PREDICHE QUARESIMALI 2010 DI PADRE CANTALAMESSA

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Caterina63
00venerdì 5 marzo 2010 15:10

Prima predica di padre Cantalamessa per la Quaresima 2010


“Misteri di una alleanza nuova”


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la prima predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

Il tema delle meditazioni di quest'anno è “Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti”, in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

Le due prediche successive avranno luogo il 12 e il 26 marzo.



* * *

Il Signore mi concede di essere testimone della grazia straordinaria che si sta rivelando per la Chiesa quest’anno sacerdotale. Non si contano i ritiri del clero che si tengono in varie parti del mondo. A uno di questi ritiri, organizzato a Manila dalla conferenza episcopale delle Filippine, nel gennaio scorso, hanno preso parte 5.500 sacerdoti e 90 vescovi. È stato, a detta del cardinale di Manila, una nuova Pentecoste. Durante un’ora di adorazione guidata, all’invito del predicatore, tutta quella immensa distesa di sacerdoti in bianche vesti ha gridato a una sola voce: “Lord Jesus, we are happy to be your priests”: Signore Gesù, siamo felici di essere tuoi sacerdoti!”. E si vedeva dai volti che non erano solo parole. La stessa esperienza, in numero più ridotto, l’ho vissuta in diversi altri paesi. Tutti mi hanno pregato di trasmettere al Santo Padre il loro grazie e il loro saluto e io lo faccio con gioia in questo momento.

1. I “misteri” di Dio

La parola di Dio che ci guida in queste riflessioni per l’anno sacerdotale è 1 Corinzi 4, 1: “Si nos existimet homo, ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei”; quello che ognuno deve pensare di noi è che siamo "ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio”. Abbiamo meditato in Avvento la prima parte di questa definizione: il sacerdote come servitore di Cristo, nel potere e nell’unzione dello Spirito Santo. Ci resta, in questa Quaresima, di riflettere sulla seconda parte: il sacerdote come dispensatore dei misteri di Dio. Naturalmente quello che diciamo del sacerdote, vale a maggior ragione per il vescovo che possiede la pienezza del sacerdozio.

Il termine “misteri” ha due significati fondamentali: il primo è quello di verità nascoste e rivelate da Dio, i divini propositi annunciati velatamente nell’Antico Testamento e rivelati agli uomini nella pienezza dei tempi; il secondo è quello di “segni concreti della grazia”, in pratica i sacramenti. La Lettera agli Ebrei riunisce i due significati nell’espressione: “le cose che riguardano Dio” (ta pros ton Theon, ea que sunt ad Deum); accentua anzi proprio il significato rituale e sacramentale, dicendo che il compito del sacerdote (l’autore parla però qui del sacerdozio in genere, dell’Antico e del Nuovo Testamento) è quello di “offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1).

Questo secondo significato si afferma soprattutto nella tradizione della Chiesa. Sacramentum è il termine con cui, nel latino ecclesiastico, viene tradotta la parola mysterion. Sant’Ambrogio scrive due trattati sui riti dell’iniziazione cristiana, visti come compimento di figure e profezie dell’Antico Testamento; uno lo intitola “De sacramentis” e l’altro “De mysteriis”, anche se trattano in pratica lo stesso argomento.

Ritornando alla parola dell’Apostolo, il primo di questi due significati mette in luce il ruolo del sacerdote nei confronti della parola di Dio, il secondo il suo ruolo nei confronti dei sacramenti. Insieme delineano la fisionomia del sacerdote come testimone della verità di Dio e come ministro della grazia di Cristo, come annunciatore e come sacrificatore.

Per molti secoli la funzione del sacerdote è stata ridotta quasi esclusivamente al suo ruolo di liturgo e di sacrificatore: “offrire sacrifici e perdonare i peccati”. È stato il Concilio Vaticano II a rimettere in evidenza, accanto alla funzione cultuale, quella di evangelizzatore. In linea con quello che la Lumen gentium aveva detto della funzione dei vescovi di “insegnare” e “santificare”, la Presbyterorum ordinis scrive:

“Dato che i presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione degli apostoli, ad essi è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra le nazioni mediante il sacro ministero del Vangelo, affinché le nazioni diventino un'offerta gradita, santificata nello Spirito Santo (Rom 15,16). È infatti proprio per mezzo dell'annuncio apostolico del Vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato [...] Il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo”[1].

Delle tre meditazioni di Quaresima (il Venerdì 19 Marzo, si omette la predica per la festa di san Giuseppe) ne dedicheremo una al tema del sacerdote come ministro della parola di Dio, una al sacerdote come ministro dei sacramenti e una più esistenziale, al rinnovamento del sacerdozio mediante la conversione al Signore.

2. La lettera e lo Spirito

A partire dal III secolo si nota una tendenza a modellare -nei requisiti, nei riti, nei titoli, nelle vesti - il sacerdozio cristiano su quello levitico dell’Antico Testamento[2]; una tendenza che si riflette in documenti canonici come le Costituzioni apostoliche, la Didascalia siriaca e altre fonti simili. Proprio questa assimilazione esterna, fa sentire più urgente il bisogno di riscoprire, in una occasione come questa, la novità e alterità sostanziale del ministero della nuova alleanza rispetto a quello dell’antica. È l’energica affermazione paolina che vorrei mettere al centro della presente meditazione:

“La nostra capacità viene da Dio. Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di una nuova alleanza, non di lettera, ma di Spirito; perché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica. Or se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, fu glorioso, al punto che i figli d'Israele non potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a motivo della gloria, che pur svaniva, del volto di lui,  quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito?” (2Cor 3, 5-8).

Che cosa l’Apostolo intende con l’opposizione lettera – Spirito, lo si deduce da quello che ha scritto poco sopra, parlando della comunità del Nuovo Testamento: “È noto che voi siete una lettera di Cristo, scritta mediante il nostro servizio, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne” (2 Cor 3, 3).

La lettera è dunque la legge mosaica scritta su tavole di pietra e, per estensione ogni legge positiva esteriore all’uomo; lo Spirito è la legge interiore, scritta sui cuori, quella che altrove l’Apostolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù e che libera dalla legge del peccato e della morte” (cf. Rom 8, 2).

Sant’Agostino ha scritto un trattato sul nostro testo – il De Spiritu et littera - che è una pietra miliare nella storia del pensiero cristiano. La novità della nuova alleanza rispetto all’antica, egli spiega, è che Dio non si limita più a comandare all’uomo di fare o non fare, ma fa egli stesso con lui e in lui le cose che gli comanda. “Dove la legge delle opere impera minacciando, la legge della fede impetra credendo…Con la legge delle opere Dio dice all’uomo: ‘Fa’ quello che ti comando’, con la legge della fede l’uomo dice a Dio: ‘Da’ quello che mi comandi’”[3].

La legge nuova che è lo Spirito è ben più che una “indicazione” di volontà; è un’“azione”, un principio vivo e attivo. La legge nuova è la vita nuova. L’opposizione lettera – Spirito equivale in san Paolo, all’opposizione legge – grazia: “Non siete più sotto la legge, scrive, ma sotto la grazia” (Rom 6,14).

Anche nell’antica alleanza è presente l’idea di grazia, nel senso di benevolenza, favore e perdono di Dio (la hesed): “Farò grazia a chi vorrò far grazia” (Es 33,19); i salmi sono pieni di questo concetto. Ma ora la parola grazia, charis, ha acquistato un significato nuovo, storico: è la grazia che viene dalla morte e risurrezione di Cristo e che giustifica il peccatore. Non è più solo una benevola disposizione, ma una realtà, uno “stato”: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi” (Rom 5, 1-2).

Giovanni descrive il rapporto tra antica e nuova alleanza allo stesso modo di Paolo: “La legge –scrive - è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17).

Da ciò si deduce che la legge nuova, o dello Spirito, non è, in senso stretto, quella promulgata da Gesù sul monte delle beatitudini, ma quella da lui incisa nei cuori a Pentecoste. I precetti evangelici sono certo più elevati e perfetti di quelli mosaici; tuttavia, da soli, anch’essi sarebbero rimasti inefficaci. Se fosse bastato proclamare la nuova volontà di Dio attraverso il Vangelo, non si spiegherebbe che bisogno c’era che Gesù morisse e che venisse lo Spirito Santo; non si spiega perché il Gesù di Giovanni fa dipendere tutto dalla sua “elevazione”, cioè dalla sua morte di croce (cf. Gv 7, 39; 16, 7-15).

Gli apostoli sono la prova vivente di ciò. Essi avevano ascoltato dalla viva voce di Cristo tutti i precetti evangelici, per esempio che “chi vuol essere il primo deve farsi l’ultimo e il servo di tutti”, ma fino alla fine li vediamo preoccupati di stabilire chi fosse il più grande fra di loro. Solo dopo la venuta dello Spirito su di loro li vediamo completamente dimentichi di sé e intenti solo a proclamare “le grandi opere di Dio” (cf. At 2, 11).

Senza la grazia interiore dello Spirito, anche il Vangelo, dunque, anche il comandamento nuovo, sarebbe rimasto legge vecchia, lettera. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino scrive: “Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[4]. Ancora più esplicito è ciò che ha scritto un po’ prima: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[5].

