Mons. Guido Marini spiega l'importanza delle Omelie

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Caterina63
00sabato 13 dicembre 2008 19:20
a ricordo del grande card. Giuseppe Siri
Sintesi e chiarezza di pensiero nelle omelie del cardinale Giuseppe Siri
Un temperino in mano per pungersi prima di cedere alla commozione




Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie tenuto in occasione della presentazione del volume Omelie per l'anno liturgico, una raccolta di testi del cardinale Siri curata da Antonio Filipazzi (Verona, Fede & Cultura, 2008, pagine 304, euro 25).

di Guido Marini


Chi è colui che può testimoniare? Chi ha incontrato, visto e sentito. Io, per grazia, ho incontrato il cardinale Giuseppe Siri, l'ho visto e l'ho sentito. Ho parlato di grazia e non a caso. Ritengo, infatti, che sia sempre una grazia del Signore avere l'opportunità di fare la conoscenza di uomini grandi. Grandi non perché tali davanti al mondo - è questa una ben piccola e povera grandezza - ma perché grandi davanti a Dio. E di questa grandezza intendo parlare quando mi riferisco al cardinale Siri. In lui l'ho incontrata.

La Provvidenza di Dio l'aveva dotato di moltissimi talenti, tra i quali spiccavano la sua ricca umanità, la luminosa e non comune intelligenza, la nobiltà dell'animo, un tratto signorile e austero ma altrettanto autenticamente buono e semplice. In virtù dell'opera della grazia, di una diuturna ascesi personale, di una fede intensa e di un'appartenenza ecclesiale fedelissima questi talenti hanno potuto risplendere per il bene di molti, moltissimi: ancora adesso. Tra questi vi sono anch'io.

Ho avuto modo di avvicinare il cardinale Siri la prima volta quando frequentavo il liceo classico presso una delle scuole statali della mia città. Da poco avevo cominciato a essere assiduo alla vita della Chiesa e già riflettevo sulla prospettiva di entrare in seminario al termine del mio percorso scolastico superiore. Ebbi l'opportunità di partecipare in diverse circostanze a celebrazioni eucaristiche presiedute dall'allora arcivescovo, alcune volte anche servendo la messa come ministrante.

Più tardi, ormai seminarista, avrei avuto modo di ascoltare la predicazione del cardinale con più continua frequenza, ripercorrendo i grandi momenti dell'anno liturgico, anche a motivo del servizio che, come seminario, si prestava in cattedrale nelle feste, nelle solennità e negli eventi significativi della vita diocesana, come è consuetudine ancora oggi.

Ed è a partire da qui che prende forma la mia testimonianza, ovviamente limitata all'ambito delle omelie, alcune delle quali sono state pubblicate nel volume questa sera presentato e curato dal mio caro confratello nel sacerdozio e amico dai tempi del seminario, monsignor Antonio Filipazzi.
I giovani, tra le diverse caratteristiche tipiche della loro età, hanno quella di essere molto esigenti. Anche quando si pongono in ascolto di un'omelia, che loro vorrebbero sempre inappuntabile sotto ogni punto di vista, vale a dire perfetta.

Quelle del cardinale ho l'ardire di affermare che, se è possibile nelle cose umane parlare di perfezione, perfette lo erano; o almeno a me davano allora questa impressione e così io oggi me le ricordo. La mia mamma, che in tante occasioni aveva ascoltato Siri predicatore, amava ripetere spesso, con un accento di meraviglia: "Come predica bene il cardinale Siri!". Ritornerò più avanti su questo apprezzamento della mia mamma e ne spiegherò il perché.

Rimanendo in ascolto delle omelie di Siri non era possibile annoiarsi.

Al dono della sinteticità si accompagnava l'altro grande dono di un'estrema chiarezza del pensiero. Non credo che un'omelia del cardinale abbia mai superato i dieci minuti, almeno io non lo ricordo. Eppure in quel breve tempo era detto tutto ciò che era da dire: né più né meno. E quelle parole rimanevano ben impresse nella mente e nel cuore. Nella mente, per la limpidezza del discorso e la chiarezza dei singoli passaggi; nel cuore, per la profondità religiosa e sapienziale dei contenuti. A noi seminaristi ricordo che una volta disse: "Mi raccomando: quando avrete da fare le omelie non superate i sette-otto minuti. Si può dire tutto in sette-otto minuti". E aggiungeva, con la saggezza del grande pastore: "Se avrete parlato bene, tutti saranno contenti; se sarete stati noiosi, tutti saranno contenti ugualmente, perché non l'avrete fatta tanto lunga".

