Romani 9,14 ss ... Dio...indurisce chi vuole...

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°Teofilo°
00sabato 22 agosto 2009 22:19
Questo passo presenta qualche difficoltà:

14 Che diremo dunque? C'è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! 15 Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. 16 Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. 17 Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. 18 Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole 19 Mi potrai però dire: "Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?". 20 O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?". 21 Forse il vasaio non è padrone dell'argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22 Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, 23 e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, 24 cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 11/10/2003 13.48

Paolo non risolve il dilemma nella sua lettera. Tuttavia alla luce di quanto emerge da tutta la Scrittura si può trarre qualche conclusione come fa questo commento al brano citato:

Dio, nell'attuale piano di salvezza, si riserva sempre ed in modo esclusivo l’ iniziativa e l’azione, trascendendo ogni aspettativa umana. È Dio, con la più assoluta indipendenza da ogni elemento umano, che salva, mantenendo le sue promesse. Paolo esprime queste verità usando molti antropomorfismi e mantenendosi nell'ambito della mentalità semitica. Antropomorfìsmi: in noi la libertà di iniziativa è compresa quando, davanti alla possibilità di un'azione, sappiamo di poter fare il contrario. Paolo per dire che Dio è sommamente indipendente nella sua azione salvifica e per farlo capire, si esprime in termini di scelta e di alternativa: ha misericordia di chi ha misericordia, non l’ha di chi non l'ha, usa bontà verso chi vuole, indurisce chi vuole. Ciò non porta ad una discriminazione di fatto e solo un modo di dire che Dio usa misericordia, salva, solo in base a se stesso e alla sua bontà. Non si afferma che ci sia una parte dell'umanità e nemmeno un solo uomo, verso cui Dio, di fatto, non usi misencordia. Non deve perciò essere frainteso il modo di esprimersi di Paolo quando parla dell'indurimento del Faraone e Io attribuisce semplicemente a Dio (come fa anche l'Esodo, ma con varie sfumature che proprio permettono di isolare le diverse tradizioni "Dio indurisce " 9,12, 10,27, "il Faraone si indurisce" 7,15, 9,55), non vuol dire affatto che Dio abbia voluto direttamente quel fatto negativo, ma, preso atto del fatto concreto, lo riferisce a Dio globalmente, secondo la mentalità semitica, indicando come Dio sa trarre il bene dal male.

l9-23 Paolo avverte che il suo 'modo di dire potrebbe essere frainteso. Se Dio è autore di tutto e vuole tutto, se è lui che indurisce, come può poi lamentarsi, minacciare, biasimare: come può rimproverare l'uomo del suo comportamento peccaminoso, se è Dio che, irresistibilmente, vuole tutto questo? Il problema è posto in termini chiari. Ma Paolo avverte subito la difficoltà di una risposta adeguata: quindi, mentre implicitamente afferma che l'uomo è libero è responsabile, e che quindi Dio ha tutti i diritti di rimproverare, situa il problema nel suo contesto naturale: la trascendenza divina. Fa questo anzitutto con una interrogazione retorica: come può l'uomo mettersi a discutere, quasi da pari a pari con Dio fino a contraddirlo? È la posizione assurda con cui l'uomo pone dei problemi che toccano la trascendenza divina, posizione che Dio rimprovera, ad esempio, a Giobbe (58-39). Paolo porta poi l'esempio del vasaio; nello sviluppare l'esempio secondo il suo solito, mette in risalto un solo fatto: il vasaio è padrone assoluto, può costruire i vasi che vuole e come vuole, ha sempre lui la piena iniziativa: è assurdo che un vaso d'argilla si metta a discutere col vasaio. L'applicazione a Dio ribadisce la piena libertà di iniziativa e di azione, assoluta e senza alcun limite, che Dio ha nella salvezza. Ma non vuol dire di più: non ha senso perciò sviluppare i dettagli dell'esempio, facendone l'applicazione all'uomo. Anche nell'esempio del vasaio e nella sua applicazione a Dio abbiamo lo stesso antropomorfismo di cui sopra: la libertà espressa mediante la contrapposizione della possibilità contraria. A proposito in particolare del v. 24, notiamo l'anacoluto: Paolo non conclude il discorso, non dà esplicitamente una risposta alla domanda posta al versetto 19.

