Roma la Diocesi del Papa e gli incontri con i suoi Sacerdoti

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Caterina63
00sabato 6 aprile 2013 18:48
Intervista al cardinale vicario Agostino Vallini

Roma e Papa Francesco

 

di Mario Ponzi

Nel pomeriggio del 7 aprile - seconda domenica di Pasqua, dedicata alla Divina misericordia e detta anticamente in albis dal colore bianco della veste dei nuovi battezzati - il vescovo di Roma si insedia sulla sua cattedra in Laterano. E proprio il rapporto decisivo di Papa Francesco con la sua diocesi è stato al centro di un colloquio del cardinale vicario Agostino Vallini con chi scrive e con il direttore del nostro giornale alla vigilia di questo momento importante. Il porporato ha toccato molti argomenti: la maturazione della sensibilità diocesana soprattutto dopo il concilio Vaticano II, il significato della rinuncia al pontificato e l'eredità preziosa di Benedetto XVI, il "miracolo" del conclave, l'attrazione immediatamente suscitata dal nuovo vescovo di Roma tra la gente, il tempo della missione, l'impegno del clero nelle 347 parrocchie della diocesi, il fronte operoso della carità nel momento certo non facile vissuto da moltissime persone e famiglie nella città e nel Paese.

L'insediamento avviene domenica pomeriggio, ma Papa Francesco dal conclave è uscito sentendosi già pienamente vescovo di Roma, e ha voluto proprio lei al suo fianco quando si è presentato ai fedeli dalla Loggia della Benedizione. Che cosa è accaduto?

Il conclave è opera di Dio ed è stato un miracolo. Ne sono ancor più convinto dopo aver vissuto per la prima volta questa esperienza di grazia. Si crea un'atmosfera che rende questo momento unico e diverso da ogni altra vicenda umana. Si entra in conclave con la coscienza di una grande responsabilità, che è quella di contribuire a un'opera di discernimento, grande e complessa, per capire e chiedere al Signore l'ispirazione. E poi si prega, si prega tanto. Io per esempio, il giorno dell'elezione, tra una votazione e l'altra ho recitato tre volte il rosario. In Sistina non si parla né si tratta, si prega. Del resto a questo momento si arriva dopo giorni di riflessioni - otto questa volta - e il tema non è il Papa ma la Chiesa, con tutte le sue realtà, belle o meno belle che siano. E si tratta di una visione della Chiesa universale. In modo quasi speculare si cerca di capire chi potrebbe guidarla in quel preciso momento storico. Il clima spirituale nel quale si è svolto questo conclave è stato segnato da momenti molto particolari, dopo la rinuncia di Benedetto XVI. Dunque c'era bisogno dell'assistenza dello Spirito Santo. E a me pare che il Signore si sia manifestato. Anche attraverso l'entusiasmo dell'accoglienza popolare riservata al nuovo Pontefice: in questo senso, il sensus fidei che viene dal popolo è stata una conferma.

Cosa ha reso più visibile l'opera di Dio nell'elezione di Papa Francesco?

Rispondere a questa domanda implica alcune riflessioni profonde. Innanzitutto c'era da raccogliere un'eredità preziosa e ricchissima come quella di Benedetto XVI, con il peso delle motivazioni che hanno accompagnato la sua rinuncia. Quell'11 febbraio rimanemmo tutti sgomenti. Sconcerto e incredulità erano evidenti sui volti di ciascuno di noi. Si formarono immediatamente capannelli nei quali ci si chiedeva cosa mai fosse successo. Poi a poco a poco si diffuse quel sentimento di fede che ci accomuna, alimentata soprattutto dalla stima e dalla devozione che accompagnava e accompagna la relazione di ciascuno di noi con Benedetto XVI: se ha fatto questo, ci dicevamo, vuol dire che ha ritenuto di dover fare qualcosa di importante per la Chiesa. Quindi la rilettura di quella dichiarazione, la riflessione sul suo magistero, così ricco e forte, non poteva che far riflettere su chi sarebbe stato in grado di proseguire su questa linea e magari darle nuovo e maggiore vigore. Ed è così cominciato lo scambio di opinioni tra i cardinali. Poi nella Cappella Sistina è maturato l'ampio consenso verso Jorge Mario Bergoglio.

Quando il Papa l'ha chiamata?

Dopo l'elezione i cardinali sfilano davanti all'eletto per manifestargli obbedienza. In quel momento mi ha detto: "Lei è il cardinale vicario: accetta di starmi vicino?". Naturalmente gli ho risposto subito di sì. E pensavo fosse finita lì. Poi mi ha fatto chiamare di nuovo e mi ha detto: "Venga, stia vicino a me".

In poco più di mezzo secolo siamo passati dall'ultimo Papa romano al primo che viene dal nuovo mondo, fuori dal bacino mediterraneo, attraverso Pontefici che hanno dedicato grande attenzione alla diocesi di Roma.

L'emergere della coscienza diocesana del pontificato a Roma la si deve inizialmente a Giovanni XXIII, che trasferì a San Giovanni il Vicariato. Paolo VI accentuò questa coscienza non solo con la riforma del Vicariato stesso ma anche andando a celebrare nelle periferie, visitando parrocchie e comunità cittadine. E poi Giovanni Paolo II ha visitato quasi tutte le parrocchie. Ma non solo: ha avviato e portato a compimento la prima missione cittadina, in preparazione all'anno giubilare, e ha celebrato il Sinodo diocesano, del quale è rimasta come gemma sintetica una frase: "Chiesa di Roma, trova te stessa fuori di te stessa; parrocchia, trova te stessa fuori di te stessa". E Benedetto XVI ha proseguito su questa linea.

Come sarà il rapporto tra Papa Francesco e i romani?

Che il Pontefice si senta innanzitutto vescovo di Roma lo ha più volte detto e dimostrato. Per quanto riguarda i romani voglio raccontare un episodio recente. Il 23 marzo ero nella parrocchia del Santissimo Sacramento a Tor de' Schiavi, sulla via Prenestina. Alla fine della messa tanta gente mi ha raggiunto in sacrestia. Sono rimasto sorpreso dalla forza della loro richiesta: "Ci porti il Papa!". Ho cercato di far capire che era ancora presto. Di fronte alla loro insistenza ho chiesto perché e mi hanno risposto: "Non sappiamo, ma lo vogliamo tra noi. È un bisogno che sentiamo nel cuore". Ecco questa è la dimensione del rapporto che si è creato con il Papa.

Aveva detto la stessa cosa ai giovani di Casal del Marmo che gli chiedevano perché era andato.

Il Papa ne è rimasto stupito. Ero in macchina con lui proprio mentre si recava a Casal del Marmo. Già appena fuori Porta Sant'Anna c'era una folla straordinaria ad attenderlo. Poi lungo tutto il tragitto due file di folla hanno fatto ala al passaggio dell'auto. Tutta la via Trionfale era invasa da gente che applaudiva e voleva vedere il Papa, tanto che abbiamo dovuto tenere i finestrini sempre abbassati. E lui continuava a ripetere: "Incredibile, incredibile". Non c'è bisogno di tanti commenti: Roma già lo ama.

Il Papa vorrà un più stretto rapporto con i sacerdoti?

Sì, già me lo ha chiesto.

E avete preparato un calendario?

Non ne abbiamo avuto ancora il tempo. Però abbiamo concordato alcuni appuntamenti, come la visita alla parrocchia dei santi Elisabetta e Zaccaria il 26 maggio. Poi si vedrà.

Quando avete parlato di tutto questo?

Avevo chiesto di incontrarlo già qualche giorno dopo l'elezione. Mi ha chiamato subito. Era il 22 marzo. Ci siamo intrattenuti a lungo e l'ho informato della realtà della Chiesa di Roma, dello spirito di missione nelle 347 parrocchie della diocesi, del servizio dei sacerdoti.

A proposito di questo Papa Francesco nei giorni scorsi ha chiesto esplicitamente di tenere aperte le chiese.

È una conferma dell'impressione che ho maturato ascoltando le parole di Papa Francesco in questi primi giorni di pontificato. Ho sentito una forte spinta al nostro impegno pastorale per la città. Oggi, come diceva Giovanni Paolo II, non è più tempo di conservazione dell'esistente ma è tempo di missione. La grande sfida è quella della fede. Non è più possibile presupporla. Ogni generazione ha necessità di una riproposizione della fede. Oggi in una città come Roma, che non ha più un suo centro unificante, gli unici poli di aggregazione sono le parrocchie. E io mi sento di testimoniare il grande lavoro che vi viene svolto.

Papa Francesco ha raccomandato ai sacerdoti di uscire da se stessi e di andare nelle periferie, intendendo con queste le sofferenze degli ultimi, le povertà. I preti romani sono preparati?

Posso assicurare che tutti i sacerdoti che lavorano nelle parrocchie della diocesi sono pronti a fare un ulteriore sforzo di riflessione per cercare strade nuove e soprattutto un nuovo linguaggio per arrivare sino ai cosiddetti nativi digitali. Per quanto riguarda le periferie, poi, credo di poter testimoniare una delle più grandi gioie della Chiesa di Roma, cioè la sensibilità caritativa. Il Papa invita a uscire: i preti romani già lo fanno perché vanno incontro ai poveri, agli emarginati. Almeno dai tempi di don Di Liegro a Roma questa coscienza è forte. Qui ho scoperto la grande forza della Caritas, non solo quella diocesana con i suoi grandi progetti, ma direi proprio la forza della carità. Ed è un'attività della quale si fidano sia le istituzioni pubbliche sia i cittadini privati. Un piccolo segno di questa fiducia è nella scelta di destinare proprio alla Caritas diocesana le monetine che vengono lanciate da chi viene a Roma nella Fontana di Trevi. Le parole d'incoraggiamento del nostro vescovo dunque trovano sostegno nella risposta dei sacerdoti della sua diocesi. Insomma, ci siamo. E nel prossimo settembre Papa Francesco incontrerà i suoi preti all'inizio del nuovo anno diocesano.



(©L'Osservatore Romano 7 aprile 2013)


Caterina63
00martedì 18 giugno 2013 14:48
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA
Aula Paolo VI
Lunedì, 17 giugno 2013

diocesi roma



"Io non mi vergogno del Vangelo"

Buonasera a tutti, cari fratelli e sorelle!

L’Apostolo Paolo finiva questo brano della sua lettera ai nostri antenati con queste parole: non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia. E questa è la nostra vita: camminare sotto la grazia, perché il Signore ci ha voluto bene, ci ha salvati, ci ha perdonati. Tutto ha fatto il Signore, e questa è la grazia, la grazia di Dio. Noi siamo in cammino sotto la grazia di Dio, che è venuta da noi, in Gesù Cristo che ci ha salvati. Ma questo ci apre verso un orizzonte grande, e questo è per noi gioia. “Voi non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Ma cosa significa, questo “vivere sotto la grazia”? Cercheremo di spiegare qualcosa di che cosa significa vivere sotto la grazia. E’ la nostra gioia, è la nostra libertà. Noi siamo liberi. Perché? Perché viviamo sotto la grazia. Noi non siamo più schiavi della Legge: siamo liberi perché Gesù Cristo ci ha liberati, ci ha dato la libertà, quella piena libertà di figli di Dio, che viviamo sotto la grazia. Questo è un tesoro. Cercherò di spiegare un po’ questo mistero tanto bello, tanto grande: vivere sotto la grazia.

