Paolo VI sul Concilio, sulle riforme e sulle false interpretazioni

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Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 12:43

ANGELUS 

I Domenica di Quaresima, 7 marzo 1965


 

Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina. 

La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento - il Concilio lo ha suggerito e deliberato - e questo per rendere intelligibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa. È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l'unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti. 

E questo per voi, fedeli, perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti ed attivi e se saprete davvero corrispondere a questa premura della Chiesa, avrete la grande gioia, il merito e la fortuna di un vero rinnovamento spirituale. 

E noi pregheremo ancora la Madonna, la pregheremo ancora in latino per ora, perché ci dia questo desiderio della vita spirituale attiva e autentica e ci dia questo risvegliato senso della comunità, della fraternità, della collettività che prega insieme, del popolo di Dio, perché allora avremo certamente assicurati a noi i vantaggi di questa grande riforma liturgica.



ANGELUS

III Domenica di Quaresima, 21 marzo 1965

 

Come al solito questa preghiera apre il nostro sguardo sull’orizzonte del mondo. Vi sono oggi due aspetti che interessano la nostra preghiera. Il primo è quello della incertezza, della inquietudine che si manifesta in vari punti del globo e con tanti problemi nella vita dei popoli. Il secondo, invece, è quello di un progresso quasi necessario verso una migliore concordia, verso una fratellanza ed una solidarietà necessaria alla vita dell’umana famiglia.

Ebbene, pregheremo la Madonna perché ottenga al mondo la pace di Cristo ed una nuova primavera di speranza e di prosperità. La invocheremo, perciò, con accresciuto fervore, quale Regina della Pace e Madre della Chiesa.



ANGELUS 

IV Domenica di Quaresima, 28 marzo 1965 

 

Abbiamo ora benedetta, in onore della Madonna, la Rosa d'Oro, - omaggio d'antica origine a persone e luoghi che il Papa voleva e vuole onorare - e simbolo di primavera spirituale e preludio di letizia pasquale. 

Manderemo al Santuario di Fatima questo prezioso segno di devozione; e potete indovinare quali siano le Nostre intenzioni: la consacrazione del mondo a Maria; il Concilio; e ancora, e specialmente la pace. 

Sì, la pace. E potremmo, in senso opposto, dire la guerra, che oscura il cielo con i suoi cattivi presagi. 

Vorremmo che si sciogliesse lo stato di tensione e di timore che domina il mondo, e scomparissero le azioni di ostilità, che si fanno più gravi e più minacciose.  

Preghiamo perciò per coloro che vogliono davvero la pace e che parlano, scrivono, lavorano sinceramente per mantenerla e per promuoverla. E preghiamo anche per quelli che non vogliono la pace, affinché il senso di responsabilità li induca a migliori pensieri. 

Che la Madonna ci assista!




ANGELUS 

Domenica, 4 aprile 1965 

 

Oggi, come sapete, comincia il periodo liturgico dedicato alla Passione del Signore. Non possiamo parlare d'altro. È un periodo molto importante nella vita spirituale della Chiesa; ed esige un concentramento di pensieri sul dramma della Croce e un'intensità di sentimenti per commemorare degnamente il Mistero Pasquale. 

Chi medita questo dramma non è distolto dall'esperienza della vita; anzi egli ve la trova riflessa, nei suoi grandi e supremi problemi: quello del dolore, del male, del peccato, della morte, del bisogno di perdono e di speranza. 

Ogni avvenimento, ogni situazione - personale o sociale - ha un riferimento, un confronto, una spiegazione nella Croce di Gesù. La Croce è il centro della nostra storia, ed è la sorgente della nostra fiducia. 

Non siamo insensibili al richiamo che la Chiesa ci rivolge di appressarci alla Croce: oggi la vedremo velata perché ne ripensiamo il mistero nascosto e ci sentiamo stimolati a scoprirlo. 

La Madonna Addolorata ci può aiutare.




UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 17 marzo 1965

 

Partecipazione dei fedeli alla Santa Messa

Diletti Figli e Figlie!

La nostra conversazione familiare, in un’udienza come questa, non può non ritornare sul tema del giorno: l’applicazione della riforma liturgica alla celebrazione della santa Messa. Nostro desiderio sarebbe di chiedere a voi, se il carattere pubblico di questo incontro non lo impedisse, come facciamo in altri incontri a carattere privato, quali siano le vostre impressioni su questa grande novità. Essa merita che tutti vi facciano attenzione. Ebbene, Noi pensiamo che la vostra risposta alla Nostra domanda non sarebbe dissimile da quelle che Ci pervengono in questi giorni.

La riforma liturgica? Si possono ridurre a due categorie queste risposte.

La prima categoria
è quella delle risposte che notano una certa confusione, e perciò un certo fastidio: prima, dicono questi osservatori, si stava tranquilli, ciascuno poteva pregare come voleva, tutto era conosciuto circa lo svolgimento del rito; ora tutto è novità, sorpresa, cambiamento; perfino il suono del campanello al Sanctus è stato abolito; e poi quelle preghiere che non si sa dove andarle a trovare, quella comunione ricevuta stando in piedi; e la fine della Messa che termina in tronco con la benedizione; tutti che rispondono, molti che si muovono, riti e letture che si recitano ad alta voce . . .; insomma non c’è più pace e si capisce meno di prima; e così via.

Non faremo la critica di queste osservazioni, perché dovremmo mostrare come esse rivelano scarsa penetrazione del senso dei riti religiosi, e lasciano intravedere non già una vera devozione e un vero senso del significato e del valore della santa Messa, ma piuttosto una certa indolenza spirituale, che non vuole spendere qualche sforzo personale d’intelligenza e di partecipazione per meglio comprendere e meglio compiere il più sacro degli atti religiosi, a cui siamo invitati, anzi obbligati ad associarci.
Ripeteremo ciò che in questi giorni da tutti i Sacerdoti pastori d’anime e da tutti i bravi maestri di religione si va ripetendo:
primo, che si produca al principio qualche confusione e qualche fastidio è inevitabile; è nella natura d’una riforma pratica, oltre che spirituale, di abitudini religiose inveterate e piamente osservate, produrre un po’ di sommovimento, non sempre a tutti piacevole;
ma, secondo, una qualche spiegazione, una qualche preparazione, una qualche premurosa assistenza tolgono presto le incertezze e danno subito il senso ed il gusto d’un nuovo ordine.
Perché, terzo, non si deve credere che dopo qualche tempo si ritornerà quieti e devoti o pigri, come prima; no, il nuovo ordine dovrà essere diverso, e dovrà impedire e scuotere la passività dei fedeli presenti alla santa Messa; prima bastava assistere, ora occorre partecipare; prima bastava la presenza, ora occorrono l’attenzione e l’azione; prima qualcuno poteva sonnecchiare e forse chiacchierare; ora no, deve ascoltare e pregare.

Speriamo che presto celebranti e fedeli possano avere i nuovi libri liturgici e che questi rispecchino anche nella nuova forma, sia letterale che tipografica, la dignità di quelli precedenti. L’assemblea diventa viva ed operante; intervenire vuol dire lasciare che l’anima entri in attività, di attenzione, di colloquio, di canto, di azione. L’armonia d’un atto comunitario, compiuto non solo col gesto esteriore, ma con il movimento interiore del sentimento di fede e di pietà, imprime al rito una forza e una bellezza particolari: esso diventa coro, diventa concerto, diventa ritmo d’una immensa ala volante verso le altezze del mistero e del gaudio divino.

La seconda categoria dei commenti che a Noi giungono circa le prime celebrazioni della nuova Liturgia, è invece quella degli entusiasmi e delle lodi.

Chi dice: finalmente si può capire e seguire la complicata e misteriosa cerimonia; finalmente ci si prende gusto; finalmente il Sacerdote parla ai fedeli, e si vede che agisce con loro e per loro. Abbiamo testimonianze commoventi, di gente del popolo, di ragazzi e di giovani, di critici e di osservatori, di persone pie e desiderose di fervore e di preghiera, di uomini di lunga e grave esperienza e di alta cultura. Sono testimonianze positive. Un vecchio e distintissimo signore, di grande animo, e di finissima, e perciò sempre insoddisfatta, spiritualità, si sentiva obbligato, al termine della prima celebrazione della nuova Liturgia, a presentarsi al celebrante per dirgli candidamente la sua felicità per aver finalmente partecipato, forse per la prima volta in vita sua, in pienezza spirituale al santo sacrificio.

Può darsi che questa ammirazione e questa specie di santa eccitazione si calmino e si distendano presto in una nuova tranquilla consuetudine. A che cosa non si abitua l’uomo? Ma è da credere che non verrà meno l’avvertenza della intensità religiosa che la nuova forma del rito reclama; e con essa la coscienza di dover compiere simultaneamente due atti spirituali: uno di vera e personale partecipazione al rito, con quanto di essenzialmente religioso ciò può comportare; l’altro di comunione con l’assemblea dei fedeli, con la «ecclesia»; atti che tendono il primo all’amor di Dio; all’amore del prossimo il secondo. Ecco il Vangelo della carità che va attuandosi nelle anime del nostro tempo: è veramente cosa bella, nuova, grande, piena di luce e di speranza.

Ma avete compreso, carissimi Figli e Figlie: questa novità liturgica, questa rinascita spirituale, non può avvenire senza la vostra volonterosa e seria partecipazione. Tanto Ci preme questa vostra corrispondenza che, come vedete, ne facciamo tema di questa Nostra parola; e nella fiducia che voi davvero le facciate buona accoglienza, Noi vi promettiamo tante e tante grazie del Signore, che appunto fin d’ora la Nostra Apostolica Benedizione vuole a ciascuno di voi assicurare.












Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 13:03

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 31 marzo 1965

 

E' un dovere l'unità operante dei cattolici

Diletti Figli e Figlie!

Queste udienze generali Ci presentano un quadro d’insieme, che Ci fa sempre pensare e sempre Ci commuove, non solo per la moltitudine delle persone accorse attorno all’umile Nostra persona, ma per la varietà altresì dei gruppi che compongono questa assemblea, e che, se bene comprendiamo i loro sentimenti, sono lieti d’essere folla, d’essere popolo raccolto in un solo complesso e in un solo sentimento, e forse ancor più lieti d’essere di diversa origine, di diversa lingua, di diversa età, di diversa cultura; e di sentirsi insieme, come se si fossero sempre conosciuti.
Non sarà facile che un simile incontro si riproduca; capiterà a tutti voi certamente d’essere in mezzo a masse di gente varia e disparata e tenuta insieme da particolari contingenze; di viaggio, di spettacoli, di affari, di comizio, eccetera; ma ciò avverrà senza che una profonda e fraterna unità di sentimenti si realizzi in quelle riunioni, spesso più esteriori che interiori; talvolta riunite dagli stessi contrasti che le dividono; in chiesa certo l’assemblea dei fedeli assume una unità spirituale meravigliosa, dove «unum corpus multi sumus», i molti formano un solo corpo (1 Cor. 10, 17); ma di solito la comunità orante possiede già una certa omogeneità e una certa abituale coesione; qui invece la riunione trova la sua interiore armonia soltanto per la stessa fede e per la stessa carità, che alla presenza del Papa acquistano, forse come raramente altrove, la loro espressione di unità, non solo occasionale, ma ecclesiale e spirituale.

Ora è proprio questa unità interiore della Chiesa che Noi vogliamo, questa volta, fare a voi notare, come uno dei principii costitutivi della Chiesa - essa non può non essere intrinsecamente unita -, che la definisce, che la dimostra animata da un influsso superiore, dallo Spirito Santo, che le conferisce questa sorprendente capacità, di mettere insieme gli uomini più disparati rispettando, anzi valorizzando le loro specifiche caratteristiche purché positive, cioè veramente umane, la capacità cioè d’essere cattolica, d’essere universale. Non solo.
L’unità non è soltanto una prerogativa della Chiesa cattolica; è un dovere, una legge, un impegno. Cioè l’unità della Chiesa dev’essere ricevuta e riconosciuta da tutti a da ciascun membro della Chiesa, e da tutti e da ciascuno dev’essere promossa, amata, difesa. Non basta dirsi cattolici; bisogna essere effettivamente uniti. I figli fedeli della Chiesa devono essere i costruttori dell’unità concreta della sua compagine sociale, i seguaci della sua spiritualità comunitaria. Maestro Tommaso insegna che l’unità della Chiesa si deve considerare sotto due aspetti: il primo, nella connessione dei membri della Chiesa fra loro, nell’unità di comunione; il secondo nel riferimento di tutti i membri della Chiesa stessa all’unico Capo, che è Cristo, di cui il Papa fa qui in terra le veci, nell’unità di convergenza (II-IIæ, 39, 1).
La promozione di questo duplice criterio unificatore è uno dei grandi doveri del cattolico; e questo diciamo perché voi stessi, a ricordo di questa udienza, siate sempre gelosi e zelanti cultori dell’intima unità della nostra santa Chiesa.

E forse v’è oggi di ciò particolare bisogno.
Tanto si parla ora dell’unità da ricomporre con i Fratelli separati; e sta bene; è questa una meritevolissima impresa, al cui progresso dobbiamo tutti collaborare con umiltà, con tenacia e con fiducia; ma non si deve da noi trascurare il dovere di operare tanto di più per l’unità interna della Chiesa, tanto necessaria per la sua vitalità spirituale e apostolica. Come daremo ai Fratelli separati l’esempio dell’unità, come ne offriremo loro il dono inestimabile, se noi stessi cattolici non la viviamo nella fedeltà e nella pienezza, ch’essa richiede? Non sempre riceviamo buone notizie circa la fedeltà dei cattolici al dovere dell’unità interiore del Corpo ecclesiastico.

Non Ci riferiamo, in questo momento, alle raccomandazioni sovente ripetute in favore dell’unità operativa dei cattolici, sempre reclamata per la difesa e l’affermazione dei loro principii e dei loro diritti nel campo civile; Ci riferiamo piuttosto all’obbligo per tutti urgente di alimentare quel senso di solidarietà, di amicizia, di mutua comprensione, di rispetto al patrimonio comune di dottrine e di costumi, di obbedienza e univocità di fede, che deve distinguere il cattolicesimo; esso ne costituisce la forza e la bellezza, e ne dimostra l’autenticità realizzando in questo spirito di concordia e di amore la parola di Gesù: «Sarete da tutti riconosciuti quali miei discepoli, se sarete stretti da vicendevole dilezione» (Io. 13, 35).

Che dovremmo dire di quelli che invece non altro contributo sembra sappiano dare alla vita cattolica che quello d’una critica amara, dissolutrice e sistematica? di coloro che mettono in dubbio o negano la validità dell’insegnamento tradizionale della Chiesa per inventare nuove e insostenibili teologie? di quelli che sembra abbiano gusto a creare correnti l’una all’altra contraria, a seminare sospetti, a negare all’autorità fiducia e docilità, a rivendicare autonomie prive di fondamento e di saggezza? o di coloro che per essere moderni trovano tutto bello, imitabile, e sostenibile ciò che vedono nel campo altrui, e tutto insopportabile e discutibile e sorpassato ciò che si trova nel campo nostro?