Mi ha sempre affascinato la capacità di Siri di rendere semplice anche ciò che era oggettivamente complesso e articolato. Ma si sa, questa è la virtù dei grandi oratori; rendere accessibile a tutti, pure ai meno dotti, le verità più complesse e impervie, anche della fede. Il cardinale appariva, a me giovane, come il grande artista per il quale compiere un esercizio difficilissimo diventa estremamente semplice, quasi che non debba comportare un allenamento estenuante, una profusione di energia e di talento. Siri era il grande artista della fede che, con le sue non comuni doti intellettuali e spirituali, sapeva "spezzare" le verità della dottrina cristiana in modo tanto semplice quanto affascinante. Al termine di una sua omelia ci si fermava a riflettere e a dirsi: "È proprio così! Come sono belli i misteri della vita del Signore! Come vorrei vivere nella luce di quanto ho ascoltato!".

Tipico dell'arte omiletica del cardinale era il tono: a tratti severo, altre volte commosso, in alcuni momenti esortativo e suadente, spesso lapidario. Soprattutto questa ultima caratteristica faceva sì che difficilmente ci si potesse dimenticare di quanto si era ascoltato. Quante volte ho sentito dire, ad esempio, dai sacerdoti: "Ciò che il cardinale ha detto il giorno della mia ordinazione non potrò mai dimenticarlo". Nelle orecchie rimaneva il contenuto delle sue parole e, insieme, il tono con il quale erano state pronunciate. Ed era un messaggio al cuore che durava per la vita. Io stesso ho potuto fare in prima persona questa esperienza. Confido che di tanto in tanto mi ritorna alla mente qualche parola pronunciata da Siri in quella o in quell'altra circostanza liturgica. Con la parola mi si affaccia alla mente la figura ieratica del grande cardinale, ne risento il timbro inconfondibile della voce. E avverto che quella parola, un giorno donatami, rimane nell'oggi fedele compagna di viaggio a illuminare i passi del mio sacerdozio.

In merito al tono ho usato anche la parola "commosso". Può sembrare strano questo tratto nella personalità, tra l'altro marcatamente genovese, del cardinale Siri. Chi conosce l'animo profondo di Genova e dei suoi abitanti, sa che raramente si è disponibili a mettere in mostra i propri sentimenti, se non con chi ci è particolarmente familiare e dopo un tempo prolungato di frequentazione. Non si è lontano dal vero se si afferma che per il cardinale non era fuori luogo esternare sentimenti ed emozioni nel contesto dell'assemblea liturgica: perché quella era la sua famiglia, la sua famiglia carissima.

E tuttavia, si può aggiungere che, spesso, era il tema trattato a suscitare il movimento del cuore in Siri pastore d'anime. Ho in mente, soprattutto, le splendide omelie pronunciate nella grande solennità dell'Immacolata, in quella che era la sua parrocchia di origine - la chiesa dell'Immacolata, appunto - e della quale, come ogni arcivescovo di Genova, era nativamente abate parroco. Lì, davvero, spesso si lasciava andare. Era l'ambiente umano e spirituale che lo permetteva. Ma era anche il pensiero della Vergine Santa, della quale era devoto in modo filiale e, mi permetto di dire nel senso più bello del termine, fanciullesco. La sua, ovviamente, era una devozione radicata nella grande teologia, ma anche calda e affettuosa. E come tale sapeva comunicarla.

Aggiungo che, a proposito della commozione, tra noi seminaristi girava la notizia che, ogni tanto, il nostro cardinale, proprio per non cedervi, portava con sé, nella mano, un temperino con il quale era pronto a pungersi, quando durante l'omelia avesse preso il sopravvento l'aspetto emotivo. Penso che il piccolo segreto trapelato fosse vero e conferma, se ce ne fosse bisogno, l'animo sensibile di Siri, il suo essere geloso dei sentimenti più intimi, il suo amore delicato e intenso per le cose di Dio.

Tutti conoscono la sua straordinaria levatura teologica. Non è questo il contesto per ricordarla nel dettaglio. Solo mi è caro testimoniare quanto in lui, nell'omiletica, la teologia si sia coniugata con la spiritualità. In tal modo, l'omelia era sempre ricca di dottrina e, al contempo, assai stimolante per la vita cristiana e gli impegni nell'ordine della pratica morale. Le verità della fede, celebrate liturgicamente, erano portate alla luce per essere contemplate. Quindi, se ne rendeva chiaro il riferimento all'esistenza quotidiana, conservando integro il rapporto di complementarietà tra contemplazione e azione. L'omelia, con il cardinale Siri, diventava via maestra alla partecipazione attiva alla celebrazione, se per partecipazione attiva si intende l'incontro della mente e del cuore con il mistero di Dio, nei segni propri della liturgia, così da rimanerne trasformati in ordine alla progressiva santificazione.