3. Non per costrizione, ma per attrazione

Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova che è lo Spirito? Agisce attraverso l’amore! La legge nuova altro non è se non quello che Gesù chiama il “comandamento nuovo”. Lo Spirito Santo ha scritto la legge nuova nei nostri cuori, infondendo in essi l’amore (Rom 5, 5). Questo amore è l’amore con cui Dio ama noi e con cui, contemporaneamente, fa sì che noi amiamo lui e il prossimo. È una capacità nuova di amare.

Non è un controsenso parlare dell’amore come di una “legge”? A questa domanda si deve rispondere che vi sono due modi secondo cui l’uomo può essere indotto a fare, o a non fare, una certa cosa: o per costrizione o per attrazione. La legge esterna ve lo induce nel primo modo, per costrizione, con la minaccia del castigo; l’amore ve lo induce nel secondo modo, per attrazione. Ciascuno infatti è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione dall’esterno. L’amore è come un “peso” dell’anima che attira verso l’oggetto del proprio piacere, in cui sa di trovare il proprio riposo[6]. La vita cristiana va vissuta per attrazione, non per costrizione.

L’amore dunque è una legge, “la legge dello Spirito”, nel senso crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama.

Che posto ha, ci domandiamo, in questa economia dello Spirito, l’osservanza dei comandamenti? Anche dopo la venuta di Cristo sussiste infatti la legge scritta: ci sono i comandamenti di Dio, il decalogo, ci sono i precetti evangelici; a essi si sono aggiunte, in seguito, le leggi ecclesiastiche. Che senso hanno il Codice di diritto canonico, le regole monastiche, i voti religiosi, tutto ciò, insomma, che indica una volontà oggettivata, che mi si impone dall’esterno? Sono, tali cose, come dei corpi estranei nell’organismo cristiano?

Ci sono stati, nel corso della storia della Chiesa, dei movimenti che hanno pensato così e hanno rifiutato, in nome della libertà dello Spirito, ogni legge, tanto da chiamarsi, appunto, movimenti “anomisti”, ma essi sono stati sempre sconfessati dall’autorità della Chiesa e dalla stessa coscienza cristiana. La risposta cristiana a questo problema ci viene dal Vangelo. Gesù dice di non essere venuto ad “abolire la legge”, ma a “darle compimento” (cf Mt 5, 17). E qual è il “compimento” della legge? “Pieno compimento della legge – risponde l’Apostolo – è l’amore!” (Rom 13, 10). Dal comandamento dell’amore – dice Gesù – dipendono tutta la legge e i profeti (cf Mt 22, 40).

L’obbedienza diventa così la prova che si vive sotto la grazia. “Se mi amate, osservate i miei comandamenti” (Gv 14,15). L’amore, allora, non sostituisce la legge, ma la osserva, la “compie”. Nella profezia di Ezechiele si attribuiva precisamente al dono futuro dello Spirito e del cuore nuovo, la possibilità di osservare la legge di Dio: “Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36, 27). “È stata data la legge –scrive lapidariamente Agostino – perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [7].

4. Attualità del messaggio della grazia

Fin qui le conseguenze che il messaggio paolino sulla nuova alleanza può avere sul modo di concepire e vivere la vita cristiana. In questa occasione vorrei però mettere in evidenza soprattutto la luce che esso getta sul problema dell’evangelizzazione nel mondo attuale e del dialogo interreligioso e, di conseguenza, sul ruolo del sacerdote come ministro della verità di Dio.

Agostino scrisse il suo trattato su La lettera e lo Spirito per combattere la tesi pelagiana secondo cui per salvarsi è sufficiente che Dio ci abbia creati, dotati del libero arbitrio e dato una legge che ci indica la sua volontà. In pratica, la tesi che l’uomo può salvarsi da solo e che la venuta di Cristo è, certo, un aiuto straordinario, ma non indispensabile per la salvezza.

Si può discutere – e oggi si discute tra gli studiosi – se il santo abbia interpretato correttamente il pensiero del monaco Pelagio. Ma questo non dovrebbe sorprenderci. I Padri che si sono trovati a combattere delle eresie hanno spesso esplicitato quelle che (dal loro punto di vista!) erano le implicazioni logiche di una certa dottrina, senza tener conto sempre del punto di vista e del linguaggio diverso dell’avversario. Erano più preoccupati della dottrina che delle persone, della verità dogmatica che di quella storica. Agostino, anzi, si mostra assai più rispettoso e cortese nei riguardi di Pelagio di quanto non lo fosse, per esempio, Cirillo d’Alessandria nei confronti di Nestorio.

La rivalutazione moderna di autori come Pelagio o Nestorio non significa dunque minimamente rivalutazione del pelagianesimo o del nestorianesimo. Questa distinzione ha contribuito, in tempi recenti, al ristabilimento della comunione con le chiese cosiddette nestoriane o monofisite d’oriente.

Tutto questo, però, ci interessa relativamente. La cosa importante da ritenere è che Agostino ha ragione sul problema principale: per salvarsi non basta la natura, il libero arbitrio e la guida della legge, occorre la grazia, cioè occorre Cristo. Pensare diversamente significherebbe rendere superflua la sua venuta e con essa la sua morte e la redenzione; significherebbe considerare Cristo un esempio di vita, non “causa di salvezza eterna per chiunque crede” (Eb 5, 9).

È su questo punto che il pensiero di Agostino – e prima di lui quello di Paolo – si rivela di una straordinaria attualità. Quello che, secondo l’Apostolo, distingue la nuova dall’antica alleanza, lo Spirito dalla lettera, la grazia dalla legge, fatte le debite distinzioni, è esattamente ciò che distingue oggi il cristianesimo da ogni altra religione.

Le forme sono cambiante, ma la sostanza è la stessa. “Opera della legge”, o opera dell’uomo, è ogni pratica umana, quando da essa si fa dipendere la propria salvezza, sia, questa, concepita come comunione con Dio, o come comunione con se stessi e sintonia con le energie dell’universo. Il presupposto è lo stesso: Dio non si dona, lo si conquista!

Possiamo illustrare la differenza così. Ogni religione umana o filosofia religiosa comincia con il dire all’uomo quello che deve fare per salvarsi: i doveri, le opere, siano esse opere ascetiche esteriori o cammini speculativi verso il proprio io interiore, il Tutto o il Nulla. Il cristianesimo non comincia dicendo all’uomo quello che deve fare, ma quello che Dio ha fatto per lui. Gesù non cominciò a predicare dicendo: “Convertitevi e credete al vangelo affinché il Regno venga a voi”; cominciò dicendo: “Il regno di Dio è venuto tra voi: convertitevi e credete al vangelo”. Non prima la conversione, poi la salvezza, ma prima la salvezza e poi la conversione.

Anche nel cristianesimo –lo abbiamo già ricordato – esistono i doveri e i comandamenti, ma il piano dei comandamenti, compreso il più grande di tutti che è amare Dio e il prossimo, non è il primo piano, ma il secondo; prima di esso, c’è il piano del dono, della grazia. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). È dal dono che scaturisce il dovere, non viceversa

Noi cristiani non entreremo certo in dialogo con altre fedi, affermando la differenza o la superiorità della nostra religione; questo sarebbe la negazione stessa del dialogo. Insisteremo piuttosto su ciò che ci unisce, gli obiettivi comuni, riconoscendo agli altri lo stesso diritto (almeno soggettivo) di considerare la loro fede la più perfetta e la definitiva. Senza dimenticare, del resto, che chi vive con coerenza e in buona fede una religione delle opere e della legge è migliore e più gradito a Dio di chi appartiene alla religione della grazia, ma trascura completamente sia di credere nella grazia che di compiere le opere della fede.

Tutto questo non deve però indurci a mettere tra parentesi la nostra fede nella novità e unicità di Cristo. Non si tratta neppure di affermare la superiorità di una religione sulle altre, ma di riconoscere la specificità di ognuna, di sapere chi siamo e cosa crediamo.

Non è difficile spiegare il perché della difficoltà ad ammettere l’idea di grazia e del suo istintivo rifiuto da parte dell’uomo moderno. Salvarsi “per grazia” significa riconoscere la dipendenza da qualcuno e questo risulta la cosa più difficile. È nota l’affermazione di Marx: “Un essere non si presenta indipendente se non in quanto è signore di se stesso, e non è signore di se stesso se non in quanto deve a se stesso la sua esistenza. Un uomo che vive per la “grazia” di un altro si considera un essere dipendente [...]. Ma io vivrei completamente per la grazia di un altro, se egli avesse creato la mia vita, se egli fosse la sorgente della mia vita e questa non fosse mia propria creazione”[8].Il motivo per cui si rifiuta un Dio creatore è anche quello per cui si rifiuta un Dio salvatore.

È la spiegazione che san Bernardo da del peccato di Satana: egli preferì essere la più infelice delle creature per merito proprio, anziché la più felice per grazia altrui; preferì essere “infelice ma sovrano, anziché felice ma dipendente: misere praeesse, quam feliciter subesse[9].

Il rifiuto del cristianesimo, in atto a certi livelli della nostra cultura occidentale, quando non è rifiuto della Chiesa e dei cristiani, è rifiuto della grazia.

5. “Noi predichiamo Cristo Gesù Signore”

Qual è, in questo campo, il compito dei sacerdoti in quanto amministratori dei misteri di Dio e maestri della fede? Quello di aiutare i fratelli a vivere la novità della grazia, che è come dire la novità di Cristo.