sopportò... vasi di ira approntati per la perdizione: si tratta in concreto degli uomini che, per i loro peccati e la non accettazione del messaggio evangelico, sono oggetto dell'ira divina, sono cioè in assoluta antitesi con Dio che salva. Essi sono stati e permangono approntati per la rovina eterna. Chi li ha messi in questa situazione? Il testo usa il perfetto passivo e lascia quindi la questione aperta: si potrebbe intendere come forma verbale media e allora si avrebbe la spiegazione: che si sono, essi stessi, approntati per la rovina, ma da altri contesti in cui si parla di ira di Dio (cf Rm 1,18; 2,5; 4,15; 13,4; ecc.) si suppone sempre un male morale che la provochi e che quindi le è antecedente. Come si comporta Dio di fronte a questi vasi di ira? Ci aspetteremmo una condanna radicale. Il testo invece dice: li sopportò con molta longanimità e la longanimità di Dio attende un possibile cambiamento. Infatti Dio manifesta, nella situazione attuale in cui essi si trovano, la sua ira, e se essi vi permangono la manifesterà ancora di più nel giorno dell'ira; ma Dio nel sopportare ha anche un altro scopo: mostra ciò di cui è capace, la sua potenza giustificante: potrà cambiare i vasi d'ira in vasi di misericordia.

Si suppone una situazione diversa. Ci sono vasi di misericordia, cioè uomini che, aderendo a Dio e accettando la salvezza del vangelo, sono oggetto attualmente dell'azione salvifica di dìo. In essi Dio manifesta la ricchezza della sua gloria, cioè una partecipazione quanto mai abbondante di se stesso, della sua vita divina. E fa ciò attivamente: li prepara (in contrapposizione con "preparati" del v. 22).

Da S.Agostino: 83 questioni.

Tratto dalla questione n.68


….Anche a proposito del Faraone si può facilmente rispondere che un tale
indurimento del cuore, da non credere neppure ai segni più manifesti del volere divino, era la giusta conseguenza dei precedenti demeriti con i quali aveva perseguitato i forestieri nel suo regno. Da un’unica massa, vale a dire di peccatori, ha tratto fuori vasi di misericordia a cui prestare soccorso, quando i figli d’Israele lo avrebbero invocato, e vasi d’ira, cioè il Faraone e il suo popolo: col loro castigo avrebbe istruiti quelli; perché, sebbene gli uni e gli altri fossero peccatori, e di conseguenza appartenessero all’identica massa, era necessario tuttavia trattare in un modo coloro che avevano supplicato nei gemiti l’unico Dio, perché li soccoresse, e in un altro coloro che li avevano afflitti con ingiusti gravami. Ha sopportato dunque con grande pazienza i vasi di collera, già pronti per la perdizione 282. Con l’espressione con grande pazienza ha indicato a sufficienza i loro precedenti peccati, per i quali li aveva sopportati: li avrebbe vendicati a tempo opportuno, quando dalla loro punizione avrebbe prestato soccorso a quelli che sarebbero stati liberati. E questo per far comprendere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria 283. A questo punto forse sei confuso e ritorni sulla questione precedente. Egli usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole. Perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? 284 Senza dubbio usa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole, eppure questa volontà di Dio non può essere ingiusta. Scaturisce difatti da meriti assai occulti; anche gli stessi peccatori, sebbene a causa del comune peccato costituiscano un’unica massa, non sono tuttavia senza qualche differenza tra loro. In alcuni peccatori precede dunque qualcosa per cui, sebbene non siano ancora giustificati, sono degni di essere giustificati; e in altri peccatori precede ugualmente qualcosa per cui sono meritevoli di ostinazione. Altrove scopri lo stesso Apostolo che dice: Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata 285. Averli abbandonati a un’intelligenza depravata equivale ad aver indurito il cuore del Faraone 286. L’aver disprezzato la conoscenza di Dio è stato il motivo per cui hanno meritato di essere abbandonati a un’intelligenza depravata.