Un mio ricordo caro è quello legato alle visite che il cardinale faceva al nostro seminario, in occasione della festa di san Luigi. Era, quella, anche la festa del seminario e si concludeva l'anno accademico assieme all'anno di formazione, così come accade anche oggi. Per noi seminaristi la messa presieduta dall'arcivescovo era un momento molto forte di quella giornata. E, in modo particolare, si attendeva l'omelia. Un'omelia sempre fondata sui testi liturgici della festa, sempre attenta alle note biografiche del santo, sempre protesa a indicarci le mete spirituali a cui tendere nel tempo della preparazione al sacerdozio. In tanti modi il cardinale faceva sentire a noi, suoi seminaristi, il bene che ci voleva.

Basti pensare alla frequenza settimanale con la quale non mancava di farci visita, rimanendo disponibile un intero pomeriggio per incontri personali e di classe. Ma, certo, il momento della predicazione dava modo al cuore del nostro pastore per manifestare l'affetto intenso, vero nutrito per noi. Si capiva che per il tramite della parola egli desiderava comunicarci i tesori della fede e della dottrina, introdurci al desiderio appassionato per la verità, stimolarci a una vita di santità, additarci l'amore fedele alla Chiesa. Insomma, accompagnarci a essere domani sacerdoti secondo il cuore del Signore. E lo si sentiva benissimo!

Non l'ho mai visto leggere un'omelia. Il suo era un procedere a braccio. Non perché non si preparasse. Piuttosto perché si preparava molto bene e aveva il dono di far fluire le parole senza l'appoggio di testi scritti. In tal modo, tra l'altro, era nella condizione di modulare quanto diceva facendo riferimento alla situazione concreta dell'assemblea e al clima spirituale che si andava profilando. E, perché no, lasciandosi anche portare dall'ispirazione del momento. Poteva guardare il volto della sua gente e la sua gente poteva guardare il suo volto: e prendeva vita quel dialogo della salvezza che fa tornare alla mente la predicazione del grande sant'Agostino.

È da quasi vent'anni che sono sacerdote. E mentre gli anni passano, come capita a tutti, avverto sempre più intenso il desiderio di ritrovare le radici di quanto si è sviluppato in me nel corso del tempo. Così a volte mi sono domandato a che cosa devo l'amore per la liturgia. Forse i motivi da andare a ricercare sono molteplici. Eppure, non faccio fatica a ritrovare una radice viva di questo mio amore nell'esempio lasciatomi dal cardinale Giuseppe Siri. Bella, ma lunga e articolata, sarebbe una memoria della liturgia della Chiesa nell'insegnamento e nella pratica del cardinale. Credo che possa bastare questo: in lui, realmente, l'omelia era un momento qualificante dell'atto liturgico. Il libro che oggi viene presentato lo attesta. Attraverso l'omelia, si era accompagnati alla comprensione del mistero celebrato. Così la parola apriva la mente e il cuore alla celebrazione e la celebrazione appariva l'esplicitazione della parola proclamata.

A questa scuola, che giudico altissima, ho appreso l'amore per la liturgia della Chiesa. Le omelie del cardinale Siri, per diversi anni, gli anni della mia giovinezza e della mia formazione al sacerdozio, mi hanno accompagnato all'esperienza viva del mistero del Signore e della Chiesa nella forma della celebrazione liturgica.

Questa mia testimonianza, allora, è anche un rendimento di grazie dovuto. Al cardinale Giuseppe Siri, per avermi introdotto alla conoscenza e all'amore per la liturgia, anche attraverso le sue omelie. E al Signore - così vorrebbe il cardinale con il suo celebre motto Non nobis, Domine, non nobis - per avermi dato la grazia di incontrare un grande uomo di Chiesa.

Ritorno, a conclusione di questa testimonianza, alla mia mamma, grande ammiratrice del cardinale Siri e ora in Paradiso. Da quando sono diventato sacerdote, spesso, prima che uscissi di casa per andare a celebrare la Messa o a tenere qualche predicazione, mi diceva: "Mi raccomando, Guido, non farla tanto lunga: poche parole e ben dette!". Quanta saggezza in queste parole della mia mamma e quanta eco dello stile di Giuseppe Siri. Anzi, in fondo, proprio una sintesi di quanto ho cercato di testimoniare di lui e delle sue omelie.