Non vogliamo certo censurare il processo di purificazione e di rinnovamento, che ora travaglia e rigenera la Chiesa, e che essa per prima reclama e promuove; vogliamo soltanto invitare tutti quanti sentono la dignità e la responsabilità del nome cattolico ad amare fortemente, profondamente il mistero della sua interiore unità, a venerarlo nella parola e nell’opera per dare alla Chiesa il gaudio d’essere quello che è, magnificamente una e per accrescere lo splendore, che da ciò le deriva per l’illuminazione del mondo. Non è, credetelo, questo uno spirito chiuso, statico, egoista; non è spirito di «ghetto», come oggi si dice; è lo spirito genuino di Cristo, trasfuso nella sua Chiesa; ed è, per chi ha occhio per vedere, un fenomeno di sovrana, spirituale bellezza;. ce lo ricorda S. Agostino, ammonendoci come «omnis . . . pulchritudinis forma unitas sit»; il segreto della bellezza è l’unità (Ep. 18; P.L. 33, 85).




UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 7 aprile 1965

 

Le doverose attività del popolo di Dio

Diletti Figli e Figlie!

La vista della vostra moltitudine, che ogni settimana Ci offre il dono della sua sempre nuova e fors’anche sempre crescente presenza, Ci ricorda il bel capitolo secondo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, testé promulgata dal Concilio Ecumenico, dove parla del Popolo di Dio.

A questo Ci richiama il fatto che voi siete molti, e più siete, e più gode il Nostro animo, non solo per lo spettacolo, sempre gradito e sempre impressionante d’un’assemblea numerosa e concorde, ma per l’immagine spirituale e reale che Ci viene offerta della Chiesa, la quale altro fisicamente non è, se non una moltitudine convocata e riunita nel nome di Cristo, una folla, una gente, una società, a cui tutti possono appartenere, ed a cui tutti sono chiamati; dove tutti e ciascuno hanno un loro posto distinto, un riconoscimento personalissimo, una vocazione loro propria, una missione insostituibile, come ogni singola tessera in un mosaico. La moltitudine non toglie il valore d’ogni singola persona, che compone il Popolo di Dio; così che la moltitudine nella Chiesa non affoga la singolarità, specifica e irriproducibile, del singolo fedele, ma la assume e la onora e la esalta; e la rende idonea a ricevere i doni spirituali della comunità, e a dare i propri alla comunità stessa, come c’insegnò il Principe degli Apostoli, nella sua prima Lettera: «Unusquisque sicut accepit gratiam in alterutrum administrantes; sicut, boni dispensatores multiformis gratiae Dei; da buoni amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto» (1 Petr. 4, 10).

Così la moltitudine, che con le sue difficoltà quantitative e materiali Ci impedisce di avvicinare ciascuno di voi, è tuttavia per Noi grande letizia, Ci obbliga alla riconoscenza e all’affezione, Ci ravviva nel cuore quella simpatia, quella carità, che Gesù, come leggiamo nel Vangelo, ebbe per le folle che lo seguivano, per il popolo. Voi Ci rinnovate l’esperienza sensibile del mistero della Chiesa, Ci fate pensare all’intera umanità, che dalla Chiesa riceve o attende salvezza, Ci rinnovate quella riflessione, amorosa e tormentosa, che Noi dobbiamo avere del «mondo», sia che per mondo s’intenda l’intera famiglia umana, sia che per mondo si alluda a coloro che resistono alla vocazione cristiana; e Ci fate sperare.

Sì, sperare. È la grande consolazione che voi Ci portate in questi incontri, tanto brevi, ma tanto pieni di significato e di valore spirituale. Sperare, innanzi tutto, che voi, ciascuno di voi qui presenti, siate e sarete sempre figli fedeli della santa Chiesa. Non vi basti quest’ora di presenza e di devozione alla Tomba e alla Cattedra di San Pietro; tutta la vostra vita sia animata da un sentimento, da un proposito di cosciente fedeltà a Cristo, vivente ed operante nella sua Chiesa.

E la Nostra speranza cresce fino alla gioia, se Noi concediamo a Noi stessi la visione fantastica di ciò e di chi voi, senza forse saperlo, rappresentate. E non è fantasia vana, se ricordiamo che voi siete Popolo di Dio, e che dietro ciascuno di voi è lecito ed è bello immaginare una schiera innumerevole di cristiani rivestiti dalle vostre medesime sembianze umane. Piace a Noi, in questo momento, ravvisare in ciascuno di voi il rappresentante simbolico della sua categoria: vediamo dietro ogni fanciullo presente le file interminabili dei fanciulli delle nostre famiglie cristiane e delle nostre scuole, tutta l’infanzia innocente e lieta che porta ancora con sé la fragranza battesimale; vediamo dietro ogni giovane le schiere degli adolescenti e dei giovani, che, studiando, lavorando, pregando, entrano nella vita e, forti della santa Cresima ricevuta, sono contenti e fieri di dirsi cristiani; vediamo a fianco delle persone adulte la corona dei loro familiari, stretti nei rispettivi focolari cristiani da ineffabili affetti, forti e sacri; vediamo le famiglie buone, oneste, laboriose, religiose, che celebrano nella fedeltà e nel coraggio della quotidiana fatica la legge divina dell’amore e della vita; vediamo nei sacerdoti e nei religiosi presenti le loro chiese, le loro case, le loro opere, le loro comunità, tutte rivolte al servizio di Dio e del prossimo, tutte illuminate dalla luce-guida del Vangelo.
E poi i sofferenti, e con loro appare al Nostro sguardo l’esercito dei malati buoni e pii, che trasformano i loro dolori, e le loro prove in prezzo redentore per sé, per la Chiesa, per il mondo. Vediamo anche i soldati che assistono a questo raduno spirituale, e con loro tutti quanti, militari o civili, compiono con dedizione e con nobiltà di sentimenti il loro dovere a servizio della società nazionale. Vediamo cioè quelli che chiamiamo «buoni», e sono per fortuna senza numero, gli onesti, i fedeli, i cristiani, i cattolici, e fra questi i nostri laici militanti. Quale panorama umano meraviglioso! Quale città di Dio, frammista alla città terrestre! Quale giardino fiorito per virtù della rugiada misteriosa dello Spirito Santo; quale Popolo di Dio!

Ebbene, siate benedetti voi, figli e figlie qui presenti, che di questa visione di onestà, di bellezza morale, di santità Ci date memoria ed esperienza! Siate benedetti voi, che raccogliete la parola di Cristo, della quale Noi siamo messaggeri e custodi, che Ci comprendete, che Ci seguite, che insegnate nella pratica della virtù ciò che Noi vi insegniamo nella dottrina della verità! Siate benedetti voi, che appartenete alla «comunione dei santi» e per essa lottate e soffrite, pregate e gioite. Siate benedetti voi, figli fedeli e forti della santa Chiesa, che con la vostra coerenza, con la vostra adesione, con la vostra testimonianza, col vostro apostolato medicate le ferite della Chiesa stessa, consolate i suoi dolori, corroborate le sue speranze, irradiate la sua bellezza; siate benedetti!

Popolo di Dio! con i vostri Pastori il Papa è con voi, e con voi cammina verso la Patria eterna, ammirandovi, confortandovi, benedicendovi!


UDIENZA GENERALE

Festa di San Giuseppe Artigiano
Sabato, 1° maggio 1965

 

Il 1° maggio cristiano auspice il grande Artigiano di Nazareth

Diletti Figli e Figlie!

Se cerchiamo quali motivi spirituali dànno a questa udienza un significato particolare, è facile rilevare che tali motivi sono due: la festa del lavoro e la festa di San Giuseppe; anzi è uno solo, quello che suggerì dieci anni or sono, al Nostro Predecessore, di venerata memoria, Pio XII, di abbinare questi due titoli, che dànno al Calendimaggio il carattere d’un giorno speciale di festa, per farne, com’Egli disse, un «giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro» (Discorsi e Radiomessaggi, XVII, 76).
Questo atto, che ha potuto apparire a qualcuno come un pio artificio, come uno sforzo per attribuire ad una celebrazione profana, anzi laica nel senso più radicale del termine, un qualche tardivo e compiacente riconoscimento, rivela invece, come nel campo cattolico tutti hanno notato con soddisfazione, un gesto doppiamente coerente: coerente con la tradizione del culto cristiano, il quale non soltanto per purificare ed elevare le feste pagane, più d’una di esse ha assorbito nel suo calendario e ha trasfigurato in senso cristiano, ma altresì per obbedire al suo genio profondamente teologico e profondamente umano, il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia.

E seconda coerenza: e cioè con tutta l’opera dottrinale e pastorale svolta dalla Chiesa, dai Papi specialmente, dai Vescovi e da Maestri cattolici, da un secolo in qua, per ridare al lavoro una sua nuova spiritualità, una sua animazione cristiana.
E allora l’aver fatto coincidere la festa del lavoro con la festa del lavoratore S. Giuseppe, che nella scena evangelica, nella stessa famiglia terrena di Cristo, personifica il tipo umano, che Cristo medesimo scelse per qualificare la propria posizione sociale «fabri filius» (Matth. 13, 55), pone il grande, enorme, moderno problema della riconciliazione del mondo del lavoro con i valori religiosi e cristiani, e della conseguente irradiazione di dignità, di energie, di conforti, di speranze, che il Vangelo può e deve ancor oggi diffondere sulla fatica umana; anzi quasi lo dà, questo problema, per risoluto, anche se oggi pur troppo, in gran parte, risoluto non è.

Anche questo modo di agire è nel costume della Chiesa credente, la quale sovente opera «contra spem, in spem» (Rom. 4, 18), sicura che il tempo, i fatti, gli uomini le daranno ragione, perché lo Spirito di Dio anticipa alla Chiesa una sicurezza profetica, che un giorno, a bene dell’umanità, sarà vittoriosa.

E nulla diremo, in questo brevissimo momento, delle troppe cose che si offrono alla mente dalla presentazione del problema suddetto, del rapporto cioè fra vita religiosa e vita del lavoro: perché queste due supreme espressioni dell’attività umana dovrebbero essere separate fra loro? Perché in contrasto? Come fu che la loro alleanza, la loro simbiosi si ruppe? Quale lunga storia, quale diligente analisi ce ne può indicare le ragioni, i pretesti, le rovine? Forse non fu a tempo compresa la trasformazione psicologica e sociale che il passaggio dall’impiego di umili e primitivi utensili in aiuto della fatica dell’uomo all’impiego della macchina con tutte le sue nuove potentissime energie avrebbe prodotto? Non ci si avvide che nasceva una favolosa speranza dal regno della terra che avrebbe oscurato e sostituito la speranza del regno dei cieli?

Non ci si accorse che la nuova forma di lavoro avrebbe risvegliato nel lavoratore la coscienza della sua alienazione, che cioè egli non operava più per sé, ma per altri, con strumenti non più propri, ma di altri, non più solo ma con altri, e che sarebbe sorta nel suo animo la brama d’una redenzione economica e temporale, che non gli lasciava più apprezzare la redenzione morale e spirituale offertagli dalla fede di Cristo, non a quella contraria, ma di quella fondamento e corona?
E mancò forse (non certo nei Papi) il linguaggio, mancò il coraggio per dire al mondo del lavoro, sconvolto delle sue stesse affermazioni, qual era la via buona del suo riscatto, e quale il bisogno e il dovere di non mortificare al livello del benessere economico la sua capacità ed il suo diritto di salire insieme al livello delle supreme realtà della vita, che sono quelle dell’anima e di Dio?

Nulla diremo. Del resto sono cose che tutti ora, più o meno, conoscono, e che solo richiamiamo al vostro spirito, oggi e proprio qui, perché abbiate a ricordarle e a meditarle, alla luce che la festa di S. Giuseppe, esempio e protettore del mondo del lavoro, proietta su di noi, quando siamo memori del Vangelo e memori della meravigliosa fedeltà, con cui esso si rispecchia nelle attualissime Encicliche pontificie.

E abbiate a interessarvi di queste cose, che hanno tanta importanza nella vita moderna fino a determinarne le forme salienti ed il corso, non si sa se più travagliato o trionfale. Interessarvi per pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte. E per quanti anche del lavoro fanno argomento programmatico e permanente di lotta sociale, invece che di armoniosa e positiva cooperazione nella giustizia e nella libertà; fonte di odio sociale e di passione, invece che di amore fraterno e di esaltazione di nobili sentimenti. Ed infine perché all’interessamento di pensiero e di preghiera abbiate ad aggiungere, come possibile, quello della solidarietà e dell’operosità, affinché «la giustizia e la pace» auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro.

La Nostra Benedizione vi incoraggia e vi assicura l’aiuto del Cielo.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 maggio 1965

 

Le vocazioni ecclesiastiche

Diletti Figli e Figlie!

Il nostro desiderio sarebbe di salutarvi ad uno ad uno! Questo è nell’aspirazione dell’affetto, che tende naturalmente al colloquio personale; questo è nell’ordine della carità, la quale, mentre si rivolge alla moltitudine e vuole a tutti arrivare e fare di tutti una cosa sola, non per questo dimentica che ciascuno è persona, e che ciascuno è degno del suo proprio esclusivo ed ineffabile rapporto della parola: cor ad cor loquitur - come diceva il Newman -: il cuore parla al cuore.

Veniva a Noi questo pensiero meditando il Vangelo della scorsa domenica, il Vangelo del Buon Pastore, che presentando questa bella immagine, che potremmo dire virgiliana, sembra assimilare a un branco di pecore i seguaci del Vangelo, mentre in questa similitudine di unità e di autorità, propria della comunità ecclesiale, subito è marcata la personale individualità del gregge cristiano, là dove il Pastore nota che intercorre una conoscenza particolare fra il Pastore stesso e le sue pecorelle, che distinguono la voce di Lui, il Quale - è una precisazione non solo descrittiva e poetica, ma profondamente psicologica e mistica - il Quale «le chiama ciascuna per nome: vocat nominatim» (Io. 10, 4).

Naturalmente questa misteriosa conversazione fra il Pastore ed ogni singola anima è una prerogativa esclusiva di Cristo, ben a ragione definito «Re e centro di ogni cuore», ma segna un aspetto, offre un esempio, stabilisce un principio della vita pastorale della Chiesa. Dobbiamo sempre ricordarci di questo: che cosa è la Chiesa? È la convocazione dei fedeli, è l’umanità chiamata a comporre il gregge di Cristo, o, con un’altra immagine estremamente espressiva e notissima, il Corpo mistico di Cristo. Il termine stesso di «Chiesa», s’è detto tante volte, vuole dire assemblea chiamata ad unirsi a Cristo ed in Cristo.

E il Nostro pensiero andava volgendosi al tema, che il Concilio ha posto in evidenza, del Popolo di Dio, ch’è appunto la grande comunità convocata da Dio nel suo disegno di salvezza e di elevazione soprannaturale, tramite il ministero apostolico. La voce di Dio che chiama si esprime in due modi, diversi, meravigliosi e convergenti : uno interiore, quello della grazia, quello dello Spirito Santo, quello ineffabile del fascino interiore che la «voce silenziosa» e potente del Signore esercita nelle insondabili profondità dell’anima umana; e uno esteriore, umano, sensibile, sociale, giuridico, concreto, quello del ministro qualificato della Parola di Dio, quello dell’Apostolo, quello della Gerarchia, strumento indispensabile, istituito e voluto da Cristo, come veicolo incaricato di tradurre in linguaggio sperimentabile il messaggio del Verbo e del precetto divino. Così insegna con San Paolo la dottrina cattolica: «Quomodo audient sine praedicante?. . . Fides ex auditu»: come potranno intendere senza uno che parli predicando? . . . la fede nasce dall’ascoltare (Rom. 10, 14 e 17).