Gesù nel vangelo usa l’espressione “i misteri del Regno dei cieli” per indicare tutto il suo insegnamento e, in particolare, ciò che riguarda la sua persona (cf. Mt 13, 11). Dopo la Pasqua si passa sempre più spesso dal plurale al singolare, dai misteri al mistero: tutti i misteri di Dio si riassumono ormai nel mistero che è Cristo.

San Paolo parla del “mistero di Dio, cioè Cristo,  nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Col 2, 2-3). Ci invita a pensare a Cristo come a un palazzo, addentrandosi nel quale si passa di meraviglia in meraviglia. L’universo materiale, con tutte le sue bellezze e la sua incalcolabile estensione, è l’unica immagine adeguata dell’universo spirituale che è Cristo. Non per nulla esso è stato fatto “per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16).

L’Apostolo ha individuato con più chiarezza di tutti il centro e il cuore dell’annuncio cristiano e lo ho espresso in maniera programmatica, a modo di manifesto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1, 23) e “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore” (2 Cor 4,5). Tali parole giustificano in pieno l’affermazione secondo cui il cristianesimo non è una dottrina ma una persona.

Ma cosa significa, nella pratica, predicare “Cristo crocifisso”, o “Cristo Gesù Signore?” Non significa parlare sempre e solo del Cristo del kerygma o del Cristo del dogma, cioè trasformare le prediche in lezioni di cristologia. Significa piuttosto “ricapitolare tutto in Cristo” (Ef 1,10), fondare ogni dovere su di lui, far servire ogni cosa allo scopo di portare gli uomini alla “sublime conoscenza di Cristo Gesù Signore” (Fil 3, 8).

Gesù deve essere l’oggetto formale, non necessariamente e sempre l’oggetto materiale, della predicazione, quello che la “informa”, che fa da fondamento e da autorità a ogni altro annuncio, l’anima e la luce dell’annuncio cristiano. “Arido è ogni cibo dell’anima – esclama san Bernardo - se non è condito con questo olio; insipido se non è condito con questo sale. Ciò che scrivi non ha sapore - non sapit mihi – se non vi palpita dentro il cuore di Gesù – nisi sonuerit ibi Cor Jesu”[10].

Nella Liturgia delle ore di lingua tedesca, il Stundengebet, c’è un inno (Lodi del Martedì della seconda settimana) che mi è divenuto caro fin dal primo momento che l’ho recitato. Comincia così: "Göttliches Wort, der Gottheit Schrein, für uns in dein Geheimnis ein”. “Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci penetrare nel tuo mistero“. L’espressione “il mistero di Cristo” è la più comprensiva di tutte: racchiude il suo essere e il suo agire, la sua umanità e la sua divinità, la sua preesistenza e la sua incarnazione, le profezie dell’Antico Testamento e la loro realizzazione nella pienezza dei tempi. Possiamo ripeterlo come una giaculatoria: “Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci penetrare nel tuo mistero".



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1) PO, 2.

2) Cf. J.-M. Tillard, “Sacerdoce”, in DSpir. 14, col.12.

3) Agostino, De Spiritu et littera, 13,22.

4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 2.

5) Ibid., q. 106, a. 1; cf. Agostino, De Spiritu et littera, 21, 36.

6) Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26, 4-5: CCL 36, 261; Confessioni, XIII, 9.

7) Agostino, De Spir. et litt. ,19,34.

8) C. Marx, Manoscritti del 1844, in Gesamtausgabe, III, Berlino 1932, p. 124 e Critica della filosofia del diritto di Hegel, in Gesamtausgabe, I, 1, Francoforte sul M. 1927, p. 614 s.

9) Bernardo di Chiaravalle, De gradibus humilitatis, X, 36: PL 182, 962.

10) Bernardo di Chiaravalle, Sermones super Canticum, XV, 6: Ed. Cistercense, Roma 1957, p.86.


Caterina63
00venerdì 12 marzo 2010 22:40

Seconda predica di padre Cantalamessa per la Quaresima 2010


"Cristo offrì se stesso a Dio"


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la seconda predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

Il tema delle meditazioni di quest'anno è "Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti", in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

La prima predica è stata pronunciata il 5 marzo, quella successiva avrà luogo il 26 marzo.

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1. La novità del sacerdozio di Cristo

In questa meditazione vogliamo riflettere sul sacerdote come amministratore dei misteri di Dio, intendendo, questa volta, per "misteri" i segni concreti della grazia, i sacramenti. Non possiamo soffermarci su tutti i sacramenti,  ci limitiamo al sacramento per eccellenza che è l'Eucaristia. Così fa anche la Presbyterorum Ordinis che, dopo aver parlato dei presbiteri come evangelizzatori, prosegue dicendo che " il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo" che essi rinnovano misticamente sull'altare[1].

Questi due compiti del sacerdote sono quelli che anche gli apostoli riservarono a se stessi: "Quanto a noi -dichiara Pietro negli Atti -, continueremo a dedicarci alla preghiera e al ministero della Parola" (At 6,4). La preghiera di cui egli parla non è la preghiera privata; è la preghiera liturgica comunitaria che ha al suo centro la frazione del pane. La Didaché permette di vedere come l'Eucaristia nei primi tempi veniva offerta proprio nel contesto della preghiera della comunità, come parte di essa e suo culmine[2].

Come il sacrificio della Messa non si concepisce se non in dipendenza dal sacrificio della croce, così il sacerdozio cristiano non si spiega se non in dipendenza e come partecipazione sacramentale al sacerdozio di Cristo. È da qui che dobbiamo partire per scoprire la caratteristica fondamentale e i requisiti del sacerdozio ministeriale.

La novità del sacrificio di Cristo rispetto al sacerdozio dell'antica alleanza (e, come oggi sappiamo,  rispetto a ogni altra istituzione sacerdotale anche fuori della Bibbia) è messa in rilievo nella Lettera agli Ebrei da diversi punti di vista: Cristo non ha avuto bisogno di offrire vittime anzitutto per i propri peccati, come ogni sacerdote (7,27); non ha bisogno di ripetere più volte il sacrificio, ma "una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (9, 26). Ma la differenza fondamentale è un'altra. Sentiamo come essa viene descritta:

"Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri [...] è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!" (Eb 9, 11-14).

Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto se stesso; ogni altro sacerdote offre delle vittime, Cristo si è offerto vittima! Sant'Agostino ha racchiuso in una formula celebre questo nuovo genere di sacerdozio, in cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa: "Ideo victor, quia victima, et ideo sacerdos, quia sacrificium": vincitore perché vittima, sacerdote perché vittima"[3].

Nel passaggio dai sacrifici antichi al sacrificio di Cristo si osserva la stessa novità che nel passaggio dalla legge alla grazia, dal dovere al dono, illustrata in una meditazione precedente. Da opera dell'uomo per placare la divinità e riconciliarla a sé, il sacrificio passa ad essere dono di Dio per placare l'uomo, farlo desistere dalla sua violenza e riconciliarlo a sé (cf. Col 1,20). Anche nel suo sacrificio, come in tutto il resto, Cristo è "totalmente altro".

2. "Imitate ciò che compite"

La conseguenza di tutto ciò è chiara: per essere sacerdote "secondo l'ordine di Gesù Cristo", il presbitero deve, come lui, offrire se stesso. Sull'altare, egli non rappresenta soltanto il Gesù "sommo sacerdote", ma anche il Gesù "somma vittima", essendo ormai le due cose inseparabili. In altre parole non può accontentarsi di offrire Cristo al Padre nei segni sacramentali del pane e del vino, deve anche offrire se stesso con Cristo al Padre. Raccogliendo un pensiero di sant'Agostino, la istruzione della S. Congregazione dei riti, Eucharisticum mysterium, scrive: "La Chiesa, sposa e ministra di Cristo, adempiendo con lui all'ufficio di sacerdote e vittima, lo offre al Padre e, insieme, offre tutta se stessa con lui" [4].

Quello che qui si dice della Chiesa intera, si applica in modo tutto speciale  al celebrante. Al momento dell'ordinazione, il vescovo rivolge agli ordinandi l'esortazione: "Agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis": "Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai". In altre parole: fai anche tu ciò che fa Cristo nella Messa, cioè offri te stesso a Dio in sacrificio vivente. Scrive san Gregorio Nazianzeno:

"Sapendo che nessuno è degno della grandezza di Dio, della Vittima e del Sacerdote, se non si è prima offerto lui stesso come sacrificio vivente e santo, se non si è presentato come oblazione ragionevole e gradita (cf Rom 12, 1) e se non ha offerto a Dio un sacrificio di lode e uno spirito contrito - l'unico sacrificio di cui l'autore di ogni dono domanda l'offerta -, come oserò offrirgli l'offerta esteriore sull'altare, quella che è la rappresentazione dei grandi misteri?"[5].

Mi permetto di dire come io stesso ho scoperto questa dimensione del mio sacerdozio perché può forse aiutare a capire meglio. Dopo la mia ordinazione, ecco come io vivevo il momento della consacrazione: chiudevo gli occhi, chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò che mi circondava per immedesimarmi in Gesù che, nel cenacolo, pronunciò per la prima volta quelle parole: "Accipite et manducate...", "Prendete, mangiate...".

