, situate rispettivamente a lato della basilica di San Lorenzo e al centro del recinto del complesso di San Vittore al Corpo:  si tratta di due mausolei a pianta ottagonale, che sarà così cara alla cultura tardoantica milanese e al programma costruttivo di sant'Ambrogio, riferiti dalla critica alle tombe, poi non utilizzate, della famiglia di Teodosio e di Valentiniano ii, morto nel 392.

Ci siamo, così, inoltrati nel campo delle sepolture imperiali, delle tombe privilegiate per mole, solennità, ma anche - come si diceva - per collocazione che spesso, si attesta nei pressi delle aree cimiteriali prestigiose a contatto con nobili basiliche e venerati santuari. Il fenomeno è ancor più evidente a Roma, quando consideriamo i due mausolei a pianta centrale annessi ai complessi dei Santi Pietro e Marcellino e di Santa Agnese, il primo costruito per Costantino e poi utilizzato per Elena e l'altro destinato a Costantina.

Questi monumenti ci accompagnano verso il grande tema delle sepolture ad sanctos, che interessa la cultura cristiana sin dai primi momenti, forse già nelle necropoli miste, quando si innesca il desiderio di far riposare i propri cari presso alcune "tombe eccezionali". Lo si avverte, per esempio, nella necropoli vaticana, nell'area attorno alla tomba di Pietro, che sembra proporre una particolare concentrazione di sepolture, ma il fenomeno si svilupperà in maniera più chiara ed evidente nella seconda metà del iii secolo, con la definizione delle manifestazioni devozionali:  ad esempio nella memoria apostolorum della via Appia si accende quel culto martiriale che, di fatto, creerà i presupposti per quel rapporto di "vicinato" con il santo, che ha attratto l'attenzione di Peter Brown, lo studioso che meglio ha compreso gli intimi rapporti che legano, nei primi secoli, i defunti ordinari, i martiri e i santi.


(©L'Osservatore Romano - 31 ottobre 2010)
Caterina63
00mercoledì 10 novembre 2010 19:20
Caratteristiche delle sepolture nei primi secoli del cristianesimo

I compagni dell'ultimo viaggio


di Fabrizio Bisconti
 

Attorno alle tombe dei martiri, dislocate nelle catacombe romane e nelle necropoli paleocristiane dell'intero mondo tardoantico, sorgono dei "cimiteri satellite", che si innervano, senza rispettare il fronte di sfruttamento delle aree sepolcrali, nelle immediate vicinanze delle memorie, talché si verranno a creare i cosiddetti retrosanctos, dei settori cimiteriali che, talora, devastano i precedenti contesti, proprio per quella tensione devozionale, che è ben sintetizzata da una iscrizione romana di incerta origine:  quod multi cupiunt et rari accipiunt, un'espressione, quest'ultima, che dichiara un desiderio forte, ma non sempre esaudibile.

La convinzione che dai corpi santi e dalle loro reliquie si sprigionasse uno spirito salvifico, che va a interessare i corpi sepolti in prossimità dei martiri, santificandoli e garantendo loro l'unione con Dio, si propone come un dato reale utile a spiegare la costruzione di altri "cimiteri satellite" collocati nei sopraterra delle catacombe romane e, cioè, le cosiddette basiliche circiformi, così definite per la loro pianta, caratterizzata da navate avvolgenti, che girano in senso continuo intorno a quella centrale. Si tratta di ben sei basiliche:  quelle dei Santi Pietro e Marcellino, sull'antica via Labicana, quella di Sant'Agnese sulla Nomentana, quella di San Lorenzo sulla Tiburtina, quella di San Sebastiano sull'Appia, quella di Papa Marco sull'Ardeatina e quella anonima sulla Prenestina.