Vi diciamo questo, Figli e Figlie, anche per un’altra ragione: domenica scorsa la Chiesa nostra, da qualche anno, fissa su questo stupendo ordine di pensieri teologici e spirituali un suo pensiero pastorale, diventato assillante, quello delle vocazioni, e per vocazioni qui si intendono le chiamate libere e privilegiate al totale servizio e all’unico amore di Cristo nei posti specificamente determinati dalla santa Chiesa. Sono le vocazioni ecclesiastiche, sono le vocazioni religiose. Sono quelle che palesano un’iniziativa, un desiderio, una aspettativa di Cristo. Perché Cristo chiama. Come agli Apostoli, da Lui eletti ed educati, Gesù ripete ancor oggi: vieni e seguimi. È il Pastore che viene a colloquio personale, intimo, sconvolgente forse ed avvincente: chiama per nome, «nominatim»: Te io chiamo!

Voi sapete che oggi, mentre da un lato cresce il bisogno di chi si consacri all’amore e al culto di Dio e all’amore e al servizio dei fratelli, diminuisce - in molte regioni della Chiesa, anche in quelle che un tempo erano le più fiorenti e fertili di anime generose e pure, votate al Vangelo - diminuisce il numero di questi volontari della Croce e della Gloria di Cristo. La Chiesa viene a trovarsi in una dolorosa e talora pungente condizione: quella d’avere dinanzi a sé il mondo aperto per la sua missione, un mondo che sembra insensibile e repulsivo, e che in realtà attende ed implora: vieni a soccorrerci, adiuva nos (cfr. Act. 16, 9) e non può; non può per mancanza di uomini e di donne, che abbiano accettato di darsi a Cristo e alla salvezza del mondo. Gesù stesso, voi ricordate, sperimentò questa pena, che doveva essere poi perenne nel cuore dei suoi apostoli: «La messe è molta ma gli operai sono pochi» (Matth. 9, 37).

E qui il lamento di Gesù, diletti Figli e Figlie, si fa Nostro! La sua chiamata viene alle Nostre labbra, e suona ora così: rifletta ognuno che ha la grazia, la somma fortuna, d’appartenere alla Chiesa, d’essere un chiamato, d’avere una sua «vocazione» cristiana; e rifletta chi nella coscienza di questa sublime, ma comune chiamata avvertisse un invito più diretto e più profondo, più esigente e più soave, se il Signore non voglia qualche cosa di più della comune fedeltà, non voglia tutto, non voglia quel sacrificio che sembra annientare chi lo accetta e che dà invece a lui la nuova pienezza promessa ai generosi; quel centuplo, che già fin da questa vita terrena conferisce un’intima felicità incomparabile. La vocazione è una grazia che non è di tutti; ma può essere ancor oggi di molti. Di molti giovani, forti e puri; di molte anime che hanno l’ansia della bellezza superiore della vita, l’ansia della perfezione, la passione della salvezza dei fratelli; di molti spiriti, che nella loro stessa timidità ed umiltà sentono scaturire la forza che rende tutto facile e tutto possibile: «Omnia possum in Eo qui me confortat»: tutto posso in Colui che mi sostiene (Phil. 4, 13).

Preghiamo che sia così. Forse qualcuno, che ora ode questa Nostra umile voce di fuori, sente di dentro la voce regale di Cristo?

Preghiamo che sia così: la Nostra Benedizione è per quanti «ascoltano la parola di Dio e la custodiscono» (Luc. 11, 28).



Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 13:26

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 2 giugno 1965

 

Il buon pastore guida tutte le anime

Diletti Figli e Figlie!

Sapete che cosa viene alla Nostra mente a causa di queste udienze generali? Viene alla Nostra mente il desiderio di leggere nelle vostre anime le impressioni che vi sorgono dentro, proprio a causa dell’udienza stessa. A Noi pare d’indovinare alcuni vostri pensieri; e Ci sembra conforme alla semplicità e alla schiettezza dell’incontro spirituale, che desideriamo avere con voi, il farne oggetto del Nostro breve discorso.

Vediamo se riusciamo a comprenderci. Noi crediamo che una delle vostre impressioni spontanee in ciascuno di voi sia questa: perché sono qui? Si fa cioè cosciente in ciascuno di voi la ragione della vostra presenza. Ciascuno di voi può subito rispondere: sono qui per vedere il Papa. Certamente. Ma perché, Noi chiediamo, volete vedere il Papa? E a questa domanda, anch’essa del tutto ovvia e immediata, la risposta non è per tutti uguale.

Per intenderci facilmente diremo che vi sono tre modi di rispondere. Cioè qualcuno dice a se stesso: io sono qui come un estraneo, come un semplice visitatore, come un osservatore, come un turista, un curioso, uno che assiste, per conoscere, per vedere, ma che rimane forestiero e staccato, senza personale partecipazione all’intensità spirituale di questo momento e di questa atmosfera. Qualche altro invece risponde a se stesso: sono qui perché mi piace. Qui vi sono tante belle cose da vedere, da sentire, da pensare; sono qui da amico; amico, ad esempio, dell’arte, amico della storia, amico dello spettacolo, che qui posso osservare e godere. La partecipazione, in questo caso, è ancora più cordiale e sincera, ma parziale; aderisce a qualche aspetto di questo incontro, ma non forse a ciò che più importa: la comunione di fede e di carità, che costituisce l’essenza vera e profonda dell’incontro stesso.
E finalmente vi è chi dice a se stesso: io sono qui, perché sono in casa mia, sono in casa del Padre comune, sono figlio della Chiesa e mi trovo qui in piena confidenza, sono qui per sentirmi cattolico cioè unito non solo a tutti quelli che sono presenti di fatto, ma anche a tutti quelli che sono presenti di spirito, a tutti i fedeli che formano una sola famiglia di Cristo, un solo popolo di Dio: è per godere un istante di questa misteriosa pienezza spirituale che sono qui; per sentirmi io pure membro vivo del Corpo mistico di Cristo, nella certezza d’una sola fede, nella gioia di un’identica carità.

Diciamo dunque: qui si può essere come estranei, come amici, come figli.

Fate attenzione: questa classifica, che in questo momento viene in evidenza, che si fa sensibile nei vostri spiriti, vale non soltanto ora e qui; vale sempre per definire le differenti posizioni, che gli animi delle persone del nostro tempo possono assumere rispetto alla Chiesa: vi è chi si considera estraneo, chi si considera amico, chi si considera figlio e membro vivo della comunione cattolica.
E osservate ancora come questa triplice divisione riguarda non solo gli animi, ma le cose altresì di cui s’interessano gli uomini di ogni tempo: vi sono cose estranee alla competenza diretta della Chiesa, le cose temporali, le cose di questo mondo e per questo mondo; vi sono cose comuni alla Chiesa e a questo mondo; l’arte, ad esempio, la cultura, la beneficenza, e così via; e vi sono cose che solo la Chiesa possiede ed essa sola può dare: la dottrina del Vangelo, la preghiera liturgica e la grazia sacramentale, la via del Signore e la sua speranza di vita eterna.

E se pensate ancora, vi accorgete che queste diverse cose, che determinano diverse posizioni rispetto alla Chiesa, possono trovarsi, sotto differenti aspetti, nella medesima persona, la quale può essere, al tempo stesso, indipendente, quando si occupa di cose moralmente indifferenti e religiosamente profane; collegata, quando si occupa di cose che appartengono simultaneamente alla sfera profana e alla sfera sacra; e partecipe infine, quando agisce da soggetto fedele alla santa Chiesa.

Accenniamo a questa diversità di rapporti (e non sono solo questi, nella complessa realtà della vita; pensate, ad esempio, ai rapporti delle anime nell’ordine della grazia, quelle lontane, nel peccato o nell’inimicizia; quelle vicine, nell’unione spirituale e nella santità), perché Ci sembra un aspetto interessante, di spontanea coscienza, nel momento in cui Ci troviamo; una specie di esame di coscienza si pronuncia nei vostri spiriti a riguardo delle vostre relazioni con la Chiesa e con Cristo; e poi perché sappiate che Noi, in astratto se non in concreto, conosciamo codesta pluralità di relazioni, e le rispettiamo.

Diremo soltanto la Nostra altrettanto spontanea reazione a codesta varia presentazione spirituale dei Nostri visitatori; ed è quella del Pastore - Dio voglia: del buon Pastore, che conosce il suo gregge ed effonde su di esso una medesima affezione, un eguale interesse, una unica carità. Tutti, tutti qui, Figli e Figlie carissimi, siete accolti con lo stesso cuore; tutti siete per Noi i benvenuti nella dilezione, che il Cuore immenso di Cristo - al cui culto è particolarmente rivolta la devozione di questo mese di giugno - comunica al piccolo Nostro cuore di Pastore e di Padre comune.

Se volessimo proseguire su questo tema potremmo dire qualche mirabile cosa: è la vostra accoglienza, ad esempio, a dosare l’intensità della Nostra pastorale affezione e a qualificarne il tenore; e di più, ricordate che questa Nostra affezione ha misure strane; spesso la distanza l’accresce invece che attenuarla; e spesso chi si crede difeso dalla carità apostolica per la sua indifferenza o per la sua ostilità, è più ricordato e cercato da tale carità; appunto come nel Vangelo del pastore, affannato nella ricerca della pecorella smarrita. Citiamo una voce dei primi secoli cristiani, quella di Tertulliano: «Errat et una pastoris ovicula, sed grex una carior non erat»; si perde anche una sola pecorella del pastore, ma tutto il gregge non era più caro di quella sola (De paenitentia, VIII, P.L., 1, 1353).

Così, Figli e Figlie, quanti qui siete, e quanti a voi giunge l’eco della Nostra umile voce, tutti sappiate che nella carità di Cristo vi portiamo nel cuore, e tutti vi benediciamo nel suo santissimo Nome.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 7 luglio 1965

 

Essenza della fedeltà cristiana

Diletti Figli e Figlie,

Sembra a noi occasione felice quella che voi Ci offrite con la visita alla tomba di San Pietro per ripetere una parola esortatrice dell’Apostolo stesso: «Siate santi in tutta la vostra condotta: In omni conversatione sancti sitis» (1 Petr. 1, 15). Vogliamo supporre che ciascuno di voi - di voi sacerdoti, specialmente; di voi religiosi; di voi militanti in associazioni cattoliche - troverà naturale che il Papa ripeta una tale parola; l’esortazione alla santità della vita è la sintesi più semplice e più alta del magistero pastorale; è la conclusione teorica ed il principio pratico del messaggio evangelico applicato alla nostra vita; è l’esigenza indeclinabile per chi voglia davvero ascoltare con fedeltà e seguire con coerenza l’invito della religione cristiana a fondare sul Vangelo la propria concezione della vita e a fissare nel rapporto soprannaturale con Dio il cardine della propria condotta. Ecco perché il Papa, con tutti i buoni maestri di spirito, ripete: sancti sitis, siate santi.

Volendo discorrere su questa elementare, ma somma raccomandazione, potremmo chiederci due cose: quale sia il significato della parola «santità» nel linguaggio dell’Apostolo, che ce la propone; e, senza approfondire quanto la questione meriterebbe, possiamo dire semplicemente che tale significato è fecondo di non poche spiegazioni: può intendersi come uno stato di integrità, derivato dalla grazia, che autorizza a chiamare «santi» tutti i battezzati, fedeli alla loro vocazione cristiana; e può invece riferirsi ad una attitudine morale, tesa ad una perfezione, sempre in fieri, sempre progrediente verso una conformità al volere di Dio, anzi alla stessa santità di Dio: «Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Matth. 5, 48), dice Gesù; e San Paolo aggiunge: «Siate imitatori di Dio, come figli carissimi» (Eph. 5, 1); per cui religione e santità diventano - insegna Maestro Tommaso (II-II 81, 8) - la stessa cosa, solo concettualmente distinte. Il che sembra autorizzarci a pensare la santità, sì, come cosa altissima, ma nello stesso tempo, per un cristiano, sempre doverosa e possibile.

L’esortazione perciò, che vi rivolgiamo, non è fuori luogo, non è iperbolica; e non è anacronistica rispetto allo stile di vita, che il costume moderno impone a tutti; la santità non è cosa né di pochi privilegiati, né di cristiani dei tempi antichi; è sempre di moda; vogliamo dire è sempre programma attuale ed impegnativo per chiunque voglia chiamarsi seguace di Cristo.

E qui potremmo enunciare la Nostra seconda domanda che riguarda le ragioni, che suggeriscono il richiamo alla esortazione apostolica: siate santi! E tacendo le ragioni intrinseche (vi abbiamo tuttavia accennato) ne indichiamo alcune, rapidamente, estrinseche, cioè suggerite da certe condizioni spirituali proprie del nostro tempo.

E sono chiare. È palese a tutti che oggi si vive in un periodo di profonde trasformazioni di pensiero e di costume; ed è perciò spiegabile come siano spesso messe in questione certe norme tradizionali, che facevano buona, ordinata, santa la condotta di chi le praticava. Spiegabile, ma non lodevole, non approvabile, se non con grande studio e cautela, e sempre secondo la guida di chi ha scienza ed autorità per dettare legge del vivere cristiano.

Oggi, pur troppo, si assiste ad un rilassamento nell’osservanza dei precetti, che la Chiesa ha finora proposto per la santificazione e per la dignità morale dei suoi figli. Uno spirito di critica e perfino di indocilità e di ribellione mette in questione norme sacrosante della vita cristiana, del comportamento ecclesiastico, della perfezione religiosa. Si parla di «liberazione», si fa dell’uomo il centro di ogni culto, si indulge a criteri naturalistici, si priva la coscienza della luce dei precetti morali, si altera la nozione di peccato, si impugna l’obbedienza e le si contesta la sua funzione costituzionale nell’ordinamento della comunità ecclesiale, si accettano forme e gusti di azione, di pensiero, di divertimento, che fanno del cristiano non più il forte e austero discepolo di Gesù Cristo, ma il gregario della mentalità e della moda corrente, l’amico del mondo, che invece d’essere chiamato alla concezione cristiana della vita è riuscito a piegare il cristiano al fascino e al giogo del suo esigente e volubile pensiero.

Non certo così noi dobbiamo concepire «l’aggiornamento», a cui il Concilio ci invita: non per svigorire la tempra morale del cattolico moderno è da concepirsi questo «aggiornamento», ma piuttosto per crescere le sue energie e per rendere più coscienti e più operanti agli impegni, che una concezione genuina della vita cristiana e convalidata dal magistero della Chiesa ripropone al suo spirito.