(©L'Osservatore Romano - 14 dicembre 2008)

P.S. Mons. Guido Marini è il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche del Santo Padre Benedetto XVI, e che sta sostenendo il Papa nella Riforma Liturgica [SM=g6811]
Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 18:40
La «lectio divina» da Origene ad Agostino

E Ambrogio inventò la lettura «senza voce»



Dal 31 agosto al 4 settembre si tiene a Cracovia il decimo Colloquio internazionale dedicato a Origene. Pubblichiamo quasi integralmente il testo di una delle relazioni.



di Enrico dal Covolo

Fin dai primi secoli cristiani i padri greci hanno coltivato e raccomandato quella che Origene chiama la thèia anàgnosis, e che i padri latini chiamano lectio divina: e proprio su questo segmento di storia della lectio divina vorremmo concentrare adesso la nostra attenzione, esaminandone i due snodi fondamentali, il primo - decisivo - segnato da Origene, l'altro da Ambrogio e da Agostino.
Questo itinerario storico e teologico non consente di apprezzare lo sviluppo della lectio divina nella tradizione orientale, dopo Origene. Rimane il fatto che l'influsso dei padri orientali è decisivo nella storia complessiva della lectio divina.

Tuttavia è nell'ambiente di lingua latina che la lectio si definisce con maggiore precisione nelle sue tappe fondamentali (lectio, meditatio, oratio e contemplatio), a partire appunto da sant'Ambrogio.

In primo luogo ci riferiamo dunque al III secolo, e a quella "svolta origeniana" che ha segnato irreversibilmente la teologia dei padri.
Come è noto, la "svolta origeniana" corrisponde in sostanza alla fondazione della teologia nell'esegesi, o meglio alla perfetta simbiosi tra teologia ed esegesi: "Solo con Origene si giunge - a dire di Manlio Simonetti - all'interpretazione sistematica di libri interi della Scrittura o di larga parte di essi, e questo modo di insegnare", cioè di fare teologia, "si sarebbe perpetuato nella scuola alessandrina...
La conoscenza, ampia se ben lungi che completa, che abbiamo sia delle omelie sia dei commentari di Origene ci permette di conoscere a fondo il suo modo d'insegnare, che si identifica col suo modo d'interpretare la Scrittura".

Rimane, è vero, il De principiis, che si configura come una serie abbastanza organica di discussioni relative a fondamentali argomenti teologici (Dio, l'uomo, il mondo), affrontati in modo da approfondire razionalmente il dato di fede. Ma è altrettanto vero che proprio nel De principiis Origene teorizza l'esegesi spirituale della Bibbia come cardine della conoscenza di fede e della perfezione di vita.
In verità la sigla propria del metodo teologico di Origene sembra risiedere appunto nella sua incessante raccomandazione a trascorrere dalla lettera allo spirito delle Scritture, per progredire nella conoscenza di Dio: e questo "allegorismo" - come osservava già Hans Urs von Balthasar - "non è nient'altro che lo sviluppo del dogma cristiano operato dall'insegnamento dei dottori della Chiesa, insegnamento che è, esso stesso, Scrittura in atto".
Coerentemente, la critica è concorde nell'apprezzare il "ruolo primordiale" esercitato da Origene nello sviluppo della lectio divina.

È soprattutto nelle Omelie sul Levitico che Origene esplicita in massimo grado il rapporto inscindibile che lega tra loro la vita del credente - l'esercizio del sacerdozio comune e l'itinerario incessante di perfezione, a cui il fedele è chiamato - e la scienza delle Scritture, la thèia anàgnosis, ovvero la "divina ricognizione" della sacra pagina: in definitiva, come vedremo, la lectio divina.
In particolare nella quarta omelia, prendendo lo spunto dalla legislazione levitica, secondo cui il fuoco per l'olocausto doveva ardere perennemente sull'altare (Levitico, 6, 8-13), Origene apostrofa così i suoi fedeli: "Ascolta: deve sempre esserci il fuoco sull'altare. E tu, se vuoi essere sacerdote di Dio - come sta scritto, "Voi tutti sarete sacerdoti del Signore" e a te è detto "Stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquistato" - se vuoi esercitare il sacerdozio della tua anima, non lasciare mai che si allontani il fuoco dal tuo altare" (Omelia sul Levitico, 4, 6).