Queste basiliche, assieme a quelle di Pietro e di Paolo, rappresentano le più importanti manifestazioni monumentali della politica religiosa di Costantino, che sembra così salvaguardare, con una imponente corona di santuari, il suburbio romano, fornendo, allo stesso tempo, una serie di contenitori funerari per rispondere alla pressante richiesta delle sepolture ad sanctos da parte dei fedeli cristiani. Tutte le basiliche circiformi, infatti, costituivano dei vasti cimiteri comunitari coperti, capaci di contenere migliaia di tombe; tutte erano costruite nei pressi di una catacomba, anche se leggermente defilate dalla sede delle sepolture dei martiri, ove nacquero, anzi, altre basiliche ad corpus. La presenza della tomba di un santo costituiva, insomma, la protezione più efficace per i numerosi fedeli sepolti in queste chiese; anche per i più abbienti e per gli appartenenti agli alti livelli della mappa sociale cristiana, titolari di ricchi mausolei addossati alle basiliche.

In tutto questo processo di trasformazione dei contesti funerari attorno ai sepolcri dei martiri, questi ultimi sembrano appena sfiorati dall'imponente e stravolgente fenomeno delle sepolture ad sanctos. Le tombe sante in Occidente, durante i primi secoli, godono di una sorta di proibizione di ogni tipo di monumentalizzazione, per cui anche i segni del culto sono appena percepibili, ridotti a semplici graffiti tracciati dai pellegrini o alla costruzione di organismi più o meno complessi per i pasti funebri, come nella memoria apostolorum sulla via Appia. Per il resto, le tombe sante sono appena segnalate, come accade con i trofei di Pietro e Paolo, descritti da Eusebio, basandosi sulla testimonianza dell'uomo di chiesa Gaio che, al tempo di Papa Zefirino, vide due semplici edicole, in corrispondenza delle tombe dei principi degli apostoli (Historia Ecclesiastica 11, 25-27), secondo quanto hanno poi dimostrato gli scavi di San Pietro, che hanno individuato, al centro e agli esordi dell'interminabile itinerario costruttivo e cultuale, un sobrio organismo timpanato situato sulla tomba dell'apostolo, scavata nel suolo.

Anche procedendo nel tempo, le tombe dei martiri non conobbero rifacimenti e monumentalizzazioni troppo importanti. I primi interventi in questo senso sono dovuti al Papa Damaso che, com'è noto, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del iv secolo, con l'intento di rilanciare la devozione popolare verso la memoria dei martiri, anche per ricomporre i pericoli della mancata coesione interna dovuti all'affaire ariano e alle lotte intestine, coadiuvato da un impegnato entourage di presbiteri, ridisegna la mappa cultuale del suburbio romano. Gli interventi sono sobri, finalizzati ad alimentare un pellegrinaggio che, intanto, si era organizzato prima a livello locale e poi più esteso, creando degli itinera ad sanctos a senso unico, con gradus descensionis et ascensionis, dove le tombe dei martiri costituivano la meta di un pellegrinaggio tutto giocato sulla pratica dell'ex contactu, ossia del devoto gesto che permetteva di toccare concretamente quei sacri sepolcri.

Le tombe dei martiri vennero soltanto restaurate, lievemente decorate, quasi mai ad affresco (con l'unica eccezione dei sepolcri dei Santi Felice e Adautto a Commodilla), quasi sempre con le celebri iscrizioni filocaliane, che vanno intese come vere e proprie autentiche pontificie, talora con prospetti architettonici schiacciati sulle pareti in cui si aprivano i sepolcri, come nel caso della tomba di San Gennaro, nella spelunca magna di Pretestato, talvolta con sbiancature dei cubicoli, creazione di nuovi lucernari, decorazione in mosaico o in opus sectile.

A fianco degli interventi damasiani si può spesso apprezzare l'intervento evergetico di alcuni rappresentanti della gerarchia ecclesiastica o della ricca aristocrazia laica romana, che proprio in quel tempo diviene sponsor della costruzione di molti edifici di culto. È verosimile che alcune tombe monumentali sistemate in vicinanza delle sepolture martiriali e progettate contestualmente alle ristrutturazioni damasiane debbano essere riferite proprio a quegli evergeti che, forse, avevano partecipato anche finanziariamente a quelle imprese:  la loro generosità poteva assicurare una tomba privilegiata situata vicino alle spoglie del santo.