La liturgia stessa favoriva questo atteggiamento, facendo pronunciare le parole della consacrazione a voce bassa e in latino, chinati sulle specie, rivolti all'altare e non al popolo. Poi, un giorno, ho capito che tale atteggiamento, da solo, non esprimeva tutto il significato della mia partecipazione alla consacrazione. Chi presiede invisibilmente a ogni Messa è il Gesù risorto e vivo, il Gesù, per essere esatti, che era morto, ma ora vive per sempre (cf. Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il "Cristo totale", Capo e corpo inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo Cristo totale che pronuncia le parole della consacrazione, anch'io le pronuncio con lui. Dentro l'"Io" grande del Capo, c'è nascosto il piccolo "io" del corpo che è la Chiesa, c'è anche il mio piccolissimo "io".

Da allora,  mentre, come sacerdote ordinato dalla Chiesa, pronuncio le parole della consacrazione "in persona Christi", credendo che, grazie allo Spirito Santo, esse hanno il potere di cambiare il pane nel corpo di Cristo e il vino nel suo sangue, allo stesso tempo, come membro del corpo di Cristo,  non chiudo più gli occhi, ma guardo i fratelli che ho davanti, o, se celebro da solo, penso a coloro che devo servire durante il giorno e, rivolto a essi, dico mentalmente, insieme con Gesù: "Fratelli e sorelle, prendete, mangiate: questo è il mio corpo; prendete, bevete, questo è il mio sangue".

In seguito ho trovato una singolare conferma negli scritti della venerabile Concepciòn Cabrera de Armida, detta Conchita, la mistica messicana, fondatrice di tre ordini religiosi, di cui è in corso il processo di beatificazione. Al suo figlio gesuita, in procinto di essere ordinato sacerdote, ella scriveva: "Ricordati, figlio mio, quando terrai in mano l'Ostia Santa, tu non dirai: Ecco il corpo di Gesù, ecco il suo sangue, ma dirai: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue: cioè deve operarsi in te una trasformazione totale, devi perderti in lui, essere un altro Gesù"[6].

L'offerta del sacerdote e di tutta la Chiesa, senza quella di Gesù, non sarebbe né santa, né gradita a Dio, perché siamo solo creature peccatrici, ma l'offerta di Gesù, senza quella del suo corpo che è la Chiesa, sarebbe anch'essa incompleta e insufficiente: non, s'intende, per procurare la salvezza, ma  perché noi la riceviamo e ce ne appropriamo. È in questo senso che la Chiesa può dire con san Paolo: "Completo nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo" (cf. Col 1, 24).

Possiamo illustrare con un esempio ciò che avviene ad ogni Messa. Immaginiamo che in una famiglia c'è uno dei figli, il primogenito, affezionatissimo al padre. Per il suo compleanno vuole fargli un regalo. Prima però di presentarglielo chiede, in segreto, a tutti i fratelli e le sorelle di apporre la loro firma sul dono. Questo arriva dunque nelle mani del padre come l'omaggio indistinto di tutti i suoi figli e come un segno della stima e dell'amore di tutti loro, ma, in realtà, uno solo ha pagato il prezzo di esso.

E ora l'applicazione. Gesú ammira ed ama sconfinatamente il Padre celeste. A lui vuol fare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il dono più prezioso che si possa  pensare, quello della sua stessa vita. Nella Messa egli invita tutti i suoi "fratelli", che siamo noi, ad apporre la loro firma sul dono, di modo che esso giunge a Dio Padre come il dono indistinto di tutti i suoi figli, "il mio e vostro sacrificio", lo chiama il sacerdote nell'Orate fratres. Ma, in realtà, sappiamo che uno solo ha pagato il prezzo di tale dono. E quale prezzo!

3. Il corpo e il sangue

Per capire le conseguenze pratiche che derivano per il sacerdote da tutto questo, è necessario tener conto del significato della parola "corpo" e della parola "sangue". Nel linguaggio biblico, la parola corpo, come la parola carne, non indica, come per noi oggi, una terza parte della persona come nella tricotomia greca (corpo, anima, nous); indica tutta la persona, in quanto vive in una dimensione corporea.( "Il Verbo si fece carne", significa si fece uomo, non ossa, muscoli, nervi!). A sua volta, "sangue" non indica una parte di una parte dell'uomo. Il sangue è sede della vita, perciò l'effusione del sangue è segno della morte.

Con la parola "corpo" Gesù ci ha donato la sua vita, con la parola sangue ci ha donato la sua morte. Applicato a noi, offrire il corpo significa offrire il tempo, le risorse fisiche, mentali, un sorriso che è tipico di uno spirito che vive in un corpo; offrire il sangue significa offrire la morte. Non soltanto il momento finale della vita, ma tutto ciò che già fin da ora anticipa la morte: le mortificazioni, le malattie, le passività, tutto il negativo della vita.

Proviamo a immaginare la vita sacerdotale vissuta con questa consapevolezza. Tutta la giornata, non solo il momento della celebrazione, è una eucaristia: insegnare, governare, confessare, visitare i malati, anche il riposo, anche lo svago, tutto. Un  maestro spirituale, il gesuita francese Pierre Olivaint, diceva: "Le matin, moi prêtre, Lui victime; le long du jour Lui prêtre, moi victime: il mattino (a quel tempo la Messa si celebrava solo di mattina) io sacerdote, Lui (Cristo) vittima ; lungo la giornata, Lui sacerdote, io vittima. "Come fa bene un prete -diceva il Santo curato d'Ars - a offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine"[7].

Grazie all'Eucaristia, anche la vita del sacerdote anziano, malato, e ridotto all'immobilità, è preziosissima per la Chiesa. Lui offre "il sangue". Feci visita una volta a un sacerdote malato di tumore. Si stava preparando per celebrare una delle sue ultime Messe con l'aiuto di un sacerdote giovane. Aveva anche una malattia agli occhi per cui lacrimava in continuazione. Mi disse: "Non avevo mai capito l'importanza di dire anche a nome mio nella Messa: "Prendete, mangiate; prendete bevete...". Adesso l'ho capito. È tutto quello che mi resta e lo dico in continuazione pensando ai miei parrocchiani. Ho capito cosa vuol dire essere "pane spezzato" per gli altri.

4. A servizio del sacerdozio universale dei fedeli

Una volta scoperta questa dimensione esistenziale, dell'Eucaristia, è compito pastorale del sacerdote aiutare a viverla anche al resto del popolo di Dio. L'anno sacerdotale non dovrebbe rimanere una opportunità e una grazia solo per i preti, ma anche per i laici. La Presbyterorum ordinis afferma chiaramente che il sacerdozio ministeriale è a servizio del sacerdozio universale di tutti battezzati, affinché essi " possano offrire se stessi come  ostia viva, santa, accettabile da Dio (Rom 12,1). Infatti:

"È attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell'unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore"[8].

La costituzione Lumen gentium del Vaticano II, parlando del "sacerdozio comune" di tutti i fedeli,  scrive:

"I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia...Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con la oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in un altro" [9] .

L'Eucaristia è dunque l'atto di tutto il popolo di Dio, non solo nel senso passivo, che ridonda a beneficio di tutti, ma anche attivamente, nel senso che è compiuto con la partecipazione di tutti. Il fondamento biblico più chiaro di questa dottrina è Romani 12, 1: "Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente santo e gradito a Dio, è questo il vostro culto spirituale" .

Commentando queste parole di Paolo, san Pietro Crisologo, diceva:

"L'Apostolo vede così innalzati tutti gli uomini alla dignità sacerdotale per offrire i propri corpi come sacrificio vivente. O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L'uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca più fuori di sé ciò che deve immolare a Dio, ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica a Dio per sé... Fratelli, questo sacrificio è modellato su quello di Cristo...Sii dunque, o uomo, sii sacrifico e sacerdote di Dio"  [10].

Proviamo a vedere come il modo di vivere la consacrazione che ho illustrato potrebbe aiutare anche i laici a unirsi all'offerta del sacerdote. Anche il laico è chiamato, abbiamo visto, a offrirsi a Cristo, nella Messa. Può farlo usando le stesse parole di Cristo: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo"? Penso che nulla si opponga a ciò. Non facciamo la stessa cosa quando, per esprimere il nostro abbandono alla volontà di Dio, usiamo le parole di Gesù sulla croce: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito", o quando, nelle nostre prove, ripetiamo: "Passi da me questo calice", o altre parole del Salvatore? Usare le parole di Gesù aiuta ad unirsi ai suoi sentimenti.

La mistica messicana, ricordata sopra, sentiva rivolte anche a se, non solo al figlio sacerdote, le parole di Cristo: "Voglio che, trasformato in me per la sofferenza, per l'amore e per la pratica di tutte le virtù, salga verso il cielo questo grido della tua anima in unione con me: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" [11].

Il fedele laico deve solo essere consapevole che queste parole dette da lui, nella Messa o durante il giorno, non hanno il potere di rendere presente il corpo e il sangue di Cristo sull'altare. Egli non agisce, in questo momento, in persona Christi; non rappresenta Cristo, come fa il sacerdote ordinato, ma solo si unisce a Cristo. Perciò, non dirà le parole della consacrazione a voce alta, come il sacerdote, ma nel proprio cuore, pensandole, più che pronunziandole.