5. È vero però che non dipende dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio 287. Sebbene, infatti, qualcuno si renda degno della misericordia di Dio con grande gemito e dolore tanto per i peccati più lievi quanto per quelli più gravi e addirittura numerosi, ciò non dipende da lui, che si perderebbe se fosse abbandonato, ma dalla misericordia di Dio che viene in aiuto alle sue preghiere addolorate. Non basta infatti volere se Dio non usa misericordia. Ma Dio, che chiama alla pace, non usa misericordia se non precede la volontà, perché la pace in terra è per gli uomini di buona volontà 288. E poiché nessuno può volere, senza essere prevenuto e chiamato sia interiormente, dove nessun uomo vede, che esteriormente per mezzo della predicazione o di altri segni manifesti, risulta che è Dio a suscitare in noi questo stesso volere 289. Infatti a quella cena, che nel Vangelo il Signore dice di aver preparato, non tutti gli invitati hanno voluto partecipare, e quelli che sono venuti non sarebbero potuti venire senza essere stati invitati 290. Pertanto quelli non devono attribuire a se stessi di essere venuti, perché sono venuti su invito: né devono incolpare altri, ma se stessi, coloro che non sono voluti venire, perché erano chiamati a partecipare in piena libertà. La chiamata dunque suscita la volontà prima del merito. Di conseguenza se qualcuno attribuisce a se stesso di aver corrisposto alla chiamata, non può attribuire a se stesso di essere stato chiamato. Chi invece non ha risposto all’invito, come non ha avuto alcun merito per essere chiamato, così inizia a meritare il castigo per aver trascurato l’invito a venire. Ci saranno così due cose: Canterò, Signore, la tua misericordia e la tua giustizia 291. La chiamata dipende dalla misericordia; dalla giustizia dipende la felicità di coloro che hanno risposto all’appello e il castigo di coloro che hanno rifiutato di venire. Non si rendeva forse conto il Faraone dei vantaggi derivati al suo paese dalla venuta di Giuseppe 292? La conoscenza di questo fatto costituiva dunque per lui l’appello a non essere ingrato, trattando con indulgenza il popolo d’Israele. Rifiutando di corrispondere a quest’invito e rendendosi crudele verso coloro ai quali doveva umanità e indulgenza, ha meritato come punizione l’indurimento del suo cuore e una tale cecità di spirito da non credere ai numerosi e così grandi ed evidenti prodigi di Dio. Con questo castigo dell’ostinazione e del suo definitivo e visibile naufragio in mare, si poteva istruire il popolo che, a motivo della sua sofferenza, il Faraone aveva meritato, sia l’occulta ostinazione del cuore che la manifesta scomparsa tra i flutti 293.6. Ora questa chiamata, rivolta secondo l’opportunità dei tempi, sia agli individui che ai popoli e all’intero genere umano, è segno di una disposizione elevata e profonda. Ad essa si riferiscono anche queste parole: Io ti ho santificato nel seno materno

294; e: Ti ho visto quando eri ancora nei lombi di tuo padre 295 e: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù 296, che sono state pronunciate prima che essi nascessero. Forse possono comprenderle soltanto coloro che amano il Signore loro Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la loro mente e amano il prossimo come se stessi 297. Fondati in una così grande carità forse possono già comprendere con i santi la lunghezza, l’ampiezza, l’altezza e la profondità 298. Bisogna però ritenere con fermissima fede che Dio non fa nulla d’ingiusto e che non c’è alcuna natura che non debba a Dio ciò che è. A Dio si deve infatti ogni splendore, bellezza e armonia delle parti: se tu l’analizzerai a fondo e la eliminerai dalle cose fino alle ultime parti, non rimane più nulla.

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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 11/10/2003 13.49

S.Ireneo di Lione. Contro le eresie Dal libro IV 27,4 

Così come Dio fece vendetta su quelli che ingiustamente opprimevano Israele, così ora il Signore dice: "Dio non farà vendetta per gli eletti che gridano a lui giorno e notte? Sì vi dico, farà presto vendetta" (Lu 18,7 ) E l'Apostolo afferma nella lettera ai Tessalonicesi: "Se è giusto presso Dio rendere meritata retribuzione a coloro che vi affliggono e a voi afflitti il refrigerio con noi, ciò avverrà nella rivelazione del Signore nostro Gesù Cristo quando verrà dal cielo con i suoi angeli e la fiamma ardente a compiere vendetta di quelli che non riconobbero Dio e non prestarono fede al Vangelo del Signor nostro Gesù Cristo; essi avranno eterne pene di morte lontani dal volto del Signore, dalla gloria della sua potenza, quando verrà ad essere glorificato nei suoi santi ed ammirato da tutti coloro che credettero in lui » (2 Ts. 1).

Superiorità morale del N. T.