La promozione del culto innescò, dunque, un rapporto diretto con i martiri e in questo senso si muove anche l'iconografia, a cominciare dall'affresco in cui Petronilla introduce in paradiso Veneranda nelle catacombe di Domitilla, fino a quello in cui Cominia e Nicatiola sono rappresentate nell'aldilà assieme a san Gennaro nelle catacombe napoletane di Capodimonte. Tra i martiri e i defunti si stabilisce una sorta di amicizia religiosa, un intimo rapporto inter pares, che qualifica i santi come patroni, intercessori e protettori:  essere vicini a loro, essere rappresentati in loro compagnia, significa rompere la barriera tra cielo e terra e porre su un medesimo piano i defunti ordinari e i santi, come ci fa comprendere, ormai nel vi secolo, l'affresco della Madonna Regina attorniata dai martiri Felice e Adautto e dalla vedova Turtura nelle catacombe di Commodilla.
 
Il problema delle sepolture ad sanctos, che interessa tutte le più alte personalità della Chiesa del tempo, si innesta in quello altrettanto interessante del pellegrinaggio. I due fenomeni si sfiorano e si sovrappongono. La sepoltura dei martiri diviene il più ambito centro di interesse del culto cristiano, sia quando viene considerato meta di quella che Peter Brown definisce "terapia della distanza" e dunque - come si diceva - oggetto da toccare per essere santificati e per santificare, sia quando viene preso come punto di riferimento per sistemare le sepolture dei defunti d'alto rango. La "tomba privilegiata" produce, dunque, le "tombe privilegiate".

La dinamica cultuale e funeraria sin qui descritta può essere controllata studiando il complesso di Cimitile a Nola, laddove, attorno alla tomba del confessore Felice, proprio per la committenza di Paolino, agli esordi del v secolo, si viene a creare un complesso che il comune viaggiatore poteva scambiare per una città:  quarum [basilicarum] fastigia longe adspectata instar magnae dant visibus urbis (Carmina, 18, 179-180). Attorno alla memoria sorgono ben quattro basiliche per lo più funerarie, per assolvere alla grande richiesta delle sepolture ad sanctos, ma vengono costruiti anche un battistero, dei monasteri, dove Paolino si ritira con la moglie Terasia, dei cortili, dei portici, un ospizio per i poveri, un acquedotto per le esigenze di coloro che si recavano in pellegrinaggio nel celebre santuario campano (Carmina 32, 21, 27, 28).

Nello stesso frangente, situazioni analoghe, anche se non così imponenti, si verificano in altri centri dell'Occidente cristiano e, segnatamente, a Milano, dove la forte personalità di Ambrogio guida con invenzioni, ristrutturazioni, progetti ex novo la cristianizzazione di una città che, per la presenza di ben quattro memorie extramuranee, può essere considerata, come Roma, protetta dai martiri. L'area più importante parve, sin dall'età preambrosiana, quella detta sintomaticamente ad martyres, dove Ambrogio rinvenne i corpi di Gervasio e Protasio, le cui reliquie furono solennemente sistemate nella nuova basilica, da poco costruita a Porta Romana (Epistulae, 21, 15). Un gesto, questo, dai mille significati:  da quello immediato di ordine politico-religioso, che sottolinea, con un miracolo, la strenua resistenza ambrosiana dinanzi al fronte ariano, a quello puramente agiografico, più largo e teorico, talora poetico, che troverà i momenti più alti nelle pie ballate del poeta iberico Prudenzio. Nell'area occidentale del cimitero ad martyres si concentrano le attività ambrosiane:  dalla costruzione della basilicula dei Santi Nabore e Felice, in cui fu deposto il vescovo Materno, alla basilica martyrum, dove Ambrogio fece deporre Gervasio e Protasio e preparò la propria sepoltura (Epistulae, 22, 2 e 13), al sepolcro di san Vittore, su cui sorgerà l'attuale complesso di san Vittore in coelo aureo,  presso  cui  Ambrogio  depose  il  fratello Satiro.
 