Proviamo a immaginare cosa avverrebbe se anche i laici, al momento della consacrazione, dicessero silenziosamente: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo. Prendete, bevete: questo è il mio sangue". Una mamma di famiglia celebra così la sua Messa, poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose. La sua vita è letteralmente sbriciolata; apparentemente non lascia traccia alcuna nella storia. Ma non è cosa da niente quello che fa: è un'eucaristia insieme con Gesù! Una suora dice anche lei, nel suo cuore, al momento della consacrazione: "Prendete, mangiate..."; poi va al suo lavoro giornaliero: bambini, malati, anziani. L'Eucaristia "invade" la sua giornata  che diventa come un prolungamento dell'Eucaristia.

Ma vorrei soffermarmi in particolare su due categorie di persone: i lavoratori e i giovani. Il pane eucaristico "frutto della terra e del lavoro dell'uomo",  ha qualcosa di importante da dire sul lavoro umano, e non solo su quello agricolo. Nel processo che porta dal chicco seminato in terra al pane sulla mensa, interviene l'industria con le sue macchine, il commercio, i trasporti e un'infinità di altre attività, in pratica tutto il lavoro umano. Insegniamo al lavoratore cristiano a offrire, nella Messa, il suo corpo e il suo sangue, cioè il tempo, il sudore, la fatica.  Il lavoro non sarà più alienante come nella visione marxista in cui esso finisce nel prodotto che viene venduto, ma santificante.

E cosa ha da dire l'Eucaristia ai giovani? Basta che pensiamo una cosa: cosa vuole il mondo dai giovani e dalle ragazze, oggi? Il corpo, nient'altro che il corpo! Il corpo, nella mentalità del mondo, è essenzialmente uno strumento di piacere e di sfruttamento. Qualcosa da vendere, da spremere finché è giovane e attraente, e poi da buttare via, insieme con la persona, quando non serve più a questi scopi. Specialmente il corpo della donna è divenuto una merce di consumo.

Insegniamo ai giovani e alle ragazze cristiane a dire, al momento della consacrazione: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo, offerto per voi". Il corpo viene così consacrato, diventa cosa sacra, non si può più "dare in pasto" alla  concupiscenza propria ed altrui, non si può più vendere, perché si è donato. E' diventato eucaristia con Cristo. L'apostolo Paolo scriveva ai primi cristiani: "Il corpo  non è per l'impudicizia, ma per il Signore...Glorificate dunque Dio con il vostro corpo (1 Cor 6, 13.20). E spiegava subito i due modi in cui si può glorificare Dio con il proprio corpo: o con il matrimonio o con la verginità, a secondo del carisma e della vocazione  di ognuno (cf. 1 Cor 7, 1 ss.).

5. Con l'opera dello Spirito Santo

Dove trovare la forza, sacerdoti e laici, per fare questa offerta totale di sé a Dio, per prendersi e sollevarsi, per così dire, da terra con le proprie mani? La risposta è: lo Spirito Santo! Cristo, abbiamo ascoltato all'inizio dalla Lettera agli Ebrei, offrì se stesso al Padre in sacrificio, "nello Spirito eterno" (Eb 9, 14), cioè grazie allo Spirito Santo. Fu lo Spirito Santo che come suscitava nel cuore umano di Cristo l'impulso alla preghiera (cf. Lc 10,21), così suscitò in lui l'impulso e anzi il desiderio di offrirsi al Padre in sacrificio per l'umanità.

Papa Leone XIII, nella sua enciclica sullo Spirito Santo, dice che "Cristo ha compiuto ogni sua opera, e specialmente il suo sacrificio, con l'intervento dello Spirito Santo (praesente Spiritu)"[12] e nella Messa, prima della comunione, il sacerdote prega dicendo: "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l'opera dello Spirito Santo (cooperante Spiritu Sancto), morendo hai dato la vita al mondo...". Questo spiega perché nella Messa ci sono due "epiclesi", cioè due invocazioni dello Spirito Santo: una, prima della consacrazione, sul pane e sul vino, e una, dopo la consacrazione, sull'intero corpo mistico.

Con le parole di una di queste epiclesi (Preghiera eucaristica III), chiediamo al Padre il dono del suo Spirito per essere a ogni Messa, come Gesù, sacerdoti e insieme sacrificio: "Egli (lo Spirito Santo) faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno  promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri e tutti i santi nostri intercessori presso di te".

[1] PO, 2.

[2] Didachè, 9-10.

[3] Agostino, Confessioni, 10,43.

[4] Eucharisticum mysterium, 3; cf. Agostino, De civitate Dei, X, 6 (CCL 47, 279).

[5] Gregorio Nazianzeno, Oratio 2, 95 (PG 35, 497).

[6] In Diario spirituale di una madre di famiglia, a cura di M.-M. Philipon, Roma, Città Nuova, 1985, p. 117.

[7] Citato da Benedetto XVI nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale.

[8] PO, 2.

[9] Lumen gentium, 10-11.

[10] Pietro Crisologo, Sermo 108 (PL 52, 499 s.).

[11] Diario, cit., p. 199.

[12] Leone XIII, Enc. "Divinum illud munus", 6.

Caterina63
00sabato 27 marzo 2010 20:06

Terza predica di padre Cantalamessa per la Quaresima 2010


"Se tornerai a me..."


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 26 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la terza e ultima predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

Il tema delle meditazioni di quest'anno è "Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti", in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

La precedenti prediche sono state pronunciate il 5 e il 12 marzo.

* * *

1. La crisi del sacerdote

Nella Scrittura troviamo la descrizione della crisi interiore di un sacerdote nella quale molti pastori  di oggi, sono sicuro, si riconoscerebbero. È quella di Geremia che, prima di essere un profeta fu un sacerdote, "uno dei sacerdoti che risiedevano in Anatot" (Ger 1,1).

"Ti ho servito come meglio potevo, mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico...Io non mi sono seduto assieme a quelli che ridono, e non mi sono rallegrato....Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti" (Ger 15, 11-18). In un altro momento la crisi esplode in maniera ancor più aperta: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre...Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!" (Ger 20, 7-9).

Qual è la risposta di Dio al profeta e sacerdote in crisi? Non un "Poverino, hai ragione, come sei infelice!". "Allora, il Signore mi rispose: "Se tornerai, io ti farò tornare e starai alla mia presenza; se  saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che vile, sarai la mia bocca" (Ger 15, 19). In altre parole: conversione!

Parlando della novità del ministero della nuova alleanza abbiamo visto che essa consiste nella grazia, cioè nel fatto che il dono precede il dovere e che il dovere scaturisce proprio dal dono. Applichiamo ora questo principio fondamentale al ministero sacerdotale. Quello che abbiamo considerato finora costituiva la grazia sacerdotale, il dono ricevuto: ministri di Cristo, dispensatori dei misteri di Dio. Non possiamo concludere le nostre riflessioni senza mettere in luce anche il dovere e l'appello che scaturisce da esso, per così dire l'ex opere operantis del sacerdozio. Tale appello è lo stesso che Dio rivolse a Geremia: conversione!

Credo di interpretare la preoccupazione più volte espressa in passato dal Santo Padre e che ha motivato, almeno in parte, la proclamazione di questo anno sacerdotale, dedicando quest'ultima meditazione alla necessità di una purificazione all'interno della Chiesa, a partire dal suo clero.

L'appello alla conversione risuona nei momenti cruciali del Nuovo Testamento: all'inizio della predicazione di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15); all'inizio della predicazione apostolica, il giorno di Pentecoste: "Che dobbiamo fare, fratelli? E Pietro rispose: "Convertitevi e fatevi battezzare e riceverete lo Spirito Santo!" (At 2, 37). Ma non sono questi i contesti che riguardano più direttamente noi sacerdoti. Noi abbiamo creduto al vangelo, siamo stati battezzati e abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. C'è un altro "convertitevi!" che ci riguarda da vicino, quello che risuona all'interno di ognuna delle sette lettere alle chiese dell'Apocalisse. Esso non è rivolto a non credenti o neofiti, ma a persone che vivono da tempo nella comunità cristiana.

Un dato rende queste lettere particolarmente significative per noi: esse sono rivolte al pastore e al responsabile di ognuna delle sette chiese. "All'angelo della chiesa che è in Efeso scrivi": non si spiega il titolo angelo se non in riferimento, diretto o indiretto, al pastore della comunità. Non si può pensare che  lo Spirito Santo attribuisca a degli angeli reali la responsabilità delle colpe e delle deviazioni che vi  sono nelle diverse chiese e che l'invito alla conversione sia rivolto ad essi.

2. "Sii fedele fino alla fine"

Rileggiamo alcune di queste lettere, cercando di cogliere in esse gli elementi di una autentica conversione del clero, diaconi, sacerdoti e vescovi. Iniziamo dalla prima lettera, quella alla chiesa di Efeso. Notiamo anzitutto una cosa. Il Risorto non comincia il suo discorso dicendo ciò che non va nella comunità. Questa lettera, come quasi tutte le altre, inizia mettendo in rilievo il positivo, il bene che si fa nella chiesa: "Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza...Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti" (Ap 2, 2).