Quest’anno avete lavorato tanto sul Battesimo e anche sul rinnovamento della pastorale post-battesimale. Il Battesimo, questo passare da “sotto la Legge” a “sotto la grazia”, è una rivoluzione. Sono tanti i rivoluzionari nella storia, sono stati tanti. Ma nessuno ha avuto la forza di questa rivoluzione che ci ha portato Gesù: una rivoluzione per trasformare la storia, una rivoluzione che cambia in profondità il cuore dell’uomo. Le rivoluzioni della storia hanno cambiato i sistemi politici, economici, ma nessuna di esse ha veramente modificato il cuore dell’uomo.
La vera rivoluzione, quella che trasforma radicalmente la vita, l’ha compiuta Gesù Cristo attraverso la sua Risurrezione: la Croce e la Risurrezione. E Benedetto XVI diceva, di questa rivoluzione, che “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Ma pensiamo a questo: è la più grande mutazione della storia dell’umanità, è una vera rivoluzione e noi siamo rivoluzionarie e rivoluzionari di questa rivoluzione, perché noi andiamo per questa strada della più grande mutazione della storia dell’umanità. Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!
Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto fa di noi rivoluzionari, perché – e cito nuovamente Benedetto – “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”.
Perché cambia il cuore. Il profeta Ezechiele lo diceva: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”. E questa è l’esperienza che vive l’Apostolo Paolo: dopo avere incontrato Gesù sulla via di Damasco, cambia radicalmente la sua prospettiva di vita e riceve il Battesimo. Dio trasforma il suo cuore!

Ma pensate: un persecutore, uno che inseguiva la Chiesa e i cristiani, diventa un santo, un cristiano fino alle ossa, proprio un cristiano vero! Prima è un violento persecutore, ora diventa un apostolo, un testimone coraggioso di Gesù Cristo, al punto di non aver paura di subire il martirio. Quel Saulo che voleva uccidere chi annunziava il Vangelo, alla fine dona la sua vita per annunciare il Vangelo. E’ questo il mutamento, il più grande mutamento del quale ci parlava Papa Benedetto. Ti cambia il cuore, da peccatore – da peccatore: tutti siamo peccatori – ti trasforma in santo. Qualcuno di noi non è peccatore? Se ci fosse qualcuno, alzi la mano! Tutti siamo peccatori, tutti! Tutti siamo peccatori! Ma la grazia di Gesù Cristo ci salva dal peccato: ci salva! Tutti, se noi accogliamo la grazia di Gesù Cristo, Lui cambia il nostro cuore e da peccatori ci fa santi. Per diventare santi non è necessario girare gli occhi e guardare là, o avere un po’ una faccia da immaginetta! No, no, non è necessario questo! Una sola cosa è necessaria per diventare santi: accogliere la grazia che il Padre ci da in Gesù Cristo. Ecco, questa grazia cambia il nostro cuore. Noi continuiamo ad essere peccatori, perché tutti siamo deboli, ma anche con questa grazia che ci fa sentire che il Signore è buono, che il Signore è misericordioso, che il Signore ci aspetta, che il Signore ci perdona, questa grazia grande, che cambia il nostro cuore.


E, diceva il profeta Ezechiele, che da un cuore di pietra lo cambia in un cuore di carne. Cosa vuol dire, questo? Un cuore che ama, un cuore che soffre, un cuore che gioisce con gli altri, un cuore colmo di tenerezza per chi, portando impresse le ferite della vita, si sente alla periferia della società. L’amore è la più grande forza di trasformazione della realtà, perché abbatte i muri dell’egoismo e colma i fossati che ci tengono lontani gli uni dagli altri. E questo è l’amore che viene da un cuore mutato, da un cuore di pietra che è trasformato in un cuore di carne, un cuore umano. E questo lo fa la grazia, la grazia di Gesù Cristo che noi tutti abbiamo ricevuto.
Qualcuno di voi sa quanto costa la grazia? Dove si vende la grazia? Dove posso comprare la grazia? Nessuno sa dirlo: no. Vado a comprarla dalla segretaria parrocchiale, forse lei la vende, la grazia? Qualche prete la vende, la grazia? Ascoltate bene questo: la grazia non si compra e non si vende; è un regalo di Dio in Gesù Cristo. Gesù Cristo ci dà la grazia. E’ l’unico che ci dà la grazia. E’ un regalo: ce lo offre, a noi. Prendiamola.
E’ bello questo. L’amore di Gesù è così: ci dà la grazia gratuitamente, gratuitamente. E noi dobbiamo darla ai fratelli, alle sorelle, gratuitamente. E’ un po’ triste quando uno incontra alcuni che vendono la grazia: nella storia della Chiesa alcune volte è accaduto questo, e ha fatto tanto male, tanto male. Ma la grazia non si può vendere: la ricevi gratuitamente e la dai gratuitamente. E questa è la grazia di Gesù Cristo.


In mezzo a tanti dolori, a tanti problemi che ci sono qui, a Roma, c’è gente che vive senza speranza. Ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza speranza, e sono immerse in una profonda tristezza da cui cercano di uscire credendo di trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel gioco d’azzardo, nel potere del denaro, nella sessualità senza regole … Ma si ritrovano ancora più delusi e talvolta sfogano la loro rabbia verso la vita con comportamenti violenti e indegni dell’uomo.

Quante persone tristi, quante persone tristi, senza speranza! Pensate anche a tanti giovani che, dopo aver sperimentato tante cose, non trovano senso alla vita e cercano il suicidio, come soluzione. Voi sapete quanti suicidi di giovani ci sono oggi nel mondo? La cifra è alta! Perché? Non hanno speranza. Hanno provato tante cose e la società, che è crudele – è crudele! – non ti può dare speranza. La speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio.


E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia. Il regalo che ci fa Dio della grazia, porta la speranza. Noi, che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo essere indifferenti verso questa città che ci chiede, forse anche inconsapevolmente, senza saperlo, una speranza che l’aiuti a guardare il futuro con maggiore fiducia e serenità? Noi non possiamo essere indifferenti.
Ma come possiamo fare questo? Come possiamo andare avanti e offrire la speranza? Andare per la strada dicendo: “Io ho la speranza”? No! Con la vostra testimonianza, con il vostro sorriso, dire: “Io credo che ho un Padre”. L’annunzio del Vangelo è questo: con la mia parola, con la mia testimonianza dire: “Io ho un Padre. Non siamo orfani. Abbiamo un Padre”, e condividere questa filiazione con il Padre e con tutti gli altri.

“Padre, adesso capisco: si tratta di convincere gli altri, di fare proseliti!”. No: niente di questo. Il Vangelo è come il seme: tu lo semini, lo semini con la tua parola e con la tua testimonianza. E poi, non fai la statistica di come è andato questo: la fa Dio. Lui fa crescere questo seme; ma dobbiamo seminare con quella certezza che l’acqua la dà Lui, la crescita la dà Lui. E noi non facciamo la raccolta: la farà un altro prete, un altro laico, un’altra laica, un altro la farà. Ma la gioia di seminare con la testimonianza, perché con la parola solo non basta, non basta. La parola senza la testimonianza è aria. Le parole non bastano. La vera testimonianza che dice Paolo.


L’annunzio del Vangelo è destinato innanzitutto ai poveri, a quanti mancano spesso del necessario per condurre una vita dignitosa. A loro è annunciato per primi il lieto messaggio che Dio li ama con predilezione e viene a visitarli attraverso le opere di carità che i discepoli di Cristo compiono in suo nome. Prima di tutto, andare ai poveri: questo è il primo. Nel momento del Giudizio finale, possiamo leggere in Matteo 25, tutti saremo giudicati su questo.

Ma alcuni, poi, pensano che il messaggio di Gesù sia destinato a coloro che non hanno una preparazione culturale. No! No! L’Apostolo afferma con forza che il Vangelo è per tutti, anche per i dotti. [SM=g1740733]
La sapienza, che deriva dalla Risurrezione, non si oppone a quella umana ma, al contrario, la purifica e la eleva. La Chiesa è sempre stata presente nei luoghi dove si elabora la cultura. Ma il primo passo è sempre la priorità ai poveri. Ma anche dobbiamo andare alle frontiere dell’intelletto, della cultura, nell’altezza del dialogo, del dialogo che fa la pace, del dialogo intellettuale, del dialogo ragionevole. E’ per tutti, il Vangelo!

Questo di andare verso i poveri non significa che noi dobbiamo diventare pauperisti, o una sorta di “barboni spirituali”! No, no, non significa questo! Significa che dobbiamo andare verso la carne di Gesù che soffre, ma anche soffre la carne di Gesù di quelli che non lo conoscono con il loro studio, con la loro intelligenza, con la loro cultura. Dobbiamo andare là! Perciò, a me piace usare l’espressione “andare verso le periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci dei cammini: andare là. E là, seminare il seme del Vangelo, con la parola e con la testimonianza.


E questo significa che noi dobbiamo avere coraggio. Paolo VI diceva che lui non capiva i cristiani scoraggiati: non li capiva. Questi cristiani tristi, ansiosi, questi cristiani dei quali uno pensa se credono in Cristo o nella “dea lamentela”: non si sa mai. Tutti i giorni si lamentano, si lamentano; e come va il mondo, guarda, che calamità, le calamità.
Ma, pensate: il mondo non è peggiore di cinque secoli fa! Il mondo è il mondo; è sempre stato il mondo. E quando uno si lamenta: e va così, non si può fare niente, ah la gioventù… Vi faccio una domanda: voi conoscete cristiani così? Ce ne sono, ce ne sono! Ma, il cristiano deve essere coraggioso e davanti al problema, davanti ad una crisi sociale, religiosa deve avere il coraggio di andare avanti, andare avanti con coraggio.
E quando non si può far niente, con pazienza: sopportando. Sopportare. Coraggio e pazienza, queste due virtù di Paolo. Coraggio: andare avanti, fare le cose, dare testimonianza forte; avanti! Sopportare: portare sulle spalle le cose che non si possono cambiare ancora. Ma andare avanti con questa pazienza, con questa pazienza che ci dà la grazia. Ma, cosa dobbiamo fare con il coraggio e con la pazienza? Uscire da noi stessi: uscire da noi stessi. Uscire dalle nostre comunità, per andare lì dove gli uomini e le donne vivono, lavorano e soffrono e annunciare loro la misericordia del Padre che si è fatta conoscere agli uomini in Gesù Cristo di Nazareth.
Annunciare questa grazia che ci è stata regalata da Gesù. Se ai sacerdoti, Giovedì Santo, ho chiesto di essere pastori con l’odore delle pecore, a voi, cari fratelli e sorelle, dico: siate ovunque portatori della Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori.

Io non capisco le comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchia. Voglio dirvi una cosa. Nel Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna all’ovile, si accorge che manca una pecora, lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una. Ma, fratelli e sorelle, noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare da loro! In questa cultura - diciamoci la verità - ne abbiamo soltanto una, siamo minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? Questa è una responsabilità grande, e dobbiamo chiedere al Signore la grazia della generosità e il coraggio e la pazienza per  uscire, per uscire ad annunziare il Vangelo. Ah, questo è difficile. E’ più facile restare a casa, con quell’unica pecorella! E’ più facile con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma noi preti, anche voi cristiani, tutti: il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle; pastori! E quando una comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità non è una comunità che dà vita. E’ una comunità sterile, non è feconda. La fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi, la nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza.