La sepoltura ad sanctos e il pellegrinaggio vengono guardati come attraverso le lenti di un binocolo, nel senso che si propongono come due aspetti di un unico fenomeno che produce due situazioni parallele e contigue. E questa duplice articolazione potrebbe essere controllata in altri santuari del Mediterraneo, come a Tebessa, dove nacque un grande centro di pellegrinaggio, che raddoppiò addirittura la città, attorno alla tomba di santa Crispina; come nei loca sancta salonitani, di Marusinac, dove troviamo un caso veramente interessante. Qui, nel 304, la nobildonna Asclepia creò una memoria, che sarebbe poi divenuta meta di pellegrinaggi, sulla tomba del martire Anastasio, in un edificio, che era stato adibito anche a ospitare la sua stessa tomba e quella della sua famiglia:  la nobildonna sottrae così la "tomba privilegiata" del santo alla comunità, per inglobarla e renderla cosa privata della sua famiglia.

Tutte queste testimonianze letterarie ed epigrafiche illuminano un mondo cristiano lontano, primitivo, dove confluiscono i riti, i culti e, forse, le superstizioni delle culture e delle civiltà del Mediterraneo, ma ci parlano di un'evoluzione dei gesti e degli atteggiamenti di un "popolo nuovo", che ricarica semanticamente le abitudini funerarie del passato, trasformando le usanze in forme di un culto, che genera i fenomeni della intercessione, del culto, della devozione e che avvicina, rompendo ogni barriera, i defunti ordinari, i martiri, i santi, che diventano gli abitanti del mondo dell'attesa, della resurrezione che verrà.


(©L'Osservatore Romano - 11 novembre 2010)
Caterina63
00martedì 22 marzo 2011 18:22
Le catacombe come paradigma della complessità degli ultimi secoli del mondo antico

Quando i romani dipingevano al buio


di CARLO CARLETTI

Il 23 marzo, nella sala delle conferenze di Palazzo Massimo a Roma, viene presentato il volume di Fabrizio Bisconti Le pitture delle catacombe romane. Restauri e interpretazioni (Tau Editrice, Todi, 2011, pp. XI + 361, euro 90). Anticipiamo ampi stralci di due degli interventi previsti. All'incontro interverranno anche il direttore del Dipartimento di studi storici e artistici, archeologici e della conservazione dell'Università di Roma Tre, Liliana Barroero, e il direttore del nostro giornale.

Le pitture delle catacombe romane sono senza alcun dubbio parte costitutiva e dinamica della produzione artistica di età tardoantica, anche se questo ruolo non sempre è stato riconosciuto da quella parte del mondo degli studi e della divulgazione (ad esempio nelle mostre), ancora ingabbiato in un malcelato pregiudizio "classicistico" e condizionato da un inconscio atteggiamento "laicista", pateticamente percepito come politically correct.

Ma il dato concreto è quello di una documentazione di enorme consistenza, in cui convivono - talvolta nel medesimo contesto insediativo - manifestazioni di notevole eccellenza qualitativa e prodotti per lo più di livello medio-basso, sia dal punto di vista formale che da quello tecnico-esecutivo: performances di routine di "immediato consumo", condizionate e dalla urgenza dell'irruzione della morte e dalle disagevoli condizioni ambientali e strutturali che caratterizzano i siti catacombali.

La funzionalità di questo repertorio di immagini nel mondo dei morti, rimane (anche nella percezione dei committenti e degli utenti cristiani) quella tradizionale della decorazione dell'ultima dimora e della autorappresentazione di un singolo o di un gruppo familiare. Sono poi le scelte di determinati temi e soggetti che, attraverso emblematiche schematizzazioni, interazioni e formulazioni, svelano e definiscono la prospettiva entro la quale questi messaggi figurali si inseriscono e prendono significato.

Si rimarrebbe nel vago e nell'indefinito se una volta tanto non si entrasse nella reale consistenza di questo patrimonio, se non si percorresse anche con attenzione "computistica" questo microcosmo figurativo capillarmente "invasivo", che tuttora si lascia leggere, apprezzare, studiare negli oltre centocinquanta chilometri di estensione lineare degli ambienti sotterranei catacombali. In questa prospettiva una preliminare analisi quantitativa riveste un ruolo determinante e costituisce un fondamentale plafond di riferimento per qualsiasi successiva indagine non condizionata da pregiudiziali divisive.