E ciò tanto più dobbiamo tenere presente se vogliamo che davvero il cristianesimo, quale la Chiesa cattolica interpreta e vive, abbia funzione di luce, di unità, di rigenerazione, di prosperità, di pace, di salvezza nel mondo moderno. Chi non sa che solo un cristianesimo autentico merita d’essere vissuto, e che, solo se vissuto in pienezza, esso acquista virtù di salute per la nostra umanità? Il che significa che di santi ha bisogno la Chiesa ed ha bisogno il mondo; e che pertanto la Nostra umile esortazione: siate santi! merita che voi la accogliate e la ripensiate; e merita che Noi la accompagniamo con la Nostra Apostolica Benedizione.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 14 luglio 1965

 

L'autorità della Chiesa è pastorale

Diletti Figli e Figlie!

Tema di queste brevi parole, che vogliono collegare l’udienza, subito finita, al filo di qualche pensiero meritevole di durare nella memoria e nella riflessione, è anche questa volta una delle impressioni più comuni, solite a sorgere nell’animo del visitatore, specialmente se questi è forestiero, o assiste per la prima volta all’incontro, che stiamo insieme godendo.

Quale impressione? L’impressione d’entrare in un ambiente estremamente disciplinato, assai esigente, dominato da un sistema complesso e intangibile d’autorità. Come quando un visitatore estraneo entra in un grande stabilimento moderno si sente meravigliato, intimidito, quasi sopraffatto dalle strutture e dal fervore ordinatissimo dell’attività, che lo circondano, così qui spesso il visitatore, pellegrino o turista che sia, avverte d’essere entrato in una specie di campo magnetico, attraversato da potenti correnti invisibili, che, senza togliergli la sua autonomia. personale, senza soffocare la sua libertà, anzi invitandola piuttosto e stimolandola a cosciente e spontaneo consenso, lo colloca in un ordine superiore, tutto pervaso da leggi ben chiare, alcune delle quali indiscutibili e inflessibili, quelle divine, e governato da autorità a cui è dovere obbedire.

Questa impressione d’autorità è resa più viva qui, al centro della Chiesa cattolica dove tutti i poteri gerarchici sono collegati, e dove il grado delle potestà ecclesiastiche è più alto. Donde possono sorgere due altre impressioni, fra loro contrarie: quella di contentezza e di sicurezza, propria di coloro che hanno la fortuna di essere e di apprezzare la comunione in cui vivono, d’appartenere cioè come membra vive ed organiche del Corpo mistico di Cristo, la Chiesa: qui meglio se ne avverte la compagine unitaria ed universale; qui si riconosce la sua funzionalità stabilita da Cristo, mediante la quale il fratello prescelto è reso strumento e canale dei doni divini per il fratello. L’altra impressione invece è di timore e di diffidenza, quasi che questo ordinamento gerarchico ed autoritario venga ad umiliare la personalità del gregario, e sia invenzione umana contraria all’eguaglianza fraterna, che deriva pur essa dalla dottrina del Vangelo.

Oggi poi tutti sanno come questo stato d’animo ostile al principio d’autorità sia molto diffuso, non solo nella società temporale, ma si manifesti in diversi settori della stessa vita cattolica. L’obbedienza, cioè il riconoscimento cordiale e pratico dell’autorità, è messa continuamente in questione, come contraria allo sviluppo della persona umana, come indegna di esseri liberi, maturi e adulti, come metodicamente sbagliata, quasi creasse spiriti deboli e passivi, e perpetuasse nei tempi moderni criteri sorpassati di rapporti sociali.

Vi è chi pensa essere meritorio affrontare il rischio della disobbedienza liberatrice, ed essere giuoco lodevole mettere l’autorità di fronte al fatto compiuto. E non mancano persone di ingegno che, forse senza dirlo apertamente, si illudono che si possa essere eccellenti, o almeno sufficienti cattolici rivendicando per sé un’assoluta autonomia di pensiero e d’azione, sottraendosi a qualsiasi rapporto, non solo di subordinazione, ma altresì di rispetto e di colleganza con chi nella Chiesa riveste funzioni di responsabilità e di direzione.

Quanto vasto sarebbe oggi, purtroppo, il campo di simili rilievi! Ma non intendiamo ora dire parole amare e polemiche. Come non intendiamo fare l’apologia della autorità. Voi, del resto, ne conoscete bene i titoli evangelici, da cui essa deriva; e sapete come essa vuol essere servizio di carità e di salvezza, non altro.

Per limitarci all’analisi della impressione sopra accennata d’essere giunti nel regno dell’autorità, risponderemo sinteticamente ad alcune domande, che ci sembrano sgorgare da quella stessa impressione. Ecco: è esatta tale impressione? Sì, è esatta. Qui l’autorità della Chiesa ha l’espressione più piena e più autentica. Ma ricordate: è difficile farsi un concetto esatto dell’autorità, di quella ecclesiastica specialmente. L’esperienza e la storia ce ne offrono delle immagini non sempre fedeli, non sempre felici. Bisogna approfondire l’idea della autorità della Chiesa, purificarla da forme che non le sono essenziali (anche se in date circostanze le sono state legittime, come il potere temporale, ad esempio), e ricondurla al suo originario e cristiano criterio.

Ci sentiamo domandare: non è servizio l’autorità della Chiesa? Certamente; lo dicevamo poc’anzi; Gesù l’ha detto: «Chi è superiore, diventi servitore» (Luc. 22, 26). Ma anche qui occorre intendere bene il pensiero del Maestro. Quale servizio è domandato a chi riveste funzioni di guida e di direzione? Un servizio che deve sottostare a coloro che sono serviti e deve essere responsabile di fronte ad essi? No; un servizio a vantaggio dei fratelli, ma non a loro soggetto; un servizio a cui Cristo affidò non uno strumento servile, ma un segno di padronanza, le Chiavi, cioè le potestà del regno dei cieli; e servizio responsabile solo davanti a Dio: «Qui autem iudicat me Dominus est», dice di sé San Paolo: chi solo mi può giudicare è il Signore (1 Cor. 4, 4).

Ma allora qual è l’immagine, che rappresenta il Superiore-servitore, non puramente mediatore fra la pluralità dei pareri della comunità, non puramente amministratore dei suoi immediati interessi, non soltanto testimonio della Parola di Dio; né tanto meno capo dispotico e insensibile alla dignità, ai bisogni e alle capacità dei fedeli, sia considerati come singoli, che collettivamente? Voi la ricordate questa immagine, piena di autorità e di dignità e insieme piena di bontà e di spirito di sacrificio: è quella del Pastore, che Cristo a se stesso attribuì (Io. 10, 11), e in Pietro con triplice precetto, volle si realizzasse (Io. 21, 16 ss.). L’autorità nella Chiesa è pastorale.

E ancora voi Ci chiederete: ma dunque un’autorità, così qualificata e destinata a fare dell’umanità un gregge solo (Io. 10, 16), dovrà tutti livellare e tutto uniformare, secondo un solo tipo concreto di fedeltà religiosa?
Vi risponderemo con una parola di San Gregorio Magno: «In una fide, nihil officit sanctae Ecclesiae consuetudo diversa»; quando la fede è unica, non nuoce alla Chiesa la diversità delle consuetudini! (Ep. lib. I, 43; P.L. 77, 497). L’unità nella Chiesa non è uniformità, se non di fede e di carità.

E basti ora così a tema di tanta ampiezza e gravità! Ma non senza che Noi, a Cui la Provvidenza ha voluto affidare la somma autorità nella Chiesa, non vi confidiamo fugacemente quanto siano pesanti queste chiavi, derivate dalle mani di Pietro alle Nostre deboli mani, quanto gravi a portare, quanto più gravi a manovrare!

Perciò, Figli e Figlie carissimi, abbiate compassione e comprensione di quanti fungono da Sacerdote, da Maestro o da Pastore nella Chiesa di Dio (cfr. Hebr. 13, 17); non vi pesi l’obbedienza e la collaborazione; vi rendano piuttosto fieri e lieti di giovare all’incremento del regno di Dio, e vi facciano partecipi dei suoi doni e dei suoi meriti; dei quali ora vuol essere pegno la Nostra Apostolica Benedizione.




UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 28 luglio 1965

 

Essere veri discepoli della Chiesa insuperabile maestra

Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita, Noi lo sappiamo, nasconde una tacita e filiale aspirazione, quella di scoprire qualche cosa dei pensieri del Papa. Sappiamo anche che non è difficile al vostro buon senso cattolico rintracciare molti Nostri pensieri, molti Nostri desideri. Se Noi infatti vi chiedessimo: provate a indovinare che cosa ora occupa maggiormente il Nostro animo, voi tutti forse rispondereste: il Concilio! la prossima quarta sessione del Concilio ecumenico vaticano secondo. Proprio così. Lo abbiamo Noi stessi annunciato la scorsa settimana, al Nostro arrivo a Castel Gandolfo. E non può essere altrimenti. Queste grandi riunioni mondiali del Concilio costituiscono avvenimenti molto importanti, sia per la vita della Chiesa, sia indirettamente per quella del mondo; tanto per oggi, e quanto ancor più per domani. La quantità e la natura dei temi da trattare, la loro gravità e complessità, non che il fatto che con questa Sessione si concluderà ufficialmente il Concilio e si apriranno i suoi immensi problemi successivi, riempiono il Nostro spirito di grande attenzione e di trepidante sollecitudine; ed è facile supporre l’impegno da Noi a ciò reclamato.

E Noi lasciamo che la vostra filiale curiosità Ci legga nel cuore le cure, lo studio, le apprensioni, le speranze d’un tale pensiero, sapete perché? per due ragioni.

La prima, tante volte ripetuta in questi anni, si è che il Concilio non dev’essere pensiero esclusivo del Papa e dei Vescovi, ma deve interessare tutto il Popolo di Dio, tutta la Chiesa; in modo assai diverso, ben si comprende, ma con comunione di sentimenti e con solidarietà di atteggiamenti pratici. Per il fatto che la comunità dei fedeli è recettiva delle verità della fede, che il magistero della Chiesa, custode e interprete della Rivelazione divina, le propone, e che poi essa stessa, la comunità dei fedeli, diventa custode e teste delle verità medesime, si produce negli animi dei buoni figli della Chiesa uno stato di attesa, di sospensione, di apertura e di fervore operativo, dal quale dipenderà, poi, in gran parte, il frutto del Concilio. Ed è questo atteggiamento spirituale il più giusto ed il più alto, che, tanto chi ha voce responsabile nel Concilio, come chi tale voce deve ascoltare e far propria, possa offrire al felice esito del Concilio, perché rende più facile e più feconda l’azione misteriosa dello Spirito Santo, nella guida, nell’animazione e nella santificazione del Corpo mistico di Cristo, ch’e la Chiesa, che siamo noi, quando siamo debitamente uniti a Cristo medesimo. Bisogna mettersi in stato di vigilanza spirituale, se vogliamo che il Concilio raggiunga i suoi fini e diventi un momento rinnovatore e decisivo della vita della Chiesa. Vigilanza, che vuol dire attenzione, vuol dire conoscenza, vuol dire fiducia. Vuol dire tensione, umiltà, capacità di accettare e di godere delle novità, che il Concilio ci può recare.

Non diremmo che sia altrettanto sintonizzato con la spiritualità del Concilio l’atteggiamento di coloro che prendono occasione dai problemi ch’esso solleva, e dalle discussioni ch’esso genera per eccitare in sé e in altri uno spirito d’inquietudine e di riformismo radicale, tanto nel campo dottrinale, che in quello disciplinare, come se il Concilio fosse l’occasione propizia per mettere in questione dogmi e leggi, che la Chiesa ha iscritto nelle tavole della sua fedeltà a Cristo Signore; e come se esso autorizzasse ogni privato giudizio a demolire il patrimonio della Chiesa di tutte le acquisizioni che la sua lunga storia e la sua convalidata esperienza le hanno procurato nel corso dei secoli.

Vorrebbero forse che la Chiesa tornasse bambina, dimenticando che Gesù ha paragonato il regno dei cieli ad un minuscolo seme che deve crescere e diventare pianta frondosa (Matth. 13, 31 ), e che ha preannunciato lo sviluppo per opera del Paraclito della dottrina da lui insegnata (Io. 14, 26 e, 16; 13)? vorrebbero che, per essere autentica, la vera Chiesa si contentasse di ciò ch’essi definiscono essenziale? si riducesse cioè a puro scheletro e rinunciasse ad essere corpo vivo, crescente ed operante, non ipotetico e idealizzato, ma reale ed umano nella vissuta esperienza della storia?

Così pure, per un altro verso, non diremo che siano buoni interpreti dell’ortodossia coloro che diffidano delle deliberazioni conciliari e che si riservano di accettare soltanto quelle che essi giudicano valide, quasi che sia lecito dubitare della loro autorità, e che l’ossequio alla parola del Concilio possa fermarsi là dove non esige alcun adattamento della propria mentalità, e dove si limita a confermarne la stabilità.

Non si pensa abbastanza che, quando la Chiesa Maestra tiene cattedra, bisogna tutti diventare discepoli.

Comprendete allora meglio anche la seconda ragione, per cui Noi siamo lieti di avere voi, quali rappresentanti di tutti i figli buoni e fedeli della santa Chiesa, partecipi delle Nostre apprensioni e delle Nostre speranze relativamente al Concilio; siamo lieti, perché come voi siete con Noi «in tribulatione patientes», siate anche «oratione instantes», come esorta San Paolo (Rom. 12, 12). Sì, bisogna riprendere, più fervorosi che mai, a pregare; a pregare per il buon esito del Concilio; ed è questa una collaborazione preziosa, che ogni fedele può offrire; e che Noi a ricordo di questo breve incontro, di cuore vi raccomandiamo: pregare per il Concilio.

Lo farete? Sicuri che, si, lo farete, vi ringraziamo e vi benediciamo.

 

Incontrando poi gli Insegnati di religione;

La preparazione degli Insegnanti di Religione nelle scuole, la loro qualificazione - come oggi si dice -, il loro perfezionamento sono finalità alle quali si sente interessato, per eminente responsabilità, il Nostro ministero di maestro e di pastore; ed alle quali sono state rivolte in questi ultimi decenni studi, aspirazioni, esperimenti, tentativi, attività che documentano come la Chiesa non sia stata insensibile al dovere e alla fortuna di offrire alla Scuola italiana un insegnamento religioso conforme alla dignità della Scuola stessa, all’eccellenza della materia insegnata ed ai bisogni della gioventù. Ma il compito è tale che non si fa torto ad alcuno, se dobbiamo riconoscere essere tuttora necessario dedicarvi cure nuove, più ampie, più sistematiche, più esigenti, e più pertinenti.

L’insegnamento religioso scolastico deve fare nuovi progressi, specialmente nell’attitudine di coloro che hanno la ventura di poterlo e di doverlo impartire. Lo esige, per non dir altro, la difficoltà stessa che tale insegnamento presenta. Non è da tutti saper insegnare come si conviene una Religione, come la nostra, straordinariamente ricca di storia, di dottrina, di rapporti con la vita; una Religione anzi che giustamente pretende d’identificarsi con la vita, nel senso di costituire le più intime, le più autorevoli, le più efficaci, le più benefiche, le più feconde ragioni informatrici dello spirito che le apre, come a soffro vitale, gioiosamente l’accesso.
Un vero insegnamento religioso non è il semplice studio d’un libro, non è la semplice esposizione della materia, non è un comune esercizio scolastico; anche se sobrio e delicatamente sensibile alle peculiari esigenze dell’ambiente in cui si svolge, l’insegnamento religioso deve tradurre qualche cosa della sua natura di messaggio della salvezza, qualche cosa della sua spirituale sicurezza, qualche cosa della sua incomparabile umanità, qualche cosa della sua ineffabile verità. Esige una speciale «ars docendi», una speciale pedagogia; a possedere la quale non basta la comune informazione, spesso approssimativa ed empirica, che può avere qualsiasi sacerdote o religioso, o qualsiasi laico religiosamente istruito.