Viene un po’ lunga la cosa, vero? Ma non è facile! Dobbiamo dirci la verità: il lavoro di evangelizzare, di portare avanti la grazia gratuitamente non è facile, perché non siamo noi soli con Gesù Cristo; c’è anche un avversario, un nemico che vuole tenere gli uomini separati da Dio. [SM=g1740733]

E per questo instilla nei cuori la delusione, quando noi non vediamo ricompensato subito il nostro impegno apostolico. Il diavolo ogni giorno getta nei nostri cuori semi di pessimismo e di amarezza, e uno si scoraggia, noi ci scoraggiamo. “Non va! Abbiamo fatto questo, non va; abbiamo fatto quell’altro e non va! E guarda quella religione come attira tanta gente e noi no!”. E’ il diavolo che mette questo. Dobbiamo prepararci alla lotta spirituale. Questo è importante. Non si può predicare il Vangelo senza questa lotta spirituale: una lotta di tutti i giorni contro la tristezza, contro l’amarezza, contro il pessimismo; una lotta di tutti i giorni! Seminare non è facile. E’ più bello raccogliere, ma seminare non è facile, e questa è la lotta di tutti i giorni dei cristiani.


Paolo diceva che lui aveva l’urgenza di predicare e lui aveva l’esperienza di questa lotta spirituale, quando diceva: “Ho nella mia carne una spina di satana e tutti i giorni la sento”. Anche noi abbiamo spine di satana che ci fanno soffrire e ci fanno andare con difficoltà e tante volte ci scoraggiano. Prepararci alla lotta spirituale: l’evangelizzazione chiede da noi un vero coraggio anche per questa lotta interiore, nel nostro cuore, per dire con la preghiera, con la mortificazione, con la voglia di seguire Gesù, con i Sacramenti che sono un incontro con Gesù, dire a Gesù: grazie, grazie per la tua grazia. Voglio portarla agli altri. Ma questo è lavoro: questo è lavoro. Questo si chiama – non vi spaventate – si chiama martirio. Il martirio è questo: fare la lotta, tutti i giorni, per testimoniare. Questo è martirio. E ad alcuni il Signore chiede il martirio della vita, ma c’è il martirio di tutti i giorni, di tutte le ore: la testimonianza contro lo spirito del male che non vuole che noi siamo evangelizzatori.

E adesso, vorrei finire pensando una cosa. In questo tempo, in cui la gratuità sembra affievolirsi nelle relazioni interpersonali perché tutto si vende e tutto si compra, e la gratuità è difficile trovarla, noi cristiani annunciamo un Dio che per essere nostro amico non chiede nulla se non di essere accolto.
L’unica cosa che chiede Gesù: essere accolto. [SM=g1740733]
Pensiamo a quanti vivono nella disperazione perché non hanno mai incontrato qualcuno che abbia loro mostrato attenzione, li abbia consolati, li abbia fatti sentire preziosi e importanti. Noi, discepoli del Crocifisso, possiamo rifiutarci di andare in quei luoghi dove nessuno vuole andare per la paura di comprometterci e del giudizio altrui, e così negare a questi nostri fratelli l’annuncio della Parola di Dio? La gratuità! Noi abbiamo ricevuto questa gratuità, questa grazia, gratuitamente; dobbiamo darla, gratuitamente. E questo è quello che, alla fine, voglio dirvi. Non avere paura, non avere paura. Non avere paura dell’amore, dell’amore di Dio, nostro Padre. Non avere paura. Non avere paura di ricevere la grazia di Gesù Cristo, non avere paura della nostra libertà che viene data dalla grazia di Gesù Cristo o, come diceva Paolo: “Non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Non avere paura della grazia, non avere paura di uscire da noi stessi, non avere paura di uscire dalle nostre comunità cristiane per andare a trovare le 99 che non sono a casa. E andare a dialogare con loro, e dire loro che cosa pensiamo, andare a mostrare il nostro amore che è l’amore di Dio.


Cari, cari fratelli e sorelle: non abbiamo paura! Andiamo avanti per dire ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che noi siamo sotto la grazia, che Gesù ci dà la grazia e questo non costa niente: soltanto, riceverla. Avanti!



[SM=g1740733]


Caterina63
00domenica 15 settembre 2013 17:07


Ai Reverendi Sacerdoti e Diaconi
della Diocesi di Roma
(con allegato)

     Carissimi,

     Papa Francesco ha espresso il desiderio di incontrare il prossimo 16 settembre, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, alle ore 10, il clero della Diocesi di Roma e i sacerdoti che collaborano nei diversi ministeri diocesani.
     Fin dalle prime parole dopo la sua elezione il Santo Padre ha manifestato la Sua particolare vicinanza alla Chiesa di Roma di cui è Vescovo e in questi primi mesi di ministero abbiamo avuto modo di vedere e apprezzare quanto Egli abbia a cuore la nostra Città e l’intera comunità diocesana.
     In questo primo incontro del nostro presbiterio ascolteremo il Papa per essere confermati nella fede e incoraggiati nel ministero.
     Per prepararci all’incontro il Papa mi ha chiesto di inviarvi il testo di una Sua riflessione fatta ai sacerdoti dell’Arcidiocesi di Buenos Aires nel 2008, dopo la Conferenza dell’Episcopato Latino-americano ad Apparecida (Brasile).
     I primi giorni di settembre verranno fornite dal Vicariato le informazioni sulle modalità di partecipazione e di svolgimento dell’incontro.
     Mentre vi auguro un salutare periodo di riposo e di rigenerazione spirituale dopo il lavoro dell’anno pastorale, vi assicuro il mio fraterno e costante ricordo nella preghiera, che confido sia anche vostro di me.
Dal Vicariato, 16 luglio 2013

Agostino Card. Vallini

 

Documento del Santo Padre Papa Francesco

 
seguirà il testo dell'incontro....


Il vescovo di Roma ha dialogato a lungo con i suoi preti nella basilica 
di San Giovanni in Laterano 

Con il sostegno della misericordia

La Chiesa non crolla perché anche oggi la santità di tante donne e di tanti uomini è più forte di ogni scandalo

Lo sguardo misericordioso di Gesù sostiene il sacerdote nella fatica quotidiana della sua missione. Così è, da sessant'anni, per Jorge Mario Bergoglio. Divenuto vescovo di Roma sei mesi fa, stamani 16 settembre ha compiuto un passo decisivo per entrare nel cuore della sua diocesi. Nella basilica di San Giovanni al Laterano, cattedrale di Roma, Papa Francesco ha dialogato a lungo con il suo clero.
"Mi sento prete" ha confidato. E ripercorrendo anche le sue esperienze personali a Buenos Aires, ha rivelato di non avere mai avuto la tentazione di sentirsi più importante da quando è Papa. Al clero romano ha chiesto in particolare di pregare per lui. Soprattutto il 21 settembre, festa di san Matteo. Perché proprio quel giorno, sessant'anni fa, ha scoperto la vocazione al sacerdozio.


Nella prima parte dell'incontro - introdotto dal Veni creator Spiritus e da un passo del vangelo di Giovanni - il Papa ha parlato anzitutto della buona fatica del sacerdote per la missione in mezzo al popolo. 

Essere prete, ha assicurato, significa lavorare molto, perché la gente ha oggi più che mai tante esigenze. E la sensazione della fatica, ha aggiunto, comprende per il sacerdote anche domande forti su stesso, sulla bontà della propria vocazione e sulle rinunce che essa comporta, prima fra tutte la paternità biologica. Ma è una fatica che il sacerdote vive e supera con tutto il suo essere. Tra i vari esempi biblici a cui si è riferito, il vescovo di Roma ha indicato soprattutto Maria che, come diceva Giovanni Paolo ii, aveva una "peculiare fatica del cuore". Del resto, la preghiera e la vicinanza agli altri, a partire dal proprio vescovo, sono per il prete un antidoto efficace nei momenti di maggiore fatica.

Papa Francesco ha poi risposto alle domande di cinque rappresentanti del clero romano, affrontando insieme con loro alcune questioni centrali nella vita della Chiesa. Ha subito invitato i preti a essere coraggiosi, ad avere una giusta creatività, che non significare fare qualcosa di nuovo per forza, per arrivare alla necessaria conversione pastorale. Le parrocchie, ha raccomandato, devono essere sempre aperte e accoglienti, magari con il confessore a disposizione. Anche i laici che si occupano dell'amministrazione devono mostrare alla gente il volto accogliente della Chiesa. Si tratta, in buona sostanza, di trovare sempre nuove strade perché il Vangelo sia annunciato e testimoniato nelle realtà della vita quotidiana. 
Così è importare cercare nuove vie, adatte e adeguate alle persone a cui ci si rivolge: facilitando, per esempio, la partecipazione ai corsi pre-battesimali e coinvolgendo i laici in missioni di quartiere. 
In una grande città come Roma, ha riconosciuto il Pontefice, l'accoglienza cordiale non è sempre facile da organizzare. Ma le persone, ha rimarcato con forza, non devono avere mai l'impressione di trovarsi di fronte a funzionari con interessi economici e non spirituali.

Il vescovo di Roma ha suggerito poi di tenere viva la memoria della nascita della propria vocazione, del primo amore verso Gesù: è il sentimento proprio di un innamorato, e il prete deve esserlo sempre. 
Una Chiesa senza memoria, del resto, non ha vita. Proprio questo stile di memoria contribuisce anche a non cadere nella rischio della mondanità spirituale.

Un altro aspetto decisivo è saper dire la verità senza lasciare mai sole le persone in difficoltà. Infatti la verità di Dio va sempre di pari passo con l'accompagnamento personale. Non si tratta di essere di manica larga o rigidi: né l'uno né l'altro sono atteggiamenti misericordiosi. Bisogna invece ccogliere l'altro, accompagnarlo, proprio come Gesù con i due discepoli di Emmaus.
Papa Francesco non ha certo nascosto i problemi e gli scandali anche gravissimi, come la pedofilia, che toccano la Chiesa. 
Ma la Chiesa non crolla, ha assicurato rispondendo a un sacerdote che nel suo intervento si era riferito al sogno di Innocenzo iii che vide Francesco di Assisi sostenere l'edificio pericolante della Chiesa. E non crolla perché oggi, come sempre, c'è tanta santità quotidiana: ci sono molte donne e molti uomini che vivono la fede nella vita di ogni giorno. E la santità è più forte degli scandali. 

A questo proposito, il Papa ha raccontato il dialogo telefonico, avvenuto ieri, domenica 15 settembre, con una donna di Buenos Aires che gli aveva scritto una lettera su un tovagliolo di carta. A recapitarla al Pontefice era stato, venerdì, il direttore della televisione cattolica dell'arcidiocesi di Buenos Aires. La donna, che fa le pulizie nell'aeroporto della capitale argentina, ha un figlio tossicodipendente e disoccupato. E lavora per lui, sperando nel futuro del ragazzo. Questa è santità, ha commentato il Papa.