Qui l'Alessandrino allude scopertamente alle condizioni spirituali, che rendono il fedele più o meno degno di esercitare il suo sacerdozio. Così infatti prosegue l'omelia: "Ciò significa quello che il Signore comanda nei Vangeli, che "siano i vostri fianchi cinti e le vostre lucerne accese". Dunque sia sempre acceso per te il fuoco della fede e la lucerna della scienza".

In definitiva, da una parte i "fianchi cinti" e gli "indumenti sacerdotali", vale a dire la purezza e l'onestà della vita, dall'altra il "fuoco sempre acceso", cioè la fede e la scienza delle Scritture - perché non esiste per l'Alessandrino un'altra scienza vera, se non questa - rappresentano per Origene i requisiti indispensabili di un'autentica vita cristiana.
Tuttavia Origene nelle sue opere insiste molto di più sul "fuoco acceso", cioè sulla lettura e sulla meditazione della Parola di Dio, che sui "fianchi cinti".

In ogni caso, la vera "tessera" per accedere al cammino di perfezione è per lui la scienza delle Scritture, cioè quella medesima thèia anàgnosis che egli raccomanda a Gregorio, quando gli scrive: "Dédicati alla lectio delle divine Scritture; applicati a questo con perseveranza. Impégnati nella lectio con l'intenzione di credere e di piacere a Dio. Se durante la lectio ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa e te l'aprirà quel custode, del quale Gesù ha detto: "Il guardiano gliela aprirà". Applicandoti così alla lectio divina, cerca con lealtà e fiducia incrollabile in Dio il senso delle Scritture divine, che in esse si cela con grande ampiezza. Non ti devi però accontentare di bussare e di cercare: per comprendere le cose di Dio ti è assolutamente necessaria l'oratio. È per esortarci a essa che il Salvatore ci ha detto non soltanto: "Cercate e troverete" e "Bussate e vi sarà aperto", ma ha aggiunto: "Chiedete e riceverete"" (Lettera a Gregorio, 4).

Colui che per primo ha raccolto ed elaborato la dottrina esegetica di Origene in Occidente è Ambrogio. Si può dire anzi che egli ha trasferito in ambiente latino la thèia anàgnosis origeniana, iniziando così la storia di quella lectio divina, che verrà codificata compiutamente solo in età medievale.

Sappiamo che nel leggere la Scrittura, come nell'accostarne i vari personaggi, Ambrogio usava il metodo allegorico-spirituale, che di fatto presiede alla lectio divina. Infatti la lettura spirituale della Bibbia - così come la intendevano i padri alessandrini, e come Ambrogio imparò a praticarla - implica contemporaneamente l'attenzione all'esegesi letterale e storica, ma soprattutto l'anelito incessante di andare oltre il velo della lettera.
In questo senso Ambrogio allude più volte alla lectio divina, espressione che proprio nei suoi scritti compare per la prima volta nella letteratura cristiana latina.

Nel De bono mortis egli si propone di svolgere la riflessione prendendo esempio dalla lectio di alcuni testi biblici. Spiegando il Salmo 118 (119), raccomanda l'esercizio della cotidiana lectio e della frequente meditatio, perché l'anima sia nutrita dalla linfa del Vangelo. Infine, commentando la risposta di Gesù a Satana, "Non di solo pane vivrà l'uomo" (Luca, 4, 4), Ambrogio annota che con tali parole Gesù ci esorta a "nutrirci del Verbo celeste" mediante la lectio divina.

Da parte sua Agostino, "discepolo di Ambrogio", raccomandava ad Antonino e alla sua famiglia il nutrimento della lectio divina, e nel De opere monachorum fissava un posto preciso alla lectio nella giornata del monaco.

Così, a conclusione di questo itinerario storico-teologico, propongo una sorta di icona patristica, che, interpretata alla luce di quello che è stato detto, può rappresentare in estrema sintesi gli inizi della lectio divina in Occidente.

Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio. Agostino scrive testualmente che, quando si recava dal vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava; oppure, quando non era con loro - e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo - o ristorava il corpo con il necessario, o alimentava lo spirito con letture. E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi: "cum legebat - scrive Agostino - oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur, vox autem et lingua quiescebant" (Confessioni, 6, 3).

Come è noto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di lettura e di intimità con le Scritture.

Ebbene, in quella "lettura a fior di labbra", dove il cuore si impegna a raggiungere l'intelligenza delle Scritture, si può intravedere il seme della lectio divina in Occidente: Agostino stesso lo raccolse dal vescovo Ambrogio, per consegnarlo alla tradizione monastica e ai suoi sviluppi successivi, fino ai nostri giorni.



(©L'Osservatore Romano - 31 agosto - 1 settembre 2009)

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