Troppi elementi culturali, didattici e soprattutto morali sono necessari per dare al maestro di Religione il prestigio e l’efficacia che lo devono qualificare: non vi è forse pericolo che, mancando di tali specifici requisiti, l’insegnamento della Religione riesca non solo infruttuoso, ma talvolta perfino nocivo?

Il maestro di Religione è un testimone; guai se non lo fosse con i carismi del sapere, della virtù e anche dell’abilità didattica, i quali devono conferire virtù persuasiva alla sua parola, anzi alla sua stessa presenza nella Scuola!

Sono cose conosciute e ripetute. Ma non mai abbastanza, finché non sia formata una profonda coscienza della missione del maestro di Religione, non si sia formata una categoria di Insegnanti veramente competenti e votati a così alto e delicato ministero. Perciò è chiaro il merito dell’iniziativa che convoca ad un corso di vera pedagogia persone valenti, volonterose e già informate della «problematica» in questione, quali voi siete, ottimi e cari Insegnanti di Religione; ed è comprensibile l’augurio, pieno di trepidanti speranze, accompagnato da affettuose preghiere, che Noi formuliamo per il fortunato e fecondo successo del corso medesimo. Convalideremo poi questi voti con la Nostra Benedizione Apostolica.

Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 13:47

ANGELUS 

Domenica, 2 maggio 1965 

 

Conoscete il Nostro pensiero: l'Enciclica che abbiamo pubblicata per il mese di maggio ve lo dice. 

Il quadro del mondo presenta punti dolenti molto gravi per se stessi e molto pericolosi per la pace generale; anzi lo stato di tensione fra popoli e fra ideologie diverse non può lasciare tranquillo il Nostro animo e, pensiamo, quello d'ogni persona amante della pace, e preoccupata della sorte di tante vite umane impegnate o no nei conflitti già in atto e in quelli purtroppo facilmente possibili. 

Questa notte qualche migliore notizia è venuta da Santo Domingo; ma l'equilibrio non è ancora sicuro. Noi non possiamo fare nulla direttamente; siamo fuori dalle lotte politiche e militari; altro è il Nostro compito. Ma possiamo fare indirettamente due cose:  

1) incoraggiare e lodare coloro che ora sinceramente vogliono la pace; gli uomini responsabili della sorte dei popoli, che in questi momenti vogliono la pace e i negoziati che essa comporta, si rendono veramente benemeriti dell'umanità;  

2) l'altra cosa è pregare; e non è piccola cosa; è poi la Nostra; ed è quella che ora facciamo con voi invocando la pace da Dio mediante l'intercessione di Maria.


ANGELUS

Domenica, 27 giugno 1965

 

Anche la scorsa settimana non ha recato confortanti notizie per questa preghiera, che quasi ci obbliga a fare il bollettino spirituale. I fatti non lieti li conosciamo.

Ma vi sono due maniere di giudicare l’andamento del mondo, specialmente quando esso non è confortante; c’è la maniera della rassegnazione fatalistica, che non vede rimedio, o che cerca il rimedio negli avvenimenti stessi sperando che da sé si mettano a posto; e vi è la maniera che spera; spera sempre nell’intervento della Provvidenza, anche se questo intervento non porta segni prodigiosi, ma si riveste del gioco felice delle circostanze umane, e spera nella buona volontà di chi dirige le cose, nel merito di chi soffre o nell’efficacia di chi prega.

Perciò la nostra speranza si appoggia ancor più alla nostra preghiera: essa si fa ora più viva e fiduciosa; e, rivolta com’è alla Madre celeste, non potrà essere delusa.

Perciò, preghiamo.




UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° settembre 1965

 

Nell'imminenza della sessione finale del Concilio

Diletti Figli e Figlie!

Se una visita, come a Noi la vostra, è un incontro spirituale che tende a leggere nel cuore della persona visitata, voi potete oggi facilmente leggere nell’animo Nostro pensando all’esortazione apostolica, che in questi giorni Noi abbiamo rivolto alla Chiesa di tutto il mondo, invitandola a fare speciali preghiere in occasione dell’ormai prossima riapertura del Concilio ecumenico, giunto alla sua quarta e conclusiva sessione; e esortandola a dare a tali preghiere un indirizzo particolare verso la Croce di Cristo, alla quale è dedicata, secondo il calendario liturgico, una delle memorie con cui la Croce è onorata, cioè il 14 settembre, affinché sia a tutti quanti ricordato che dalla Passione del Signore deriva a noi la salvezza, e che alla Passione del Signore, mediante l’orazione e la penitenza, dobbiamo avvicinare i nostri cuori, per ottenere a noi tutti, alla Chiesa e al mondo, quelle grazie, quei lumi, quelle virtù, che il Concilio va, quasi con supremo sforzo, cercando.

Cioè un’intenzione di corroborare e di santificare l’ultima fase del Concilio ecumenico con una fervorosa e comune orazione penitenziale occupa in questo periodo la Nostra mente; e la manifestiamo anche a voi, cari Figli e Figlie che venite a visitarci, affinché siate più strettamente e piamente associati ai Nostri pensieri, ai Nostri desideri e alle Nostre speranze. Noi siamo fiduciosi che voi accoglierete questa Nostra confidenza e asseconderete questo Nostro invito: pregare, in virtù di Cristo Crocifisso, per il buon esito del Concilio! Voi lo farete certamente; e Noi vi ringraziamo. Lo faranno i Vescovi, i Sacerdoti, i Religiosi, i Fedeli; e Noi Ci sentiamo molto confortati da questo coro mondiale di suppliche sintonizzate. Attendiamo questa collaboratrice adesione spirituale specialmente dalle anime votate alla preghiera e tese verso la partecipazione alla vita orante e operante della Chiesa.

Non è nuovo questo invito alla preghiera concorde del Popolo di Dio; ma il ripetersi di questo atto non toglie nulla alla sua importanza; anzi dimostra che la preghiera collettiva è un atto vitale della santa Chiesa; è il suo respiro, che si fa sospiro; è un atto docile all’esortazione di Cristo, che tanto ci ha raccomandato d’essere perseveranti nel chiedere, nell’implorare, nel supplicare quanto attendiamo da Dio per la nostra salvezza; e la raccomandazione del Signore vale tanto per la durata della preghiera (Luc. 21, 36), quanto per la sua ripetizione (Matth. 7, 7) e per la sua insistenza (Luc. 11, 8 e 18, 1-8), se pure ciò deve avvenire nella gravità e nella sobrietà delle parole (Matth. 6, 7), per indicare che non la quantità verbosa e formale deve prevalere sulla qualità interiore e morale della preghiera.

Aprendo a voi il Nostro animo circa questo grande e specialissimo bisogno di comuni preghiere, crediamo di avviare le vostre menti ad un’esplorazione ben nota, ma in questo caso molto istruttiva e caratteristica della essenza della nostra religione cattolica. Esplorazione immensa per chi la volesse compiere, come quella che ci introduce nella visione generale dei rapporti fra Dio e l’uomo: sono rapporti che, mediante Cristo, ammettono la nostra conversazione con Dio, quasi voce di figli al Padre; sono rapporti che ammettono non solo la Provvidenza vegliante sulla nostra vita, ma che dimostrano come l’ordine soprannaturale così penetri nella nostra vita stessa, mediante la grazia, le virtù ed i doni dello Spirito, da doversi attribuire a Dio ed a noi, quasi compiute in collaborazione, le nostre azioni: «siamo cooperatori di Dio», dice San Paolo (1 Cor. 3, 9); sono rapporti perciò che esigono una combinazione dei due principii, estremamente disuguali, Dio e l’uomo, concorrenti ad un unico risultato, il nostro bene, la nostra salvezza. Ora questo concorso di Dio nell’umile circuito della nostra personale operazione, questo incontro della sua volontà, con la nostra, questa mirabile e misteriosa fusione del suo Amore col nostro povero amore, esige da parte nostra, insieme al modesto, ma totale contributo della nostra limitata efficienza, la disposizione migliore per accogliere l’efficienza divina; esige uno stato di desiderio e di implorazione, che si chiama orazione. L’orazione apre la porta dei nostri cuori all’azione di Dio in noi; e se noi credenti e cattolici siamo convinti di questo ordinamento soprannaturale delle cose della nostra vita, instaurato da Cristo, ci persuadiamo che l’orazione è una attività fondamentale, è un atteggiamento necessario e normale per il retto e santo svolgimento della nostra presente esistenza e per il conseguimento di quella futura.

Così è. E questa considerazione semplicissima, ma fondamentale, ce ne suggerisce due altre, che si possono riferire ad un’udienza, come questa.

Avete mai pensato al centro della Chiesa cattolica, alla santa Sede - al Vaticano, come comunemente si dice - come ad una inesausta sorgente di desideri? Come ad un cuore, che sempre attende, che sempre prega?
L’immagine consueta, che la gente si forma del Papato, è quella d’un posto di comando, di autorità, di governo; e lo è per la direzione pastorale e dottrinale della Chiesa; ma non si pensa abbastanza che qui, più che altrove, è avvertito, è alimentato, è sofferto il senso della pochezza umana, il senso del bisogno di aiuto divino, il senso umile della nostra radicale insufficienza, il tormento di molto desiderare, con il conforto di molto sperare; e non si vede che qui i desideri acquistano proporzioni immense, mondiali.

Appunto perché la missione della Chiesa è missione di carità, e qui la missione della Chiesa si fa universale, qui la forza, qui la molteplicità, qui l’ardore dei desideri si dispiegano in tutto il vigore possibile al cuore umano; e siccome a questi supremi desideri le capacità umane non possono dare soddisfazione, i desideri qui, più che altrove, si convertono in preghiera. Ascoltate queste precise parole di San Tommaso: «Il desiderare cade sotto il precetto della carità; il chiedere poi cade sotto il precetto della religione» (desiderare quidem cadit sub praecepto charitatis; petere autem sub praecepto religionis - S. Th. II, II, 83, 3 ad 2).

E prosegue: «Noi dobbiamo chiedere pregando ciò che dobbiamo desiderare; e dobbiamo desiderare il bene non solo per noi, ma anche per gli altri» (S. Th. II, II, 83, 7).

Ed ecco perché preghiamo per il Concilio, e perché invitiamo il Popolo di Dio a pregare con Noi. È l’amore per la Chiesa e per il mondo, che ci spinge a pregare. È l’interesse, che il Concilio riveste per la Chiesa, e per il mondo, che a pregare ci spinge. È la fiducia, che abbiamo nella virtù dispositiva alla divina misericordia dell’orazione, che ad essa ci invita.

È la certezza, che al contributo dell’orazione per il bene di tutti ogni cuore buono e pio è valido, che Ci suggerisce di tutti esortare a pregare insieme.

Sarete anche voi preganti con Noi e con la Chiesa? In questa fiducia tutti vi benediciamo.





Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 14:50

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 8 settembre 1965

 

Auspice Maria, capire il Concilio come l'ora di Dio. Maria quale vero "spirito" del Concilio nelle sue virtù.

Diletti Figli e Figlie!

La vostra venuta coincide oggi con una festa cara alla Chiesa e alla pietà mariana: la natività di Maria Santissima. Questa coincidenza Ci obbliga a raccomandare a voi, che desiderate avere da questo incontro qualche impulso spirituale conforme al pensiero della Chiesa nel momento presente, di onorare la Madonna con le vostre preghiere durante questi giorni precedenti alla ripresa finale del Concilio ecumenico, e poi anche durante lo svolgimento del Concilio stesso. Il perché è chiaro. Abbiamo esortato tutti a pregare per tale scopo; e siamo abituati, noi cattolici, a inserire sempre nelle nostre implorazioni un ricorso all’intercessione di Maria, come quella che, nella sua umanissima bontà e nella sua incomparabile prossimità a Cristo mediatore d’ogni grazia, meglio le può per noi interpretare e meglio avvalorare. Quando poi la nostra orazione intende chiedere i favori divini per la santa Chiesa e per il Concilio, ragioni speciali ci spingono all’esercizio della fiducia nella Madonna, e proprio nella festa della sua natività.

La liturgia infatti di questa celebrazione c’invita a vedere non tanto il fatto della nascita della Vergine, quanto il significato e l’importanza che tale fatto riveste nel disegno divino della nostra salvezza: «La tua nascita - dice l’antifona del Magnificat -, o Vergine Genitrice di Dio, è stata un annuncio di gaudio per il mondo intero».
Maria è l’annuncio, Maria è il preludio, Maria è l’aurora, Maria è la vigilia, Maria è la preparazione immediata, che corona e mette termine al secolare svolgimento del piano divino della redenzione; è il traguardo della profezia, è la chiave d’intelligenza dei misteriosi messaggi messianici, è il punto d’arrivo del pensiero di Dio, «termine fisso d’eterno consiglio», come Dante si esprime. L’apparizione di Maria nella storia del mondo è come l’accensione d’una luce in un ambiente oscuro; una luce del mattino, ancora pallida e indiretta, ma soavissima, ma bellissima: la luce del mondo, Cristo, sta per arrivare; il destino felice dell’umanità, la sua possibile salvezza, è ormai sicuro; Maria lo reca con sé.

Ora il Concilio, che è senza dubbio un grande episodio nella storia della Chiesa e della salvezza del mondo, ha bisogno di tale prefazione mariana. Ha bisogno appunto d’essere compreso e valutato come un avvenimento collegato con la nostra salvezza e con quella del mondo moderno, un avvenimento provvidenziale, un avvenimento innestato nella trama messianica ed escatologica della storia dell’umanità. Va preso sul serio.
Va meditato con sapienza. Va vissuto con umiltà e con devozione. Va celebrato con profonda presenza di spirito. Va considerato come una grazia, di cui non dobbiamo perdere il beneficio. Ecco allora la nostra invocazione alla Madonna; la dobbiamo pregare affinché ci sia data la grazia di capire il Concilio come l’ora di Dio. Fu ora di Dio, ora unica e determinante tutta la redenzione la nascita di Maria; preghiamola che questa nuova ora, in cui quella di lei si continua e si riflette, apporti a noi di nuovo Cristo salvatore, ci ottenga una vera rigenerazione.

E perché ciò sia possibile, più facile almeno, domanderemo alla Madonna che le sue virtù, la sua impareggiabile figura morale, la sua immacolata purezza; la sua dolcezza, la sua umiltà, la sua primigenia verità umana, siano in nuova misura concesse alla Chiesa in Concilio. Così infatti, dentro e fuori dell’aula conciliare, deve essere vissuta l’ora di Dio, in un rinnovato sforzo, di evangelica santità, in una ricerca interiore e in una professione esteriore di quei sentimenti, di quello stile morale e spirituale, che caratterizzano in grado sublime, la forte, l’umile, la dolce, la regale profetessa del Magnificat.