Solo a questo punto interviene l'appello alla conversione: "Ho  però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, convertiti (metanoeson) e compi le opere di prima". L'appello alla conversione prende l'aspetto di un ritorno al primitivo fervore  e amore per Cristo. Chi di noi sacerdoti non ricorda con commozione il momento in cui ci rendemmo conto di essere chiamati da Dio al suo servizio, il momento della professione per i religiosi, l'entusiasmo dei primi anni di ministero per i sacerdoti? È vero che lì c'era anche il fattore dell'età, la gioventù. Ma in questo caso non si tratta di natura: grazia era allora e grazia può essere oggi. 

"Ti ricordo, scriveva l'Apostolo al discepolo Timoteo,  di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani" (2 Tim 1,6) Il termine greco che viene tradotto con "ravvivare" suggerisce l'idea di soffiare sul fuoco perché torni ad ardere, riaccendere la fiamma. In una delle meditazioni di Avvento, abbiamo visto come l'unzione sacramentale, ricevuta nell'ordinazione, può tornare ad essere attiva e operante mediante la preghiera e un soprassalto di fede. Anche l'autore della lettera agli Ebrei ammoniva i primi cristiani a ricordare il loro iniziale entusiasmo: "Ricordatevi di quei primi giorni..." (Eb 10,32).

Della lettera alla chiesa di Efeso riteniamo dunque il pressante invito a ritrovare l'amore e il fervore di un tempo. Un'altra componente della conversione sacerdotale lo troviamo nella lettera alla chiesa di Smirne. Anche qui, il Risorto mette anzitutto in luce il positivo: "Conosco la tua tribolazione, la tua povertà...", ma segue subito l'appello: "Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita".

Fedeltà! Il Santo Padre ha messo questa parola come titolo e programma all'anno sacerdotale: "Fedeltà di Cristo e fedeltà del sacerdote". La parola fedeltà ha due significati fondamentali. Il primo è quello di costanza e di perseveranza; il secondo, è quello di lealtà, correttezza, l'opposto insomma di infedeltà, inganno e tradimento.

Il primo significato è quello presente nelle parole del Risorto alla chiesa di Smirne, il secondo è quello inteso da Paolo nel testo che abbiamo scelto come guida delle nostre riflessioni: "Ognuno ci consideri servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele" (1 Cor 4, 1-2). Questa parola richiama, forse volutamente, quella di Gesù nel vangelo di Luca: "Chi è l'amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito?" (Lc 12, 42). Il contrario di questa fedeltà è quello che fa, nella parabola, l'amministratore infedele (Lc 16, 1 ss.).

A questa fedeltà si oppone il tradimento della fiducia di Cristo e della Chiesa, la doppia vita, il venir meno ai doveri del proprio stato, soprattutto per quanto riguarda il celibato e la castità. Sappiamo per dolorosa esperienza quanto danno può venire alla Chiesa e alle anime da questo tipo di infedeltà. È la prova forse più dura che la Chiesa sta attraversando in questo momento.

3. "Alla chiesa di Laodicea scrivi..."

La lettera che deve farci riflettere più di tutte è quella all'angelo della chiesa di Laodicea. Ne conosciamo il tono severo: "Conosco le tue opere: tu non sei ne freddo né caldo...Poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca...Sii zelante e convertiti" (Ap 3, 15 s).

La tiepidezza di una parte del clero, la mancanza di zelo e l'inerzia apostolica: io credo che sia questo a indebolire la Chiesa più ancora degli scandali occasionali di alcuni sacerdoti che fanno più chiasso e contro i quali è più facile correre ai ripari. "La grande sventura per noi parroci -diceva il Santo Curato d'Ars - è che l'anima si intorpidisce"[1]. Lui non era certamente nel numero di questi parroci, ma questa sua frase fa pensare.

Non si deve generalizzare (la Chiesa è ricca di sacerdoti santi che compiono silenziosamente il loro dovere), ma guai anche a tacere. Un laico impegnato mi diceva con tristezza: "La popolazione del nostro paese negli ultimi vent'anni è cresciuta di oltre tre milioni di abitanti, ma noi cattolici siamo fermi al numero di prima. Qualcosa non va nella nostra chiesa". E conoscendo quel clero, sapevo cosa non andava: la preoccupazione di molti di loro non erano le anime, ma i soldi e le comodità.

Vi sono luoghi dove la Chiesa è viva ed evangelizza quasi solo per l'impegno e lo zelo di alcuni fedeli laici e aggregazioni laicali che per altro vengono a volte ostacolati e guardati con sospetto. Sono essi spesso che spingono i propri sacerdoti, pagando loro viaggio e soggiorno, a partecipare a un ritiro o a esercizi spirituali che diversamente non farebbero mai.

A volte sono proprio coloro che meno fanno per il regno di Dio  quelli che più ne reclamano i vantaggi. San Pietro e san Paolo, entrambi, hanno sentito il bisogno di mettere in guardia dalla tentazione di atteggiarsi a padroni della fede: "Non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, ma fatevi modelli del gregge" (cf. 1 Pt 5,3), scrive il primo; "Noi non vogliamo farla da padroni sulla vostra fede, ma essere collaboratori della vostra gioia", scrive il secondo ( 2 Cor 1, 24).

Ci si atteggia a padroni della fede, per esempio, quando si considerano tutti gli spazi e i locali della parrocchia come cose proprie da concedere a chi si vuole, anziché come beni di tutta la comunità, dei quali si è custodi, non proprietari.

Trovandomi a predicare in un paese europeo  che era stato in passato una fucina di sacerdoti e di missionari e che ora attraversava una crisi profonda, chiesi a un sacerdote del posto qual era secondo lui la causa di ciò. "In questo paese, mi rispose, i sacerdoti, dal pulpito e dal confessionale, decidevano tutto, perfino chi uno doveva sposare e quanti figli doveva avere. Quando si è diffuso nella società il senso e l'esigenza della libertà individuale, la gente si è ribellata  e ha voltato del tutto le spalle alla Chiesa". Il clero si sentiva "padrone della fede", più che collaboratore della gioia della gente.

Le parole rivolte dal Risorto alla chiesa di Laodicea: "Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo", fanno pensare a un'altra grande tentazione del clero quando viene meno la passione per le anime, è cioè la brama del denaro. Già san Paolo lamentava amaramente: "Omnia quae sua sunt quaerunt, non quae Jesu Christi": tutti cercano il proprio interesse, non quello di Cristo (Fil 2, 21) Tra le raccomandazioni più insistenti agli anziani, nelle Lettere pastorali, c'è quella di non essere attaccati al denaro ( 1Tim 3, 3). Nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale il Santo Padre presenta il Santo Curato d'Ars come modello di povertà sacerdotale. "Egli era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso". Il suo segreto era: "dare tutto e non conservare niente".

Nel suo lungo discorso sui pastori[2], sant'Agostino proponeva a suo tempo, per un salutare esame di coscienza, l'apostrofe di Ezechiele contro i pastori negligenti. Non è male riascoltarla, almeno per sapere cosa è si deve evitare nel ministero sacerdotale:

"Guai ai pastori d'Israele che non hanno fatto altro che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere? Voi mangiate il latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è ingrassato, ma non pascete il gregge. Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza" (Ez 34, 2-4).

4. "Ecco, io sto alla porta e busso"

Ma anche la severa Lettera alla chiesa di Laodicea, come tutte le altre, è una lettera d'amore. Essa termina con una delle immagini in assoluto più toccanti della Bibbia: "Io tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo...Ecco: io sto alla porta e busso".

In noi sacerdoti Cristo non bussa per entrare, ma per uscire. Quando si tratta della prima conversione, dall'incredulità alla fede, o dal peccato alla grazia, Cristo è fuori e bussa alle pareti del cuore per entrare; quando si tratta di successive conversioni, da uno stato di grazia a uno più alto, dalla tiepidezza al fervore, avviene il contrario: Cristo è dentro e bussa alle pareti del cuore per uscire!

Spiego in che senso. Nel battesimo abbiamo ricevuto lo Spirito di Cristo; esso rimane in noi come nel suo tempio (1 Cor 3,16), finché non ne  viene scacciato dal peccato mortale. Ma può succedere che questo Spirito finisca per essere come imprigionato e murato dal cuore di pietra che gli si forma intorno. Non ha la possibilità di espandersi e permeare di sé le facoltà, le azioni e i sentimenti della persona. Quando leggiamo la frase di Cristo: "Ecco io sto alla porta e busso" (Ap 3, 20), dovremmo capire che egli non bussa dall'esterno, ma dall'interno; non vuole entrare, ma uscire.

L'Apostolo dice che Cristo deve essere "formato" in noi (Gal 4, 19), cioè svilupparsi e ricevere la sua piena forma; è questo sviluppo che è impedito dalla tiepidezza e dal cuore di pietra. A volte si vedono ai lati delle strade grossi alberi (a Roma sono in genere pini) le cui radici, imprigionate dall'asfalto, lottano per espandersi, sollevando a tratti lo stesso cemento. Così dobbiamo immaginare che è il regno di Dio nel cuore dell'uomo: un seme destinato a diventare un albero maestoso su cui si posano gli uccelli del cielo, ma che fa fatica a svilupparsi se viene soffocato da preoccupazioni terrene.