IV, 28,1 - Essendo dunque adesso e allora la stessa giustizia di Dio che rivendica i diritti di Dio, lì in modo tipico, temporaneo e limitato, qui in modo vero e perpetuo e severo - il fuoco, infatti, è eterno e l'ira di Dio che si rivelerà dal volto del Signore nostro aumenterà la pena di quelli che la subiranno, come dice Davide: « II volto del Signore sta sopra i malfattori per sterminare dalla terra la loro memoria )> ( Sail 33, 17) - i presbiteri dichiaravano molto insensati quelli che, argomentando da quanto avvenne a coloro che in antico non obbedivano a Dio, suppongono I'esistenza di un altro Padre, opponendo (alla severità dei castighi nel V. T.) la bontà del Signore (G. C.) che venne a salvare coloro che lo accolgono; essi tacciono del suo giudizio e di ciò che avranno coloro che udendo le sue parole non le misero in pratica; tacciono che per costoro « sarebbe stato meglio non esser nati)) (cfr. Mt. 26, 24; Mc. 14, 21) e che il giudizio di Sodoma e Gomorra sarà più mite di quello delle città che non accolsero la parola dei suoi discepoli (Mt. 11, 24).

IV, 28,2 - Nel Nuovo Testamento è aumentata la fede degli uomini in Dio sotto l'impulso del Figlio di Dio, cosi che l'uomo diventa partecipe di Dio ed è pure cresciuta la perfezione della condotta, perche abbiamo il precetto di astenerci non solo dalle azioni cattive, ma dagli stessi pensieri e dalle parole oziose e vane e dai discorsi licenziosi; ma è pure raddoppiata la pena per coloro che non credono al Verbo di Dio e non fanno conto del suo avvento. Quelli ai quali il Signore dirà: « Allontanatevi da me, nel fuoco eterno ) ( Mt, 25, 41) saranno dannati per sempre e quelli ai quali dirà : « Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno preparato per voi in eterno » (ivi 34) avranno il regno per sempre e vi faranno (continuo) progresso. Infatti v'è un unico e identico Dio Padre col suo Verbo : egli è sempre presente al genere umano con varie economie e opera in diverse maniere la salvezza di coloro che dall'inizio si salvano. Sono quelli che amano Dio e che secondo la loro condizione seguono il Verbo di Dio, mentre condanna coloro che sono condannati, cioè quelli che dimenticano Dio, che sono blasfemi e trasgressori della sua parola.

IV, 28,3 - I predetti eretici (Marcioniti) si contradicono accusando il Signore nel quale dicono di credere. Ciò che essi osservano in Dio, cioè che condannò gli increduli a pene temporali e percosse gli Egiziani salvando invece gli obbedienti, è ripetuto dal Signore (nel N. T.), che condanna in eterno quelli che condanna e in eterno assolve quelli che assolve. Egli sarebbe causa del massimo peccato, stando alle loro parole, di coloro che gli posero addosso le mani e lo trafissero: se non fosse venuto in quel modo essi non avrebbero ucciso il loro Signore; se non avesse mandato loro i profeti non li avrebbero uccisi, e cosi degli apostoli.

A coloro che ci obiettano: se gli Egiziani non fossero stati colpiti e i persecutori d'Israele non fossero stati sommersi nel mare, Dio non avrebbe potuto salvare il popolo, noi rispondiamo: se i Giudei, allora, non avessero ucciso il Signore - il che li privò della vita eterna - e non avessero ucciso gli apostoli e perseguitato la Chiesa cadendo nell'abisso dell'indignazione (di Dio), noi non avremmo potuto essere salvati. Infatti, come essi furono salvati per la cecità degli Egiziani, cosi noi per quella dei Giudei, poiché la morte del Signore per i crocifissori e gli increduli nella sua venuta è dannazione, salvezza, invece, per i credenti in lui. I'Apostolo dice, infatti, nella lettera seconda ai Corinti: « Siamo fragranza di Dio per quelli che si salvano e per quelli che periscono: per alcuni è odore di morte, per altri profumo di vita che li fa vivere » (2 Cor. 2, 15s). Per chi è odore di morte se non per quelli che non credono e non sono soggetti al Verbo di Dio? E chi sono quelli che allora si votarono alla morte? Quelli che non credettero e non si sottomisero a Dio. Viceversa chi sono i salvati che ricevettero l'eredità? Quelli che credettero in Dio e perseverarono nel suo amore, come Caleb di Jefon e Gesù di Nave ( Giosuè: 1, 1) e i bambini innocenti che non potevano neppure pensare il male. Chi sono quelli che ora si salvano e ricevono la vita eterna? Non sono quelli che amano Dio. che credono alle sue promesse e sono divenuti fanciulli quanto a malizia?