Se così pensiamo, se così preghiamo, otterremo, noi speriamo, due effetti importantissimi: quello di meritare al Concilio una ricchezza di grazie, di luce, di virtù, di carismi, quale è, nei comuni desideri della Chiesa e nei nostri; e quello, non ultimo, anzi non meno degli altri prezioso, di rianimare con saggezza e con fervore il nostro culto a Maria Santissima, come già il Concilio ha insegnato, con profondo senso cristologico ed ecclesiologico: comincerà da ciò, in grande parte, la perfetta rinnovazione della nostra vita cristiana.

Salutiamo dunque con filiale affezione il genetliaco della nostra Madre celeste, e chiediamo di far sua per voi la benedizione che Noi ora vi diamo.



ANGELUS 

Domenica, 17 ottobre 1965

 

Sarete certo informati che il Concilio ha approvato lo schema relativo ai rapporti della Chiesa con gli appartenenti a religioni non cristiane. 

Si riafferma che la religione vera, quella voluta da Dio, è una sola, è quella che noi abbiamo la fortuna e il dovere di praticare; [SM=g1740733]

ma insieme si riconosce che dobbiamo avere rispetto, per quanto di buono e di vero contengono, alle altre religioni, e dobbiamo trattare bene ed amare i loro seguaci. La legge della carità si allarga e si applica a tutti. 

Ne daremo noi stessi oggi l'esempio pregando per i non cristiani, per quelli specialmente che, derivando dal padre Abramo le loro credenze, hanno una parentela spirituale con la nostra fede, gli Ebrei; e, oltre ad essi, anche i Musulmani. 

La Madonna vuol certo bene anche a loro, e noi per essi la pregheremo.




UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 15 settembre 1965

 

La Ss.ma Eucaristia centro e vertice della liturgia e della vita cristiana

Diletti Figli e Figlie!

Anche questa volta, volendo farvi partecipare ai Nostri pensieri, quasi per dare all’udienza un contenuto spirituale comune per voi che qua venite, e per Noi che qui vi riceviamo, vi diremo, assai brevemente, che due sono gli oggetti principali delle Nostre riflessioni in questi giorni; ed è ovvio: l’Enciclica sull’Eucaristia, che abbiamo poco fa pubblicata, e il Concilio ecumenico, di cui abbiamo ieri aperto la quarta sessione.
Noi vogliamo credere che nessuno di voi ignora qualche notizia circa questi due temi: l’Eucaristia e il Concilio, temi grandissimi, temi importantissimi, temi bellissimi, che Noi raccomandiamo alla vostra riflessione, se vi preme di non chiudere gli occhi davanti agli aspetti spirituali più significativi dei nostri giorni, e se vi sta a cuore avere con la Chiesa e con questo suo centro un’armonia di sentimenti degna di buoni cattolici e di figli intelligenti.
Che l’Eucaristia infatti sia argomento degnissimo di considerazione tutti sappiamo, se solo ricordiamo che l’Eucaristia è il sacramento della carità (come il battesimo si qualifica piuttosto come il sacramento della fede); e la carità, come tutti sanno, è la legge riassuntiva, il vincolo della perfezione (Col. 3; 14), la base, la radice di tutte le virtù cristiane, il fondamento di tutto il sistema morale cristiano; inoltre l’Eucaristia è al centro del culto cattolico e la vita religiosa vi trova il suo momento di pienezza e di più alta espressione; e, ciò che più conta, l’Eucaristia è al vertice dell’economia sacramentale, perché, se tutti i sacramenti ci dànno la grazia e ci uniscono a Cristo, l’Eucaristia ci mette in comunione con Cristo stesso, presente nell’Eucaristia; con Lui, autore dei sacramenti e fonte della grazia; possiamo perciò dire l’Eucaristia base, centro, vertice della vita spirituale del fedele cristiano (cfr. S. Th. III, 65, 3; e III, 73, 3).

E quanto al Concilio siamo tutti facilmente persuasi che si tratta di avvenimento singolare, di rilievo storico, e di grande importanza per la vita della Chiesa, e di riflesso su quella del mondo.

Ma l’interesse di questi accenni sta in un’altra questione; e cioè nel cercare quale rapporto vi può essere fra due temi, l’Eucaristia e il Concilio, apparentemente così diversi l’uno dall’altro. Vorremmo che vi provaste a cercare tale rapporto!

E vi sarà facile intuirlo (comprenderlo, misurarlo sarebbe meraviglioso, ma non poco difficile), se pensate che il Concilio altro non è che un momento, un’espressione, quasi una sintesi della Chiesa. Allora la ricerca si pone in questi termini: quale relazione vi è tra l’Eucaristia e la Chiesa?

Un valente studioso moderno (non forse sconosciuto ad alcuni di voi) ha enunciato tale relazione in bel capitolo d’un suo bel libro con queste due proposizioni: la Chiesa fa l’Eucaristia; e l’Eucaristia fa la Chiesa! (De Lubac). Provate ad esplorare queste due affermazioni, e vedrete quale ricchezza di dottrina ne risulta. Un altro illustre teologo scrive: «Tutta la grazia santificante del mondo è sospesa alla grazia della Chiesa. E tutta la grazia della Chiesa è sospesa all’Eucaristia» (Journet, 11, 672).

Contentiamoci ora di ricordare come l’Eucaristia sia simbolo della Chiesa. È questo uno dei punti più studiati è ricorrenti nella storia e nella letteratura relativa al mistero eucaristico. Esso rappresenta e rinnova il sacrificio di Cristo sulla croce; ed è questo il suo primo e sacramentale, significato; ma esso, per via delle specie del pane e del vino, in cui è contenuto, prende figura anche della Chiesa; o meglio della sua unità. Sentiamo S. Cipriano, il vescovo martire del terzo secolo, dottore dell’unità della Chiesa. Egli scrive: «. . . quando il Signore chiama il suo corpo pane, risultante dall’unione di molti grani, vuol indicare il nostro popolo adunato . . .» (Ep. 76, 6; P.L., 3, 1142). E altrove: «nel sacramento stesso si mostra il nostro popolo riunito» (Ep. 62, 13; P.L., 4, 384).
La teologia va oltre, e scopre nell’Eucaristia, cioè nella realtà a cui essa tende, nell’effetto ch’essa produce (oltre che la santificazione dell’anima che si comunica), «l’unità del corpo mistico, senza la quale non vi può essere salvezza» (S. Th. III, 73, 3); quell’unità profonda e ineffabile, di cui parlava San Paolo: «. . . noi molti siamo un solo corpo, noi tutti che partecipiamo allo stesso pane» (1 Cor. 10, 17). Così che l’Eucaristia non è soltanto la figura, ma altresì il principio della carità unitiva dei fedeli a Cristo, ed in Cristo fra loro.

E basti questo per vedere nel Concilio (fatto più d’ogni altro realizzatore e rappresentativo dell’unità gerarchica e comunitaria della Chiesa), un estremo postulato, quasi un. totale anelito della Chiesa stessa verso l’Eucaristia; e per vedervi insieme un supremo risultato, quasi un preludio di comunione dei santi, dell’Eucaristia medesima creduta e celebrata dalla Chiesa di Cristo.

E basti ora questo per la vostra devozione verso la Chiesa, in Concilio e per il vostro culto verso Cristo nel SS.mo Sacramento: cose alte, cose altissime; ma quali altre, se non queste vi può presentare quel Vicario di Cristo, che voi siete venuti a cercare nella umilissima persona che vi parla e che ora, in nome di Cristo, vi benedice ?


L’alto ufficio umano e morale dei medici condotti

Salutiamo con piacere il numeroso e cospicuo gruppo dei Medici Condotti, riuniti a Roma, i quali hanno molto gentilmente, voluto procurarci l’occasione d’incontrarci con loro.

Cari Signori! Il primo sentimento che sorge nel Nostro animo alla vostra presenza è quello di riconoscenza per i servizi che voi rendete alla società; e quali servizi! Voi assistete e curate il nostro popolo nelle molteplici sue necessità d’ordine sanitario; curate coloro che non hanno possibilità di scegliersi l’assistenza sanitaria di loro gradimento; curate i malati che ancora non entrano nella rete, ormai vasta e complessa, delle assistenze prestabilite dai grandi organismi sanitari moderni; curate i malati nelle loro case, nelle loro contingenze personali e domestiche, dove voi soli potete loro apportare il primo consiglio, il primo rimedio, e dove voi soli sorprendete alla prima radice l’apparizione delle malattie, che potrebbero diventare fatali o contagiose e che trovano invece in voi chi le individua, le previene, le arresta, o loro oppone il soccorso dei più validi interventi, di cui l’organizzazione medica, pubblica o privata, dispone.

Perciò, il Nostro sentimento verso la vostra categoria di sanitari è quello di ammirazione. Sappiamo in quali condizioni voi dovete esercitare la vostra professione, specialmente in campagna o in montagna. Voi dovete assistere tutti! E tutti hanno diritto di chiamarvi, di farvi correre, intervenire; ad ogni ora, ad ogni distanza, ad ogni necessità! È proverbiale il disagio, la fatica, la solitudine, la responsabilità di codesta vostra disponibilità. Siete davvero dei soldati del dovere! Siete coloro in cui la professione medica arriva al grado più alto di dedizione e di disinteresse! Siete i curatori della gente modesta e povera; siete i medici di tutte le malattie, di tutte le categorie di cittadini, di tutte le età. Per questo vi ammiriamo!

Due pensieri sorgono in Noi nel considerare la vostra professione: il primo si è che la deontologia medica, ricca oramai di una vastissima casistica, cade in pieno sopra di voi; voi siete i medici della casistica più ampia e più svariata; e tutto si richiede da voi. Questa circostanza, che sembra aggravare la vostra professione e toglierle il prestigio e la comodità della specializzazione, è ciò che fa del medico condotto il medico tipico, il medico completo, il medico che deve unire alla comune preparazione scientifica di base una versatilità sua propria, che l’incomparabile abbondanza della vostra esperienza educa alla terapia pratica più saggia e più semplice e avvia anche ad una riflessione scientifica per cui il medico condotto, che ha dato all’esercizio dell’arte sua la passione, ch’essa merita, trae onore e stima e fiducia, quali sono dovute al saggio, all’esperto, all’uomo veramente pratico e benefico.

E l’altro pensiero è dato dalla somiglianza che l’esercizio del vostro ufficio ha con quello del Sacerdote in cura d’anime, col Parroco. Anch’egli è legato all’assistenza del popolo, come voi lo siete; lui per il bene spirituale, voi per quello fisico; ed entrambi con dedizione e abnegazione che spesso non hanno misura. Perciò vediamo in voi persone buone, persone amiche dell’umile gente, bravi professionisti nei quali l’aspetto umano - anzi l’aspetto cristiano - delle vostre prestazioni acquista uno splendore incomparabile. Parroco e Medico Condotto dovrebbero sempre essere amici e collaboratori; e lo sono in tanti casi, che danno alla vita della comunità un argomento di familiarità, di fiducia, di stabilità morale.

Avremmo tante altre cose da dirvi, tanto è alto e degno il vostro ufficio; ma concluderemo con una duplice raccomandazione: amate la vostra professione! Avete fatto bene a distinguere e a premiare quelli di voi che sono apparsi più meritevoli; è professione che andrebbe tutta premiata! E l’altra raccomandazione riguarda l’«animus» con cui dovete esercitarla: fate che cotesto «animus» abbia in sé un’infusione di sentimento cristiano; è tanto più facile, è tanto più bello, è tanto più meritorio quando si assiste il dolore umano per amore, per amore di Cristo, il grande e misterioso Paziente che soffre, piange e muore in ciascuno dei miseri e dei piccoli, su cui si curva buona e saggia la vostra professione.

Questo vi dica come Noi seguiamo con la Nostra stima, con i Nostri voti; con la Nostra benedizione i Medici Condotti.



Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 20:13

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 29 settembre 1965

 

Le prerogative del popolo di Dio

Diletti Figli e Figlie!

Quando noi abbiamo la fortuna di accogliere queste udienze, sempre così numerose e così variamente composte, Ci ricordiamo d’una bella espressione, che oggi l’esegesi biblica, lo studio teologico, la spiritualità fervorosa hanno messo in più larga circolazione, e che il Concilio ecumenico ha grandemente onorato, dedicandole espressamente il capo secondo della Costituzione sulla Chiesa; e l’espressione è questa: Popolo di Dio.

Il vostro numero, la diversità delle vostre origini, delle vostre età, delle vostre condizioni sociali, e nello stesso tempo l’identità della fede e dei sentimenti, che qui vi riunisce, Ci dànno un’immagine visiva, quasi un campione, di quell’immensa comunità spirituale e sociale, a cui compete questo titolo glorioso: Popolo di Dio. Voi siete Popolo di Dio. Vengono alla mente le parole del re Salomone a Dio: «Ho visto con grande letizia il tuo popolo qui radunato» (1 Par. 29, 17).

Non è che questo titolo sia di recente invenzione. Esso ha una storia; anzi sua è la storia sacra, la storia della salvezza, perché l’uso di questo appellativo risale all’antico Testamento, e ci attesta il disegno di Dio sull’umanità. Dio salva gli uomini svolgendo un piano storico e collettivo; dapprima facendo d’una frazione della moltitudine umana un popolo, il suo popolo, una comunità nazionale, tenuta insieme da due coefficienti: la discendenza etnica, cioè il sangue, e l’obbedienza religiosa al patto instaurato fra Dio e quella comunità. Poi Gesù Cristo instaura un nuovo patto, trasferendo il titolo di Popolo di Dio alla comunità da Lui fondata, la Chiesa, che ha il suo principio d’unità non più in un vincolo razziale, ma in un vincolo spirituale e soprannaturale, costituito dalla fede in Cristo vivificata dalla grazia, dalla carità. Soltanto il rapporto religioso con Cristo è costitutivo della società, che da Lui deriva ed in cui Egli vive.

Che cosa risulta da questa grande innovazione portata da Gestì Cristo rispetto al Popolo di Dio? Risultano due conseguenze: che il principio unitivo del Popolo di Dio è squisitamente e solamente religioso; vitale però, ed operante una misteriosa simbiosi, che fa della moltitudine un solo corpo; l’unità è la definizione essenziale del Popolo di Dio; è la perfezione a cui deve continuamente aspirare. «Tutti i fedeli: uno in Gesù Cristo, scrive Bossuet; e mediante Gesù Cristo: uno fra di loro; e questa unità è la gloria di Dio mediante Gesù Cristo, e il frutto del suo sacrificio. Gesù Cristo è uno con la Chiesa, portando i suoi peccati; la Chiesa è una con Gesù Cristo, portando la sua croce» (Lettre IV, Œuvres, XI, p. 114, Paris 1846).

L’altra conseguenza è la varietà di coloro, persone o nazioni, che sono chiamati a far parte del Popolo di Dio. Nessuno è escluso; tutti sono chiamati, a parità di trattamento. Ricordate San Paolo: «Chiunque infatti di voi è stato battezzato in Cristo, si è rivestito di Cristo. Non importa se sia Giudeo o Greco, né se sia schiavo o libero, né se sia uomo o donna. Perché tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù» (Gal. 3, 28).