Vi sono ovviamente gradi diversi in questa situazione. Nella maggioranza delle anime impegnate in un cammino spirituale Cristo non è imprigionato dentro una corazza, ma per così dire in libertà vigilata. È libero di muoversi, ma dentro limiti ben precisi. Questo avviene quando tacitamente gli si fa capire cosa può chiederci e cosa non può chiederci. Preghiera sì, ma non da compromettere il sonno, il riposo, la sana informazione...; obbedienza sì, ma  che non si abusi della nostra disponibilità; castità sì, ma non fino al punto da privarci di qualche spettacolo distensivo, anche se spinto... Insomma l'uso di mezze misure.

Nella storia della santità l'esempio più famoso della prima conversione, quella dal peccato alla grazia, è  sant'Agostino; l'esempio più istruttivo della seconda conversione, quella dalla tiepidezza al fervore, è santa Teresa d'Avila.  Quello che ella dice di sé nella Vita è probabilmente esagerato e dettato dalla delicatezza della sua coscienza, ma può servire a tutti noi per un utile esame di coscienza. "Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a mettere di nuovo in pericolo la mia anima [...]. Le cose di Dio mi davano piacere e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo. Volevo conciliare questi due nemici tra loro tanto contrari: la vita dello spirito  con i gusti e i passatempi dei sensi".

Il risultato di questo stato era una profonda infelicità: " Cadevo e mi rialzavo, e mi rialzavo così male che ritornavo a cadere. Ero così in basso in fatto di perfezione che non facevo quasi più conto dei peccati veniali, e non temevo i mortali come avrei dovuto, perché non ne fuggivo i pericoli. Posso dire che la mia vita era delle più penose che si possano immaginare, perché non godevo di Dio, né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei passatempi mondani, il pensiero di quello che dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena; e quando ero con Dio, mi venivano a disturbare gli affetti del mondo"[3]. Molti sacerdoti potrebbero scoprire in questa analisi il motivo di fondo della propria insoddisfazione e scontentezza.

 Fu la contemplazione del Cristo della passione a dare a Teresa la spinta decisiva al cambiamento che fece di lei la santa e la mistica che conosciamo[4].

5. "Voglio sperare!"

Torniamo, per finire, alla risposta di Dio ai lamenti di Geremia. Dio fa al suo profeta convertito delle promesse che acquistano un significato particolare se lette come rivolte a noi sacerdoti della Chiesa cattolica nell'attuale momento di grave disagio che stiamo attraversando: "Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile": cioè, se saprai distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario nella tua vita, se preferirai la mia approvazione a quella degli uomini; "tu sarai come la mia bocca". "Essi devono tornare a te, non tu a loro": sarà il mondo a cercare il tuo favore, non tu quello del mondo. "Io ti renderò come un muro durissimo di bronzo (questa parola è rivolta ora a lei, Santo Padre); combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te" (Ger 15, 19-20).

Quello che occorre in questo momento è un sussulto di speranza; dovremmo tornare a leggere l'enciclica "Spe salvi sumus" del nostro Santo Padre. La Scrittura ci presenta diversi esempi di sussulti di speranza, ma uno mi pare particolarmente istruttivo e vicino alla situazione attuale: la Terza Lamentazione di Geremia. Comincia in tono sconsolato:  "Io sono l'uomo che ha visto l'afflizione sotto la verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce...Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Io ho detto: ‘È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!" (Lam III, 1-18).

Ma a questo punto è come se il profeta avesse un improvviso ripensamento; dice a se stesso: " È una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite;  si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà!  ‘Il Signore è la mia parte, perciò spererò in lui".

E dal momento che prende la decisione "Voglio sperare!", il tono cambia e da cupa lamentazione diventa fiduciosa attesa di restaurazione: "Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore.  Porga la guancia a chi lo percuote, si sazi pure di offese!  Il Signore infatti non respinge per sempre;  ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà;  poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell'uomo" (Lam III, 22-33).

Mi sono trovato a predicare un ritiro al clero di una diocesi americana scosso dalla reazione indiscriminata dell'opinione pubblica di fronte agli scandali di alcuni dei loro membri. Si era all'indomani del crollo delle Torri Gemelle e le macerie materiali sembravano il simbolo di altre macerie. Questo testo della Scrittura contribuì visibilmente a ridare fiducia e speranza a molti.

Cristo soffre più di noi per l'umiliazione dei suoi sacerdoti e l'afflizione della sua Chiesa; se la permette, è perché conosce il bene che da essa può scaturire, in vista di una maggiore purezza della sua Chiesa. Se ci sarà umiltà, la Chiesa uscirà più splendente che mai da questa guerra! L'accanimento dei media - lo vediamo anche in altri casi - a lungo andare ottiene l'effetto contrario a quello da essi desiderato.

L' invito di Cristo: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò", era rivolto, in primo luogo, a coloro che aveva intorno a sé e oggi ai suoi sacerdoti. "Venite a me e troverete ristoro": il frutto più bello di questo anno sacerdotale sarà un ritorno a Cristo, un rinnovamento della nostra amicizia con lui. Nel suo amore, il sacerdote troverà tutto quello di cui si è privato umanamente e "cento volte di più", secondo la sua promessa.

Cambiamo  dunque la iniziale protesta di Geremia in ringraziamento: "Grazie Signore, che un giorno ci hai sedotto, grazie che ci siamo lasciati sedurre, grazie che ci dai la possibilità di ritornare a te e ci riprendi dopo ogni tentativo di fuga. Grazie che affidi a noi "la custodia dei tuoi atri" (Zacc 3, 7) e fai di noi "la tua bocca". Grazie per il nostro sacerdozio!

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[1] Cit. nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale di Benedetto XVI

[2] Cf. Agostino, Sermo 46: CCL 41, pp.529 ss.

[3] Teresa d'Avila, Vita, cc. 7-8.

[4]  Ib.  9, 1-3

Caterina63
00venerdì 2 aprile 2010 19:16
Il predicatore della Casa Pontificia durante la celebrazione della Passione del Signore

Gli uomini devono chiedere
perdono alle donne



Pubblichiamo il testo dell'omelia del predicatore della Casa Pontificia, durante la celebrazione della Passione del Signore presieduta da Benedetto XVI nel pomeriggio del 2 aprile, Venerdì Santo, nella basilica Vaticana.
 

di Raniero Cantalamessa

"Abbiamo un grande Sommo Sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di Dio":  così inizia il brano della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato nella seconda lettura. Nell'anno sacerdotale, la liturgia del Venerdì Santo ci permette di risalire alla sorgente storica del sacerdozio cristiano.
Essa è la fonte di entrambe le realizzazioni del sacerdozio:  quella ministeriale, dei vescovi e dei presbiteri, e quella universale di tutti i fedeli. Anche questa infatti si fonda sul sacrificio di Cristo. Egli, dice l'Apocalisse, "ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue e ha fatto di noi un regno e dei sacerdoti del Dio e Padre suo" (Apocalisse, 1, 5-6). È di vitale importanza perciò capire la natura del sacrificio e del sacerdozio di Cristo perché è di essi che sacerdoti e laici, in modo diverso, dobbiamo recare l'impronta e cercare di vivere le esigenze.

La Lettera agli Ebrei spiega in che consiste la novità e l'unicità del sacerdozio di Cristo, non solo rispetto al sacerdozio dell'antica alleanza, ma rispetto a ogni istituzione sacerdotale anche fuori della Bibbia. "Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri (...) è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!" (Lettera agli Ebrei, 9, 11-14).

La novità è questa. Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto se stesso; ogni altro sacerdote offre delle vittime, Cristo si è offerto vittima! Sant'Agostino ha racchiuso in una formula celebre questo nuovo genere di sacrificio in cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa:  "Ideo sacerdos, quia sacrificium":  sacerdote perché vittima" (Sant'Agostino, Confessioni, 10, 43).
Nel 1972 un noto pensatore francese lanciava la tesi secondo cui "la violenza è il cuore e l'anima segreta del sacro" (cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972). All'origine infatti e al centro di ogni religione c'è il sacrificio, il rito del capro espiatorio che comporta sempre distruzione e morte. Il giornale "Le Monde" salutava tale affermazione, dicendo che essa faceva di quell'anno "un anno da segnare con asterisco negli annali dell'umanità". Già prima però di questa data, quello studioso si era riavvicinato al cristianesimo e nella Pasqua del 1959 aveva reso pubblica la sua "conversione", dichiarandosi credente e tornando alla Chiesa.

Questo gli permise di non fermarsi, negli studi successivi, all'analisi del meccanismo della violenza, ma di additare anche come uscire da esso. Molti, purtroppo, continuano a citare René Girard come colui che ha denunciato l'alleanza tra il sacro e la violenza, ma non fanno parola del Girard che ha additato nel mistero pasquale di Cristo la rottura totale e definitiva di tale alleanza.
Secondo lui, Gesù smaschera e spezza il meccanismo che sacralizza la violenza, facendo di se stesso il volontario "capro espiatorio" dell'umanità, la vittima innocente di tutta la violenza. Cristo non è venuto con sangue altrui, ma con il proprio. Non ha messo i propri peccati sulle spalle degli altri - uomini o animali -; ha messo i peccati degli altri sulle proprie spalle:  "Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce" (1 Pietro, 2, 24).