Il volume complessivo di questo straordinario dossier figurativo, tradotto in numeri, svela ordini di grandezza senza dubbio inaspettati, forse anche per gli addetti ai lavori. Negli oltre settanta insediamenti catacombali di Roma si conservano 420 unità monumentali (cubicoli, arcosoli, tratti di gallerie, loculi, cripte, basiliche ipogee), con circa 2.300 contesti decorativi, esiti ultimi della consapevole scelta di temi e soggetti che, per un verso ripropongono la tradizione di un immaginario figurativo connesso alla morte e all'aldilà nelle sue diversificate percezioni e, per l'altro, presentano un nuovo repertorio tematico, che per la prima volta, con la discrezione che contrassegna la nascita di processi innovativi, entra nell'universo figurativo della tarda antichità.
Pertanto, accanto al tessuto connettivo costituito dagli innumerevoli dispositivi figurativi che caratterizzano il mondo ultraterreno, emergono le traduzioni figurative di uno specifico "identitario". Qui sono ancora i numeri che forniscono l'entità e lo spessore di una molteplicità di temi e soggetti di diretta estrazione biblica: complessivamente 620 esemplari (420 dall'Antico Testamento, 198 dal Nuovo) che propongono 47 temi, 31 veterotestamentari e 16 neotestamentari. Se ci si spinge più in profondità all'interno di queste indicazioni numeriche, si possono apprezzare, come elemento forse significativo della Biblisierung ("diffusione della Scrittura nelle comunità"), le ricorrenze dei diversi luoghi scritturistici.

Al vertice delle preferenze si pongono due eventi veterotestamentari, Mosè che batte la rupe (12 per cento di esemplari) e i diversi momenti del ciclo di Giona (10 per cento), cui seguono un tema neotestamentario - il miracolo della resurrezione di Lazzaro, rappresentato in sessantacinque esemplari (10 per cento) - e ancora altri due temi dell'antico Testamento, Daniele nella fossa dei leoni e Noè nell'arca (rispettivamente 8 per cento e 7,50 per cento). Tra i temi di ascendenza neotestamentaria, sono nettamente più diffusi i miracoli di Gesù e, tra questi, particolare predilezione è riservata alla risurrezione di Lazzaro, alla moltiplicazione dei pani e alla guarigione del paralitico.

Al di fuori dello specifico religioso, vi sono una moltitudine di rappresentazioni che propongono un amplissimo repertorio di una vera e propria "iconografia del reale", che illustra attività, mestieri, professioni, attitudini dei defunti, proponendo a volte anche momenti salienti connessi al rituale funerario. Il tessuto connettivo concettuale e materiale in cui si dispone questa esplosione di immagini bibliche rimane quello dell'iconografia dell'"irreale", la rappresentazione cioè di un immaginario dell'aldilà che sintetizza in molteplici esiti e soluzioni un patrimonio di idealità secolari.
Dietro e dentro questa elencazione di dati, si celano una infinità di questioni che afferiscono agli ambiti storico-culturale, storico-artistico, iconografico e iconologico ma anche naturalmente alle metodologie, agli approcci, alla verifica delle correnti storiografiche e della proposizione dei modelli interpretativi. Problematiche che, come ovvio, suscitano interrogativi, impongono riletture, esigono chiarimenti.

È questo il perimetro, ampio e articolato, pieno anche di classiche e insidiose questioni lungamente dibattute, in cui si muove il nuovissimo libro di Fabrizio Bisconti, Le pitture delle catacombe romane. Restauri e interpretazioni. Il titolo, come gli studiosi percepiranno immediatamente, richiama un'opera grandiosa, ma ormai ineluttabilmente segnata dal tempo. La raccolta, appunto, delle pitture delle catacombe romane pubblicata a Roma nel 1903 da Giuseppe Wilpert: un libro monumentale che fece epoca e che ha costituito per molti decenni il punto di partenza obbligato per qualsiasi ricerca nel campo della pittura cimiteriale tardoromana, anche se le datazioni di Wilpert (oggi del tutto superate) si muovevano verso confini incompatibili con la realtà del tardo antico, cui concettualmente e cronologicamente appartiene tutta la pittura catacombale.