E fate attenzione: questa diversità naturale dei cittadini del Popolo di Dio, cioè della Chiesa, non è soppressa dall’eguaglianza e dalla comunità che compongono i cittadini in unità nella Chiesa medesima; entrando nella Chiesa ciascuno conserva i propri caratteri personali e naturali; non sono abolite le peculiarità nazionali, psicologiche, culturali e sociali. Il che significa che il Popolo di Dio è composto di tanti tipi umani quanti sono quelli che accettano di appartenervi e di abbracciare la sua legge fondamentale di universale fratellanza.

E diciamo inoltre: l’unità del Popolo di Dio non solo non significa uniformità, ma significa rispetto e sviluppo delle note caratteristiche di chi lo compone, mediante un meraviglioso sistema morale psicologico (degno di studio a parte), che bene sa combinare l’ordine comunitario con la giusta libertà dello spirito.

Sarebbe qui da accennare alle prerogative del Popolo di Dio in quanto tale, prerogative sacre ed eccelse, che spesso sono ricordate con le parole famose della prima lettera di S. Pietro: «Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo redento . . .» (2, 9). E sarebbero anche da ricordare le funzioni e i doveri del Popolo di Dio, quali l’adesione e la testimonianza alla sua fede; e tante altre cose, che, conosciute, meditate e vissute, gioverebbero a formare nella comunità cristiana la coscienza della sua elezione, della sua consistenza, della sua missione e del suo finale destino.

Ma basti l’aver ora riconosciuto in voi, cari Figli e Figlie, dei veri cittadini del Popolo di Dio, perché ne gustiate la fortuna, la dignità, la responsabilità e perché la Nostra Benedizione conforti in voi il proposito d’essere sempre di tale Popolo di Dio, che è la Chiesa, membri coscienti, santi e fedeli.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 ottobre 1965

 

Amare la Chiesa!

Diletti Figli e Figlie!

Amate la Chiesa! questa sarà la parola che consegniamo al ricordo di questa udienza. Amate la Chiesa! Quale altra raccomandazione vi può fare il Papa, quando Egli è tanto lieto di accogliervi come membri della santa Chiesa, e quando Egli si compiace di ammirare nell’assemblea, che voi qui accolti componete, una figura, anzi una porzione della grande assemblea dei fedeli di tutto il mondo, che compongono la Chiesa stessa? Amate la Chiesa, perché l’ha amata Gesù Cristo, il suo fondatore, che non solo l’ha ideata, iniziata, istruita, educata, arricchita del tesoro inestimabile della sua Parola e dei suoi carismi di grazia e di vita spirituale, ma ha dato la sua vita, il suo sangue per lei, per lei è morto e per lei è risorto, assorbendo in Sé, agnello innocente, le pene, le miserie, le sofferenze, le aspirazioni dell’umanità, e celebrando in Sé la redenzione, che Egli a tutti offre e comunica, a tutti quelli cioè che, accettandola nella fede e nella partecipazione sacramentale, diventano a Lui conformi, anzi suo corpo mistico, sua Chiesa.

Tanto ha amato Cristo la Chiesa da farla rappresentare, nella celebre similitudine di San Paolo (Eph. 5, 25), come sua Sposa, e da indicare l’amore intercorso fra Lui, Cristo, e la Chiesa come il paradigma più alto e più pieno dell’amore, dal quale deve attingere esempio e santità perfino l’amore coniugale.

Amate la Chiesa, Figli carissimi, in quest’ora specialissima della sua storia e della sua vita; l’ora del Concilio; un Concilio, che appunto ha avuto la Chiesa come oggetto principale delle sue discussioni e dei suoi decreti.
Amate la Chiesa, oltre tutto, perché essa è diventata tema d’interesse dell’opinione pubblica, la quale osserva, studia, discute persone, avvenimenti,, problemi riguardanti la Chiesa, come forse non è mai capitato; e perché nell’interno stesso della Chiesa un risveglio s’è prodotto, un fermento, un’inquietudine, una speranza, che tutta la agitano e la scuotono, che le fanno approfondire la coscienza di se stessa, in una incalzante serie di interrogativi interiori, e la spingono a sognare, anzi a tentare espressioni pratiche ed esteriori nuove e originali, in una ricerca di autenticità rigorosa e testuale per alcuni, di conformità al costume storico presente per altri.

Amate la Chiesa. Ma a questo punto dobbiamo completare la Nostra esortazione con un rilievo. Questo fervore di rinnovamento deve essere, innanzi tutto, osservato nella linea dinamica delle sue tendenze e delle sue finalità; e l’osservazione ci presenta, semplificando, due linee correnti in direzioni diverse, talora opposte: una, possiamo dire, centrifuga, l’altra centripeta; una eccitata piuttosto dalla considerazione delle realtà terrene, alimentata dal desiderio di capire il mondo contemporaneo, di esaltare i suoi valori e servire i suoi bisogni, di accettare i suoi modi di sentire, di parlare, di vivere, di estrarre dall’esperienza della vita una teologia umana e terrestre e di dare al cristianesimo espressioni nuove, aderenti, non tanto alle tradizioni sue proprie, quanto all’indole della mentalità moderna; e sta bene;
ma per arrivare a tali risultati questa linea instaura sovente una critica, spesso inizialmente giusta, su manchevolezze, stanchezze, difetti, arcaismi del mondo cattolico, ma poi spesso critica abituale, radicale e superficiale ad un tempo, insofferente della consuetudine e della norma ecclesiastica, incapace alla fine di capire il mistero dell’obbedienza e della carità interiore che collegano e santificano la comunità ecclesiale, per terminare in raffinate espressioni soggettive, spirituali o culturali, che piuttosto disperdono e inaridiscono magnifiche energie, senza potere, né volere più impiegarle umilmente e positivamente nel grande, lento, e coordinato sforzo di costruire la Chiesa.

Vi è un’altra linea, un altro metodo d’interesse per il rinnovamento della Chiesa, quello che mira non al distacco o all’allontanamento dalla sua strutturazione organica, concreta e unitaria, ma al suo avvicinamento all’accrescimento della sua vitalità, cioè della sua santità e della sua capacità di rendere vivo e attuale il Vangelo. Questo è il metodo dell’instancabile riforma, di cui parla la Costituzione conciliare sulla Chiesa, affinché essa seipsam renovare non desinat, non dia mai tregua al suo rinnovamento (c. 2, n. 9).
È il metodo che parte dalla considerazione delle verità rivelate, dei valori propriamente religiosi, della fecondità indeficiente delle dottrine tradizionali, e che si alimenta del godimento di questa continua scoperta, in modo tale che trabocca in un bisogno apostolico e missionario, e trova in sé per il mondo circostante una duplice e complementare capacità: quella di conservarsi libero e puro dalle sue facili contaminazioni, e quella di mettersi al suo fianco, anzi di inserirsi nella sua aggrovigliata compagine, come un olio benefico, come un fermento vitale, come un messaggio di letizia, di bontà, di speranza, che non solo non lo guasta, ma lo corrobora e lo innalza a più alto significato umano, cioè religioso e cristiano.

Noi comprenderemo e ammetteremo la bontà, che si trova anche nel primo metodo di interessamento alla vita della Chiesa, ma non senza che la bontà del secondo lo integri e lo preceda; e a questo conserveremo di preferenza il nome di amore. Di quell’amore alla Chiesa, che ora a voi raccomandiamo e con la Nostra benedizione incoraggiamo.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 ottobre 1965

 

La mistica città collocata sul monte

Diletti Figli e Figlie!

Noi abbiamo esortato i Nostri visitatori, come, del resto, tutti i credenti, ad amare la Chiesa. Sorge allora spontanea la domanda: perché? Quali titoli ha la Chiesa al nostro amore?

Noi crediamo che questa domanda si presenti allo spirito di chi assiste ad un’udienza come questa, non solo come spettatore curioso, ma come fedele devoto ed avido di meglio comprendere le .ragioni della sua professione cattolica; e crediamo altresì che tale domanda faccia scaturire un fiume di risposte, suscettibili ciascuna di ampia e profonda meditazione.

Perché dobbiamo amare la Chiesa? La domanda si pone subito in relazione con un’altra, estremamente semplice e difficile insieme: che cosa è la Chiesa? che cosa è la Chiesa, perché noi la dobbiamo amare?
E allora i vari aspetti, in cui possiamo scorgere il volto della Chiesa, cioè l’essere suo e la sua missione, la sua origine e la sua storia, i nomi con cui essa è designata, ci si presentano come titoli che esigono la nostra devota affezione alla Chiesa: non è la Chiesa l’oggetto dell’amore di Cristo, la sua mistica Sposa? Se Cristo tanto l’ha amata, fino a dare la vita per lei, fino a farne il termine terreno e storico dell’opera sua, non dovremo noi stessi amarla con simile dilezione? Non è la Chiesa nostra madre, nell’ordine della grazia; nostra maestra, nell’ordine della fede? non è l’arca della nostra salvezza? non è la famiglia di Dio, dove la comunità cristiana, l’intera umanità in via di redenzione, si trova riunita dalla carità e per la carità? E così via.

Noi vorremmo fermare la vostra attenzione, per questa volta, sopra uno dei più luminosi motivi, che esigono il nostro amore alla Chiesa: è santa; la dobbiamo amare perché è santa; perché è la santa Chiesa.

Chi le ha dato questo titolo? Non si trova testualmente questo titolo nella sacra Scrittura, ma lo si deduce (cfr. Eph. 5, 33). Il che vuol dire che la Chiesa stessa se lo è riconosciuto. Il senso della santità è fra le prime deduzioni che la Chiesa trasse dalla coscienza del suo essere e della sua vocazione; così che la qualifica di «Santa», attribuita alla Chiesa, fin dai primi padri apostolici (cfr. San Ignazio, ad Trall., introd.) divenne abituale, entrò subito nei simboli e nelle professioni battesimali della fede (cfr. Denz.-Schoen. 1, 10, etc.), e rimase poi sempre come aggettivo consueto e protocollare per designare una delle proprietà intrinseche e una delle note esteriormente visibili della Chiesa, la sua santità.

E che cosa significa santità? Non possiamo ora soffermarci su questo concetto complesso e vasto come un mare; ci basta accennare alla parentela ch’esso ha con la religione. Dice bene San Tommaso che la santità è essenzialmente la stessa cosa che la religione, salvo che questa si riferisce al culto di Dio, mentre la santità, in senso generale, consiste nell’ordinamento d’ogni atto virtuoso verso Dio stesso (cfr. S. Th. II, II, 81, 8 ad 1); la possiamo perciò considerare come la più alta perfezione morale e spirituale dell’uomo sotto l’influsso della religione. Ciò significa che la santità trova la sua piena e originaria espressione in Dio e da Dio, santo per essenza e prima sorgente d’ogni santità.
La Chiesa perciò è santa in quanto a Dio si riferisce, per tramite e virtù di Cristo, che santa la concepì e la fondò, santa la fece e sempre la va facendo con l’infusione dello Spirito Santo, nei sacramenti e in tutta l’economia della grazia; santa la rende per la custodia e per la diffusione della sua parola, per la distribuzione dei suoi carismi, per l’esercizio delle sue potestà, per la capacità di generare e formare anime viventi in comunione con Dio. La Chiesa è santa come istituzione divina, come maestra di verità divine, come strumento di poteri divini, come società composta di membri aggregati in virtù di principii divini. «Nella misura in cui ella è di Dio, la Chiesa è assolutamente santa» (cfr. S. August.: Contra litteras Petiliani;. P.L. 43, 453; Congar, Angelicum, 1965, 3, p. 279).

Noi dovremmo essere capaci di contemplare questo volto splendente della Chiesa, questa sua visione idealmente santa e perfetta, questa Gerusalemme celeste calata sulla terra (Apoc. 21, 2), questa «città collocata sulla montagna» (Matth. 5, 14), questa santa Chiesa di Dio, umanità rigenerata a formare il Corpo mistico di Cristo. La sua bellezza ci riempie di meraviglia e d’amore. Sì, d’amore, perché questa Chiesa è il pensiero di Dio realizzato nell’umanità, è lo strumento e il termine della nostra salvezza. Impossibile non amare la Chiesa, quando la si e contemplata nella sua santità.

A questo punto Noi avvertiamo la solita obbiezione: ma codesta Chiesa, tutta santa e luminosa, è ideale o reale? è un sogno, un’utopia, o esiste davvero? La Chiesa, che noi conosciamo e che noi siamo, non è piena di imperfezioni e di deformità? La Chiesa storica e terrestre non è composta di uomini deboli, fallaci, peccatori? Anzi non è proprio il confronto stridente fra la santità, che la Chiesa predica e che dovrebbe essere sua, e la sua condizione effettiva, quello che suscita ironia, antipatia e scandalo verso la Chiesa?

Sì, sì: gli uomini che compongono la Chiesa sono fatti dell’argilla di Adamo, e possono essere e spesso sono peccatori. La Chiesa è santa nelle sue strutture, e può essere peccatrice nelle membra umane in cui si realizza; è santa in cerca di santità; è santa e penitente insieme? è santa in se stessa, inferma negli uomini che le appartengono. Questo fatto dell’infermità morale in tanti uomini di Chiesa è una terribile e sconcertante realtà; non dobbiamo dimenticarlo. Ma esso non altera l’altra realtà, esistente nel disegno di Dio e in parte già raggiunta dagli eletti, quella della stupenda santità della Chiesa; ed invece di produrre scandalo e sdegno, dovrebbe produrre amore ancora maggiore, quello che noi abbiamo per le persone care, quando sono malate; un amore che così si pronuncia: affinché la Chiesa sia santa, noi, noi dobbiamo essere santi, cioè veramente suoi figli degni, forti e fedeli.

È ciò che auguriamo dando a tutti la Nostra Benedizione Apostolica.









ANGELUS

Domenica, 31 ottobre 1965

 

Quest'oggi la Nostra benedizione è principalmente rivolta alla grande campana, che vedete qui presente sulla Piazza, circondata da un migliaio di Trentini. È la campana dei Caduti, che l’Opera promotrice di Rovereto, dopo la sua nuova rifusione, ha qua recata, prima di collocarla lassù in Trentino, a Rovereto, dove ogni sera il suo suono, mesto e pio, richiamerà la memoria dei Caduti di tutte le guerre.

Volentieri la benediciamo, insieme a voi tutti, in questa ricorrenza della festa di Cristo Re, e nella prossimità della festa di tutti i Santi e della commemorazione dei Defunti.

La Campana dei morti è la Campana per i vivi. Essa infatti ci invita a non dimenticare chi è morto a causa della guerra, e a pregare affinché la guerra abbia a cessare nel mondo, e la pace possa regnare fra tutti i popoli.


La campana è dedicata alla Madonna addolorata: Maria dolens. Noi ora La invocheremo affinché sia dato riposo eterno alle anime dei Caduti e a quelle dei nostri Defunti, e affinché siano santificati i nostri dolori dal suo, ed Ella ci ottenga da Cristo la vittoria della sua regalità: quella del perdono reciproco, della fraterna concordia, della vera pace, nell’amore e nella giustizia
.