Il processo che porta alla nascita della religione è rovesciato, rispetto alla spiegazione che ne aveva dato Freud. In Cristo, è Dio che si fa vittima, non la vittima (in Freud, il padre primordiale) che, una volta sacrificata, viene successivamente elevata a dignità divina (il Padre dei cieli). Non è più l'uomo che offre sacrifici a Dio, ma Dio che si "sacrifica" per l'uomo, consegnando alla morte per lui il suo Figlio unigenito (cfr. Giovanni, 3, 16). Il sacrificio non serve più a "placare" la divinità, ma piuttosto a placare l'uomo e farlo desistere dalla sua ostilità nei confronti di Dio e del prossimo.
Si può, allora, continuare a parlare di sacrificio, a proposito della morte di Cristo e quindi della Messa? Per molto tempo lo studioso citato ha rifiutato questo concetto, ritenendolo troppo segnato dall'idea di violenza, ma poi ha finito per ammetterne la possibilità con tutta la tradizione cristiana, a patto di vedere, in quello di Cristo, un genere nuovo di sacrificio, e di vedere in questo cambiamento di significato "il fatto centrale nella storia religiosa dell'umanità".

Visto in questa luce, il sacrificio di Cristo contiene un messaggio formidabile per il mondo d'oggi. Grida al mondo che la violenza è un residuo arcaico, una regressione a stadi primitivi e superati della storia umana e - quando si tratta di credenti - è un ritardo colpevole e scandaloso nella presa di coscienza del salto di qualità operato da Cristo.

Ricorda anche che la violenza è perdente. In quasi tutti i miti antichi la vittima è lo sconfitto e il carnefice il vincitore (cfr. R. Girard, Il sacrificio, Milano 2004, pp. 73 s.). Gesù ha cambiato segno alla vittoria. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima. Victor quia victima!, "vincitore perché vittima", così Agostino definisce il Gesù della croce (Sant'Agostino, Confessioni, 10, 43).

Il valore moderno della difesa delle vittime, dei deboli e della vita minacciata è nato sul terreno del cristianesimo, è un frutto tardivo della rivoluzione operata da Cristo. Ne abbiamo la controprova. Appena si abbandona (come ha fatto Nietzsche) la visione cristiana per riportare in vita quella pagana, si smarrisce  questa conquista e si torna a esaltare "il forte, il potente, fino al suo punto più eccelso, il superuomo", e si definisce quella cristiana "una morale da schiavi", frutto del risentimento impotente dei deboli contro i forti.

Purtroppo, però, la stessa cultura odierna che condanna la violenza, per altro verso, la favorisce e la esalta. Ci si straccia le vesti di fronte a certi fatti di sangue, ma non ci si accorge che si prepara a essi il terreno con quello che si reclamizza nella pagina accanto del giornale o nel palinsesto successivo della rete televisiva. Il gusto con cui si indugia nella descrizione della violenza e la gara a chi è il primo e il più crudo nel descriverla non fanno che favorirla. Il risultato non è una catarsi del male, ma un incitamento a esso. È inquietante che la violenza e il sangue siano diventati uno degli ingredienti di maggior richiamo nei film e nei videogiochi, che si sia attirati da essa e ci si diverta a guardarla.

Lo stesso studioso ricordato sopra ha messo a nudo la matrice da cui prende avvio il meccanismo della violenza:  il mimetismo, quella connaturata inclinazione umana a considerare desiderabile le cose che desiderano gli altri e, quindi, a ripetere le cose che vedono fare gli altri. La psicologia del "branco" è quella che porta alla scelta del "capro espiatorio" per trovare, nella lotta contro un nemico comune - in genere, l'elemento più debole, il diverso -, una propria artificiale e momentanea coesione.

Ne abbiamo un esempio nella ricorrente violenza dei giovani allo stadio, nel bullismo delle scuole e in certe manifestazioni di piazza che lasciano dietro di sé distruzione e macerie. Una generazione di giovani che ha avuto il rarissimo privilegio di non conoscere una vera guerra e di non essere stati mai richiamati sotto le armi, si diverte (perché si tratta di un gioco, anche se stupido e a volte tragico) a inventare delle piccole guerre, spinti dallo stesso istinto che muoveva l'orda primordiale.
Ma c'è una violenza ancora più grave e diffusa di quella dei giovani negli stadi e nelle piazze. Non parlo qui della violenza sui bambini, di cui si sono macchiati sciaguratamente non pochi elementi del clero; di essa si parla già abbastanza fuori di qui. Parlo della violenza sulle donne. Questa è una occasione per far comprendere alle persone e alle istituzioni che lottano contro di essa che Cristo è il loro migliore alleato.

Si tratta di una violenza tanto più grave in quanto si svolge spesso al riparo delle mura domestiche, all'insaputa di tutti, quando addirittura essa non viene giustificata con pregiudizi pseudo-religiosi e culturali. Le vittime si ritrovano disperatamente sole e indifese. Solo oggi, grazie al sostegno e all'incoraggiamento di tante associazioni e istituzioni, alcune trovano la forza di uscire  allo  scoperto  e  denunciare  i  colpevoli.

Molta di questa violenza è a sfondo sessuale. È il maschio che crede di dimostrare la sua virilità infierendo contro la donna, senza rendersi conto che sta dimostrando solo la sua insicurezza e vigliaccheria. Anche nei confronti della donna che ha sbagliato, che contrasto tra l'agire di Cristo e quello ancora in atto in certi ambienti! Il fanatismo invoca la lapidazione; Cristo, agli uomini che gli hanno presentato un'adultera, risponde:  "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei" (Giovanni, 8, 7). L'adulterio è un peccato che si commette sempre in due, ma per il quale uno solo è stato sempre (e, in alcune parti del mondo, è tuttora) punito.
La violenza contro la donna non è mai così odiosa come quando si annida là dove dovrebbe regnare il reciproco rispetto e l'amore, nel rapporto tra marito e moglie. È vero che la violenza non è sempre e tutta da una parte sola, che si può essere violenti anche con la lingua, non solo con le mani, ma nessuno può negare che nella stragrande maggioranza dei casi la vittima è la donna.

Ci sono famiglie dove ancora l'uomo si ritiene autorizzato ad alzare la voce e le mani sulle donne di casa. Moglie e figli vivono a volte sotto la costante minaccia dell'"ira di papà". A questi tali bisognerebbe dire amabilmente:  "Cari colleghi uomini, creandoci maschi, Dio non ha inteso darci il diritto di arrabbiarci e pestare i pugni sul tavolo per ogni minima cosa. La parola rivolta a Eva dopo la colpa:  "Egli (l'uomo) ti dominerà" (Genesi, 3, 16), era una amara previsione, non una autorizzazione.

Giovanni Paolo ii ha inaugurato la pratica delle richieste di perdono per torti collettivi. Una di esse, tra le più giuste e necessarie, è il perdono che una metà dell'umanità deve chiedere all'altra metà, gli uomini alle donne. Essa non deve rimanere generica e astratta. Deve portare, specie chi si professa cristiano, a concreti gesti di conversione, a parole di scusa e di riconciliazione all'interno delle famiglie e della società.

Il brano della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato continua dicendo:  "Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte". Gesù ha conosciuto in tutta la sua crudezza la situazione delle vittime, le grida soffocate e le lacrime silenziose. Davvero, "non abbiamo un sommo sacerdote che non possa patire con noi nelle nostre debolezze". In ogni vittima della violenza Cristo rivive misteriosamente la sua esperienza terrena. Anche a proposito di ognuna di esse egli dice:  "L'avete fatto a me" (Matteo, 25, 40).

Per una rara coincidenza, quest'anno la nostra Pasqua cade nelle stessa settimana della Pasqua ebraica che ne è l'antenata e la matrice dentro cui si è formata. Questo ci spinge a rivolgere un pensiero ai fratelli ebrei. Essi sanno per esperienza cosa significa essere vittime della violenza collettiva e anche per questo sono pronti a riconoscerne i sintomi ricorrenti. Ho ricevuto in questi giorni la lettera di un amico ebreo e, con il suo permesso, ne condivido qui una parte. Dice: 
"Sto seguendo con disgusto l'attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del mondo intero. L'uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell'antisemitismo. Desidero pertanto esprimere a lei personalmente, al Papa e a tutta la Chiesa la mia solidarietà di ebreo del dialogo e di tutti coloro che nel mondo ebraico (e sono molti) condividono questi sentimenti di fratellanza. La nostra Pasqua e la vostra hanno indubbi elementi di alterità, ma vivono ambedue nella speranza messianica che sicuramente ci ricongiungerà nell'amore del Padre comune. Auguro perciò a lei e a tutti i cattolici Buona Pasqua".

E anche noi cattolici auguriamo ai fratelli ebrei Buona Pasqua. Lo facciamo con le parole del loro antico maestro Gamaliele, entrate nel Seder pasquale ebraico e da qui passate nella più antica liturgia cristiana. (Le abbiamo recitate nell'Ufficio delle letture di ieri, dall'omelia pasquale di Melitone di Sardi): 
"Egli ci ha fatti passare
dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia,
dal lutto alla festa,
dalle tenebre alla luce,
dalla servitù alla redenzione"
Perciò davanti a lui diciamo:  Alleluia" (Pesachim, x, 5 e Melitone di Sardi, Omelia pasquale, 68 ["Sources Chrétiennes" 123, p. 98]).


(©L'Osservatore Romano - 3 aprile 2010)
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