Risposta a due obiezioni. Indurimento di Faraone.

IV, 29,1 - Essi obiettano: Dio « indurò» (Es, 7. 3) il cuore di Faraone e dei suoi ministri. Costoro non leggono il Vangelo, dove alla domanda dei discepoli: « Perché parli loro in parabole? n il Signore rispose : « Perché a voi è concesso di conoscere il mistero del regno dei cieli,mentre ad essi parlo in parabole perché vedendo non vedano e udendo non odano, intendendo non intendano, affinchè si adempia in essi la profezia di Isaia: Indura il loro cuore e ottura le loro orecchie e accieca Ì loro occhi. Beati, invece, i vostri occhi che vedono ciò che vedete e beati i vostri orecchi, che odono ciò che udite >* (Mt. 13, 10ss).

Uno e identico è Dio che non credenti e negatori di lui rende ciechi, come il sole da lui creato rende ciechi coloro che per qualche infermità non possono contemplare il suo fulgore; ai credenti, invece, e suoi seguaci concede piena luce nella mente.

In questo senso l'Apostolo scrive: « II Dio di questo secolo acciecò le menti degli increduli perché non risplenda in esse la luce del Vangelo di gloria di Cristo)) (2 Cor. 4, 4). Nella seconda ai Tessalonicesi parla espressamente dell'Anticristo: « Perciò Dio manderà loro un frutto di errore perché credano alla menzogna, affinchè siano condannati tutti coloro che non credettero alla verità e consentirono all'iniquità)) (2 Tes. 2, lOs).

IV, 29,2 • Se, dunque, ora, essendo conoscitore di tutto il futuro condanna all'incredulità tutti coloro che sa che non crederanno in Dio e rivolge ad essi la faccia lasciandoli nelle tenebre che hanno preferito, che c'è di strano se allora condannò all'incredulità Faraone e i suoi satelliti che sapeva non avrebbero mai creduto in Dio? Cosi, infatti, dice il Verbo a Mosè dal roveto: « Io so che Faraone rè dell'Egitto non vi lascerà partire se non per un grande prodigio )> (Es. 3, 19). E come il Signore parlava in parabola provocando la cecità d'Israele perché conosceva la loro incredulità, per la stessa ragione indurava il cuore di Faraone perché vedendo il dito di Dio che traeva fuori il popolo, non credesse e precipitasse nel pelago dell'incredulità, pensando che la loro traversata fosse dovuta a magia e che il mare Rosso avesse dato passaggio al popolo non per opera di Dio, ma per natura.

Caterina63
00domenica 30 maggio 2010 17:51

XXXVII-XXXVIII. Zero tituli

Se chiedete ad un frate domenicano cos'è l'umiltà, lui vi risponderà, quasi sicuramente, che l'umiltà è il dare il giusto valore a se stessi. Il brutto è che non è assolutamente facile autovalutarci. Alcuni sono arciconvinti di valere molto, magari perchè sono belli, ricchi, intelligenti, potenti, uomini di successo. Se sei Mourinho, e hai vinto tutto allenando squadre dall'alta propensione a perdere, come il Porto o l'Inter, pensi di avere tutte le ragioni del mondo a sentirti "the special one". Altri sono dell'altra sponda: si sentono delle cacche e come tali si comportano.

Credo che uno cominci a darsi il suo "tasso di cambio reale", quando realizza che tutto quello che ha non se l'è dato da solo, ma che gli viene da Dio: dove sei nato, i genitori che hai avuto, il tuo carattere e le tue doti naturali, il fatto che ti alzi ogni mattina. Quando uno si ficca in testa questo concetto, poi non accampa diritti fondati sulla propria bravura e non cerca nemmeno di essere incensato. Non fa sfoggio di tituli, nè chiede conto di quelli degli altri, ma come fa Paolo di Tarso, se si vanta, si vanta in Cristo. Non lotta più per essere riconosciuto signore, ma mette le se doti a servizio degli altri. E se ritiene di essere un buono a nulla e di non avere nulla da dare al mondo, si ricordo che non sta disprezzando se stesso, ma i doni che il Padre gli ha dato.