L'incontro si è concluso con tre domande sulle periferie esistenziali. Innanzi tutto il Papa ha ripetuto le parole pronunciate al centro Astalli, elogiando la generosità di Roma ma incoraggiando a fare ancora di più. E alle congregazioni religiose che hanno poche vocazioni è tornato a raccomandare di non cadere nella tentazione di aggrapparsi ai soldi ma di avere il coraggio di aprire le porte ai bisognosi.
Inoltre per il Pontefice la realtà si capisce meglio dalla periferia e non dal centro che, invece, fa correre il rischio di atrofizzarsi. E le periferie non sono solo quelle geografiche. 

Infine, il vescovo di Roma ha concluso l'incontro affrontando le questioni relative alla nullità del matrimonio, un tema che sta a cuore a Benedetto xvi. E ha reso noto che ci sono proposte, studi e approfondimenti in corso. Ne parleranno a ottobre il gruppo degli otto cardinali e il prossimo sinodo dei Vescovi. Queste situazioni, ha aggiunto, sono una vera e propria periferia esistenziale che esige coraggio pastorale, sempre nella verità e nella giustizia.

Ad accogliere il Papa al suo arrivo, venti minuti prima del previsto, è stato il cardinale vicario Agostino Vallini che nell'indirizzo di saluto ha raccontato come questo incontro sia stato messo in programma dal nuovo vescovo di Roma appena eletto. La diocesi ha fatto dono al proprio vescovo di un'icona raffigurante san Francesco che sorregge la Chiesa, opera del parroco don Massimo Tellan. Al termine, prima di far rientro in Vaticano dopo oltre due ore e dieci minuti, il Pontefice ha incontrato i frati minori che svolgono il ministero di penitenzieri nella basilica cattedrale di Roma. E li ha invitati a essere misericordiosi.



(L'Osservatore Romano 16-17 settembre 2013)



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Caterina63
00martedì 17 giugno 2014 15:27

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO DIOCESANO DI ROMA DEDICATO AL TEMA: 
"
UN POPOLO CHE GENERA I SUOI FIGLI, COMUNITÀ E FAMIGLIE 
NELLE GRANDI TAPPE DELL'INIZIAZIONE CRISTIANA"

Lunedì, 16 giugno 2014


Prima di tutto, buonasera a tutti!

Sono contento di essere tra voi.

Ringrazio il Cardinale Vicario per le parole  di affetto e di fiducia che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Grazie anche a Don Giampiero Palmieri e ai due catechisti Ada e Pierpaolo, che hanno illustrato la situazione. Io ho detto loro: “Avete detto tutto voi! Io do la benedizione e me ne vado”. Sono bravi.

Vorrei dire una cosa, senza dubbio: mi è piaciuto tanto che tu, don Giampiero, abbia menzionato l’Evangelii nuntiandi. Anche oggi è il documento pastorale più importante, che non è stato superato, del post-Concilio. Dobbiamo andare sempre lì. E’ un cantiere di ispirazione quell’Esortazione Apostolica. E l’ha fatta il grande Paolo VI, di suo pugno. Perché dopo quel Sinodo non si mettevano d’accordo se fare una Esortazione, se non farla…; e alla fine il relatore - era san Giovanni Paolo II - ha preso tutti i fogli e li ha consegnati al Papa, come dicendo: “Arrangiati tu, fratello!”. Paolo VI ha letto tutto e, con quella pazienza che aveva, cominciò a scrivere. E’ proprio, per me, il testamento pastorale del grande Paolo VI. E non è stata superata. E’ un cantiere di cose per la pastorale. Grazie per averla menzionata, e che sia sempre un riferimento!

In questo anno, visitando alcune parrocchie, ho avuto modo di incontrare tante persone, che spesso fugacemente ma con grande fiducia mi hanno espresso le loro speranze, le loro attese, insieme alle loro pene e ai loro problemi. Anche nelle tante lettere che ricevo ogni giorno leggo di uomini e donne che si sentono disorientati, perché la vita è spesso faticosa e non si riesce a trovarne il senso e il valore. E’ troppo accelerata!  Immagino quanto sia convulsa la giornata di un papà o di una mamma, che si alzano presto, accompagnano i figli a scuola, poi vanno a lavorare, spesso in luoghi dove sono presenti tensioni e conflitti, anche in luoghi lontani.
Prima di venire qui, sono andato in cucina a prendere un caffè, c’era il cuoco e gli ho detto: “Tu per andare a casa tua di quanto tempo hai bisogno?”; “Di un’ora e mezza…”. Un’ora e mezza! E torna a casa, ci sono i figli, la moglie…. E devono attraversare Roma nel traffico. Spesso capita a tutti noi di sentirci soli così. Di sentirci addosso un peso che ci schiaccia, e ci domandiamo: ma questa è vita? Sorge nel nostro cuore la domanda: come facciamo perché i nostri figli, i nostri ragazzi, possano dare un senso alla loro vita? Perché anche loro avvertono che questo nostro modo di vivere a volte è disumano, e non sanno quale direzione prendere affinché la vita sia bella, e la mattina siano contenti di alzarsi.

Quando io confesso i giovani sposi e mi parlano dei figli, faccio sempre una domanda: “E tu hai tempo per giocare con i tuoi figli?”. E tante volte sento dal papà: “Ma, Padre, io quando vado a lavorare alla mattina, loro dormono, e quanto torno, alla sera, sono a letto, dormono”. Questa non è vita! E’ una croce difficile. Non è  umano.
Quando ero Arcivescovo nell’altra diocesi avevo modo di parlare più frequentemente di oggi con i ragazzi e i giovani e mi ero reso conto che soffrivano di orfandad, cioè di orfanezza. I nostri bambini, i nostri ragazzi soffrono di orfanezza! Credo che lo stesso avvenga a Roma. I giovani sono orfani di una strada sicura da percorrere, di un maestro di cui fidarsi, di ideali che riscaldino il cuore, di speranze che sostengano la fatica del vivere quotidiano. Sono orfani, ma conservano vivo nel loro cuore il desiderio di tutto ciò!
Questa è la società degli orfani. Pensiamo a questo, è importante. Orfani, senza memoria di famiglia: perché, per esempio, i nonni sono allontanati, in casa di riposo, non hanno quella presenza, quella memoria di famiglia; orfani, senza affetto d’oggi, o un affetto troppo di fretta: papà è stanco, mamma è stanca, vanno a dormire… E loro rimangono orfani. Orfani di gratuità: quello che dicevo prima, quella gratuità del papà e della mamma che sanno perdere il tempo per giocare con i figli. Abbiamo bisogno di senso di gratuità: nelle famiglie, nelle parrocchie, nella società tutta. E quando pensiamo che il Signore si è rivelato a noi nella gratuità, cioè come Grazia, la cosa è molto più importante. Quel bisogno di gratuità umana, che è come aprire il cuore alla grazia di Dio. Tutto è gratis: Lui viene e ci dà la sua grazia. Ma se noi non abbiamo il senso della gratuità nella famiglia, nella scuola, nella parrocchia ci sarà molto difficile capire cosa è la grazia di Dio, quella grazia che non si vende, che non si compra, che è un regalo, un dono di Dio: è Dio stesso. E per questo sono orfani di gratuità.

Gesù ci ha fatto una grande promessa: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18), perché Lui è la via da percorrere, il maestro da ascoltare, la speranza che non delude. Come non sentire ardere il cuore e dire a tutti, in particolare ai giovani: “Non sei orfano! Gesù Cristo ci ha rivelato che Dio è Padre e vuole aiutarti, perché ti ama”. Ecco il senso profondo dell’iniziazione cristiana: generare alla fede vuol dire annunziare che non siamo orfani. Perché anche la società rinnega i suoi figli! Per esempio a quasi un 40% dei giovani italiani non dà lavoro. Cosa significa? “Tu non mi importi! Tu sei materiale di scarto. Mi spiace, ma la vita è così”. Anche la società rende orfani i giovani. Pensate cosa significa che 75 milioni di giovani in questa civiltà Europea, giovani dai 25 anni in giù, non abbiano lavoro… Questa civiltà li lascia orfani. Noi siamo un popolo che vuole far crescere i suoi figli con questa certezza di avere un padre, di avere una famiglia, di avere una madre. La nostra società tecnologica — lo diceva già Paolo VI — moltiplica all’infinito le occasioni di piacere, di distrazione, di curiosità, ma non è capace di portare l’uomo alla vera gioia. Tante comodità, tante cose belle, ma la gioia dov’è? Per amare la vita non abbiamo bisogno di riempirla di cose, che poi diventano idoli; abbiamo bisogno che Gesù ci guardi. È il suo sguardo che ci dice: è bello che tu viva, la tua vita non è inutile, perché a te è affidato un grande compito. Questa è la vera sapienza: uno sguardo nuovo sulla vita che nasce dall’incontro di Gesù.

Il Cardinale Vallini ha parlato di questo cammino di conversione pastorale missionaria. E’ un cammino che si fa e si deve fare e noi abbiamo la grazia ancora di poterlo fare. Conversione non è facile, perché è cambiare la vita, cambiare metodo, cambiare tante cose, anche cambiare l’anima. Ma questo cammino di conversione ci darà l’identità di un popolo che sa generare i figli, non un popolo sterile! Se noi come Chiesa non sappiamo generare figli, qualcosa non funziona! La sfida grande della Chiesa oggi è diventare madre: madre!
Non una Ong ben organizzata, con tanti piani pastorali… Ne abbiamo bisogno, certo… Ma quello non è l’essenziale, quello è un aiuto. A che cosa? Alla maternità della Chiesa. Se la Chiesa non è madre, è brutto dire che diventa una zitella, ma diventa una zitella! E’ così: non è feconda. Non solo fa figli la Chiesa, la sua identità è fare figli, cioè evangelizzare, come dicePaolo VI nell’Evangelii nuntiandiL’identità della Chiesa è questa: evangelizzare, cioè fare figli. Penso a nostra madre Sara, che era invecchiata senza figli; penso ad Elisabetta, la moglie di Zaccaria, invecchiata senza figli; penso a Noemi, un’altra donna invecchiata senza discendenza… E queste donne sterili hanno avuto figli, hanno avuto discendenza: il Signore è capace di farlo! Ma per questo la Chiesa deve fare qualcosa, deve cambiare, deve convertirsi per diventare madre. Deve essere feconda! La fecondità è la grazia che noi oggi dobbiamo chiedere allo Spirito Santo, perché possiamo andare avanti nella nostra conversione pastorale e missionaria. Non si tratta, non è questione di andare a cercare proseliti, no, no! Andare a suonare al citofono: “Lei vuol venire a questa associazione che si chiama Chiesa cattolica?...”.
Bisogna fare la scheda, un socio di più… La Chiesa - ci ha detto Benedetto XVI - non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, per attrazione materna, per questo offrire maternità; cresce per tenerezza, per la maternità, per la testimonianza che genera sempre più figli. E’ un po’ invecchiata la nostra Madre Chiesa… Non dobbiamo parlare della “nonna” Chiesa, ma è un po’ invecchiata…. Dobbiamo ringiovanirla! Dobbiamo ringiovanirla, ma non portandola dal medico che fa la cosmetica, no! Questo non è il vero ringiovanimento della Chiesa, questo non va. La Chiesa diventa più giovane quando è capace di generare più figli; diventa più giovane quanto più diventa madre. Questa è la nostra madre, la Chiesa; e il nostro amore di figli. Essere nella Chiesa è essere a casa, con mamma; a casa di mamma. Questa è la grandezza della rivelazione.