A oltre un secolo di distanza da un precedente così illustre, il libro di Bisconti si muove naturalmente in tutt'altra prospettiva e lungo percorsi impensabili (almeno a Roma) tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. La materia, complessa e articolata nelle problematiche e negli strumenti ermeneutici, è presentata attraverso una oculata e meditata riproposizione di quattordici saggi pubblicati nell'ultimo ventennio, disposti in successione secondo la cronologia dei monumenti pittorici esaminati. È un'idea felice perché consente al lettore di seguire fin dalla sua fase genetica la nascita e lo sviluppo di una iconografia paleocristiana e nel contempo la "resistenza" di un immaginario figurativo di tradizione, che non sempre e non necessariamente - anche nei cimiteri cristiani - risponde e si spiega alla luce della categoria religiosa.

La raccolta dei saggi è preceduta da una densissima introduzione che ha il taglio di una rimeditazione storiografica e metodologica e che, in trasparenza, fa emergere il percorso di maturazione critica dell'autore. Ma in questa selezione c'è un valore aggiunto: come indicato nel sottotitolo, tutti i saggi muovono dalle risultanze acquisite in seguito a interventi particolarmente rilevanti (conservazione, consolidamento, restauro) eseguiti dalla Pontificia Commissione di archeologia sacra in alcuni importanti e, in più di un caso, fondamentali complessi pittorici. In particolare, quelli del sepolcreto della Piazzola in catacumbas, degli ipogei degli Aureli e di Trebio Giusto, nelle catacombe di Priscilla, di Pretestato, dei Santi Marcellino e Pietro, di via Dino Compagni, di San Callisto, della ex vigna Chiaraviglio, dell'insediamento anonimo della via Ardeatina. La lucida consapevolezza dell'inestricabile legame che interconnette (ma non sempre e dovunque è così) la ricerca della conoscenza storica con la vigile preoccupazione della tutela e della conservazione, è la sfraghìs connotativa del libro di Bisconti e del suo modo di interagire - attraverso gli appropriati strumenti critici - con la produzione figurativa dell'antichità cristiana, come è chiarito nell'incipit della nota introduttiva al volume. "Vent'anni di restauri hanno mutato il volto della "Roma sotterranea cristiana", di quel mondo delle catacombe che mai aveva goduto di una vera e propria attenzione conservativa per quanto attiene gli apparati decorativi e, specialmente, per quanto riguarda un grande patrimonio pittorico. (...) Una disattenzione che ha pesato sulla conoscenza della pittura dell'ultima antichità, tanto che, ancora ai nostri giorni, si parla con disinvoltura dell'arte tardoantica, tacendo di questi "affreschi nel buio"".

Eppure questi affreschi nel buio svelano storie complesse spesso insospettabili e concorrono a chiarire aspetti di una storia complessa e non sempre leggibile nei dettagli, che riguarda anche problemi nodali, come ad esempio quello del rapporto delle prime comunità con i luoghi della sepoltura. In questa direzione un contributo importante è venuto dall'intervento di pulizia e restauro di un affresco sovrastante il mausoleo di Clodius Hermes nel complesso della Piazzola in catacumbas: qui la rappresentazione figurativa era stata letta (sebbene con qualche dubbio) in chiave cristiana con il riconoscimento della parabola del Buon Pastore, della moltiplicazione dei pani, della guarigione dell'ossesso di Gerasa.

Ma l'intervento di pulizia e consolidamento dell'intera superficie affrescata ha consentito di riconoscervi alcuni episodi del ciclo omerico (le greggi di Laerte, la gozzoviglia dei Proci, i compagni di Ulisse trasformati in porci) peraltro presenti in altra formulazione anche nell'ipogeo degli Aureli. L'aspetto importante di questa rilettura è la conferma che quello della Piazzola è un insediamento pagano che, nel corso della prima età antoniniana, accolse anche le sepolture di alcuni cristiani della famiglia degli Ancotii.