Ecco, come
ricorda Umberto di Romans, dall'umiltà sbocciano tutte le altre virtù. Forse addirittura la fede, che non è altro che riconoscere di non bastare a se stessi e che nessuna Champions League, ma solo un Altro, potrà mai soddisfare il desiderio di trascendenza, inscritto nella nostra anima.



XXXIV. Fratelli carissimi, abbracciamo di buon grado la madre di ogni virtù: l'umiltà che Cristo insegnò a parole e, nondimeno, mostrò con il suo esempio. Lui, che si disse anche mite ed umile di cuore e ci invitò ad imitarlo: Imparate da me, disse, che sono mite ed umile di cuore (Mt 11). Ricordatevi di quel tale che doveva venire accolto dagli antichi padri e fu spedito tra le ossa dei morti per fare loro insulti e riverenze e capisse che, come queste erano indifferenti verso entrambe le cose, così anche lui non si doveva curare delle lodi e degli insulti degli altri (Dalle vite dei Padri del deserto).

XXXV. Arriverete all'umiltà perfetta attravverso questi passaggi: se davvero ripenserete alle vostre mancanze con dolore e desiderio di correggervi; se scaccerete dal cuore ogni sentimento di superiorità; se, disprezzati, non disprezzerete; se vi riterrete veramente morti al mondo; se non desidererete di piacere a nessuno se non a Dio solo; se non temerete di dispiacere a nessuno se non al Signore Dio; se non migliorerete il vostro comportamento alla presenza di altre persone, nè lo peggiorerete nella loro assenza; se vi riterrete inutili veramente e non solo a parole; se desidererete essere considerati di poco valore; se rifiuterete tutto ciò che vi può dare prestigio ed è contro il progresso di tutto l'Ordine; se smetterete di pensare a voi stessi; se, nella vostra coscienza, accuserete voi stessi e scuserete gli altri.

XXXVI. I segni dell'umiltà sono: trascurare la graditudine degli uomini; fidarsi delle opinioni degli altri; ascoltare volentieri le correzioni; chinare il capo; non vestire vesti sgargianti; moderare le risa; non parlare difficile; evitare percorsi tortuosi; ubbidire ai superiori senza discutere; essere pronti a portare rispetto ai propri pari; non disprezzare i propri sottoposti; vivere con semplicità; non portare mai segni di duplicità o finzione; non volere vincere nelle liti.



XXXVII. Per riconoscere il valore dell'umiltà, cercate di comprendere la ragione per cui essa è: la cenere che conserva il calore dei carboni della virtù; il fondamento che sostiene l'edificio spirituale in modo che non cada; la scala che ci porta in cielo.

L'umiltà stessa, infatti, conserva le altre virtù, ci rende simili al nostro Capo, orna ogni azione con la sua bellezza. Essa è ciò che Dio ama, lodevole per se stessa, in mille maniere utile a noi e di esempio al prossimo. L'umiltà è certamente la virtù che ottiene i beni che ci mancano, consolida quelli che già abbiamo, recupera quelli che abbiamo perso.

XXXVIII. Se, quindi, qualcuno si sforza di essere perfettamente umile, provi a mostrarsi sordo, cieco, muto e persino stolto nell'intimo, affinchè non senta, dica o veda nulla che lo trattenga dal suo proposito e non rinunci a un comportamento virtuoso per paura di essere deriso.

Ciascuno coltivi l'umiltà in modo perfetto affinchè, così come ne fa mostra esteriormente nelle sue opere, così la trapianti anche giù nel suo cuore. Non siate, quindi, come quelli che amano l'umiltà, ma non vogliono essere disprezzati, poichè questi, se conoscessero davvero l'umiltà, non dubiterebbero affatto che essa consiste nel disprezzo delle proprie qualità.

Nel vestirvi mantenete un tale equilibrio da non farvi notare per originalità o lusso ma nemmeno per eccessiva trasandatezza. La superbia, qualche volta, si rafforza dalla propria mortificazione. Infatti, uno si impegna ad umiliarsi e poi finisce scioccamente per vantarsene.

Allo stesso modo, uno digiuna per Cristo e poi, spesso, se ne gloria. Questa è la ragione per cui, quando un tal frate chiese perchè si potesse digiunare più facilmente in comunità che da soli, gli venne risposto: "Perchè in monastero è il venire indicati dagli altri che ci nutre, mentre, quando si è soli, non c'è alcun testimone del digiuno." (Dalle Vite dei padri).
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