E’ un invecchiamento che… credo… - non so se Don Giampiero o il Cardinale - ha parlato di fuga dalla vita comunitaria, questo è vero: l’individualismo ci porta alla fuga dalla vita comunitaria, e questo fa invecchiare la Chiesa. Andiamo a visitare un’istituzione che non è più madre, ci dà una certa identità, come la squadra di calcio:  “Sono di questa squadra, sono tifoso della cattolica!”. E questo avviene quando c’è la fuga dalla vita comunitaria, la fuga dalla famiglia. Dobbiamo recuperare la memoria, la memoria della Chiesa che è popolo di Dio. A noi oggi manca il senso della storia. Abbiamo paura del tempo: niente tempo, niente percorsi, niente, niente! Tutto adesso! Siamo nel regno del presente, della situazione. Soltanto questo spazio, questo spazio, questo spazio, e niente tempo. Anche nella comunicazione: luci, il momento, telefonino, il messaggio… Il linguaggio più abbreviato, più ridotto. Tutto si fa di fretta, perché siamo schiavi della situazione. Recuperare la memoria nella pazienza di Dio, che non ha avuto fretta nella sua storia di salvezza, che ci ha accompagnato lungo la storia, che ha preferito la storia lunga per noi, di tanti anni, camminando con noi.

Nel presente - ne parlerò dopo, se ho tempo - una sola parola dirò: accoglienza. Ecco, l’accoglienza. E un’altra che avete detto voi: tenerezza. Una madre è tenera, sa accarezzare. Ma quando noi vediamo la povera gente che va alla parrocchia con questo, con quell’altro e non sa come muoversi in questo ambiente, perché non va spesso in parrocchia, e trova una segretaria che sgrida, che chiude la porta: “No, Lei per fare questo deve pagare questo, questo e questo! E deve fare questo e questo… Prenda questa carta e deve fare…”.
Questa gente non si sente a casa di mamma! Forse si sente nell’amministrazione, ma non a casa della madre. E le segretarie, le nuove “ostiarie” della Chiesa! Ma segretaria parrocchiale vuol dire aprire la porta della casa della madre, non chiuderla! E si può chiudere la porta in tante maniere. A Buenos Aires era famosa una segretaria parrocchiale: tutti la chiamavano la “tarantola”… non dico di più! Saper aprire la porta nel presente: accoglienza e tenerezza.

Anche i preti, i parroci e i viceparroci hanno tanto lavoro e io capisco che a volte sono un po’ stanchi; ma un parroco che è troppo impaziente non fa bene! A volte io capisco, capisco… Una volta ho dovuto sentire una signora, umile, molto umile, che aveva lasciato la Chiesa da giovane; adesso era madre di famiglia, è tornata alla Chiesa, e dice: “Padre, io ho lasciato la Chiesa perché in parrocchia, da ragazzina - non so se andava alla Cresima, non sono sicuro… - è venuta una donna con un bambino e ha chiesto al parroco di fare il Battesimo… - questo tanto tempo fa e non qui a Roma, da un’altra parte -, e il parroco ha detto di sì, ma che doveva pagare… «Ma non ho i soldi!». «Vai a casa tua, prendi quello che hai, portamelo e io ti battezzo il figlio»”.  E quella donna mi parlava in presenza di Dio! Questo succede… Questo non significa accogliere, questo è chiudere la porta! Nel presente: tenerezza e accoglienza.

E per il futuro, speranza e pazienza. Dare testimonianza di speranza, andiamo avanti. E la famiglia? E’ pazienza. Quella che san Paolo ci dice: sopportarvi a vicenda, l’un l’altro. Sopportarci. E’ così.

Ma torniamo al testo. La gente che viene sa, per l’unzione dello Spirito Santo, che la Chiesa custodisce il tesoro dello sguardo di Gesù. E noi dobbiamo offrirlo a tutti. Quando arrivano in parrocchia - forse mi ripeto, perché ho fatto una strada diversa e mi sono allontanato dal testo -, quale atteggiamento dobbiamo avere? Dobbiamo accogliere sempre tutti con cuore grande, come in famiglia, chiedendo al Signore di farci capace di partecipare alle difficoltà e ai problemi che spesso i ragazzi e i giovani incontrano nella loro vita.

Dobbiamo avere il cuore di Gesù, il quale «vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Vedendo le folle, ne sentì compassione. A me piace sognare una Chiesa che viva la compassione di Gesù. Compassione è “patire con”, sentire quello che sentono gli altri, accompagnare nei sentimenti. E’ la Chiesa madre, come una madre che carezza i suoi figli con la compassione. Una Chiesa che abbia un cuore senza confini, ma non solo il cuore: anche lo sguardo, la dolcezza dello sguardo di Gesù, che spesso è molto più eloquente di tante parole. Le persone si aspettano di trovare in noi lo sguardo di Gesù, a volte senza nemmeno saperlo, quello sguardo sereno, felice che entra nel cuore. Ma — come hanno detto i vostri rappresentanti – deve essere tutta la parrocchia ad essere una comunità accogliente, non solo i sacerdoti e i catechisti. Tutta la parrocchia! Accogliere…

Dobbiamo ripensare quanto le nostre parrocchie sono accoglienti, se gli orari delle attività favoriscono la partecipazione dei giovani, se siamo capaci di parlare i loro linguaggi, di cogliere anche negli altri ambienti (come ad esempio nello sport, nelle nuove tecnologie) le possibilità per annunciare il Vangelo. Diventiamo audaci nell’esplorare nuove modalità con cui le nostre comunità siano delle case dove la porta è sempre aperta. La porta aperta! Ma è importante che all’accoglienza segua una chiara proposta di fede; una proposta di fede tante volte non esplicita, ma con l’atteggiamento, con la testimonianza: in questa istituzione che si chiama Chiesa, in questa istituzione che si chiama parrocchia si respira un’aria di fede, perché si crede nel Signore Gesù.

Io chiederò a voi di studiare bene queste cose che ho detto: questa orfanezza, e studiare come far recuperare la memoria di famiglia; come fare affinché nelle parrocchie ci sia l’affetto, ci sia la gratuità, che la parrocchia non sia una istituzione legata solo alle situazioni del momento. No, che sia storica, che sia un cammino di conversione pastorale. Che nel presente sappia accogliere con tenerezza, e sappia mandare avanti i suoi figli con la speranza e la pazienza.

Io voglio tanto bene ai sacerdoti, perché fare il parroco non è facile. E’ più facile fare il vescovo che il parroco! Perché noi vescovi sempre abbiamo la possibilità di prendere le distanze, o nasconderci dietro il “Sua Eccellenza”, e quello ci difende! Ma fare il parroco, quando ti bussano alla porta: “Padre, questo, padre qua e padre là…”. Non è facile! Quando ti viene uno a dire i problemi della famiglia, o quel morto, o quando vengono a chiacchierare le cosiddette “ragazze della caritas” contro le cosiddette “ragazze delle catechesi”… Non è facile, fare il parroco!

Ma voglio dire una cosa, l’ho detta un’altra volta: la Chiesa italiana è tanto forte grazie ai parroci! Questi parroci che - adesso avranno un altro sistema - dormivano col telefono sopra il comodino e si alzavano a qualsiasi ora per andare a trovare un ammalato… Nessuno moriva senza i Sacramenti… Vicini! Parroci vicini! E poi? Hanno lasciato questa memoria di evangelizzazione…

Pensiamo alla Chiesa madre e diciamo alla nostra madre Chiesa quello che Elisabetta ha detto a Maria quando era diventata madre, in attesa del figlio: “Tu sei felice, perché hai creduto!”.

Vogliamo una Chiesa di fede, che creda che il Signore è capace di farla madre, di darle tanti figli. La nostra Santa Madre Chiesa. Grazie!

 






Caterina63
00venerdì 17 giugno 2016 10:12
  CONVEGNO ECCLESIALE DI ROMA

 




Papa Francesco è intervenuto ieri sera nella Basilica di San Giovanni in Laterano, per aprire il Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, che quest’anno ha per tema: «“La letizia dell’amore”. E ha indicato nello spirito del Sinodo la vera ermeneutica per comprendere l'esortazione apostolica. 



di Lorenzo Bertocchi



Papa Francesco è intervenuto ieri sera nella Basilica di San Giovanni in Laterano, per aprire il Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, che quest’anno ha per tema: «“La letizia dell’amore”: il cammino delle famiglie a Roma alla luce dell’Esortazione ApostolicaAmoris laetitia di Papa Francesco». Comprensibile una certa attesa, anche mediatica, per il discorso del Santo Padre, visto che l'argomento era quello della recente esortazione post-sinodale e del doppio sinodo sulla famiglia che tante discussioni ha sollevato dentro e fuori la Chiesa. Evidenziamo in alcuni passaggi gli elementi importanti del discorso.

LO SPIRITO DEL SINODO

Intervenuto dopo un breve discorso introduttivo del cardinale Vallini, Francesco ha innanzitutto specificato di concentrarsi su «alcune idee/tensioni-chiave emerse durante il cammino sinodale, che ci possono aiutare a comprendere meglio lo spirito che si riflette nell’Esortazione». Il Papa ha poi considerato tre immagini bibliche per prendere «contatto con il passaggio dello Spirito nel discernimento dei Padri Sinodali». L'intervento quindi, non entra direttamente nel merito delle questioni sollevate da Amoris laetitia, ma indica quella “conversione pastorale” che è la cifra più profonda di tutto il testo e, più in generale, dell'azione del pontefice. In un certo senso, parrebbe indicare una sorta di “spirito del Sinodo” come vera chiave ermeneutica, una chiave che supera la lettera del documento.

NON IDEOLOGIZZARE LA FEDE E GUARDARE LE SITUAZIONI

Occorre «dare volto ai temi», ha detto il Papa. In un «clima di rispetto capace di aiutarci ad ascoltare quello che Dio ci sta dicendo all’interno delle nostre situazioni. Non un rispetto diplomatico o politicamente corretto, no!, ma un rispetto carico di preoccupazioni e domande oneste che mirano alla cura delle vite che siamo chiamati a pascere». Questo atteggiamento, ha sottolineato il Papa, libera «dall’affrettarci per ottenere conclusioni ben formulate ma molte volte carenti di vita; ci libera dal parlare in astratto, per poterci avvicinare e impegnarci con persone concrete. (…) Ci protegge dall’ideologizzare la fede mediante sistemi ben architettati ma che ignorano la grazia». 

VIVERE L'IDEALE EVANGELICO ALL'INTERNO DELLA STORIA

Papa Francesco ha richiamato la tentazione della “logica separatista”, «per cui crediamo di guadagnare in identità e in sicurezza ogni volta che ci differenziamo o ci isoliamo dagli altri, specialmente da quelli che stanno vivendo in una situazione diversa». «Il realismo evangelico – ha spiegato - si impegna con l’altro, con gli altri e non fa degli ideali e del “dover essere” un ostacolo per incontrarsi con gli altri nelle situazioni in cui si trovano. Non si tratta di non proporre l’ideale evangelico, al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta. Questo non significa non essere chiari nella dottrina, ma evitare di cadere in giudizi e atteggiamenti che non assumono la complessità della vita».