Caterina63
00venerdì 2 agosto 2013 23:13
[SM=g1740733] quando Paolo VI inaugurò il ciclo organizzato del "Mercoledì delle Udienze" volle inserire al termine la recita del CREDO, o letto  o cantato..... certo, la Preghiera del Pater Noster è ottima, va bene, ma effettivamente più che espressione della fede (visto che lo recitano anche i non cattolici) è una Preghiera di fraternità, mentre il Credo è una vera PROFESSIONE della fede che si professa..... perchè c'è stata questa modifica sotto Giovanni Paolo II? Qualcuno disse "perchè il Pater Noster E' PIU' BREVE ed unisce di più anche i NON cattolici"...... Non proferiamo alcun giudizio sulla scelta, certo è che non fu cosa buona...  e sarebbe stata un'ottima idea ripristinarlo almeno in questo Anno alla fede dedicato.... a meno che non si abbia avuto la prova che la maggioranza di coloro che vanno a queste Udienze non sono più in maggioranza "cattolici" ma "laici" per come si intende oggi, simpatizzanti del Papa, sì, ma non praticanti riguardo al Cristo e alla Chiesa!


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 27 ottobre 1965

 

La Fede dona la sicurezza e la gioia della Verità

Diletti Figli e Figlie!

Al termine di questa udienza, come al solito, noi canteremo insieme il Credo. Questa professione della nostra fede cattolica, qui, sulla tomba di San Pietro, alla presenza del suo Successore, acquista un significato particolare, che Noi vorremmo da voi compreso e ricordato.

Quale significato? Quello di conforto appunto alla vostra fede. Questo conforto è proprio un dono spirituale, che il Nostro ministero vuol fare alle vostre anime, e che gli è caratteristico, come una prerogativa, come une funzione speciale della missione affidata dal Signore all’Apostolo, da Lui scelto ed abilitato per essere suo Vicario nel governo pastorale della Chiesa. Ricordate le parole dette da Cristo a S. Pietro durante l’ultima cena, che possiamo considerare come il rito familiare e sublime, che proclama l’inaugurazione del Nuovo Testamento? Gesù ebbe a dire in quella sera misteriosa e drammatica all’Apostolo Pietro: «Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Luc. 22, 32).

Questo ufficio grande e difficile, ma insieme pieno di forza e di soavità spirituale, per chi lo esercita e per chi lo sperimenta, è oggi a Noi affidato. Ancora una volta il Signore compie nel mondo delle anime i suoi disegni con gli strumenti più umili e disadatti, prodigio nel prodigio dell’economia della salvezza. Ma così è. Dunque Noi vogliamo eseguire l’ordine dato da Cristo a Pietro: confermare i fratelli, cioè confortare in essi la loro fede, dare ad essi la chiarezza sul senso delle parole divine, e insieme quel senso di certezza che il Signore non volle che derivasse dall’evidenza accessibile alla nostra debole mente umana, ma provenisse dalla sua divina autorità; garanzia assoluta della verità delle parole stesse; la certezza della fede, raggiunta mediante l’assistenza, resa infallibile in certe supreme circostanze, del magistero apostolico. La fede, goduta nella sua sicurezza, professata nel suo atto religioso sublime di fiducia nella parola del Signore, innestata nel cielo dell’attività personale come principio di luce e di vigore, vissuta poi con confidente e coraggiosa semplicità, come stile di vita e come testimonianza a quel Regno di Dio a cui sono rivolti i nostri superiori destini, la fede diciamo, vorremmo anche in voi, cari Figli e visitatori, confermare e confortare.

Noi non sappiamo delle vostre condizioni spirituali; ma sappiamo di molti figli del nostro tempo, i quali subiscono una flessione nella sicurezza della loro fede; che cosa è? una tentazione, una debolezza, un’inquietudine, una sofferenza interiore? per alcuni un vuoto interiore, una cecità, uno smarrimento?
L’esame, anche sommario, di questi stati d’animo Ci porterebbe a fare un discorso senza fine, sulle loro cause, sulle loro espressioni, sulle loro conseguenze; esame lunghissimo, difficilissimo; ma anche utilissimo, se pensiamo che tutti oggi hanno qualche cognizione, dentro di sé, o relativamente ad altri di questo diminuito senso della fede, integra, semplice e forte, quale dev’essere quella d’un figlio fedele della Chiesa cattolica.

Non Ci inoltreremo ora in questo esame. Ma Ci limitiamo a rassicurarvi, in nome di quel divino Maestro che abbiamo la ventura di rappresentare, che la fede in Lui, ed in quanto la Chiesa su di Lui fondata c’insegna; merita, oggi non meno di ieri e di sempre, adesione piena e schietta; la verità, la sua verità è ferma e sicura, è specchio esatto, anche se a noi enigmatico, di realtà obbiettive e salutari; il tempo non muta, non deforma tale verità; se mai la collauda e la approfondisce; la storia non la corrode, né la consuma, non le cambia significato e valore; se mai la sviluppa e la applica saviamente a mutate circostanze; la scienza non la vanifica, ma quasi la ricerca e la implora; e la Chiesa, oh! certo, non la dimentica, ma la custodisce, la medita, la difende, la professa, e ne gode.

E se questo Nostro discorso, pur troppo breve, su tema di tanta ampiezza, può in voi corroborare il senso della fede e la sicurezza della sua verità, Noi pensiamo d’aver compiuto il Nostro ministero e d’aver procurato a voi un’esperienza della più alta felicità, quella che S. Agostino diceva: gaudium veritatis, la gioia della verità (cfr. Confession. 10, 23; P.L. 32, 793).

Così vi conceda il Signore con la Nostra Apostolica Benedizione.




ANGELUS

Domenica, 7 novembre 1965

   Avete saputo che abbiamo pubblicato una nuova Esortazione in vista della prossima conclusione del Concilio Ecumenico. Alcuni giornali non vi dànno grande risalto, ma Noi la giudichiamo importante, nel contesto di così grande avvenimento.

Desideriamo due cose: che questa conclusione sia circondata da nuove preghiere: la preghiera collettiva è come l’atmosfera spirituale in cui si maturano gli avvenimenti provvidenziali del regno di Dio.

E desideriamo che gli animi dei fedeli si dispongano a quel rinnovamento religioso e morale che i decreti del Concilio intendono promuovere.

Per questo Ci raccomandiamo a voi, figli carissimi: la vostra adesione alla Chiesa, il vostro proposito di vita cristiana, la vostra buona volontà nelle opere di bene segneranno i frutti del Concilio.

E perché siano davvero copiosi diciamo alla Madonna la nostra preghiera.



ANGELUS

Domenica, 14 novembre 1965

Oggi molti Vescovi del Concilio, forse cinquecento, sono andati a Firenze per partecipare alla celebrazione religiosa del centenario della nascita di Dante.

Noi vi siamo rappresentati dal Nostro Cardinale Segretario di Stato; e lo abbiamo incaricato di porre una croce d’oro sul battistero, nel «suo bel San Giovanni», come Dante lo qualificò, dove egli fu battezzato e diventò cristiano (come abbiamo fatto apporre un'altra croce sulla sua tomba a Ravenna, che ne era priva).

Vogliamo così onorare religiosamente il carattere cristiano e la fede cattolica del grande Poeta; e vogliamo incoraggiare il mondo delle lettere a ritrovare nei valori spirituali, nella nostra religione, specialmente, ch’è la vera espressione della vera vita, la vena migliore per l’arte del pensiero, della parola, della poesia e della cultura.

«La vita era la luce degli uomini» dice il Vangelo; e noi dobbiamo pregare che questa luce non venga meno, ma piuttosto risplenda nel regno della cultura e della letteratura moderna.

È molto importante; e una preghiera a questo fine Ci sembra bene collocata. Maria, la poetessa del Magnificat; Maria, tanto celebrata da Dante, ascolti la nostra preghiera




Caterina63
00venerdì 23 maggio 2014 21:40




PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Giovedì, 25 aprile 1968

 

Gaudio e speranza per un risveglio della coscienza cattolica

CATTOLICI TUTTI UNITI DALLA MEDESIMA FEDE E DALLA MEDESIMA CARITÀ

Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita Ci riempie di gaudio e di speranza. Possiamo far Nostre le parole, che servono di titolo alla celebre Costituzione conciliare: Gaudium et spes. Di gaudio, perché vi vediamo così numerosi: oggi la basilica di San Pietro non basta a contenere i Nostri visitatori, così che siamo obbligati a suddividerli in tre Udienze distinte; questa affluenza è per Noi motivo di gioia; vediamo in essa quasi un riflesso biblico: «Tutti costoro si sono raccolti d’intorno a te, Gerusalemme . . . . i tuoi figli verranno da lontano e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Allora guarderai, e per l’affluire della gente resterà meravigliato e si allargherà il tuo cuore . . .» (Is. 60, 4-5). E qualche cosa che supera il fenomeno turistico è evidente in questa concentrazione non facile, non comoda, che nulla vi offre, se non la grata consapevolezza d’essere qui, cioè al centro non solo geografico della Chiesa, ma al punto canonico, storico e visibile, spirituale e mistico della sua prodigiosa e commovente unità; qui dove è la tomba dell’Apostolo, che Cristo pose a fondamento della sua misteriosa costruzione, la Chiesa; qui dove è così bello incontrarsi con gente d’ogni paese, e sapersi tutti fratelli, tutti fedeli, tutti uniti dalla medesima fede e dalla medesima carità, cioè tutti cattolici. E questa scena non è casuale, non è comandata, ma da voi spontaneamente voluta, e non già per dare o vedere spettacolo, ma per pregare, per avere una parola e una benedizione da Noi, che non mai come in questa e altre simili circostanze sentiamo la pochezza della Nostra umana persona e la grandezza della Nostra qualifica di Vicario di Cristo.

DARE ALLA CHIESA UN ATTESTATO DI FILIALE ADESIONE

Gaudio perciò, gaudio grande Ci procurate; e non mai stanchi di ammirare la visione dei Nostri pellegrini e dei Nostri visitatori, rendiamo grazie al Signore con le parole di Davide: «Il popolo ch’è qui io l’ho visto con grande gioia offrire a Te i suoi doni» (1 Par. 29, 17): i doni della sua fede e della sua pietà.

E col gaudio la speranza: la speranza che codesta presenza valga molte cose per la causa del regno di Dio, cioè quella di Cristo, della sua Chiesa e delle vostre stesse persone. Vi diremo una parola che deve farvi pensare: abbiamo bisogno di voi ! Siete certo qua venuti per fare atto di fede, per dare alla Chiesa un attestato della vostra filiale adesione, per confermare i vostri propositi di vita cristiana. Ebbene, di codesti doni spirituali Noi abbiamo bisogno. Della vostra risvegliata coscienza cattolica, della vostra fedeltà alla santa Chiesa di Dio. Questo sembra ovvio, e già scontato dalla devozione religiosa e dalla sincerità di sentimenti che qua vi conduce; ed è questa la Nostra speranza a vostro riguardo.

Perché, voi sapete, l’ora storica e spirituale, che la Chiesa sta attraversando, specialmente in alcuni Paesi, non è serena; e ciò è per i Pastori della Chiesa e per Noi motivo di viva apprensione e talora di grande amarezza. E ciò non solo perché tutto il mondo moderno va staccandosi dal senso di Dio, tutto preso com’è dalla ricchezza delle sue conquiste nel campo scientifico e tecnico; non già che queste esigano «la morte di Dio», come qualcuno ha detto con infelice espressione; esigano cioè una mentalità atea e lontana da ogni religione; tali progressi caratteristici del mondo moderno esigerebbero piuttosto un più alto, più penetrante, più adorante senso di Dio, una religione più pura e più viva, sui fastigi del sapere umano; non solo, diciamo, per questa pratica apostasia religiosa tanto diffusa, ma anche e, per rapporto alla sensibilità di chi ha responsabilità nella Chiesa, specialmente per l’inquietudine che turba alcuni settori dello stesso mondo cattolico.

AGGIORNAMENTO E RINNOVAMENTO, NON EVERSIONE

Non è cosa ignota. Dopo il Concilio la Chiesa ha goduto, e sta tuttora godendo, d’un grande e magnifico risveglio, che a Noi per primi piace riconoscere e favorire; ma la Chiesa ha anche sofferto e soffre ancora per un turbine di idee e di fatti, che non sono certo secondo lo Spirito buono e non promettono quel rinnovamento vitale, che il Concilio ha promesso e promosso. Un’idea a doppio effetto si è fatta strada anche in certi ambienti cattolici: l’idea del cambiamento, che ha preso il posto per alcuni dell’idea dell’aggiornamento, presagito da Papa Giovanni di venerata memoria, attribuendo così, contro l’evidenza e contro la giustizia, a quel fedelissimo Pastore della Chiesa criteri non più innovatori, ma talvolta perfino eversivi dell’insegnamento e della disciplina della Chiesa stessa.

Vi sono molte cose che possono essere corrette e modificate nella vita cattolica, molte dottrine che possono essere approfondite, integrate ed esposte in termini meglio comprensibili, molte norme che possono essere semplificate e meglio adattate ai bisogni del nostro tempo; ma due cose specialmente non possono essere messe in discussione: le verità della fede, autorevolmente sancite dalla tradizione e dal magistero ecclesiastico, e le leggi costituzionali della Chiesa, con la conseguente obbedienza al ministero di governo pastorale, che Cristo ha stabilito e che la saggezza della Chiesa ha sviluppato ed esteso nelle varie membra del corpo mistico e visibile della Chiesa medesima, a guida ed a conforto della multiforme compagine del Popolo di Dio. Perciò: rinnovamento, sì; cambiamento arbitrario, no. Storia sempre viva e nuova della Chiesa, sì; storicismo dissolvitore dell’impegno dogmatico tradizionale, no; integrazione teologica secondo gli insegnamenti del Concilio, sì; teologia conforme a libere teorie soggettive, spesso mutuate a fonti avversarie, no; Chiesa aperta alla carità ecumenica, al dialogo responsabile, e al riconoscimento dei valori cristiani presso i fratelli separati, si; irenismo rinunciatario alle verità della fede, ovvero proclive ad uniformarsi a certi principii negativi, che hanno favorito il distacco di tanti fratelli cristiani dal centro dell’unità della comunione cattolica, no; libertà religiosa per tutti nell’ambito della società civile, sì, come pure libertà di adesione personale alla religione secondo la scelta meditata della propria coscienza, sì; libertà di coscienza, come criterio di verità religiosa, non suffragata dalla autenticità d’un insegnamento serio e autorizzato, no; e così via.

IL PAPA CHIEDE DISCERNIMENTO E FEDELTÀ

Perciò, figli carissimi, la Chiesa ha bisogno oggi del vostro discernimento e della vostra fedeltà. Ed è questa la speranza, che Ci porta, con grande Nostra consolazione, la vostra visita. La Chiesa ha bisogno della lucidità di spirito dei suoi figli; ha bisogno della loro amorosa e ferma fedeltà. Ci portate voi, carissimi, questa chiarezza di idee in ordine al rinnovamento della vita della Chiesa? Ci portate il grande, il prezioso, il carissimo dono della vostra fedeltà? Noi lo speriamo paternamente.

E perciò, con l’animo pieno di gaudio e di speranza, tutti di grande cuore vi benediciamo.




 

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