Spostandosi verso la fine del IV secolo, si osserva come momenti nodali della storia della Chiesa di Roma abbiano trovato eco nelle pitture delle catacombe. Nell'arcosolio di Celerina della catacomba di Pretestato, sottoposto a un'accuratissima operazione di consolidamento e restauro guidato da Barbara Mazzei, è stato possibile rileggere e meglio percepire quanto veicolato dalle immagini. Qui - siamo all'inizio del V secolo - si coglie evidente l'eco della questione ariana al tempo di Papa Liberio (352-366) resa allegoricamente dall'immagine biblica di Susanna in forma di agnello insidiata dai seniores (i vecchioni) tradotti come lupi, che rappresentano rispettivamente la Chiesa e l'eresia (in questo caso quella ariana), sulla scorta appunto della figura dei due lupi che la tradizione patristica aveva elaborato per significare i persecutori e gli eretici sulla scorta del passo di Matteo, 10, 6: sicut oves in medio luporum. Ancora un altro punto nodale - emerso durante il pontificato di Damaso (366-384) - è quello rappresentato da un affresco della catacomba dell'ex vigna Chiaraviglio, in cui senza alcun dubbio si coglie il riflesso delle deliberazioni del concilio romano del 382, nel quale il primato petrino (e dunque del vescovo romano) viene riproposta come societas beatissimi Pauli, un prestigioso "valore aggiunto" alla apostolicità della sede romana.

Questa pregnante definizione è figurativamente tradotta con la scena monumentale dell'abbraccio di Pietro e Paolo, cioè con la concordia Apostolorum, che all'inizio degli anni Sessanta del IV secolo era stata corrosivamente messa in discussione dall'imperatore Giuliano l'Apostata, ispirato dalla polemica anticristiana del filosofo Porfirio di Tiro.
Una parte consistente e significativa dei numerosi e complessi problemi affrontati nel libro di Bisconti non si sarebbe nemmeno posta se non ci fosse stata l'azione coordinata della Pontificia Commissione di archeologia sacra nella direzione della conservazione e della tutela delle catacombe, soprattutto nelle sue evidenze più fragili, che sono proprio le pitture ad affresco. A queste problematiche connesse alle attività di conservazione è stata dato lo spazio che meritavano, anche con l'esposizione dettagliata (supportata dal contributo degli interventi specialistici di Barbara Mazzei) delle procedure di intervento che hanno attinto alle più sofisticate e aggiornate tecniche.

Merita di essere segnalata la ripresa fotografica all'infrarosso con il sistema della riflettografia che, nelle sovrapposizioni di successive stesure pittoriche, consente di leggere lucidamente ciò che l'occhio umano o il tradizionale obiettivo fotografico non consentirebbero: è il caso della concordia Apostolorum dell'ex vigna Chiaraviglio che ha svelato una prima rappresentazione degli apostoli acclamanti alla croce o, ancora, dell'arcosolio di Celerina, in cui sotto la figura di san Paolo è emersa una presenza maschile, appartenente a un precedente e diverso contesto decorativo.

Gli esiti degli interventi di consolidamento, restauro, come anche del ricollocamento di disiecta membra nei contesti figurativi di appartenenza, hanno consentito di vedere "l'erba dalla parte delle radici", come scrive Bisconti, e dunque di seguire e definire nelle loro caratteristiche i procedimenti tecnico-esecutivi e la presenza di tutto quanto attiene alla fase preparatoria del lay-out (impaginazione) della superficie destinata ad accogliere l'affresco.

L'individuazione endoscopica - perciò indolore oltre che non invasiva - di questi elementi fornisce preziosi indicatori per una più dettagliata e documentata definizione cronologica: un aspetto nevralgico tuttora in corso di ridefinizione anche perché condizionato dalla contrapposizione critica (non di rado duramente polemica) alle cronologie pregiudizialmente "alte", spesso insostenibili, ereditate dalla prima scuola romana (de Rossi - Wilpert).

In sintesi, sul piano della multiforme e multiculturale vicenda storico-artistica che attraversa i secoli della tarda antichità, il valore e l'utilità di questo nuovo libro si possono agevolmente riconoscere nella ricca molteplicità di elementi e di argomenti che quasi naturalmente conducono - anche attraverso l'ottica della produzione figurativa - a riconoscere anche nell'universo-catacomba una cassa di risonanza non troppo flebile delle complessità, che caratterizzano i secoli ultimi del mondo antico, in cui si rincorrono e si integrano, con differenti livelli di incidenza, non sempre lucidamente percepibili, tradizione, creatività, trasformazione.



(©L'Osservatore Romano 23 marzo 2011)

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