A questo punto il Papa ha poi citato integralmente un paragrafo di Amoris laetitia, il 308, quello in cui si legge che Egli comprende «coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile...».

MANCANO NONNI CHE INSEGNANO A SOGNARE

Papa Francesco si è poi soffermato sulla terza immagine biblica (Gl 3, 1) per sottolineare la mancanza di testimoni per i giovani. «Questa mancanza di modelli, di testimonianze, questa mancanza di nonni, di padri capaci di narrare sogni non permette alle giovani generazioni di “avere visioni”. Restano fermi. Non permette loro di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura. Solo la testimonianza dei nostri genitori, vedere che è stato possibile lottare per qualcosa che valeva la pena, li aiuterà ad alzare lo sguardo. Come pretendiamo che i giovani vivano la sfida della famiglia, del matrimonio come un dono, se continuamente sentono dire da noi che è un peso?».

RINUNCIAMO AI RECINTI

Le tre immagini, ha concluso il Papa, ci ricordano che la fede ci inserisce più profondamente nel mondo, e non ci toglie da esso. «Non come quei perfetti e immacolati che credono di sapere tutto, ma come persone che hanno conosciuto l’amore che Dio ha per noi (cfr 1 Gv 4,16)». 

«Con tale fiducia rinunciamo ai “recinti” «che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza» (AL, 308). 
Questo ci impone di sviluppare una pastorale familiare capace di accogliere, accompagnare, discernere e integrare». 

Dopo questo discorso del Papa le tre parole chiave di Amoris laetitia si confermano essere quelle del discernimento, dell'accoglienza e dell'integrazione. Declinate in una pastorale, si passi il termine, del “caso per caso”, cioè che cerca di tener conto della storia personale e del “bene possibile” nell'orizzonte del primato della misericordia. Tutti temi che non cesseranno di sollevare dibattito.




Caterina63
00venerdì 17 giugno 2016 23:10

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALL'APERTURA DEL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì, 16 giugno 2016

[Multimedia]



 

Buona sera!

Le cinque navate piene. Bene! Si vede che c’è voglia di lavorare.

La letizia dell’amore: il cammino delle famiglie a Roma”: questo è il tema del vostro Convegno diocesano. Non inizierò parlando dell’Esortazione, dal momento che ne farete oggetto di esame in diversi gruppi di lavoro. Vorrei recuperare insieme a voi alcune idee/tensioni-chiave emerse durante il cammino sinodale, che ci possono aiutare a comprendere meglio lo spirito che si riflette nell’Esortazione. Un Documento che possa orientare le vostre riflessioni e i vostri dialoghi, e così «arrechi coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà» (AL, 4). E questa presentazione di alcune idee/tensioni-chiave, mi piacerebbe farla con tre immagini bibliche che ci permettano di prendere contatto con il passaggio dello Spirito nel discernimento dei Padri Sinodali. Tre immagini bibliche.

1. «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo» (Es 3,5). Questo fu l’invito di Dio a Mosè davanti al roveto ardente. Il terreno da attraversare, i temi da affrontare nel Sinodo, avevano bisogno di un determinato atteggiamento. Non si trattava di analizzare un argomento qualsiasi; non stavamo di fronte a una situazione qualsiasi. Avevamo davanti i volti concreti di tante famiglie. E ho saputo che, in alcuni gruppi di lavoro, durante il Sinodo, i Padri sinodali hanno condiviso la propria realtà familiare. Questo dare volto ai temi – per così dire – esigeva, ed esige, un clima di rispetto capace di aiutarci ad ascoltare quello che Dio ci sta dicendo all’interno delle nostre situazioni. Non un rispetto diplomatico o politicamente corretto, ma un rispetto carico di preoccupazioni e domande oneste che miravano alla cura delle vite che siamo chiamati a pascere. Come aiuta dare volto ai temi! E come aiuta accorgersi che dietro le carte c’è un volto, come aiuta! Ci libera dall’affrettarci per ottenere conclusioni ben formulate ma molte volte carenti di vita; ci libera dal parlare in astratto, per poterci avvicinare e impegnarci con persone concrete. Ci protegge dall’ideologizzare la fede mediante sistemi ben architettati ma che ignorano la grazia. Tante volte diventiamo pelagiani! E questo, si può fare soltanto in un clima di fede. È la fede che ci spinge a non stancarci di cercare la presenza di Dio nei cambiamenti della storia.

Ognuno di noi ha avuto un’esperienza di famiglia. In alcuni casi sgorga il rendimento di grazie con maggior facilità che in altri, ma tutti abbiamo vissuto questa esperienza. In quel contesto, Dio ci è venuto incontro. La sua Parola è venuta a noi non come una sequenza di tesi astratte, ma come una compagna di viaggio che ci ha sostenuto in mezzo al dolore, ci ha animato nella festa e ci ha sempre indicato la meta del cammino (AL, 22). Questo ci ricorda che le nostre famiglie, le famiglie nelle nostre parrocchie con i loro volti, le loro storie, con tutte le loro complicazioni non sono un problema, sono una opportunità che Dio ci mette davanti. Opportunità che ci sfida a suscitare una creatività missionaria capace di abbracciare tutte le situazioni concrete, nel nostro caso, delle famiglie romane. Non solo di quelle che vengono o si trovano nelle parrocchie – questo sarebbe facile, più o meno –, ma poter arrivare alle famiglie dei nostri quartieri, a quelli che non vengono. Questo incontro ci sfida a non dare niente e nessuno per perduto, ma a cercare, a rinnovare la speranza di sapere che Dio continua ad agire all’interno delle nostre famiglie. Ci sfida a non abbandonare nessuno perché non è all’altezza di quanto si chiede da lui. E questo ci impone di uscire dalle dichiarazioni di principio per addentrarci nel cuore palpitante dei quartieri romani e, come artigiani, metterci a plasmare in questa realtà il sogno di Dio, cosa che possono fare solo le persone di fede, quelle che non chiudono il passaggio all’azione dello Spirito, e che si sporcano le mani. Riflettere sulla vita delle nostre famiglie, così come sono e così come si trovano, ci chiede di toglierci le scarpe per scoprire la presenza di Dio. Questa è una prima immagine biblica. Andare: c’è Dio, lì. Dio che anima, Dio che vive, Dio che è crocifisso… ma è Dio.

2. Ora la seconda immagine biblica. Quella del fariseo, quando pregando diceva al Signore: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano» (Lc 18,11). Una delle tentazioni (cfr AL, 229) alla quale siamo continuamente esposti è avere una logica separatista. E’ interessante. Per difenderci, crediamo di guadagnare in identità e in sicurezza ogni volta che ci differenziamo o ci isoliamo dagli altri, specialmente da quelli che stanno vivendo in una situazione diversa. Ma l’identità non si fa nella separazione: l’identità si fa nell’appartenenza. La mia appartenenza al Signore: questo mi dà identità. Non staccarmi dagli altri perché non mi “contagino”.

Considero necessario fare un passo importante: non possiamo analizzare, riflettere e ancor meno pregare sulla realtà come se noi fossimo su sponde o sentieri diversi, come se fossimo fuori dalla storia. Tutti abbiamo bisogno di convertirci, tutti abbiamo bisogno di porci davanti al Signore e rinnovare ogni volta l’alleanza con Lui e dire insieme al pubblicano: Dio mio, abbi pietà di me che sono un peccatore! Con questo punto di partenza, rimaniamo inclusi nella stessa “parte” – non staccati, inclusi nella stessa parte – e ci poniamo davanti al Signore con un atteggiamento di umiltà e di ascolto.

Giustamente, guardare le nostre famiglie con la delicatezza con cui le guarda Dio ci aiuta a porre le nostre coscienze nella sua stessa direzione. L’accento posto sulla misericordia ci mette di fronte alla realtà in modo realistico, non però con un realismo qualsiasi, ma con il realismo di Dio. Le nostre analisi sono importanti, sono necessarie e ci aiuteranno ad avere un sano realismo. Ma nulla è paragonabile al realismo evangelico, che non si ferma alla descrizione delle situazioni, delle problematiche – meno ancora del peccato – ma che va sempre oltre e riesce a vedere dietro ogni volto, ogni storia, ogni situazione, un’opportunità, una possibilità. Il realismo evangelico si impegna con l’altro, con gli altri e non fa degli ideali e del “dover essere” un ostacolo per incontrarsi con gli altri nelle situazioni in cui si trovano. Non si tratta di non proporre l’ideale evangelico, no, non si tratta di questo. Al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta. E questo non significa non essere chiari nella dottrina, ma evitare di cadere in giudizi e atteggiamenti che non assumono la complessità della vita. Il realismo evangelico si sporca le mani perché sa che “grano e zizzania” crescono assieme, e il miglior grano – in questa vita – sarà sempre mescolato con un po’ di zizzania. «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione», li comprendo. «Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”». Una Chiesa capace di «assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37)» (AL, 308). E qui faccio una parentesi. Mi è venuta tra le mani – voi la conoscete sicuramente – l’immagine di quel capitello della Basilica di Santa Maria Maddalena a Vézelay, nel Sud della Francia, dove incomincia il Cammino di Santiago: da una parte c’è Giuda, impiccato, con la lingua di fuori, e dall’altra parte del capitello c’è Gesù Buon Pastore che lo porta sulle spalle, lo porta con sé. E’ un mistero, questo. Ma questi medievali, che insegnavano la catechesi con le figure, avevano capito il mistero di Giuda. E Don Primo Mazzolari ha un bel discorso, un Giovedì Santo, su questo, un bel discorso. E’ un prete non di questa diocesi, ma dell’Italia. Un prete dell’Italia che ha capito bene questa complessità della logica del Vangelo. E quello che si è sporcato di più le mani è Gesù. Gesù si è sporcato di più. Non era uno “pulito”, ma andava dalla gente, tra la gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere. Torniamo all’immagine biblica: “Ti ringrazio, Signore, perché sono dell’Azione Cattolica, o di questa associazione, o della Caritas, o di questo o di quello…, e non come questi che abitano nei quartieri e sono ladri e delinquenti e…”. Questo non aiuta la pastorale!

3. Terza immagine biblica: “Gli anziani faranno sogni profetici” (cfr Gl 3,1). Tale era una delle profezie di Gioele per il tempo dello Spirito. Gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni. Con questa terza immagine vorrei sottolineare l’importanza che i Padri sinodali hanno dato al valore della testimonianza come luogo in cui si può trovare il sogno di Dio e la vita degli uomini. In questa profezia contempliamo una realtà inderogabile: nei sogni dei nostri anziani molte volte risiede la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, abbiano nuovamente un futuro –penso ai giovani di Roma, delle periferie di Roma –, abbiano un domani, abbiano una speranza. Ma se il 40% dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro, quale speranza possono avere? Qui a Roma. Come trovare la strada? Sono due realtà – gli anziani e i giovani – che vanno assieme e che hanno bisogno l’una dell’altra e sono collegate. È bello trovare sposi, coppie, che da anziani continuano a cercarsi, a guardarsi; continuano a volersi bene e a scegliersi. È tanto bello trovare “nonni” che mostrano nei loro volti raggrinziti dal tempo la gioia che nasce dall’aver fatto una scelta d’amore e per amore. A Santa Marta vengono tante coppie che fanno 50, 60 anni di matrimonio, e anche nelle udienze del mercoledì, e io sempre li abbraccio e li ringrazio della testimonianza, e chiedo: “Chi di voi ha avuto più pazienza?”. E sempre dicono: “Tutti e due!”. A volte, scherzando, uno dice: “Io!”, ma poi dice: “No, no, è uno scherzo”. E una volta c’è stata una risposta tanto bella, credo che tutti lo pensavano ma c’è stata una coppia sposata da 60 anni che è riuscita a esprimerla: “Ancora siamo innamorati!”. Che bello! I nonni che danno testimonianza. E io sempre dico: fatelo vedere ai giovani, che si stancano presto, che dopo due o tre anni dicono: “Torno da mamma”. I nonni!

Come società, abbiamo privato della loro voce i nostri anziani – questo è un peccato sociale attuale! –, li abbiamo privati del loro spazio; li abbiamo privati dell’opportunità di raccontarci la loro vita, le loro storie, le loro esperienze. Li abbiamo accantonati e così abbiamo perduto la ricchezza della loro saggezza. Scartandoli, scartiamo la possibilità di prendere contatto con il segreto che ha permesso loro di andare avanti. Ci siamo privati della testimonianza di coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma che conservano nel loro cuore la gratitudine per tutto ciò che hanno vissuto (cfr AL, 38).

Questa mancanza di modelli, di testimonianze, questa mancanza di nonni, di padri capaci di narrare sogni non permette alle giovani generazioni di “avere visioni”. E rimangono fermi. Non permette loro di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura. Solo la testimonianza dei nostri genitori, vedere che è stato possibile lottare per qualcosa che valeva la pena, li aiuterà ad alzare lo sguardo. Come pretendiamo che i giovani vivano la sfida della famiglia, del matrimonio come un dono, se continuamente sentono dire da noi che è un peso? Se vogliamo “visioni”, lasciamo che i nostri nonni ci raccontino, che condividano i loro sogni, perché possiamo avere profezie del domani. E qui vorrei fermarmi un momento. Questa è l’ora di incoraggiare i nonni a sognare. Abbiamo bisogno dei sogni dei nonni, e di ascoltare questi sogni. La salvezza viene da qui. Non a caso quando Gesù bambino viene portato al Tempio è accolto da due “nonni”, che avevano raccontato i loro sogni: quell’anziano [Simeone] aveva “sognato”, lo Spirito gli aveva promesso che avrebbe visto il Signore. Questa è l’ora – e non è una metafora – questa è l’ora in cui i nonni devono sognare. Bisogna spingerli a sognare, a dirci qualcosa. Loro si sentono scartati, quando non disprezzati. A noi piace, nei programmi pastorali, dire: “Questa è l’ora del coraggio”, “questa è l’ora dei laici”, “questa è l’ora…”. Ma se io dovessi dire, questa è l’ora dei nonni! “Ma, Padre, lei va indietro, lei è preconciliare!”. E’ l’ora dei nonni: che i nonni sognino, e i giovani impareranno a profetizzare, e a realizzare con la loro forza, con la loro immaginazione, con il loro lavoro, i sogni dei nonni. Questa è l’ora dei nonni. E su questo mi piacerebbe tanto che voi vi soffermaste nelle vostre riflessioni, mi piacerebbe tanto.

Tre immagini, per leggere l’Amoris laetitia:

1. La vita di ogni persona, la vita di ogni famiglia dev’essere trattata con molto rispetto e molta cura. Specialmente quando riflettiamo su queste cose.

2. Guardiamoci dal mettere in campo una pastorale di ghetti e per dei ghetti.

3. Diamo spazio agli anziani perché tornino a sognare.

Tre immagini che ci ricordano come «la fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso» (AL, 181). Non come quei perfetti e immacolati che credono di sapere tutto, ma come persone che hanno conosciuto l’amore che Dio ha per noi (cfr 1 Gv 4,16). E in tale fiducia, con tale certezza, con molta umiltà e rispetto, vogliamo avvicinarci a tutti i nostri fratelli per vivere la gioia dell’amore nella famiglia. Con tale fiducia rinunciamo ai “recinti” «che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza» (AL, 308). Questo ci impone di sviluppare una pastorale familiare capace di accogliereaccompagnarediscernereintegrare. Una pastorale che permetta e renda possibile l’impalcatura adatta perché la vita a noi affidata trovi il sostegno di cui ha bisogno per svilupparsi secondo il sogno – permettetemi il riduzionismo – secondo il sogno del “più anziano”: secondo il sogno di Dio. Grazie.

DOMANDE E RISPOSTE

Cardinale Vallini:

Adesso il Santo Padre ascolterà tre domande emerse dal cammino preparatorio del nostro Convegno. Il primo è don Giampiero Palmieri, parroco di San Frumenzio.

Don Giampiero Palmieri:

Sanità, buona sera. Nell’Esortazione Evangelii gaudium, Lei dice che il grande problema di oggi è l’ “individualismo comodo e avaro”; e in Amoris laetitia dice che bisogna creare reti di relazione tra le famiglie. Usa un’espressione che in italiano suona anche un po’ male: “la famiglia allargata”. Famiglia allargata, reti di relazioni tra famiglie, non solo nella Chiesa ma anche nella società, dove i più piccoli, i più poveri, le donne sole, gli anziani possano essere accolti. E' necessaria una rivoluzione della tenerezza, una fraternità mistica. Ecco, anche noi sentiamo il virus dell’individualismo nelle nostre comunità; siamo anche noi figli di questo tempo. Allora abbiamo bisogno di un aiuto per creare questa rete di relazione tra le famiglie, capace di rompere la chiusura e di ritrovarsi. Questo, forse, può significare cambiare tante cose nelle nostre parrocchie, tante cose che forse con il tempo si sono sedimentate: ostilità, divisioni, vecchi risentimenti. Questa è la domanda.

Papa Francesco:

E’ vero che l’individualismo è come l’asse di questa cultura. E questo individualismo ha tanti nomi, tanti nomi di radice egoistica: cercano sempre sé stessi, non guardano l’altro, non guardano le altre famiglie… Si arriva, a volte, a vere crudeltà pastorali. Per esempio, parlo di un’esperienza che ho conosciuto quando ero a Buenos Aires: in una diocesi vicina, alcuni parroci non volevano battezzare i bambini delle ragazze-madri. Ma guarda! Come fossero animali. E questo è individualismo. “No, noi siamo i perfetti, questa è la strada…”. E’ un individualismo che cerca anche il piacere, è edonista. Starei per dire una parola un po’ forte, ma la dico tra virgolette: quel “maledetto benessere” che ci ha fatto tanto male. Il benessere. Oggi l’Italia ha un calo delle nascite terribile: è, credo, sotto zero. Ma questo è incominciato con quella cultura del benessere, da alcuni decenni… Ho conosciuto tante famiglie che preferivano – ma per favore, non accusatemi, gli animalisti, perché non voglio offendere nessuno – preferivano avere due o tre gatti, un cane invece di un figlio. Perché fare un figlio non è facile, e poi, portarlo avanti… Ma quello che più diventa una sfida con un figlio è che tu fai una persona che diventerà libera. Il cane, il gatto, ti daranno un affetto, ma un affetto “programmato”, fino a un certo punto, non libero. Tu hai uno, due, tre, quattro figli, e saranno liberi, e dovranno andare nella vita con i rischi della vita. Questa è la sfida che fa paura: la libertà. E torniamo all’individualismo: io credo che noi abbiamo paura della libertà. Anche nella pastorale: “Ma, cosa si dirà se faccio questo?... E si può?...”. E ha paura. “Ma tu hai paura: rischia! Nel momento in cui sei lì, e devi decidere, rischia! Se sbagli, c’è il confessore, c’è il vescovo, ma rischia! E’ come quel fariseo: la pastorale delle mani pulite, tutto pulito, tutto a posto, tutto bello. Ma fuori da questo ambiente, quanta miseria, quanto dolore, quanta povertà, quanta mancanza di opportunità di sviluppo! E’ un individualismo edonista, è un individualismo che ha paura della libertà. E’ un individualismo – non so se la grammatica italiana lo permette – direi “ingabbiante”: ti ingabbia, non ti lascia volare libero.

E poi, sì, la famiglia allargata. E’ vero, è una parola che non sempre suona bene, ma secondo le culture; io l’Esortazione l’ho scritta in spagnolo… Ho conosciuto, per esempio, famiglie… Proprio l’altro giorno, una settimana fa o due, è venuto a presentare le credenziali l’ambasciatore di un Paese. C’era l’ambasciatore, la famiglia e la signora che faceva le pulizie nella loro casa da tanti anni: questa è una famiglia allargata. E questa donna era della famiglia: una donna sola, e non solo la pagavano bene, la pagavano in regola, ma quando sono dovuti andare dal Papa a dare le credenziali: “tu vieni con noi, perché tu sei della famiglia”. E’ un esempio. Questo è dare posto alla gente. E fra la gente semplice, con la semplicità del Vangelo, quella semplicità buona, ci sono esempi così, di allargare la famiglia…

E poi, l’altra parola-chiave che tu hai detto, oltre all’individualismo, alla paura della libertà e all’attaccamento al piacere, tu hai detto un’altra parola: la tenerezza. E’ la carezza di Dio, la tenerezza. Una volta, in un Sinodo, è uscito questo: “Dobbiamo fare la rivoluzione della tenerezza”. E alcuni Padri – anni fa – hanno detto: “Ma non si può dire questo, non suona bene”. Ma oggi lo possiamo dire: manca tenerezza, manca tenerezza. Accarezzare non solo i bambini, gli ammalati, accarezzare tutto, i peccatori… E ci sono esempi buoni, di tenerezza… La tenerezza è un linguaggio che vale per i più piccoli, per quelli che non hanno niente: un bambino conosce il papà e la mamma per le carezze, poi la voce, ma è sempre la tenerezza. E a me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al bambino che incomincia a parlare, anche il papà e la mamma si fanno bambini [fa il verso], parlano così… Tutti lo abbiamo visto, è vero. Questa è la tenerezza. E’ abbassarmi al livello dell’altro. E’ la strada che ha fatto Gesù. Gesù non ha ritenuto un privilegio essere Dio: si è abbassato (cfr Fil 2,6-7). E ha parlato la nostra lingua, ha parlato con i nostri gesti. E la strada di Gesù è la strada della tenerezza. Ecco: l’edonismo, la paura della libertà, questo è proprio individualismo contemporaneo. Bisogna uscire attraverso la strada della tenerezza, dell’ascolto, dell’accompagnare, senza chiedere… Sì, con questo linguaggio, con questo atteggiamento le famiglie crescono: c’è la piccola famiglia, poi la grande famiglia degli amici o di quelli che vengono… Non so se ho risposto, ma mi sembra, mi è venuto così.

(Seconda domanda)

Santità buonasera, torno su un argomento che Lei ha già accennato. Noi sappiamo che come comunità cristiane non vogliamo rinunciare alle esigenze radicali del Vangelo della famiglia: il matrimonio come Sacramento, l’indissolubilità, la fedeltà del matrimonio; e, dall’altra parte, all’accoglienza piena di misericordia verso tutte le situazioni, anche quelle più difficili. Come evitare che nelle nostre comunità nasca una doppia morale, una esigente e una permissiva, una rigorista e una lassista?

Papa Francesco:

Entrambe non sono verità: né il rigorismo né il lassismo sono verità. Il Vangelo sceglie un’altra strada. Per questo, quelle quattro parole – accogliere, accompagnare, integrare, discernere – senza mettere il naso nella vita morale della gente. Per la vostra tranquillità, devo dirvi che tutto quello che è scritto nell’Esortazione – e riprendo le parole di un grande teologo che è stato segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Schönborn, che l’ha presentata – tutto è tomista, dall’inizio alla fine. E’ la dottrina sicura. Ma noi vogliamo, tante volte, che la dottrina sicura abbia quella sicurezza matematica che non esiste, né con il lassismo, di manica larga, né con la rigidità. Pensiamo a Gesù: la storia è la stessa, si ripete. Gesù, quando parlava alla gente, la gente diceva: “Costui parla non come i nostri dottori della legge, parla come uno che ha autorità” (cfr Mc 1,22). Quei dottori conoscevano la legge, e per ogni caso avevano una legge specifica, per arrivare alla fine a circa 600 precetti. Tutto regolato, tutto. E il Signore – l’ira di Dio io la vedo in quel capitolo 23 di Matteo, è terribile quel capitolo – soprattutto a me fa impressione quando parla del quarto comandamento e dice: “Voi, che invece di dare da mangiare ai vostri genitori anziani, dite loro: ‘No, ho fatto la promessa, è meglio l’altare che voi’, siete in contraddizione” (cfr Mc 7,10-13). Gesù era così, ed è stato condannato per odio, gli mettevano sempre dei trabocchetti davanti: “Si può far questo o non si può?”. Pensiamo alla scena dell’adultera (cfr Gv 8,1-11). Sta scritto: dev’essere lapidata. E’ la morale. E’ chiara. E non rigida, questa non è rigida, è una morale chiara. Dev’essere lapidata. Perché? Per la sacralità del matrimonio, la fedeltà. Gesù in questo è chiaro. La parola è adulterio. E’ chiaro. E Gesù si fa un po’ il finto tonto, lascia passare il tempo, scrive per terra… E poi dice: “Incominciate: il primo di voi che non abbia peccato, scagli la prima pietra”. Ha mancato verso la legge, Gesù, in quel caso. Se ne sono andati via, incominciando dai più vecchi. “Donna, nessuno ti ha condannato? Neppure io”. La morale qual è? Era di lapidarla. Ma Gesù manca, ha mancato verso la morale. Questo ci fa pensare che non si può parlare della “rigidità”, della “sicurezza”, di essere matematico nella morale, come la morale del Vangelo.

Poi, continuiamo con le donne: quando quella signora o signorina [la Samaritana, cfr Gv 4,1-27], non so cosa fosse, incominciò a fare un po’ la “catechista” e a dire: “Ma bisogna adorare Dio su questo monte o in quello?...”. Gesù le aveva detto: “E tuo marito?...” – “Non ne ho” – “Hai detto la verità”. E in effetti lei aveva tante medaglie di adulterio, tante “onorificenze”… Eppure è stata lei, prima di essere perdonata, è stata l’“apostolo” della Samaria. E allora come si deve fare? Andiamo al Vangelo, andiamo a Gesù! Questo non significa buttare l’acqua sporca con il bambino, no, no. Questo significa cercare la verità; e che la morale è un atto d’amore, sempre: amore a Dio, amore al prossimo. E’ anche un atto che lascia spazio alla conversione dell’altro, non condanna subito, lascia spazio.

Una volta – ci sono tanti preti, qui, ma scusatemi – il mio predecessore, no, l’altro, il Cardinale Aramburu, che è morto dopo il mio predecessore, quando io sono stato nominato arcivescovo mi ha dato un consiglio: “Quando tu vedi che un sacerdote vacilla un po’, scivola, tu chiamalo e digli: ‘Parliamo un po’, mi hanno detto che tu sei in questa situazione, quasi di doppia vita, non so…’; e tu vedrai che quel sacerdote incomincia a dire: ‘No, non è vero, no…’; tu interrompilo e digli: ‘Ascoltami: vai a casa, pensaci, e torna tra quindici giorni, e ne riparliamo’; e in quei quindici giorni quel sacerdote – così mi diceva lui – aveva il tempo di pensare, ripensare davanti a Gesù e tornare: ‘Sì, è vero. Aiutami!’”. Sempre ci vuole tempo. “Ma, Padre, quel prete ha vissuto, e ha celebrato la Messa, in peccato mortale in quei quindici giorni, così dice la morale, e Lei cosa dice?”. Cosa è meglio? Cosa è stato meglio? Che il vescovo abbia avuto quella generosità di dargli quindici giorni per ripensarci, con il rischio di celebrare la Messa in peccato mortale, è meglio questo o l’altro, la morale rigida? E a proposito della morale rigida, vi dirò un fatto a cui ho assistito io stesso. Quando noi eravamo in teologia, l’esame per ascoltare le Confessioni – “ad audiendas”, si chiamava – si faceva al terzo anno, ma noi, quelli del secondo, avevamo il permesso di andare ad assistere per prepararci; e una volta, a un nostro compagno, è stato proposto un caso, di una persona che va a confessarsi, ma un caso così intricato, riguardo al settimo comandamento, “de justitia et jure”; ma era proprio un caso talmente irreale...; e questo compagno, che era una persona normale, disse al professore: “Ma, padre, questo nella vita non si trova” – “Sì, ma c’è nei libri!”. Questo l’ho visto io.

(Terza domanda)

Santità, buonasera. Dovunque andiamo, oggi sentiamo parlare di crisi del matrimonio. E allora Le volevo domandare: su cosa possiamo puntare oggi per educare i giovani all’amore, in particolar modo al matrimonio sacramentale, superando le loro resistenze, lo scetticismo, le disillusioni, la paura del definitivo? Grazie.

Papa Francesco:

Ti prendo l’ultima parola: noi viviamo anche una cultura del provvisorio. Un vescovo, ho sentito dire, alcuni mesi fa, che gli si è presentato un ragazzo che aveva finito gli studi universitari, un bravo giovane, e gli ha detto: “Io voglio diventare sacerdote, ma per dieci anni”. E’ la cultura del provvisorio. E questo succede dappertutto, anche nella vita sacerdotale, nella vita religiosa. Il provvisorio. E per questo una parte dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli, perché loro [gli sposi] dicono: “Sì, per tutta la vita”, ma non sanno quello che dicono, perché hanno un’altra cultura. Lo dicono, e hanno la buona volontà, ma non hanno la consapevolezza. Una signora, una volta, a Buenos Aires, mi ha rimproverato: “Voi preti siete furbi, perché per diventare preti studiate otto anni, e poi, se le cose non vanno e il prete trova una ragazza che gli piace… alla fine gli date il permesso di sposarsi e fare una famiglia. E a noi laici, che dobbiamo fare il sacramento per tutta la vita e indissolubile, ci fanno fare quattro conferenze, e questo per tutta la vita!”. Per me, uno dei problemi, è questo: la preparazione al matrimonio.

E poi la questione è molto legata al fatto sociale. Io ricordo, ho chiamato – qui in Italia, l’anno scorso – ho chiamato un ragazzo che avevo conosciuto tempo fa a Ciampino, e si sposava. L’ho chiamato e gli ho detto: “Mi ha detto tua mamma che ti sposerai il prossimo mese… Dove farai?…” – “Ma non sappiamo, perché stiamo cercando la chiesa che sia adatta al vestito della mia ragazza… E poi dobbiamo fare tante cose: le bomboniere, e poi cercare un ristorante che non sia lontano…”. Queste sono le preoccupazioni! Un fatto sociale. Come cambiare questo? Non so. Un fatto sociale a Buenos Aires: io ho proibito di fare matrimoni religiosi, a Buenos Aires, nei casi che noi chiamiamo “matrimonios de apuro”, matrimoni “di fretta” [riparatori], quando è in arrivo il bambino. Adesso stanno cambiando le cose, ma c’è questo: socialmente deve essere tutto in regola, arriva il bambino, facciamo il matrimonio. Io ho proibito di farlo, perché non sono liberi, non sono liberi! Forse si amano. E ho visto dei casi belli, in cui poi, dopo due-tre anni, si sono sposati, e li ho visti entrare in chiesa papà, mamma e bambino per mano. Ma sapevano bene quello che facevano. La crisi del matrimonio è perché non si sa cosa è il sacramento, la bellezza del sacramento: non si sa che è indissolubile, non si sa che è per tutta la vita. E’ difficile. Un’altra mia esperienza a Buenos Aires: i parroci, quando facevano i corsi di preparazione, c’erano sempre 12-13 coppie, non di più, non arrivare a 30 persone. La prima domanda che facevano: “Quanti di voi siete conviventi?”. La maggioranza alzava la mano. Preferiscono convivere, e questa è una sfida, chiede lavoro. Non dire subito: “Perché non ti sposi in chiesa?”. No. Accompagnarli: aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà. Nella campagna argentina, nella zona del Nordest, c’è una superstizione: che i fidanzati hanno il figlio, convivono. In campagna succede questo. Poi, quando il figlio deve andare a scuola, fanno il matrimonio civile. E poi, da nonni, fanno il matrimonio religioso. E’ una superstizione, perché dicono che farlo subito religioso spaventa il marito! Dobbiamo lottare anche contro queste superstizioni. Eppure davvero dico che ho visto tanta fedeltà in queste convivenze, tanta fedeltà; e sono sicuro che questo è un matrimonio vero, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno. Ma ci sono superstizioni locali. E’ la pastorale più difficile, quella del matrimonio.

E poi, la pace nella famiglia. Non solo quando discutono tra loro, e il consiglio è sempre di non finire la giornata senza fare la pace, perché la guerra fredda del giorno dopo è peggio. E’ peggio, sì, è peggio. Ma quando si immischiano i parenti, i suoceri, perché non è facile diventare suocero o suocera! Non è facile. Ho sentito una cosa bella, che piacerà alle donne: quando una donna sente dall’ecografia che è incinta di un maschietto, da quel momento incomincia a studiare per diventare suocera!

Torno sul serio: la preparazione al matrimonio, la si deve fare con vicinanza, senza spaventarsi, lentamente. E’ un cammino di conversione, tante volte. Ci sono, ci sono ragazzi e ragazze che hanno una purezza, un amore grande e sanno quello che fanno. Ma sono pochi. La cultura di oggi ci presenta questi ragazzi, sono buoni, e dobbiamo accostarci e accompagnarli, accompagnarli, fino al momento della maturità. E lì, che facciano il sacramento, ma gioiosi, gioiosi! Ci vuole tanta pazienza, tanta pazienza. E’ la stessa pazienza che ci vuole per la pastorale delle vocazioni. Ascoltare le stesse cose, ascoltare: l’apostolato dell’orecchio, ascoltare, accompagnare… Non spaventarsi, per favore, non spaventarsi. Non so se ho risposto, ma ti parlo della mia esperienza, di quello che ho vissuto come parroco.

[Alla fine]

Grazie tante e pregate per me!



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